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 guerra cognitiva (qui la scheda di approfondimento). Ovvero: una guerra intrapresa dalla parte più debole coinvolta in un conflitto asimmetrico mediante la manipolazione di informazioni e idee, con il fine ultimo di avere la meglio sull’avversario più forte.

La dottrina russa

Ben diversa è la dottrina seguita dalla Russia. Mosca è partita dal confronto informativo, concetto che descrive l’approccio di Mosca all’uso delle informazioni, tanto in tempo di pace quanto, a maggior ragione, durante un conflitto. Detto altrimenti, la narrazione di stato interpreta in chiave anti russa pressoché ogni azione dei governi occidentali, mentre Mosca si considera in perenne stato di conflitto con gli avversari, veri o soltanto percepiti.

È in un humus del genere che ha preso forma, nel 2013, la nota Dottrina Gerasimov. Valery Gerasimov, il capo di stato maggiore della Russia, ha ripreso le tattiche sviluppate dai sovietici, le ha mescolate con il pensiero militare strategico sulla guerra totale per poi presentare una nuova teoria della guerra moderna. Una teoria che assomiglia più ad “hackerare la società” di un nemico che non ad attaccarla frontalmente.

L’approccio è di pura guerriglia, e viene condotto su tutti i fronti con una serie di attori e strumenti. Ad esempio: hacker, media, uomini d’affari, fughe di notizie, notizie false, mezzi militari convenzionali e asimmetrici. In sostanza, la Dottrina Gerasimov ha formato un quadro per questi nuovi strumenti. Il risultato, evidente anche nel conflitto ucraino, è che le tattiche non militari non sono ausiliarie all’uso della forza bensì il modo preferito per vincere (anche se non sempre i risultati sono ottimali).

Attenzione però perché la Russia non ha un concetto di guerra cognitiva da sbandierare. Al contrario, utilizza un concetto di informazione e confronto psicologico, consistente, come abbiamo visto, nell’impiego dei mezzi digitali per influenzare i pensieri e i valori delle persone (simile a ciò che la Cina chiama guerra cognitiva). L’Occidente dovrebbe iniziare a prendere appunti e ad approfondire la questione. A partire dall’attuale guerra in Ucraina

 

 

Usa, Wagner ha 50.000 uomini dispiegati in Ucrain,22-12-22a

La milizia privata russa Wagner spende "100 milioni al mese per la guerra" in Ucraina. Lo ha detto il portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale Usa, John Kirby, in un briefing con la stampa precisando che "Wagner ha 50.000 uomini dispiegati, di cui 10.000 contractor e 40.000 detenuti reclutati dalle carceri russe". "I combattenti Wagner hanno svolto un ruolo fondamentale a Bakhmut", dove il presidente Volodymyr Zelensky è stato in visita due giorni fa, ha aggiunto Kirby.

Ucraina: Nyt, paracadutisti russi dietro il massacro di Bucha

Il massacro di Bucha è stato compiuto dai paracadutisti russi del 234mo reggimento d'assalto aereo guidato da Artyom Gorodilov. Lo rivela un'indagine del New York Times, secondo la quale le prove raccolte mostrando che la strage sulla strade della città ucraina era parte di un "deliberato e sistematico sforzo di assicurarsi spietatamente una rotta verso Kiev". L'indagine condotta è stata in grado di ricostruire minuto per minuto la strage sulle strada di Yablunska grazie anche a conversazioni telefoniche e segnali in codice usati dai comandanti sui canali radio russi.

Ucraina, Zakharova: "Zelensky è il figlio di p. dell'Occidente"

Il presidente ucraino, Vlodymyr Zelensky è "il figlio di p." dell'Occidente" e "di conseguenza tutto gli è permesso": lo ha detto la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, commentando su Telegram il suo viaggio a Washington. "L'approccio pseudodemocratico di Ue e Usa -ha aggiunto- rafforza ulteriorimento il senso di impunità di Kiev e spinge (il governo ucraino, ndr) a passi estremamente pericolosi con conseguenze imprevedibili".

 

FORTE STALLO NEL LUHANSK,NEL DONETSK invece:

Le forze russe continuano a concentrare i loro sforzi principali sulla conduzione di operazioni offensive nell'oblast di Donetsk. Il vice capo del dipartimento operativo principale dello stato maggiore ucraino, il generale di brigata Oleksiy Hromov, ha dichiarato il 24 novembre che le forze russe stanno concentrando gli sforzi nelle aree di Siversk, Bakhmut e Avdiivka con l'obiettivo di accerchiare Bakhmut.[35] Hromov ha affermato che 290 combattimenti si sono svolti nel Donbas nell'ultima settimana, con 90 combattimenti nell'area di Bakhmut.[36] Hromov ha affermato che la situazione più difficile è nell'area di Bakhmut e che le forze russe hanno anche tentato più volte nella scorsa settimana di sfondare le difese ucraine intorno a Nevelske (16 km a sud-ovest di Avdiivka).[37]

Le forze russe hanno continuato le operazioni offensive in direzione di Bakhmut il 24 e 25 novembre. Lo stato maggiore ucraino ha riferito che le forze ucraine hanno respinto gli assalti russi vicino a Bakhmut; entro 23 km a nord-est di Bakhmut vicino a Bilohorivka, Yakovlivka e Bakhmutske; e nel raggio di 16 km a sud-ovest di Bakhmut vicino ad Andriivka, Klishchiivka, Ozarianivka e Opytne il 24 e 25 novembre.[38] Fonti russe hanno affermato il 24 novembre che ci sono stati pesanti combattimenti di posizione vicino a Bakhmut e che le forze russe hanno stabilito il controllo su nuove posizioni nella periferia sud-orientale della città.[39] Fonti russe hanno anche riferito il 24 novembre che le forze russe hanno completato una perlustrazione di Mayorsk a sud di Bakhmut.[40] I milblogger russi hanno affermato che le forze russe hanno condotto un assalto entro 13 km a sud-ovest di Bakhmut verso Kurdiumivka il 24 e 25 novembre, con un milblogger che afferma che le forze russe intendono tagliare la linea ferroviaria nell'area.[41] Un milblogger russo ha affermato il 25 novembre che le forze russe hanno sparato sui rinforzi ucraini che si spostavano a Bakhmut dal nord-est attraverso Kramatorsk e Sloviansk.[42]

Personaggi russi influenti potrebbero tentare di stabilire le condizioni informative per il continuo e lento progresso delle operazioni offensive russe nell'area di Bakhmut. Il 25 novembre il finanziere del Wagner Group Yevgeny Prigozhin ha dichiarato di proibire ai combattenti di Wagner di rilasciare interviste sulla situazione nell'area di Bakhmut e che un pio desiderio nei media russi confonde i militari russi e ha un impatto negativo sulle operazioni nell'area.[43] Prigozhin ha anche affermato che il compito delle formazioni del gruppo Wagner nell'area non è quello di prendere Bakhmut, ma piuttosto di degradare le forze ucraine e il loro potenziale di combattimento.[44] I recenti commenti di Prigozhin sono in contrasto con ISW' La precedente valutazione del gruppo Wagner secondo cui le forze del gruppo Wagner esagerano i guadagni territoriali intorno a Bakhmut e la loro responsabilità per tali guadagni per distinguersi ulteriormente dalle forze russe per procura e convenzionali.[45] ISW ha anche notato in precedenza che le forze del Wagner Group non hanno ottenuto guadagni significativi intorno a Bakhmut da giugno.[46] Prigozhin potrebbe stabilire condizioni informative per proteggere se stesso e il Wagner Group dalle critiche secondo cui i risultati della loro offensiva durata mesi per prendere Bakhmut sono incongruenti con le continue affermazioni del loro successo e importanza operativa nell'area.

Le forze russe hanno continuato a condurre operazioni offensive nell'area della città di Avdiivka-Donetsk il 24 e 25 novembre. Lo stato maggiore ucraino ha riferito che le forze ucraine hanno respinto gli assalti russi entro 37 km a sud-ovest di Avdiivka vicino a Krasnohorivka, Marinka, Pervomaiske e Novomykhailivka il 24 e 25 novembre. .[47] I milblogger russi hanno anche affermato che le forze russe hanno condotto operazioni offensive entro 10 km a sud-ovest di Avdiivka vicino a Vodyane il 24 e 25 novembre.[48] Un milblogger russo ha affermato il 25 novembre che anche le forze russe hanno condotto un assalto vicino a Nevelske.[49] I milblogger russi hanno affermato il 24 e 25 novembre che la guerra urbana in corso tra le forze ucraine e russe è feroce a Marinka. [50] Un milblogger russo ha affermato il 24 novembre che le forze ucraine si stanno preparando per operazioni di controffensiva in direzione di Opytne (4 km a sud-ovest di Avdiivka).[51] ISW non fa valutazioni sulle future operazioni ucraine.

 

Uk: “I parà russi tornano nel Donetsk e nel Luhansk”

 

Nelle ultime due settimane la Russia ha probabilmente dispiegato nuovamente lungo i fronti del Donetsk e del Lugansk nel Donbass unità delle forze aviotrasportate che nei mesi di settembre e ottobre erano state impiegate a difesa del territorio occupato sulla riva occidentale del fiume Dnipro nella regione di Kherson: lo scrive il ministero della Difesa britannico nel suo aggiornamento quotidiano dell’intelligence sulla situazione nel Paese. Il rapporto, pubblicato su Twitter, sottolinea che queste unità sono “gravemente indebolite” e alcune di esse sono state probabilmente rafforzate con l’aiuto di riservisti. Tra i possibili compiti operativi di questi paracadutisti, conclude l’intelligence, ci sono le attività di supporto alle linee di difesa nella zona di Kreminna-Svatove nel Lugansk o all’offensiva contro la città di Bakhmut nella regione di Donetsk.

Kiev, potente attacco russo su zona più popolosa a Kherson

Putin usa l'arma delle tenebre per provocare un'ondata di profughi. La Russia: avanti fino a che Kiev non si convince a cedere

Potente attacco dell'esercito russo oggi su Tavriyskyi, uno dei quartieri più densamente popolati di Kherson, città dell'Ucraina meridionale da cui le truppe di Mosca si sono ritirate l'11 novembre: "I russi stanno intensificando i bombardamenti sui quartieri residenziali di Kherson. Dopo i missili di ieri, oggi hanno attaccato 13 volte, è stato colpito uno dei distretti più popolati, Tavriyskyi, nella parte settentrionale della città", ha dichiarato il consigliere regionale Sergii Khlan, come riporta Ukrinform. Il capo militare Halyna Luhova ha riferito che ci sono distruzioni e il numero delle vittime è in corso di accertamento

I funzionari dell'occupazione della Crimea hanno dimostrato un maggiore disagio il 22 novembre, probabilmente per gli attacchi ucraini ai GLOC russi nella penisola e per le operazioni militari in corso al Kinburn Spit. Fonti russe hanno condiviso filmati dell'attivazione delle difese aeree russe il 22 novembre, sostenendo che le forze russe hanno abbattuto diversi droni ucraini sopra la Crimea.[57] Il capo dell'occupazione della Crimea, Sergey Aksyonov, ha successivamente annunciato che la Crimea sta portando il suo livello di minaccia terroristica ad alto (giallo) almeno fino al 7 dicembre.[58] I milblogger russi hanno affermato che le autorità russe si stanno preparando per l'evacuazione di funzionari dell'amministrazione e attrezzature militari ad Armyansk (circa 100 km a sud-est della città di Kherson) a causa della minaccia di attacchi ucraini sulla Crimea settentrionale.[59] Un milblogger ha persino affermato di aver contribuito a condurre l'evacuazione, mentre un altro milblogger ha affermato che donne e bambini stanno già evacuando da Armyansk.[60] Aksyonov ha negato le richieste di evacuazione e alcuni milblogger hanno affermato che le autorità di occupazione di Armyansk hanno condotto esercitazioni di evacuazione.[61] ISW non è in grado di confermare la veridicità di queste affermazioni. Il Centro di resistenza ucraino ha anche riferito che le forze russe stanno progettando di espandere una strada sull'Arabat Spit (45 km da Dzhankoy) per trasferire attrezzature militari nel tentativo di trasferire il GLOC da Armyansk.[62] ISW stima che le forze ucraine non siano in grado di condurre un attacco immediato ad Armyansk, ma queste affermazioni probabilmente indicano che le autorità russe stanno mostrando un livello di preoccupazione vicino al panico. e alcuni milblogger hanno affermato che le autorità di occupazione di Armyansk hanno condotto esercitazioni di evacuazione.[61] ISW non è in grado di confermare la veridicità di queste affermazioni. Il Centro di resistenza ucraino ha anche riferito che le forze russe stanno progettando di espandere una strada sull'Arabat Spit (45 km da Dzhankoy) per trasferire attrezzature militari nel tentativo di trasferire il GLOC da Armyansk.[62] ISW stima che le forze ucraine non siano in grado di condurre un attacco immediato ad Armyansk, ma queste affermazioni probabilmente indicano che le autorità russe stanno mostrando un livello di preoccupazione vicino al panico. e alcuni milblogger hanno affermato che le autorità di occupazione di Armyansk hanno condotto esercitazioni di evacuazione. Le forze russe hanno continuato a condurre operazioni offensive nelle direzioni Bakhmut e Avdiivka il 22 novembre. Lo stato maggiore ucraino ha riferito che le forze ucraine hanno respinto gli assalti russi a Bakhmut; entro 30 km a nord-est di Bakhmut vicino a Spirne, Bilohorivka, Yakovlivka e Soledar; e nel raggio di 4 km a sud di Bakhmut vicino a Opytne.[37] Lo stato maggiore ucraino ha anche riferito che le forze ucraine hanno respinto gli assalti russi entro 8 km a nord-est di Avdiivka vicino a Kamianka e Vesele, e entro 37 km a sud-ovest di Avdiivka vicino a Pervomaiske, Krasnohorivka, Marinka e Novomykhailivka.[38La milizia popolare della Repubblica popolare di Donetsk (DNR) ha pubblicato un video il 22 novembre che pretende di mostrare la 100a brigata della milizia popolare DNR che conduce un assalto vicino alle posizioni ucraine entro 16 km a sud-ovest di Avdiivka, vicino a Nevelske. [39] Diverse fonti russe hanno affermato che le forze russe hanno fatto progressi a Marinka e che le forze ucraine hanno subito pesanti perdite e si stanno lentamente ritirando dalle posizioni in città.[40] I milblogger russi hanno affermato che le forze russe hanno anche tagliato due delle tre strade di rifornimento a Marinka.[41] Una fonte russa ha affermato il 21 novembre che l'aviazione russa colpisce regolarmente le posizioni delle forze ucraine a Marinka.[42] Un milblogger russo ha affermato che l'avanzata russa nell'area di Marinka è lenta perché il paesaggio circostante è costituito principalmente da campi aperti con poca copertura.[43]

22-11-22----Borrell: “Sistema elettrico ucraino al collasso”

 

“Un altro attacco come quello dei giorni scorsi al sistema elettrico ucraino da parte della Russia lo distruggerà completamente. E in quel caso non si potranno più usare le infrastrutture di carico e scarico nei porti, con effetti anche sulla capacità di esportazione di prodotti alimentari”. Lo ha detto l’alto rappresentante della politica estera Ue Josep Borrell nel corso del question time al Parlamento Europeo.

Kiev: “Centinaia di cittadini rapiti dai russi a Melitopol”

 

Secondo il sindaco in esilio di Melitopol occupata Ivan Fedorov i russi stanno continuando a rapire i residenti della città dell’Ucraina sud-orientale: dall’inizio dell’invasione gli invasori hanno rapito più di 700 cittadini, ha detto a Radio Svoboda. Intanto, ha riferito, più di 100 civili sono tenuti prigionieri dagli occupanti russi.

Pesanti combattimenti a sud di Mykolaiv

 

Pesanti combattimenti sono in corso tra russi e ucraini sulla penisola di Kinbourne, territorio sulla riva sinistra del fiume Dnipro, a sud di Mykolaiv. La portavoce del Comando meridionale dell’esercito ucraino Natalia Goumeniouk ha affermato che “un’operazione militare è attualmente in corso nella penisola ma per il momento non vengono forniti dettagli”. Le unità ucraine, ha detto il governatore Vitaly Kim, stanno cercando di liberare tre cittadine a pochi chilometri dalla città meridionale di Mykolaiv, ‘poi i russi saranno fuori dall’intero distrettò, ha riferito Espreso Tv.

Scholz: “Prepariamoci a un’escalation in Ucraina”

 

La Germania “deve essere pronta a un’escalation in Ucraina”: è l’avvertimento del cancelliere tedesco Olaf Scholz, intervenendo a una conferenza a Berlino ospitata dal quotidiano Süddeutsche Zeitung, come riporta il Guardian. “Alla luce degli sviluppi della guerra e dei visibili e crescenti fallimenti della Russia, dobbiamo essere pronti a un’escalation”, ha affermato Scholz.

Zelensky: “2,5 miliardi dell’Ue un contributo per un inverno difficile”

 

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ringraziato l’Unione europea e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen per gli ulteriori 2,5 miliardi di aiuti a Kiev. L’Ucraina “ha ricevuto un’altra tranche di aiuti macrofinanziari dell’Ue del valore di 2,5 miliardi di euro. Un forte contributo alla stabilità dell’Ucraina alla vigilia di un inverno difficile. Sono grato all’Ue e a Ursula von der Leyen per la solidarietà e il sostegno. Attendiamo dell’approvazione del programma macrofinanziario da 18 miliardi di euro per il 2023”, ha scritto Zelensky in un messaggio su Twitter.

21-11-22---Agenzia atomica russa: “Zaporizhzhia a rischio incidente nucleare”

 

La centrale nucleare di Zaporizhzhia è “a rischio di un incidente nucleare”. Lo ha affermato l’amministratore delegato della società statale russa per l’energia atomica Rosatom, Alexei Likhachev, citato da Interfax. “L’impianto è esposto al rischio di un incidente nucleare. Siamo stati in trattative con l’Aiea tutta la notte”, ha detto Likhachev a margine dell’evento Atomexpo 2022 a Sochi. “Stiamo informando la comunità internazionale che l’impianto è a rischio di disastro nucleare e Kiev crede chiaramente che un piccolo incidente nucleare sarebbe accettabile”, ha accusato il ceo di Rosatom, citato dall’agenzia Tass. “Le radiazioni non chiederanno a Kiev che tipo di incidente vuole. Sarà un precedente che cambierà per sempre il corso della storia, quindi occorre fare tutto il possibile affinché nessuno possa nemmeno pensare di danneggiare la sicurezza delle centrali nucleari”, ha sottolineato Likhachev. Da settembre fino a poco tempo fa, la centrale nucleare di Zaporizhzhia ha visto “un periodo piuttosto tranquillo”, ha detto Likhachev. “Tuttavia, ci sono stati almeno 30 attacchi durante il fine settimana. L’impianto di stoccaggio del combustibile nucleare esaurito, l’edificio speciale e le vie di trasporto sono stati colpiti e i generatori diesel di riserva sono stati danneggiati”, ha detto l’ad di Rosatom.

Kiev: “L’esercito russo sta bombardando Kherson”

 

“L’esercito russo sta bombardando Kherson, liberata 10 giorni fa, sono state colpite infrastrutture civili. Ci sono feriti tra la popolazione”: Lo rende noto il vicepresidente del consiglio regionale Yuriy Sobolevsky, come riporta Unian.
La pubblicazione “Suspilne Kherson” ha riferito di una serie di esplosioni nella città a cominciare dalle 11 di questa mattina.

IL PESO DELLA COREA

Corea del Nord. Repubblica Popolare Democratica di Corea.

Una sorta di buco nero che parrebbe aver risucchiato in se stesso 25milioni di abitanti affamati e armati fino ai denti. Per l’Asia orientale, un pericolo latente dall’inizio della Guerra Fredda. Pericolo che ciclicamente diventa imminente.

Per l’agenda del Pentagono, una preoccupazione minore, da non sottovalutare s’intenda, ma declassata nel passare degli anni. Sicuramente per chiunque l’abbia visitata uno strappo nel tessuto spazio temporale; una sorta di universo parallelo dove ordine e disciplina imperano in una teocrazia governata per “mandato celeste” dall’ultimo erede dei Kim. Lei è ancora lì. A questo vanno sommati gli sforzi per ottenere un’arma nucleare – grazie alla produzione di plutonio e trizio – che si starebbero portando avanti nel poligono nucleare di Punggye-ri. Se Pyongyang raggiungesse la capacità nucleare, potrebbe impiegare in caso di escalation armi “tattiche” contro le armate della Corea del Sud o peggio come rappresaglia sulla capitale Seul. Innescando una temibile reazione a catena che potrebbe concludersi con la completa nuclearizzazione del penisola al prezzo di un costo di vite umane enorme e dei danni al nostro pianeta con conseguenza incalcolabili. Ed è questo che preoccupa il Pentagono: dover mantenere i suoi accordi di mutua assistenza in assenza di una soluzione pacifica,  l’unica garanzia della piccola potenza asiatica messa a dura prova da una prolungata carestia, e per questo perennemente soggetta a quel tipo di retorica bellicista che in mancanza d’altro mette tutti d’accordo, rassicurando vertici militari, politici di alto livello, e un popolo tagliato completamente fuori dalla realtà, dal progresso e dal tempo. Sebbene sia ancora da interrogarsi se tale stato di “astrazione” dal mondo vada considerata come una punizione o un dono dei “cari” leader.Quale ultimo vero stato socialista in auge, rimane una realtà che merita approfondimento e analisi, senza mistificazioni in taluno o talaltro senso, nell’attesa della sofferta quanto sperata e definitiva pace globale.Uno studio approfondito avrebbe dimostrato come ogni stato socialista che avesse a lungo intrattenuto rapporti con gli occidentali e la “frivolezza” del loro Capitalismo, fosse sempre finito per fallire, disgregarsi o adeguarsi tradendo i suoi veri ideali e conformandosi all’Occidente. Questo epilogo plausibilmente concepibile dopo una breve disamina storica, varrebbe per la Federazione Russa della post-perestrojka come potrebbe valere in futuro per la Repubblica Popolare Cinese della rivoluzione sociale della nuova rampante “classe media”. È ancora importante dunque parlare della Corea del Nord senza concentrasi esclusivamente sui missili, ma analizzando la strenua resistenza ideologica che la rende in qualche modo unica, più della stoica Cuba. Una sorta di ultima Thule del socialismo reale.

 

 

CONGELAMENTO ALLA COREANA???

Un congelamento “alla coreana” in Ucraina è possibile? Su queste colonne se ne parla da mesi sia come papabile opzione militare sia come potenziale congelamento politico dello scenario bellico. Opzioni spesso alternative tra di loro nella prospettiva, ma che oggi dopo la riconquista di Kherson potrebbero convergere.

A inizio marzo il fallimento del blitz russo ha fatto passare lo scenario coreano dal 1950 al 1951. Dall’idea iniziale della conquista totale, che la Corea del Nord di Kim Il-Sung e la Russia di Vladimir Putin hanno accarezzato nei confronti di Corea del Sud e Ucraina, a quella del braccio di ferro con un nemico sostenuto dall’Occidente. Con truppe direttamente inviate sul posto nel caso della Corea, con la forza della guerra per procura in Ucraina. Dunque addio idea della conquista totale e benvenuto al braccio di ferro politico-militare volto a colpire un nemico sostenuto da potenze esterne.

Ora con l’approssimarsi dell’inverno si apre lo scenario Corea 1952: la cristallizzazione del fronte come possibile via maestra alla decantazione politica del conflitto. Pietro Batacchi, direttore della Rivista Italiana Difesa, ha del resto recentemente richiamato in campo il possibile scenario coreano proprio unendo la ritirata russa da Kherson, la stabilizzazione del fronte e l’apertura di spiragli politici che nelle precedenti fasi di stallo, a marzo e maggio, non esistevano.

Batacchi, in un’analisti pubblicata su StartMag, parte dal presupposto che la ritirata russa da Kherson, pur rappresentando un evidente scacco con il Cremlino, abbia avuto la natura di un’operazione ordinata, quasi come se fosse pianificata da tempo. “Nulla a che vedere, insomma, con la disordinata rotta di Kharkiv”, fa notare l’analista, che sottolinea inoltre come, peraltro, “gli Ucraini sembrano molto cauti nell’avanzare perché i russi hanno lasciato campi minati di sbarramento e indirizzamento per il tiro di artiglieria, fatto saltare diversi ponti sull’Inhultes e sugli scolmatori del Dnepr, e lavorano con l’Aviazione”. In sostanza l’idea è quella di rafforzare il trinceramento di Mosca a Est del Dnepr nella consapevolezza che questa linea del fronte finirà per riassorbire l’inerzia ucraina. La dottrina militare russa, nota Batacchi, “prevede la difesa di manovra, ovvero una forma di difesa il cui obbiettivo è infliggere perdite al nemico, guadagnare tempo e preservare le forze amiche cedendo terreno”: qui, più che a Kharkiv è stata messa in campo.

L’inverno in arrivo, l’effetto frenante del gelo e del fango sarmatico, la stanchezza di contendenti che vedono le perdite reciproche superare, secondo le stime più attendibili, i 100mila morti e feriti per parte, la difficoltà a trovare una situazione di netta prevalenza di un esercito sull’altro e le situazioni pregresse di fatto lasciano presagire che dalla Corea del 1952 si possa arrivare, finalmente, alla Corea del 1953. All’accettazione de facto di un confine come perno creato dalla situazione militare, a mò di linea di armistizio. Il “partito” della trattativa guadagna consensi, in Europa come negli Stati Uniti, ha il forte sostegno di attori come Papa Francesco, Xi Jinping e Narendra Modi.

Soprattutto, prende piede tra i militari della Nato. Pochi giorni fa anche Il generale Mark A. Milley, capo del Joint Chiefs of Staff americano, ha sostenuto in riunioni interne al Pentagono, secondo quanto riporta il New York Times, “che gli ucraini hanno ottenuto circa quanto potevano ragionevolmente aspettarsi sul campo di battaglia prima dell’arrivo dell’inverno e quindi dovrebbero cercare di cementare i loro guadagni al tavolo delle trattative”. Ovviamente, nessuna conferma ufficiale di tali dichiarazioni è giunta né dal Pentagono né dalla Casa Bianca, ma dalla trattativa Cia-Svr a Ankara alle manovre tra Joe Biden e Xi al G20 molto lascia presagire che sulla testa dei contendenti grandi manovre siano in corso. E se inizialmente si temeva che l’inverno avrebbe potuto portare con sé un’inevitabile continuazione di lutti e morti, ora lo scenario pare cambiato. E lo spiraglio di una cristallizzazione del fronte guadagna terreno.Tutto questo ovviamente non vorrà dire pace in tempi brevi. Troppe le trincee di odio scavate in nove mesi di guerra fino ad ora. Troppe le violazioni dei diritti umani, consumatesi soprattutto sul fronte russo ma che hanno avuto strascichi spiacevoli sul fronte ucraino. Troppe le dichiarazioni al veleno tra élite russe e occidentali e troppo complessi gli otto anni di conflitto civile alle spalle dell’Ucraina per una rapida risoluzione del conflitto. Ma la stasi sul campo è la premessa a una riduzione della dinamicità e della violenza del conflitto stesso e a dei margini di trattativa. In Corea nel 1953 e, caso più recente, nella guerra Iran-Iraq nel 1988 si arrivò alla pace per esaurimento dei contendenti. Non siamo ancora a quello scenario in Ucraina. Ma ad oggi esso appare il più plausibile per l’apertura di serie trattative di pace. Su cui l’Europa può e deve giocare, nel prossimo futuro, un ruolo per facilitarle e accelerarne la realizzazione.

 

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“Gli Stati Uniti chiedono a Zelensky di ‘pensare a richieste realistiche’ per arrivare alla pace”. Kherson e il dibattito russo: rabbia dei ‘falchi’

“Gli Usa hanno chiesto a Zelensky di pensare a ‘richieste realistiche’ per la pace”

 

Il consigliere alla sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan ha suggerito al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di mostrarsi aperto a possibili negoziati con la Russia: farlo – è la convinzione dell’amministrazione americana – gli consentirebbe di aver maggior peso e poter fare più leva sulla controparte. Lo riporta il Wall Street Journal citando alcune fonti, secondo le quali Sullivan in un recente incontro con Zelensky gli avrebbe raccomandato di iniziare a pensare a “richieste realistiche e priorità per le trattative, inclusa una rivalutazione” dell’obiettivo di riguadagnare la Crimea, annessa nel 2014.

 

La fine del predominio nucleare USA

allarme era stato lanciato dalla nuova Nuclear Posture Review dove si afferma che “i nostri principali concorrenti continuano ad espandere e diversificare le loro capacità nucleari, per includere sistemi nuovi e destabilizzanti, nonché capacità non nucleari che potrebbero essere utilizzate per condurre attacchi strategici” e si sottolinea anche lo “scarso interesse nel ridurre la loro dipendenza dalle armi nucleari” e la problematica Usa di dover sostituire tempestivamente i vettori attualmente in servizio che stanno diventando obsoleti.

In quel documento, pubblicato per la prima volta in un’unica edizione comprendente anche la National Defense Strategy e la Missile Defense Review, si afferma che la Cina cerca di avere almeno mille testate nucleari entro la fine del 2030. Queste, insieme alla 1550 russe (fissate dal trattato Start) mettono in difficoltà la capacità di deterrenza nucleare statunitense che dovrà quindi per la prima volta nella storia affrontare due avversari dotati di un ingente arsenale atomico allo stesso tempo.

La Repubblica Popolare Cinese (Rpc) viene ritenuta “la sfida globale per la pianificazione della difesa degli Stati Uniti” mentre la Russia “continua a enfatizzare il ricorso alle armi atomiche nella sua strategia, a modernizzare ed espandere le sue forze nucleari e a brandirle a sostegno della sua politica di sicurezza revisionista”.

L’allarme lanciato dall’ammiraglio comandante lo Stratcom è solo l’ultimo che giunge da oltre Atlantico. Altri esperti di settore e militari in pensione hanno affermato, negli ultimi mesi, che occorre un cambio di passo, da parte degli Stati Uniti, per poter affrontare la sfida cinese alla pari.

Recentemente, ad esempio, il generale (in pensione) dell’esercito Usa Ferrari ha affermato che occorre una nuova filosofia più adatta alle mutevoli realtà di un mondo scosso dalla guerra in Ucraina, da una Cina diventata molto più aggressiva verso Taiwan e dai problemi economici indotti dalla pandemia. Pertanto il Pentagono dovrebbe “spendere di più e subito” per la Difesa abbandonando la filosofia “capability over capacity”.

 

 

Biden, sovranità sempre più limitata con la Camera in mano ai repubblicani. Usa spaccati in due

Il Midterm ha consegnato una situazione ancora più caotica: se da una parte Biden può contare su un certo numero di repubblicani per il sostegno all'Ucraina, dall'altra c'è una fortissima tensione verso l'attacco alla amministrazione sul fronte Covid, sul fronte interessi extra della famiglia Biden, sulla problematica Giustizia con le perquisizioni ad hoc volute contro Trump.Infine la questione Ucraina con la sempre maggiore riottosità a votare pacchetti di aiuti da 40 miliardi di euro a botta, soprattutto perchè molto probabilmente la Casa Bianca dovrà RICHIEDERE L'ENNESIMO INNALZAMENTO DEL DEBITO, e quì i repubblicani SONO SUL PIEDE DI GUERRA FEROCEMENTE.

La visita di Scholtz a Pechino e la forte irritazione USA.

La Cina sta sostituendo la Russia come principale dipendenza geoeconomica della Germania. Questo il senso della discussa visita di Olaf Scholz a Pechino, primo leader occidentale a incontrare Xi Jinping fresco di terzo mandato. Se la guerra d’Ucraina ha interrotto il legame russo-tedesco inaugurato cinquant’anni fa con i gasdotti, Berlino è determinata non solo a proteggere ma a intensificare il legame sino-tedesco.

Dalla Ostpolitik alla Fernostpolitik (Fernost è tedesco per Estremo Oriente).

Per la Germania l’accesso al mercato cinese è questione esistenziale. Non può essere altrimenti per un paese che fonda quasi metà del suo benessere sulle esportazioni. Saltato il nesso del gas, se saltassero anche i rapporti con la Cina nella Repubblica Federale andrebbero contemporaneamente in fumo la manifattura, la principale fonte di sostentamento e il collante sociale.

È così che Scholz prova a giustificarsi con gli Stati Uniti, furibondi perché sanno che i cinesi dai tedeschi non vogliono soltanto tecnologie preziose (vedi l’appello di Xi a un’alleanza per l’intelligenza artificiale).

Al di là delle rassicurazioni, se la posta in gioco non fosse così esistenziale, Scholz non avrebbe commesso il madornale errore di recarsi a Pechino da solo, senza nemmeno il presidente francese Emmanuel Macron, che pure implorava una gita a due nonostante tutte le altre difficoltà sull’asse renano. Così facendo, i tedeschi hanno concesso a tante altre cancellerie europee di fare i bravi allievi di Washington criticando la mossa che molti di loro avrebbero voluto compiere. Ciò suggerisce che Berlino vuole negoziare con urgenza accordi economici prima di un’ulteriore stretta della guerra economica americana alla Repubblica Popolare.

Per esempio, Berlino vuole proteggere l’industria automobilistica dalla rivoluzione dell’elettrico, che minaccia di stravolgere il mercato del lavoro europeo. La presenza di Volkswagen nella delegazione pechinese di Scholz dimostra questa preoccupazione.

Mentre il Mainstream esulta per l'iper tecnologico attacco ucraino a Sebastopoli,

il tempo sta per scadere e il baratro è sempre più vicino

Pare davvero paradossale che sia stato un bugiardo matricolato e seriale come Silvio Berlusconi l’unico esponente dell’establishment italiano a dire cose vere sul conflitto ucraino, a cominciare dalle sofferenze del popolo del Donbass che da oltre otto anni è assoggettato ad offensive militari e crimini che non sono meno colpevoli di quelli compiuti dai Russi, ma li hanno preceduti e si sono ripetuti nella completa indifferenza della comunità internazionale, preparando il terreno dell’offensiva di febbraio e dell’inizio della guerra.

Quest’ultima, com’è evidente perfino ai sassi, ma non agli esponenti della nostra classe politica, si è rivelata un’occasione d’oro per la classe dominante statunitense, che ha decuplicato i propri profitti sul piano delle vendite di armamenti e su quello del mercato energetico, imponendo i suoi prodotti molto più cari ed inquinanti, e, sul piano politico, pur nel crescente isolamento internazionale ha saputo piegare ogni velleità di autonomia dell’Europa che si trova ad affrontare, ed è solo l’inizio, una disastrosa crisi economica e sociale cui arriva peraltro in ordine sparso, come dimostrato dalle scelte della Germania di dar vita a un proprio scudo di difesa economica e sociale (Abwehrschirm) forte di oltre 200 miliardi di euro di spesa e dal naufragare di ogni tentativo velleitario di porre un tetto al prezzo del gas.Come dimostrano i sondaggi, il popolo italiano nella sua grande maggioranza è ben consapevole di questa situazione e chiede l‘interruzione del sostegno militare all’Ucraina e l’avvio di un vero negoziato, ma si scontra con la dabbenaggine e sordità della classe politica, pressoché unanime nel perseguire ciecamente l’autodistruzione del Paese conferendo il comando in capo al malfermo Joe Biden, all’invasato Jens Stoltenberg e all’avventuriera prussiana Ursula Von der LeyenMario Draghi, dal canto suo, ha ribadito fino all’ultimo il proprio incondizionato appoggio alla politica della guerra, mediante la quale la Nato, vera parte in causa, si illude di poter piegare la Russia. Giorgia Meloni, continuatrice su questo come altri piani del governo dei Migliori, non è da meno ed ha fatto dell’atlantismo a prescindere la propria bandiera, alla faccia della sovranità nazionale, di cui il sovranismo sbandierato a sproposito dai fratelli italioti costituisce un’indegna e menzognera caricatura.La situazione sul campo è sempre più pericolosa. Volodymyr Zelensky ha chiarito apertis verbis come non intende negoziare con la Russia, evidentemente su precisa istigazione di una parte del governo statunitense, che appare spaccato e incerto sulla linea da portare avanti, ma non manca di ammassare in modo confuso e incoerente tasselli in direzione del conflitto globale e aperto, come dimostrato da ultimo dal dispiegamento di truppe scelte statunitensi ai confini stessi della Russia.Si tratta della stessa fazione guerrafondaia, apparentemente egemone nel Partito democratico statunitense e su parte di quello repubblicano, che ha voluto pervicacemente lo scontro con la Russia per mezzo dell’Ucraina, come dimostrato dalle pressioni su Zelensky, dirette e per mezzo dei neonazisti ucraini, affinché, come rivelato dall’Economist, respingesse ogni proposta di neutralità che avrebbe fatto dell’Ucraina, nella salvaguardia della sua sovranità, un Paese prospero e pacifico in grado di svolgere un ruolo effettivo di ponte tra Est ed Ovest, con grande beneficio dei suoi sfortunati cittadini. E affinché venisse sabotato il progetto di autonomia delle regioni orientali, in particolare del Donbass, incarnato negli Accordi di Minsk I e II, cui da parte di Kiev, sempre istigata da Washington e dai propri settori neonazisti, coi bombardamenti indiscriminati e le violazioni massicce dei diritti umani che sono andate avanti, contro la parte russofona del Paese, dal 2014 fino al 2022, determinando la base dell’invasione russa del 24 febbraio.

Quest’ultima va certamente condannata, ma se vogliamo evitare la catastrofe e recuperare le ragioni della pace occorre fermare l’escalation e rilanciare un negoziato vero, i cui elementi centrali sono presenti in vari appelli formulati in questi giorni e ripresi dal Fatto Quotidiano, come quello degli ex diplomatici, quello degli intellettuali ed altri ancora, che vedono al loro centro due elementi che io stesso avevo nel mio piccolo proposto già da tempo, e cioè la neutralità dell’Ucraina, da un lato, e l’autodeterminazione dei popoli delle regioni contese (Crimea e Donbass) dall’altro.

Qualche segno di resipiscenza delle classi dominanti europee è dato oggi cogliere nelle più recenti dichiarazioni di Sergio Mattarella, di Emmanuel Macron e soprattutto nel voto del Bundestag tedesco che ha bloccato il trasferimento di armi pesanti all’Ucraina. Ma non basta. Occorre raddoppiare gli sforzi per far pesare sui governi europei il peso del movimento della pace, che in Italia dovrà esprimersi in modo molto chiaro nella manifestazione del 5 ottobre, evitando l’inquinamento da parte di posizioni ambigue come quelle del guerrafondaio Letta e simili.

Occorre che il Vaticano e la Cina, dove Xi Jin Ping esce indubbiamente rafforzato a livello interno ed internazionale dal recente congresso del Partito comunista, uniscano i propri sforzi a quelli della grande maggioranza dei governi di Asia, Africa, America Latina, e dei popoli dell’intero pianeta che vogliono la fine della guerra. Tempo non ce n’è molto e il baratro si avvicina purtroppo a velocità impressionante.

 

 LA GUERRA ETERNA

Essendo l’Ucraina un paese DE FACTO FALLITO a partire dal marzo 2022, era TECNICAMENTE FALLITO PRIMA DELL’INVASIONE RUSSA, in quanto  la sua bilancia entrate/uscite era stata letteralmente dilaniata dallo sforzo massivo di riconquistare TUTTO IL DONBASS a partire dal marzo 2014 destinando la maggior parte del bilancio nello sforzo bellico, SFORZO CHE NON SI DOVEVA ESAURIRE SOLO NELLA RICONQUISTA DI TUTTI I TERRITORI DELL’EST. Documentazione alla mano, fonte Professor Orsini, Zelensky, Podolyak e compagnia varia, avevano già pianificato l’assalto alla CRIMEA. Se noi guardiamo i confini amministrativi degli Oblast del DONBASS e li sovrapponiamo al CONFINE DELLA LINEA DI FUOCO AL 21 FEBBRAIO 2022, data di riconoscimento da parte di Putin delle due Repubbliche separatiste russe, ci accorgiamo in maniera lampante che negli OTTO ANNI DI COMBATTIMENTO, TOTALMENTE MISCONOSCIUTI NEL CIRCUITO MAINSTREAM OCCIDENTALE, in quanto, qualsiasi fonte di notizie ufficiale NON CITAVA PIU’ LA GUERRA IN CORSO (14.000 morti ufficiali….), grazie all’intervento della Nato con i soliti “consiglieri militari, logistica e mezzi via Polonia, l’Ucraina STAVA CORONANDO IL SUO SCOPO. Tra la fine del 2020 ed il 2021, la situazione per la sicurezza della Repubblica Federale Russa, stava precipitando: il Cremlino è stato “distratto” dall’esplosione del conflitto endemico nel NAGORNO QUARABACK, proprio nel momento in cui l’Ucraina ammassava uomini e mezzi al sud per l’attacco alla Crimea. Di fronte al pericolo incombente, Mosca decise di NON INTERVENIRE in Armenia al fianco di un alleato storico, imponendo un cessate il fuoco estremamente svantaggioso all’Armenia, la quale perdeva ingenti territori nell’enclave e qualcuno di voi si ricorderà della caccia al politico ad EREVAN all’indomani dell’accettazione del cessate il fuoco. Da quel momento Putin ha dovuto iniziare a correre contro il tempo in quanto il suo esercito NON ERA TARATO PER UNO SCONTRO SIMMETRICO DI LUNGO  PERIODO, altresì doveva preparare il terreno politico interno per far accettare una guerra offensiva parallelamente alla creazione di “camere di sicurezza economiche” in grado di far camminare DA SOLA LA RUSSIA in VISTA DELLE INEVITABILI SANZIONI “OCCIDENTALI”, cosa di cui i russi hanno ampia memoria storica a partire dal “CORDONE SANITARIO” ideato dalle POTENZE DELL’INTESA all’indomani della PACE DI BREST-LITOVSK tra la neonata Russia Sovietica di Lenin e gli Imperi Centrali (marzo 1918). Il 2021 doveva servire a questo scopo, ecco perché tutto sommato la Russia sta reggendo all’isolamento economico. Sempre nel corso di quell’anno la diplomazia moscovita ha iniziato un lunghissimo lavorio sotterraneo teso a scongiurare l’attacco ucraino, ben sapendo che era totalmente inutile dialogare con KIEV in quanto il regime DEMOCRATURO ivi instaurato aveva deciso un assalto definitivo assolutamente non negoziabile da parte della NATO, che a sua volta lo sosteneva. Il disastro assoluto in Afghanistan, magari con una qualche dose di percentuale di merito alla Russia che tutto sommato non vedeva l’ora di restituire la pariglia agli Usa dopo la sua ritirata dalla “tomba degli imperi” nel 1988, ha a sua volta distratto gli Usa, i quali non hanno potuto accellerare nei confronti dell’Ucraina. Tuttavia la disastrosa ritirata statunitense dall’Afghanistan, 31 agosto 2021, diede una scossa decisiva alla “questione ucraina”, con BoJo ora intento a rifarsi una reputazione internazionale devastata da un clamoroso fallimento. L’Ucraina cadeva a fagiolo: quando Kiev manifestò pubblicamente l’intenzione di aderire alla NATO, Putin non poteva più temporeggiare, tra l’altro peccando di segretezza in quanto permise all’Ucraina di ridispiegare il suo esercito a nord ed a sud, dato che incredibilmente Mosca pubblicizzò i suoi spostamenti sia in Crimea che in Bielorussia. Il laccio legislativo russo obbligava altresì Putin ad agire con quello che aveva macroscopici difetti compresi dato che la riforma del generale Anatoly Serdyukov non è mai giunta al termine: l’intero esercito Russo alla data d’attacco comprendeva 280.000 uomini a cui si univano 17.000 Spetsnaz e 45.000 parà. Il difetto storico ancestrale consta nella logistica russa, assai complicata data la dottrina basata sul volume di fuoco massivo. Il 24 febbraio venne immediatamente mandata all’attaco la 53°a divisione aerotrasportata, il reparto d’elite doveva subito conquistare Hostomel alle porte di Kiev, tranciare immediatamente i collegamenti e fare da ponte dell’arrivo delle truppe corazzate dalla Bielorussia, scompaginare la linea di comando ucraina, tentare di colpire immediatamente il cuore allo scopo di mozzare subito la testa. La disastrosa logistica russa unita agli allagamenti ad hoc attuati dagli ucraini pregiudicarono il piano. Le colonne corazzate furono costrette a percorrere le strade asfaltate in quanto la campagna era impercorribile, esponendosi al fuoco d’artiglieria ucraino coordinato dall’irruzione dei droni, rivelatisi oggi arma da combattimento indispensabile, risultando così spaventosamente decimate. La divisione aerotrasportata, in mancanza di sostegno venne così distrutta e quasi subito venne meno il tentativo di mozzare la testa. A quel punto il comando russo cercò ugualmente di pressare al massimo la capitale per cercare di occuparla ma di fronte alle elevate perdite non rimpiazzabili e di fronte ad una disastrosa logistica, i generali russi decidevano un poderoso ridispiegamento a sud-est dove nel frattempo era riuscito il colpo su Kherson. I mesi di aprile-maggio-giugno e luglio vider l'esercito rurro produrre il maggior sforzo possibile per la liberazione dell'oblast di Lughansk e per la realizzazione del corridoio che da Rostov arriva a Kherson con gli ucraini costretti alla difesa sanguinosa di piazzeforti come Mariupol, Syversky Donets e Lysychants mantenendo tuttavia una poderosa riserva coperta in addestramento ad occidente pronta ad intervenire con l'afflusso massiccio delle armi occidentali non appena si scopriva l'esaurimento della spinta in avanti russa, cosa che giunse puntualmente.

È probabile che le forze russe si stiano preparando a difendere la città di Kherson e non si stiano ritirando completamente dall'oblast' di Kherson superiore, nonostante i precedenti rapporti confermati di alcuni elementi russi che si sarebbero ritirati dall'oblast' di Kherson.[21] Budanov ha dichiarato il 24 ottobre che le forze russe non si stanno ritirando da Kherson City, ma stanno invece preparando la città per il combattimento urbano.[22] Questo rapporto è coerente con gli indicatori che ISW ha osservato alla fine di ottobre.[23] I rapporti recenti sulle operazioni militari russe a Kherson non hanno sempre distinto abbastanza chiaramente tra le attività nella città di Kherson e quelle nell'oblast di Kherson occidentale in generale. Le forze russe hanno iniziato un ritiro parziale dall'oblast di Kherson nordoccidentale anche mentre si preparavano a difendere la città di Kherson. Non si sono lanciati in un ritiro completo dalla città o dall'oblast a partire da questo rapporto.

La posizione russa nell'alto Kherson Oblast è, tuttavia, probabilmente insostenibile; e le forze ucraine probabilmente cattureranno la parte superiore dell'oblast di Kherson entro la fine del 2022. Un blogger russo ha affermato che la resa della Russia anche della città di Kherson è in ritardo.L'intelligence ucraina ha riferito che le forze russe non hanno ancora depositato abbastanza esplosivi per distruggere completamente la diga HPP a partire dal 24 ottobre. [27]  Budanov ha osservato che i russi hanno preparato parti della diga per esplosioni limitate che non avrebbero liberato tutta la forza del serbatoio acque. I russi potrebbero cercare di danneggiare la parte superiore della diga, compresa la strada che la attraversa, per impedire agli ucraini di seguirla dopo la ritirata delle forze russe se e quando i russi abbandonano la sponda occidentale del fiume Dnipro.

Le forze russe hanno perso territorio vicino a Bakhmut il 24 ottobre. I filmati geolocalizzati pubblicati il ​​24 ottobre indicano che le forze ucraine hanno riconquistato una fabbrica di cemento alla periferia orientale di Bakhmut, 2,5 km a est del centro di Bakhmut.[52]

Le forze russe hanno continuato gli attacchi di terra nell'oblast di Donetsk il 23 e 24 ottobre. Lo stato maggiore ucraino ha riferito che le forze ucraine hanno respinto gli attacchi di terra russi a Bakhmut, a nord-est di Bakhmut vicino a Spirne, Soledar, Bakhmutske e a sud di Bakhmut vicino a Klyshchiivka, Ivanhrad, Ozaryanivka, e Odradivka il 23 e 24 ottobre.[53] Fonti russe hanno affermato che le forze russe e del gruppo Wagner hanno fatto avanzamenti non specificati vicino a Ivanhrad, Ozaryanivka, Odradrivka e Optyne il 23 e 24 ottobre.[54] Una fonte russa ha riferito che il 23 ottobre sono in corso combattimenti nella periferia sud-orientale di Soledar.[55] 

 LA GERMANIA E LA CINA: UN PROBLEMA

Compromesso, grave errore, leggerezza, illusione. Sono state utilizzate più parole per definire la cessione parziale di uno dei quattro terminal del porto di Amburgo, il terminale di Tollerort, al gruppo statale cinese per le spedizioni e la logistica Cosco. In ogni caso, la Germania è finita nell’occhio del ciclone, accusata di voler avviare una nuova collaborazione strategica con un Paese, la Cina, che, come recentemente successo con la Russia nel settore energetico, potrebbe crearle potenziali ed enormi problemi economici futuri.

Nonostante le polemiche, il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha difeso la soluzione sposata dal suo governo sul porto di Amburgo. La viceportavoce dell’esecutivo federale, Christiane Hoffmann, ha comunicato che Scholz ha chiarito come non si tratti di vendere il principale porto della Germania, ma “soltanto” una partecipazione in uno dei suo quattro terminali.

Scendendo nei dettagli, infatti, la partecipazione finita nelle mani di Cosco, e quindi della Cina, ammonta al 24,6% del terminale di Tollerort. Si tratta, dunque, di una quota ridotta e che non apre ad “alcuna influenza strategica” dell’azienda, ha aggiunto Hoffmann. Nel tentativo di alleggerire ulteriormente la tensione, la portavoce ha infine chiarito che Scholz è consapevole della decisione, e che questa “non ha nulla che vedere” con la sua visita in Cina a novembre, dove a Pechino incontrerà il presidente cinese Xi Jinping.



Poco dopo l’annuncio della chiusura della trattativa con Cosco, sempre dalla Germania, è arrivata un’altra notizia che ribadisce la volontà tedesca di rafforzare l’interazione economica con la Cina. Il gruppo chimico tedesco BASF ha infatti comunicato di aver avviato la produzione di un nuovo impianto di glicol neopentilico (NPG) nello Zhanjiang, con una capacità produttiva annua di 80.000 tonnellate.

Il sito di NPG, che dovrebbe essere pienamente operativo nel quarto trimestre del 2025, porterebbe la capacità globale di NPG di BASF dalle attuali 255.000 tonnellate a 335.000 tonnellate all’anno, confermando il gruppo come uno dei principali produttori di questo intermedio al mondo. In questo momento BASF ha impianti per la produzione di NPG a Ludwigshafen, Germania, a Freeport, Texas, negli Stati Uniti ed anche a Nanchino e Jilin, in Cina.

Morale della favola: mentre l’Europa, a cusa delle tensioni tra gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, diffida sempre più di Pechino, la Germania ha scelto di adottare un altro approccio.

La strategia economica della Germania

Le ultime vicende raccontate, quelle relative al porto Amburgo e alla BASF, evidenziano come Berlino stia cercando in tutti i modi di affinare una strategia nazionale di integrazione industriale con la Cina. E per di più senza troppi riguardi nei confronti della prospettiva europea comune, o almeno della posizione strenuamente atlantista sbandierata da Bruxelles.

Le relazioni economiche tra Germania e Cina, del resto, risultano alquanto floride, e questo nonostante Berlino sia un pilastro dell’europeismo, dell’atlantismo e della Nato. Gli investimenti tedeschi oltre la Muraglia si concentrano per lo più nel settore dell’automotive, mentre quelli cinesi in Germania sono più variegati e comprendono computer, stoffe e apparecchiature elettroniche. Secondo i dati dell’Oec, nel 2020 la Germania ha esportato 106 miliardi di dollari in Cina.

Negli ultimi 25 anni le esportazioni tedesche verso la Cina sono aumentate a un tasso annuo dell’11,8%, passando da 6,58 miliardi di dollari nel 1995 a 106 miliardi di dollari nel 2020. Altri dati da tenere in mente: nel commercio con il mondo, l’avanzo complessivo tedesco supera la soglia fissata dalla Commissione europea del 6% (l’8,5% del pil tedesco nel 2015, il 7% nel 2020), e pure quella cinese (l’1,9% del pil nel 2020). Detto altrimenti, la Germania dà l’impressione di voler sfruttare la propria posizione rilevante in seno all’Ue per fare incetta dei benefici commerciali che potrebbero tranquillamente essere ripartiti tra i vari membri dell’Unione.

Come se non bastasse, il perenne avanzo tedesco (nel 2020 oltre 179 miliardi di euro) è fonte di instabilità dell’economia internazionale, dato che le eccedenze corrispondono sempre a dei disavanzi. Guardando al commercio tra Cina e Ue, la Germania è l’unico Paese membro che registra un surplus rilevante: 14,4 miliardi nel 2020, con un interscambio di quasi 180 miliardi (82 miliardi di import e 96,5 di export). Il valore è tuttavia destinato ad aumentare se consideriamo anche i flussi in transito al porto di Rotterdam, in entrata e in uscita dalla Germania.

Le conseguenze (geo)politiche

Deutsche Welle ha scritto che oggi, in Cina, sono attive circa 5.000 aziende tedesche, con investimenti pari a quasi 90 miliardi di euro. La Cina, inoltre, risulta essere il partner commerciale più importante per Berlino (da sei anni), il Paese che invia il maggior numero di studenti stranieri nelle università tedesche (43.629), nonché quello con il quale il governo tedesco ha elevato le sue relazioni al livello di “partenariato strategico globale“. Il Ministero degli Esteri tedesco definisce i rapporti con la Cina come “sfaccettati e intensi”. Ma la Cina, per la Germania, è allo stesso tempo un partner, un concorrente e un “rivale sistemico”, per adoperare il lessico degli Stati Uniti.

Bisogna poi considerare le oltre 100 partnership attive tra le città tedesche e quelle cinesi. La più nota e importante, probabilmente, riguarda Duisburg e Wuhan. Lo zoo di Duisburg è orgoglioso, non solo dei suoi panda rossi, ma anche del suo giardino cinese, completo di padiglione acquatico, ponte ad arco e statue di leoni, il tutto donato della sua città cinese gemella. Nel frattempo, l’Università di Duisburg-Essen mantiene la cooperazione con i partner cinesi. Aspetto ancor più rilevante, la città tedesca si è trasformata in un incrocio della Nuova Via della Seta. Qui, ogni settimana, arrivano dalla Cina 60 treni colmi di merci. E quando il primo treno è approdato alla stazione di Duisburg, nel 2014, Xi Jinping era in piedi sui binari ad attenderlo, al fianco di Sigmar Gabriel, all’epoca Ministro degli Esteri tedesco.

Se per anni la Germania ha evitato di affrontare la contraddizione di essere colonna dell’atlantismo e alleata Usa e, parallelamente, partner privilegiata della Cina, oggi Scholz si trova in una posizione delicatissima. La sensazione è che il cancelliere tedesco sappia perfettamente che Berlino non si trovi a metà strada tra Washington e Pechino. La Germania è infatti nettamente più vicina agli Stati Uniti. Eppure non sembrerebbe avere alcuna intenzione di sacrificare le opportunità economiche offerte dalla Cina.

Internamente, Scholz è stato criticato da più fronti. A detta di Friedrich Merz, leader della Cdu e all’opposizione, è stato “un errore” dare il via libera all’accordo con la società cinese ad Amburgo. “Non capisco come il cancelliere possa insistere su una situazione del genere. Non si tratta di questioni finanziarie bensì politico-strategiche”, ha aggiunto Merz. Anche il presidente tedesco, Frank-Walter Steinmeier, ha messo in guardia da una dipendenza eccessiva della Germania dalla Cina. Intervistato dall’emittente radiotelevisiva Ard, Steinmeier è stato chiaro: “Per il futuro, significa che dobbiamo imparare le lezioni e ridurre le dipendenze unilaterali ove possibile, questo vale anche per la Cina in particolare”. Dal canto suo la Cina ha auspicato una “cooperazione concreta” con la  Germania e la fine di “clamori infondati”.

 

 

LA POTENZA DI WAGNER

La divisione russa di mercenari, si sta dimostrando di importanza strategica non solo a livello internazionale, con il suo espansionismo scomposta in Africa e nel teatro siriano (combattendo e formando i soldati di Assad contro Isis-AlNusra), ma anche nell'intero Donbass, conducendo l'assalto a Bakhmut e procedendo alla contruzione del Vallo di Luhansk, nonchè delle difese di Belgorod, la città russa di confine bersaglio ormai pesante dell'artiglieria ucraina.

 

Dall'Ucraina alla Repubblica centraficana i mercenari girano film d'azione, sostituiscono i diplomatici, sono uno stato nello stato. Intervista

Evgeni Prigozhin, il finanziatore del gruppo Wagner  formato da combattenti mercenari, ha ribattezzato la linea che fortifica le posizioni russe nell’oblast di Luhansk “Linea Wagner”. Gli echi della Seconda guerra mondiale non sono casuali, Prigozhin vuole che i suoi mercenari diventino degli idoli in Russia ed è molto bravo a raccontare i fallimenti dell’esercito russo e le vittorie del  gruppo di combattenti costretti a correre in soccorso degli inefficaci soldati di Mosca. Prigozhin ha detto che la compagnia Wagner è anche a Belgorod,  e  si sta occupando della fortificazione della regione russa al confine con l’Ucraina colpita da attacchi sempre più frequenti: le autorità di Kyiv  non hanno mai ammesso la responsabilità. I mercenari della Wagner sono conosciuti soprattutto per aver combattuto le battaglie di Mosca degli ultimi anni, mentre le loro mansioni propagandistiche sono meno note, seppur portate avanti con altrettanta brutalità e determinazione. Prima dell’inizio dell’invasione russa in Ucraina, Mosca non ammetteva neppure l’esistenza della Wagner, ora invece permette che la compagnia si faccia pubblicità    per arruolare combattenti. Anche Prigozhin ora  rivendica la paternità della compagnia che prima del 24 febbraio rinnegava, nonostante, secondo alcune inchieste condotte da giornalisti russi, abbia anche finanziato la produzione di film in cui i protagonisti erano i temerari uomini della Wagner rappresentati come eroici salvatori della Russia e non solo. 

Si tratta di una prima trincea scavata dalla compagnia di contractor di Yevgeny Prighozin (lo “chef di Putin”) e che in base alle informazioni si estendere per circa due chilometri nei pressi della città di Hirske, oblast di Luhans’k.

Le immagini mostrano che il sistema di fortificazione si compone di quattro linee di piramidi di cemento divise su due tracciati. Dietro il tracciato più interno vi è poi una trincea scavata nella terra. I canali russi parlano di una linea difensiva che dovrebbe estendere lungo tutta la cosiddetta “linea Wagner” fino a includere anche gli accessi a Lisichansk e Lugansk, tutti in Ucraina orientale. Il percorso della trincea, almeno secondo le immagini rilasciate da media vicini al gruppo di Prighozin, dovrebbe arrivare a circa 200 chilometri. Distanza che appare ancora molto lontana dalla realizzazione visto che al momento si passa da immagini che hanno rilevato la presenza di blocchi di cemento su poco meno di due chilometri a un massimo di 24 chilometri (come riportato dal Corriere della Sera). E le operazioni non sembrano procedere con celerità. Tuttavia, al netto delle tempistiche, quello che conta sono i messaggi insiti in questa ostruzione, che certamente rappresenta più che simbolicamente il cambiamento della guerra in Ucraina.

Gli analisti già disquisiscono sull’utilità di questa linea di difesa che molti definiscono una sorta di “Maginot” dello chef di Putin. La prima critica riguarda la lunghezza minima dell’attuale tracciato: sembra molto difficile che si possa concretizzare l’obiettivo propagandistico dei centinaia di chilometri, e questo comporterebbe la possibilità per i mezzi ucraini di semplicemente scavalcare la trincea in un punto in cui non è stata costruita. Altri sottolineano la totale inadeguatezza di questi blocchi piramidali di cemento, che appaiono ben lontani dalle trincee tristemente conosciute in Europa durante le guerre mondiali. Altri ancora ritengono la sua costruzione un metodo di difesa che può al limite fermare l’avanzata per qualche giorno, ma non rappresentare un ostacolo insormontabile.

Il segnale più importante, più che tattico, è però sotto il profilo strategico e anche politico. Innanzitutto, la scelta di costruire una fortificazione difensiva in una guerra nata come espressamente offensiva. Dall’invasione al timore di una controffensiva, la svolta sembra essere certificata proprio dalla nascita di questa trincea. Questo induce a credere che in questa fase del conflitto il desiderio di Mosca sia quello di blindare il più possibile quanto conquistato in questi mesi di invasione, stabilizzando l’occupazione di territori annessi e ritenuti una sorta di “linea rossa” tracciata anche fisicamente nell’oblast di Luhansk con questa trincea.

Questo sarebbe in linea con le nuove linee-guida dettata dal generale Sergey Surovikin, attualmente al comando delle operazioni. Come spiegato da Gian Micalessin su Il Giornale, l’obiettivo dell’uomo scelto da Mosca è quello di paralizzare l’Ucraina sia da un punto di vista infrastrutturale che militare. Da un lato bombardando i siti strategici, come centrali elettriche e snodi ferroviari, per scoraggiare il governo di Kiev e la popolazione, dall’altro lato bloccare fisicamente l’avanzata delle truppe ucraine fermando l’arrivo dei rifornimenti e la possibilità di nuove, devastanti, controffensive. Ipotesi che si è già vista nei mesi precedenti e più di recente anche a Kherson.

La mossa della “linea Wagner” ha però anche un chiaro sapore politico. Dall’inizio della guerra, il gruppo paramilitare russo, vera legione straniera di Vladimir Putin, è sostanzialmente l’unico segmento dell’invasione russa, insieme ai ceceni di Ramzan Kkadyrov e altre unità d’élite, ad avere ottenuto risultati concreti rispetto agli obiettivi fissati dai comandi di Mosca. Questa situazione induce il capo di Wagner, Prighozin, a chiedere e ottenere sempre maggiore spazio: perché Putin ha bisogno di vittorie, ma anche perché questa guerra intestina di fatto eleva lo status di Prighozin e dei suoi contractors rispetto alle forze armate russe. Lo “chef di Putin” ha da tempo alzato il tiro, prima palesando pubblicamente la sua figura e poi accusando direttamente i generali russi, e ha ottenuto sempre maggiore spazio anche nell’opinione pubblica. Ora, questa mossa della trincea “Wagner” ha anche il sapore propagandistico, non a caso rilanciato da canali Telegram molto vicini alle mosse dei mercenari del Cremlino. Tutto questo, naturalmente, salvo che le forze ucraine arrivino nelle sue vicinanze e potrebbe trasformarsi in un boomerang.

Il Burkina Faso si allinea al Mali e va verso la Russia

Il sentimento anti francese, che ha portato alla cacciata della Francia dal Mali, sta montando anche in Burkina Faso dove l’Istituto francese di cultura della capitale Ouagadougou è stato preso d’assalto dai manifestanti e saccheggiato. Il Burkina Faso si sta allineando al Mali. La giunta militare alla guida del paese è sempre di più sollecitata – dalla società civile e dai politici - a cambiare strategia nella scelta dei suoi partener e a abbandonare gli alleati storici, i francesi.

Una svolta che porterebbe, nel Sahel, alla creazione di un blocco solido anti-francese e, soprattutto, un avvicinamento alla Russia che sta consolidando la sua presenza in tutta la regione.

Il sentimento anti francese, che ha portato alla cacciata della Francia dal Mali, sta montando anche in Burkina Faso dove l’Istituto francese di cultura della capitale Ouagadougou è stato preso d’assalto dai manifestanti e saccheggiato.

L’ex primo ministro ed ex presidente ad interim del Paese, Isaac Zida, si è allineato con l’uomo forte del Burkina Faso, il capitano Ibrahim Traoré, che ha deposto il 30 settembre il suo predecessore e compagno d’armi Damiba.

Una presa di posizione che è accompagnata dalla necessità, secondo Zida, di una nuova partnership con la Russia per far fronte all’insurrezione jihadista nel paese: “Per riuscire in questa riconquista c’è una scelta da fare, quella di una nuova partnership strategica.

La Russia, come partner, fornirà al Burkina Faso l’equipaggiamento militare necessario per affrontare questa insurrezione come sta avvenendo nel vicino Mali” dove i russi riforniscono le forze armate con “aerei da ricognizione, veri e propri elicotteri da combattimento, armi di ultima generazione e molti altri mezzi”.

Ai mezzi si andrebbero anche ad aggiungere gli uomini necessari per l’addestramento delle truppe e i mercenari della Compagnia Wagner per il contrasto sul campo dei jihadisti. Avanguardie dei mercenari sono già presenti nel paese, anche se le autorità negano. Zida, inoltre, sostiene che una partnership con la Russia potrebbe dare nuovo vigore alla lotta antiterrorismo, anche perché “non tutti i nostri soldati sono dotati di un’arma individuale” per non parlare “dei volontari mobilitati, che a volte vanno incontro al nemico armati solo del loro coraggio e dei loro amuleti”.

Tutto ciò per l’ex presidente ad interim è uno scandalo considerato “il budget che ogni anno viene garantito alla Difesa. Tutto ciò fa pensare che ci sia un vasto progetto di annientamento graduale di questo paese”.

E il riferimento, nemmeno troppo velato, come è accaduto in Mali, è alla Francia che da questi regimi golpisti è stata accusata di “connivenza” con i jihadisti.

Le pressioni per un legame più deciso con Mosca arrivano anche dalla cosiddetta società civile. Il movimento burkinabé “Pro Russes Burkina” ha inviato le nuove autorità del paese a “diversificare i partner strategici”, indicando in particolare la Russia come nuovo fronte da esplorare.

Barthelemy Zaongo, portavoce del movimento pro Russia, ha spiegato che “non esistono partner buoni o cattivi” e che bisogna “sapere negoziare le partnership: i rapporti stato-stato sono fatti su interessi comuni”.

Il portavoce di Pro Russes Burkina, tuttavia, sostiene che senza “la coesione sociale sarà difficile risolvere l’equazione del terrorismo, anche se Mosca ci accompagnasse sul campo geomilitare perché la nostra crisi è prima di tutto interna”, ma la Russia potrebbe dare una mano decisiva al paese, anche su questo fronte.

Per la Francia, ex potenza coloniale, il clima del paese sta diventando sempre più ostile, tanto da indurre l’ambasciatore francese a Ouagadougou, Luc Hallande, ha chiedere a tutti i cittadini francesi di “esercitare la massima cautela nei giorni a venire”.

L’ambasciata francese e i centri culturali della capitale e di Bobo-Dioulasso sono stati presi di mira e saccheggiati durante le manifestazioni di sostegno al nuovo uomo forte del Burkina Faso, il capitano Traorè.

Hallande ha invitato i cittadini francesi a limitare i propri spostamenti allo stretto necessario, a evitare assembramenti e a rimanere attenti ai messaggi di sicurezza: “Ci siamo preparati per ogni evenienza e saremo in grado di reagire se necessario, con calma e determinazione per garantire la sicurezza della nostra comunità”.

L’Ambasciata di Francia e gli Istituti di Francia in Burkina Faso resteranno chiusi fino a nuovo avviso. Intanto il centro nord del paese rimane in balia delle milizie jihadiste che moltiplicano gli attacchi alla popolazione e alle postazioni dell’esercito che sembra incapace di reagire e mettere in sicurezza questi territori, alcuni dei quali sono totalmente nelle mani dei gruppi armati come la città di Samou a est del paese.

Un gruppo armato di stampo islamista avrebbe imposto la chiusura di tutte le chiese, il divieto di possesso, vendita e assunzione di alcol, l’allevamento di suini e l’adozione di un preciso codice di abbigliamento sia per gli uomini sia per le donne. Gli uomini dovranno farsi crescere la barba e le donne dovranno indossare il velo integrale.

Repubblica Centroafricana

nel piccolo paese africano le cui forze armate contano c.ca 15 mila uomini, operano più di 11 mila caschi blu della missione Minusca in parallelo alla missioni Eutm (addestramento- conclusasi a dicembre del 2021) ed Euam (consulenza strategica) volute dall’Unione Europea.  Com’è possibile quindi che numerosi operatori di sicurezza russi, comunemente associati al famigerato gruppo Wagner, possano operare in totale impunità? Per rispondere ad una simile domanda occorre analizzare più nel dettaglio non solo le condizioni in cui versano le forze armate centrafricane (Faca), ma anche le caratteristiche della penetrazione Russa nel paese. Infatti, comprendere quali siano gli elementi che consentono agli operatori russi di agire con un ampio margine di manovra in un teatro operativo piuttosto saturo come quello centrafricano è fondamentale per capire il modus operandi russo in Africa e perché la presenza dei degli pseudo contractors russi rappresenta una minaccia per l’Occidente e per i suoi interessi. Un esempio: Parigi, già a novembre del 2021, avvertiva che la presenza degli uomini del gruppo Wagner in Mali era incompatibile con l’operazione Barkhane. A distanza di un solo mese, Macron annunciava la fine dell’operazione durata in totale più di 7 anni. Il caso paradigmatico della Repubblica Centrafricana permette quindi di fare luce sulla guerra d’influenza che contrappone la Russia all’Europa in Africa.

Il Settore della Sicurezza in RCA

In Rca si combatte sin dal 1989. Fra colpi di stato, insurrezioni, campagne contro-insurrezionali ed episodi di violenza intercomunitaria, l’Uppsala Conflict Data Program (Ucdp) stima che più di 14 000 persone abbiano perso la vita. Nel 2012 la Seleka, una coalizione di gruppi insorti provenienti dal nord del paese prevalentemente musulmano e storicamente marginalizzato, riesce a spodestare l’allora presidente Bozizé. Questo provocherà la dissoluzione delle forze armate centrafricane e farà sprofondare il paese nel caos. Nove anni dopo, a seguito dell’intervento delle Nazioni Unite con l’operazione Minusca nel 2014 e l’arrivo dei primi “consiglieri militari” russi nel 2018, le Faca hanno riacquistato il controllo di tutti i principali centri urbani del paese. Alla guida del paese siede ormai saldamente Faustin-Archange Touadéra, politico centrafricano di lungo corso, già primo ministro sotto Bozizé ed ora rieletto per un secondo mandato presidenziale nel 2020. Touadéra  deve a sua volta affrontare l’insurrezione della Coalizione dei Patrioti per il Cambiamento (Cpc), un nuovo gruppo ribelle guidato dall’ex presidente Bozizé che contesta la validità della sua rielezione. Nei primi mesi del 2021 le Faca lanciano una violenta controffensiva con l’aiuto di truppe ruandesi e dei “consiglieri militari” russi riuscendo ad indebolire significativamente i ribelli del Cpc. Un buon numero di questi è costretto a ritirarsi in Ciad e in Sudan, mentre una piccola parte si dà alla macchia.

Se I recenti successi militari delle Faca si potrebbero considerare come un segno della “buona salute” del settore della sicurezza centrafricano, le condizioni in cui versa l’esercito suggeriscono il contrario.  I numerosi progetti di riforma delle Faca, da ultimo quello del Piano Nazionale di Difesa (Pnd, 2017) elaborato con l’appoggio di Minusca, sono stati infatti sistematicamente disattesi. I principali ostacoli contro cui si sono scontrati i vari progetti di riforma sono l’etnicizzazione e la politicizzazione del personale di sicurezza. Storicamente i presidenti in carica hanno infatti accordato una netta preferenza per i membri della propria etnia d’origine e per i loro alleati politici, stravolgendo di volta in volta la composizione delle forze armate. Da ciò conseguono due principali effetti: la crescita incontrollata delle forze armate e sistemi di reclutamento opachi che spesso avvengono in parallelo a quelli ufficiali. Se il Pnd prevedeva un aumento del personale di sicurezza da 7000  a 9 800 , l’ International Crisis Group stima che il loro numero si aggiri oggi intorno alle 15 000 unità. Buona parte di queste nuove reclute non ha però seguito l’iter previsto dalla legge, ma è stata assunta a seguito del pagamento di una somma di denaro, senza passare dalle normali procedure di “vetting” (controllo dei precedenti penali e dell’attitudine al servizio). Inoltre, alcune istituzioni come la Guardia Presidenziale (in cui l’etnia del presidente in carica è maggioritaria) sono state integrate all’esercito regolare al di fuori da ogni quadro legale creando di fatto un sistema di gerarchie multiple in cui diversi corpi dell’esercito rispondono ad autorità diverse (ministero della difesa, stato maggiore della difesa, presidenza). Questo sistema di reclutamento inficia quindi non solo la disciplina delle forze armate, ma anche la loro formazione aumentando il rischio di episodi di violenza sulla popolazione. Se a ciò si aggiunge il fatto che la legge di bilancio dell’RCA prevede un taglio di più del 20% al budget della difesa per il 2022 , la situazione si fa ancor più preoccupante per un paese che permette ai militari di conservare il proprio equipaggiamento (fucili d’assalto compresi) presso il loro domicilio.

E i Russi?

Quando i ribelli della Seleka giungono a Bangui, a fine del 2012, il Centrafrica sprofonda nel caos. Per questo motivo nel 2014 il consiglio di sicurezza delle Nu istituisce Minusca con l’obiettivo di stabilizzare il paese. Tre anni dopo si svolgono le prime elezioni, giudicate libere ed eque da osservatori internazionali, che consacrano Touadéra. Sempre nel 2016 l’Unione Europea dà il via alla propria missione di addestramento (Eutm Rca) al fine di rendere le forze armate centrafricane “moderne, efficaci e democraticamente responsabili”. Composta da 365 istruttori militari e 71 civili la missione conta su un budget annuale complessivo di c.ca 30 milioni di euro. Dal 2016 ad oggi Eutm Rca ha addestrato 5 battaglioni delle Faca per un totale di 4 000 soldati e 1 200 ufficiali. L’addestramento fornito dall’Ue e la presenza del robusto contingente di Minusca non sono però sufficienti a risolvere i problemi di sicurezza nel paese, tant’è che fra il 2020 e il 2022 i ribelli lanciano 47 attacchi che causano 90 morti fra le Faca. Il presidente, insoddisfatto dei risultati ottenuti sul campo di battaglia, decide allora di rivolgersi ai russi la cui presenza nel paese è andata crescendo a partire dal 2018. Se non è chiaro come i mercenari russi siano retribuiti, la concessione di numerosi giacimenti di oro, diamanti e uranio al gruppo russo Lobaye Invest sembra suggellare una qualche forma di accordo.

I consiglieri militari russi, poco interessati alla promozione del rispetto dei diritti dell’uomo, a dispetto dei consiglieri di Eutm forniscono un addestramento “accelerato” di tre mesi (anziché sei), recentemente ridotto a qualche settimana. Soprattutto però i russi partecipano direttamente sia alle operazioni di combattimento sia alle attività di polizia. Svincolati da costrizioni giuridiche, i “contractors” russi sono più efficaci del personale delle Nu nel condurre operazioni di controinsorgenza. Il giorno precedente alla rielezione di Touadéra, l’ambasciatore russo in Rca, Vladimir Titorenko, avverte infatti i ribelli che rischiano di essere “totalmente annichiliti” se non rinunceranno alla violenza. I successi militari ottenuti dai contractors del Cremlino vengono poi amplificati da una vera e propria macchina della propaganda che si scatena sui social media bollando l’operato di Minusca e di Eutm come fallimentare. Numerosi soldati centrafricani sfoggiano orgogliosamente sui social patch e insegne appartenenti al gruppo Wagner. Nel cortile dell’Università di Bangui viene perfino eretta una statua che simboleggia la stretta collaborazione fra Faca e “forze bilaterali russe”. Più Bangui si lega a Mosca, più aumentano gli episodi di violenza nei confronti della popolazione.

Uno documento riservato del European External Action Service (Eeas), recentemente trapelato sui media, rivela che numerosi battaglioni dell’esercito centrafricano (fra cui quelli formati da Eutm) sarebbero sostanzialmente passati sotto il controllo diretto degli pseudo-contractors di Wagner. In effetti, se il Pnd mirava a ricostituire le Faca come una forza di guarnigione con una presenza stabile su tutto il territorio centrafricano, l’assenza di incentivi economici per i militari dislocati nelle zone più remote del paese ha di fatto contribuito a militarizzare la capitale, dove ora risiede c.ca un terzo delle forze armate del paese. I battaglioni dislocati nelle zone rurali e nella capitali provinciali sono stati invece abbandonati a loro stessi, dal momento che gli alti ufficiali delle Faca si muovono raramente al di fuori della capitale e non si spingono oltre le capitali provinciali. Abbandonati dai propri superiori, in assenza di una struttura gerarchica chiara, diversi battaglioni delle Faca si sono quindi trovati sotto il diretto comando dei contractors russi. Mentre le alte sfere dello stato e dell’esercito centrafricano intessono rapporti sempre più profondi con i Russi, l’International Crisis Group riporta che il malumore inizierebbe a serpeggiare fra i ranghi della Faca a causa sia dei ritardi nel versamento delle paghe sia dei trattamenti degradanti, sfociati talvolta in violenze fisiche, cui sono sottoposti dai “contractors” di Wagner. Non sorprende quindi la decisione dell’Europa di sospendere indefinitamente Eutm, che avrebbe dovuto essere rinnovata proprio nel 2022.

Il caso del Centrafrica è pertanto emblematico del ruolo sovversivo che ha assunto la Russia in teatri come quello africano. Il Cremlino si è infatti dimostrato particolarmente abile nello sfruttare a proprio vantaggio le debolezze interne dell’apparato di sicurezza centrafricano, di fatto vanificando gli sforzi internazionali per una riforma dello stesso (Ssr). Nonostante le ingenti somme di denaro investite nella stabilizzazione del Centrafrica, Nazioni Unite e Ue sembrano aver perso la guerra di influenza nel piccolo paese africano. Senza un’adeguata riforma delle pratiche di Ssr che tenga conto del ruolo di attori sovversivi come la Russia, il rischio di vedere questo scenario ripetersi in altri teatri come quello del Mali, del Ciad e perfino della Libia è pertanto pericolosamente alto.

Se il Gop vince le midterm

A ribadire a gran voce la promessa di questo tornante è Kevin McCarthy, speaker della Camera in pectore qualora i Repubblicani dovessero strapparla agli avversari. Proprio qui cresce infatti l’idiosincrasia per le generose elargizioni a Kiev, poichè un numero crescente di conservatori dalla mentalità libertaria – che hanno adottato il comandamento dell”America first” dell’ex presidente Trump – si sono apertamente opposti all’autorizzazione di miliardi di dollari in armi e aiuti umanitari.

La combinazione tra nuovo isolazionismo e spending review aveva infatti portato la cordata di 57 repubblicani della Camera a votare a maggio contro un pacchetto di aiuti da 40 miliardi di dollari. 

Il messaggio del Gop alla Nato

La chiusura dei rubinetti degli aiuti a Kiev non è solo un messaggio interno destinato a cavalcare la faglia tra isolazionisti e interventisti. Si tratta di un monito alla Nato e all’Europa, costretta a diventare “maggiorenne” una volta per tutte. Gli obblighi di spesa all’interno dell’Alleanza sono un puntello sul quale i falchi battono da tempo. La promessa di raggiungere il 2% del Pil in spese militari, paventata nel 2006, è rimasta un miraggio, vittima di un impegno “non formale” all’interno del Trattato Atlantico. La necessità di rinegoziare i patti di spesa al suo interno si è palesata con tutta la sua drammaticità nel settembre 2014, dopo il colpo di mano russo in Crimea. Fu quella l’occasione per formalizzare, al summit di Newport, in Galles, quanto deciso ormai otto anni prima: tutti gli alleati che spendevano meno del 2% del Pil in ambito militare avrebbero dovuto evitare ogni ulteriore riduzione per questa voce di spesa, nonché raggiungere la soglia del 2% entro il 2024. Nel 2021, tra i grandi Paesi europei solo la Francia rispettava l’impegno mentre Germania, Italia e Spagna restavano ancora lontane dall’obiettivo.

Da tempo Washington non perde occasione di ricordare agli alleati che l’ombrello sull’Europa ha un costo e che Bruxelles non potrà più a lungo recitare il ruolo del free rider. E quand’anche le promesse di spesa fossero raggiunte è tempo ormai per l’Europa di iniziare a costruire una comunità di Difesa che vada ben oltre le esercitazioni o la mobilitazione nei momenti di emergenza. Un difetto atavico dell’Unione che non solo ha visto più volte fallire qualsiasi progetto militare comune, ma anche allontanarsi il miraggio di una politica estera monocroma

Le lezioni securitarie del caso Starlink-Ucraina

La disputa scoppiata sul costo dei servizi internet satellitari forniti da Starlink all’Ucraina sotto attacco russo nelle ultime settimane è interessante per le sue implicazioni securitarie. Il braccio di ferro si è aperto dopo che la SpaceX del miliardario Elon Musk ha dichiarato di non poter più continuare a finanziare il servizio e ha battuto cassa al governo federale degli Stati Uniti.

La CNN ha, sul tema, ottenuto documenti che dimostrano che SpaceX ha richiesto al Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti di finanziare l’uso di Starlink da parte dell’Ucraina sostenendo di aver bisogno di 120 milioni di dollari per mantenere l’uso del servizio da parte dell’Ucraina per il resto del 2022.  La polemica montata riguardo le affermazioni della società di Musk, forte di un patrimonio superiore ai 200 miliardi di dollari, ha portato il magnate di origine sudafricana e patron di Tesla a fare dietrofront, ma resta un tema fondamentale su cui discutere: le conseguenze strategiche per l’Ucraina e gli stessi Stati Uniti di mosse del genere.

Storicamente lo Stato americano ha utilizzato Big Tech come perno e proiezione del suo interesse geopolitico ed economico, ottenendo un’ibridazione completa tra i grandi colossi del “capitalismo delle piattaforme” e le agenzie federali di difesa, sicurezza e intelligence, che in cambio dei proficui contratti garantiti alle multinazionali ottengono dati, informazioni di prima mano e capacità di infiltrazione nei server e nelle infrastrutture critiche di Paesi rivali e non. Ma con Starlink e SpaceX in generale Washington ha compiuto un passo in avanti: una componente importante come la sicurezza dell’accesso allo spazio in materia sia di connettività Internet che di disponibilità di vettori è stata di fatto appaltata all’industria privata. La quale può, in vari momenti, alzare la posta.

Il Comando Spaziale degli Stati Uniti è rimasto impressionato dalla capacità di SpaceX di fornire accesso a Internet nelle parti dell’Ucraina devastate dall’invasione russa dopo che Starlink è stato fornito su indicazione di Musk alle forze di Volodymyr Zelensky nelle prime giornate del conflitto. Una percezione ribadita dal capo del comando in un’audizione di fronte al Senato l’8 marzo scorso. 

“Quello che stiamo vedendo con Elon Musk e le capacità di Starlink ci sta davvero mostrando cosa possono garantire una costellazione o un’architettura privata in termini di ridondanza delle connessioni e aumento della capacità di sostegno alla sicurezza informatica nazionale”, ha detto il generale James Dickinson, alla testa del Comando spaziale degli Stati Uniti, durante un’audizione al Comitato delle Forze Armate del Senato.

I commenti di Dickinson arrivavano in risposta alle domande del senatore Tim Kaine (Democratico della Virginia ed ex candidato vicepresidente di Hillary Clinton), che ha osservato che la capacità di Starlink di fornire comunicazioni dallo spazio sull’Ucraina è da considerarsi una “notizia positiva” e anche un esempio di “attori privati nello spazio che entrano in ambienti delicati” sul fronte securitario. “La Russia ha cercato di bloccare i segnali e bloccare la copertura, e la risposta di SpaceX mi ha meravigliato”, ha detto Kaine. Ha chiesto a Dickinson se esiste un “quadro legale” per le compagnie spaziali commerciali statunitensi che vengono coinvolte in situazioni contestate, ricevendo in risposta che il Comando lavora a tale prospettiva nella Cellula di Integrazione Commerciale (Cic) costituita al suo interno.

Space News ricorda che il “il Comando Strategico degli Stati Uniti ha originariamente creato il Cic per condividere informazioni sulle minacce nello spazio e altre questioni di preoccupazione data la dipendenza dei militari dai servizi spaziali commerciali” e favorire l’ibridazione tra pubblico e privato. SpaceX ne è membro assieme alla strategica Maxar, aziende di intelligence geospaziale che da tempo monitora in presa diretta le mosse delle forze armate russe, e a una serie di compagnie di peso: Intelsat, SES Government Solutions, Inmarsat, Eutelsat, Viasat, XTAR, Iridium Communications e Hughes Network Systems.

Cosa ne consegue? Il fatto che l’ago della bilancia nei rapporti tra interesse pubblico e interesse privato è fortemente spostato verso il secondo fronte laddove si parla di sicurezza spaziale e delle dinamiche ad essa afferenti. Il caso Musk-Ucraina è rientrato in tempi relativamente brevi ma lungi dal rappresentare un incidente di percorso segnala, al tempo stesso, un problematico vuoto politico e una dipendenza strutturale del pubblico dal privato in un settore critico. La richiesta di finanziamenti governativi da parte di SpaceX ha messo il Pentagono in un dilemma perché anche se il governo federale Usa sta inviando miliardi di dollari di armi, attrezzature e assistenza all’Ucraina, sembra che il Dipartimento della Difesa non abbia mai richiesto a SpaceX di fornire terminali Starlink e servizi Internet alle forze ucraine.

Come ha detto un alto funzionario della difesa degli Stati Uniti al Washington Post, SpaceX “attacca il Dipartimento della Difesa chiedendo il conto per un sistema che nessuno ha chiesto esplicitamente, ma da cui ora così tanti dipendono”. Starlink, con quasi 2mila satelliti in orbita terrestre bassa, è di gran lunga la più grande costellazione di satelliti commerciali del mondo. SpaceX ha ottenuto su scala internazionale il permesso di lanciare 12mila satelliti e sta cercando l’approvazione per dispiegarne altri 30mila. Un semi-monopolista, di fatto, col potere di imporre linee rosse anche in questioni critiche della sicurezza nazionale.E in quest’ottica il punto di caduta decisivo non è tanto il fatto che Musk abbia voluto presentare la sua azienda come il “Deus X Machina capace di fornire accesso Internet al Paese invaso e di sostenere anche le comunicazioni strategiche tra forze di terra, comandi e intelligence ucraina e controparti occidentali.La lezione strategica nel fatto che tutti i massimi apparati federali a stelle e strisce, a partire dal Presidente Joe Biden, nulla hanno fatto nel quadro della più critica situazione di tensione geopolitica dell’era post-Guerra Fredda per rompere la dipendenza da un’azienda privata che supplisce segmenti della capacità d’azione degli Stati Uniti. Ponendo sotto agli occhi di tutti un precedente a dir poco grave ma che ora bisognerà capire in quanti altri casi (pensiamo ai servizi cloud che vedono colossi come Amazon e Microsoft) ha già avuto manifestazioni simili. E portando a diversi dubbi sull’effettiva presenza di strumenti di contrappeso tra apparati pubblici e grandi monopoli privati capaci di impedire a quest’ultimi di dettare l’agenda alla prima superpotenza globale.

Brutto colpo da parte di Elon Musk: o mi date mezzo miliardo di dollari, oppure chiudo l'utilizzo di Starlink.

 Elon Musk chiede al Pentagono di garantire i fondi per mettere la rete satellitare Starlink a disposizione dell'Ucraina. Il magnate ha 'acceso' i satelliti all'inizio dell'invasione della Russia, offrendo a Kiev una fondamentale rete per le comunicazioni. Secondo la Cnn, al momento Musk ha donato circa 80mila unità Starlink all'Ucraina. Il costo dell'operazione, come ha twittato recentemente il numero 1 di Tesla e SpaceX, si aggira finora attorno agli 80 milioni di dollari e supererà i 100 milioni entro la fine dell'anno.Il finanziamento pare destinato ad esaurirsi e Musk ha avvisato il Pentagono: gli Stati Uniti devono intervenire iniettando decine di milioni di dollari ogni mese per evitare che la rete di spenga. Musk, riferisce la Cnn, ha inviato una comunicazione al Pentagono a settembre ipotizzando spese ingenti: il mantenimento della rete fino alla fine dell'anno potrebbe costare fino a 120 milioni di dollari e l'investimento per i prossimi 12 mesi potrebbe arrivare a 400 milioni: "Non siamo nella condizione di donare altri terminali all'Ucraina o di garantire finanziamenti per la rete esistente a tempo indeterminato".Le sollecitazioni arrivano in un momento particolare. Musk, recentemente, è salito alla ribalta con una serie di tweet in cui ha prospettato il 'suo' piano di pace. In sostanza, il magnate ha prospettato la ripetizione dei referendum nelle regioni che la Russia ha annesso dopo averle strappate all'Ucraina: se le consultazioni sotto l'egida dell'Onu dovessero bocciare l'annessione, la Russia dovrebbe abbandonare le regioni. Per Musk, invece, la Crimea va considerata sostanzialmente terra russa. E proprio questa affermazione in particolare ha provocato la reazione di Kiev: dal presidente ucraino Voldymyr Zelensky in giù, si sono susseguite le reazioni negative alla proposta di Mr SpaceX.

Dopo l'esplosione del NORD STREM1, già tutto dimenticato, salta per aria una condotta dell'oleodotto sibero-polacco

Il comunicato della società polacca Pern

Le notizie sono state diffuse dai media di Varsavia soprattutto a partire dalle prime ore di questo mercoledì, ma già nella serata di ieri la Pern, società che si occupa delle infrastrutture petrolifere polacche, aveva diramato l’allarme. “I sistemi di automazione di Pern – si legge in una nota dell’azienda – hanno scoperto la perdita su una delle due linee della sezione occidentale dell’oleodotto Druzhba, a circa 70 chilometri da Plock”.Quest’ultima è una città sulle rive della Vistola dove ha sede una delle raffinerie più grandi d’Europa, il Pkn (Polski Koncern Naftowy). Tecnici sono stati inviati sul posto per accertare le cause, al momento ufficialmente sconosciute. L’unica cosa certa è che una consistente perdita di petrolio è stata rintracciata e registrata dalla Pern e ora, in Polonia come all’estero, in molti sono in attesa di ulteriori dettagli. E, soprattutto, di sapere se si potrà o meno continuare a usufruire del petrolio russo.

Il percorso dell’oleodotto Druzhba

La rete di canali e tubazioni che porta il greggio dal cuore della Siberia al Vecchio Continente, è una delle più importanti al mondo. Non solo perché è la più lunga in assoluto, ma anche per via della sua storica importanza politica. Una circostanza che è possibile intuirla già dal nome: Druzhba infatti vuol dire “amicizia“. Le autorità sovietiche che hanno iniziato la costruzione dell’oleodotto negli anni ’60 hanno scelto questa denominazione per indicare la fratellanza tra Mosca e i Paesi dell’allora blocco socialista.

Scopo dell’infrastruttura era infatti quello di rifornire di petrolio ed energia i governi del Patto di Varsavia. Il percorso delle tubazioni è stato fissato a suo tempo ad Almetyevsk, cittadina del Tatarstan. Ancora oggi è qui che viene caricato il petrolio estratto dalla Siberia, dal Mar Caspio e dagli Urali. L’oro nero attraversa poi tutta la Russia centrale per entrare nell’odierna Bierlorussia, in cui si divide in due rami principali, uno settentrionale e uno meridionale. Il primo arriva a rifornire il terminal petrolifero di Plock, in Polonia, e prosegue poi fino ad agganciarsi alla rete tedesca. Si tratta quindi della sezione che porta materialmente il petrolio russo in Europa. Il secondo invece scende attraverso l’Ucraina fino al porto di Odessa, trasferendo quindi il greggio nei vari terminal del Mar Nero.

Varsavia: “Perdita causata da un incidente”. L’intelligence frena: “Cause ancora da accertare, tutte le ipotesi restano possibili”

“Non ci sono motivi per credere che la perdita nella sezione polacca dell’oleodotto Druzhba sia stata causata da un sabotaggio”. A dichiararlo è stato Mateusz Berger, sottosegretario polacco con delega alle infrastrutture energetiche. Sul luogo della perdita stanno operando Vigili del Fuoco e tecnici. La Pern intanto, così come riferito dal quotidiano tedesco Bild, ha specificato che una delle due linee dell’oleodotto è intatta e da lì il petrolio sta continuando a scorrere senza problemi.Sulle cause del guasto però, sempre da Varsavia sono arrivate dichiarazioni che in parte vanno in controtendenza rispetto a quelle del governo. Stanislaw Zaryn, portavoce del coordinatore dei servizi segreti polacchi, ha scritto su Twitter che al momento ogni ipotesi è al vaglio degli inquirenti. Dunque, l’idea del sabotaggio non è stata definitivamente scartata. “La causa della perdita nell’oleodotto Druzhba è attualmente sotto inchiesta – si legge sui suoi canali social – Finora non vi è alcuna indicazione della causa del guasto. Tutte le ipotesi sono possibili”.

Mosca: “Petrolio russo continua ad affluire”

Dalla Russia a parlare sono stati invece alcuni rappresentanti della Transneft, l’azienda che controlla l’export del greggio, secondo cui per il momento dalla parte russa del Druzhba il petrolio viene pompato regolarmente e non ci sono modifiche nelle forniture. “Non ci è stato comunicato dall’operatore polacco – hanno aggiunto – quanto tempo servirà per le riparazioni”. Il greggio russo sta comunque continuando ad affluire in Europa anche grazie al normale funzionamento dei rami dell’oleodotto che transitano lungo il territorio ceco.

La stessa Transneft ha specificato che il petrolio sta regolarmente affluendo in Polonia. Mentre, al contrario, i problemi potrebbero esserci esclusivamente per la Germania. La condotta è stata danneggiata infatti nel tratto che collega la rete polacca alla raffineria tedesca di Schwedt. Il governo del land di Brandeburgo ha confermato un calo di pressione lungo la linea dell’oleodotto Druzhba. In corso la valutazione dell’impatto della perdita sulle attività della raffineria di Schwedt.

Danni ambientali dalla perdita di petrolio

La fuoriuscita del greggio semilavorato dalle condutture sta causando, tra le altre cose, anche importanti danni ambientali. I servizi di emergenza hanno localizzato in un campo vicino al villaggio di Zurawice, 180 km a ovest di Varsavia, chiazze di petrolio in un campo di mais. Si sta adesso lavorando per realizzare un invaso e far affluire al suo interno il greggio fuoriuscito. “Stiamo cercando le perdite in un campo di mais – ha dichiarato ai media locali Karol Kierzkowski, capo dei vigili del fuoco – Non è facile, il greggio è entrato nel terreno. La perdita danneggerà sicuramente l’ambiente”.

 

 Trump impegnato nelle elezioni midterm: negoziati per evitare una terza guerra mondiale

L'ex presidente ha parlato a un evento di suoi sostenitori per la campagna elettorale di metà mandato, tenendo una linea diametralmente opposta a quella democratica dell'ottuagenario al potere. Trump dopo aver schivato la messa in stato d'accusa per l'assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 si ricandiderà alle elezioni del 2024 in concomitanza con la probabile uscita di scena di Putin....

L'ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha invitato tutte le parti in conflitto in Ucraina a sedersi al tavolo dei negoziati per evitare "una terza guerra mondiale". "Dobbiamo chiedere negoziati immediati per una fine pacifica della guerra o arriveremo a una terza guerra mondiale e non rimarrà nulla del nostro pianeta, perché persone stupide non capiscono il potere nucleare", ha detto Trump parlando a un evento di suoi sostenitori in Nevada.Donald Trump chiede "negoziati immediati per una fine pacifica della guerra in Ucraina" per evitare una terza guerra mondiale che "non lascerebbe niente sul pianeta". Nel corso di un comizio in Nevada, Trump ha poi criticato Joe Biden. "Se fossi stato io presidente la Russia non avrebbe mai invaso", ha detto accusando gli Stati Uniti di aver "quasi costretto" Putin invadere l'Ucraina. La "retorica" americana che ha preceduto la guerra - mette in evidenza Trump - ha contribuito alla decisione di Putin di agire.

Ucraina, ora gli Usa sembrano aprire al dialogo con Mosca. Con buona pace di Zelensky

Dall’inizio della crisi Ucraina si è detto che a cercare la pace dovranno essere i due protagonisti ovvero Vladimir Putin da un parte e Joe Biden dall’altra. Perché, se qualcuno ancora non l’avesse capito, questa sporca guerra è tra gli Usa e il loro braccio armato e camuffato da alleanza difensiva (la Nato) e la Russia, vista come una tappa fondamentale da ridimensionare prima di dedicarsi al vero problema verso l’egemonia politico economica mondiale, la Cina.

Dopo mesi di morti e dolore forse qualcosa si sta muovendo in senso positivo, dopo che i muscoli (anche quelli nucleari) sono stati ben spiegati e mostrati al mondo.

Alcune cose successe negli ultimi giorni inducono a pensare che da parte americana sia arrivato il momento della trattativa, anche in vista delle elezioni di mid-term dove Biden rischia una bocciatura epocale, con entrambe le camere del Parlamento che finirebbero in mano repubblicana dove Donald Trump ha ancora una voce in capitolo notevole (qualcuno a Washington DC lo vedrebbe addirittura speaker della Camera, dove l’ottantaduenne Pelosi è al capolinea).

Qualcosa si sta muovendo, dunque. In primo luogo la notizia fratta trapelare attraverso il NYT riguardo l’attentato che ha provocato la morte di Darya Dugina, dove fonti d’intelligence a stelle e strisce hanno indicato in Kiev i mandanti e gli esecutori, un atto che che dimostra un primo distacco politico.

L’agenzia Tass ha poi riportato che gli Usa non hanno intenzione di schierare armi nucleari nei paesi, come la Polonia, che hanno aderito all’ organizzazione dopo il 1997. Lo ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, offrendo un altro motivo negoziale a Mosca.

Infine, forse a rispondere all’inopportuna scelta di Zelensky di emettere un decreto dove si impedisce all’Ucraina di trattare con Putin, il Segretario di Stato americano Antony Blinken ha dichiarato che il suo Paese è “pronto” a cercare una soluzione diplomatica con la Russia sul conflitto in Ucraina. “Quando la Russia dimostrerà seriamente di essere disposta a intraprendere la strada del dialogo, noi saremo pronti. Noi ci saremo”, ha dichiarato in una conferenza stampa a Lima. “Il fatto è che la Russia e il Presidente Putin non hanno mostrato alcun interesse per la diplomazia”, ha anche rimproverato Blinken, ma rimane il fatto che più indizi portano a credere che da parte Usa ci sia un tentativo di arrivare a un tavolo negoziale.

Il punto sarà trovare un accordo che soddisfi entrambe le parti: Mosca non rinuncerà ai territori annessi (forse qualche concessione la potrebbe fare solo su Zaporizhia), mentre Biden che vuole a tutti i costi riguadagnare la fiducia dei suoi cittadini percossi da inflazione e crisi post Covid e che non hanno molto interesse nella politica estera, potrebbe “accontentarsi” dell’egemonia militare oramai conclamata sui paesi dell’Est Europa e, soprattutto, di quella energetica avendo di fatto troncato la dipendenza europea dalla Russia (anche attraverso Nord Stream) imponendo al Vecchio Continente gli States come interlocutore naturale per l’energia (atomica?).

E l’Ucraina? fin dall’inizio è stata considerata da molti analisti come l’agnello sacrificale e sia in caso di accordi sia in caso di guerra prolungata è destinata a perdere. L’aver accettato la mano sporca per il colpo di Stato del 2014 e l’aver continuato a voler evitare una soluzione per il Donbass prolungando la guerra civile l’ha messa sul piatto sacrificale ancora prima del febbraio scorso. Comunque vada a finire Zelensky potrebbe diventare il grande sconfitto dalla storia e forse è per questo che sta continuando a mostrare i muscoli: forse a lui la guerra a questo punto conviene.

Il piano per la pace in Ucraina di Elon Musk

Il piano di Musk prevede quattro punti. Il primo propone di tenere di nuovo i referendum russi con cui la Russia la settimana scorsa aveva annesso quattro regioni ucraine: Luhansk e Donetsk (che la Russia già considerava indipendenti) e le zone occupate di Zaporizhzhia e Kherson . Musk propone di far votare di nuovo gli abitanti di queste regioni, supervisionati da osservatori dell’ONU: difficilmente però un voto che si svolge durante una guerra può essere considerato libero.Il secondo punto prevede la cessione definitiva della Crimea alla Russia, già occupata e annessa otto anni fa con un altro referendum.  Musk sostiene che la Crimea abbia fatto parte del territorio russo «dal 1783».Il terzo punto obbligherebbe il governo ucraino a mantenere la fornitura di acqua alla Crimea russa, mentre il quarto prevede che l’Ucraina rimanga «neutrale».Il piano di Musk è stato molto criticato da politici e diplomatici ucraini ed europei oltre che da diversi esperti di diritto internazionale. L’ambasciatore ucraino in Germania, Andrij Melnyk, ha risposto a Musk twittando: «ecco la mia risposta diplomatica: fanculo», mentre il presidente lituano Gitanas Nauseda ha twittato: «Caro Elon Musk, se qualcuno cerca di rubare le ruote di una Tesla, questo non lo rende il legittimo proprietario delle ruote».Musk si è difeso dalle critiche ricevute per il suo piano sostenendo di essere a favore dell’Ucraina, a cui fra l’altro dall’inizio della guerra fa utilizzare Starlink, il suo servizio per connettersi a Internet via satellite. «Una ulteriore escalation della guerra farà molti danni all’Ucraina e al mondo», ha spiegato: «Se tenete al popolo ucraino, lavorate per la pace».

LA COREA DEL NORD E LA RUSSIA

“Questa spada simboleggia la forza. Simboleggia la mia anima e quella del nostro popolo che ti sostiene”. Era il 25 aprile del 2019 quando Kim Jong Un pronunciava queste parole all’indirizzo di Vladimir Putin. Al termine del loro primo incontro in assoluto, a Vladivostok, il presidente nordcoreano regalò al suo omologo russo una spada coreana.

Il capo del Cremlino ricambiò e offrì a sua volta un dono altrettanto emblematico: un set da tè, accompagnato da una sciabola russa e dalla promessa di visitare presto la Corea del Nord. La pandemia di Covid-19 avrebbe impedito a Putin di essere invitato a Pyongyang ma, in quell’occasione, i due capi si piacquero subito e si impegnarono a rafforzare i legami tra i loro Paesi.

Oggi Kim e Putin sono ancora più vicini. Un po’ perché russi e nordcoreani sono sempre stati storicamente in simbiosi, prima per motivi ideologici, ai tempi dell’Unione Sovietica, e quindi politici. E poi perché lo scoppio della guerra in Ucraina ha costretto la Russia a spostare il suo baricentro geopolitico verso l’Asia, a stringere nuove alleanze, rinsaldarne di vecchie e stringere preziose partnership commerciali. Oltre alle relazioni russe con la Cina, del quale abbiamo più volte scritto, spicca il ritorno di fiamma dell’asse Mosca-Pyongyang.

Pyongyang chiama, Mosca risponde

Lo scorso luglio la Corea del Nord riconosceva Donetsk e Lugansk. Immediata la reazione dell’Ucraina che, nel condannare la decisione di Pyongyang, annunciava la rottura delle relazioni diplomatiche con Pyongyang. I media nordcoreani scrivevano inoltre che il ministro degli Esteri della Corea del Nord, Choe Sou Hui, aveva espresso il desiderio di sviluppare relazioni con entrambe.

Qualche giorno dopo Alexander Matsegora, ambasciatore russo a Pyongyang, nel corso di un’intervista rilasciata al quotidiano russo Izvestia, accreditava l’ipotesi dell’avvicinamento russo-nordcoreano. Matsegora, citato dal sito Nk News, parlava di “molte opportunità” di cooperazione tra il Donbass e la Corea del Nord, lasciando intendere che gli operai nordcoreani avrebbero potuto ricostruire i territori del Donbass conquistati dalle forze del Cremlino. “I nostri partner coreani sono interessati ad acquistare pezzi di ricambio e unità costruite in Donbass e nel ricostruire le loro strutture produttive”, spiegava l’ambasciatore.

Un mese più tardi, in concomitanza con le crescenti difficoltà incontrate dai russi in Ucraina, non si parlava più di operai nordcoreani in Donbass, bensì di soldati. Lo scenario disegnato dall’esperto militare russo Igor Korotchenko su Channel One Russia era curioso: “Ci sono rapporti secondo cui 100.000 volontari nordcoreani sono pronti a venire e prendere parte al conflitto”. L’esperto passava quindi ad elogiare la “ricchezza di esperienza dell’esercito nordcoreano nella guerra contro la batteria”. Di queste due indiscrezioni non si è più saputo niente.

In compenso, il 15 agosto, Kim Jong Un inviava un messaggio a Putin per celebrare l’anniversario della resa del Giappone nella Seconda guerra mondiale. Kim salutava la crescente “cooperazione strategica e tattica, il supporto e la solidarietà” tra Russia e Corea del Nord.

Per non farsi mancare niente, due settimane prima, il primo agosto, mentre la Cina celebrava la fondazione dell’Esercito Popolare di Liberazione, la Corea del Nord incaricava il suo ministro della Difesa, Ri Yong Gil, di scrivere un messaggio al suo omologo cinese, Wei Fenghe. Secondo l’agenzia nordcoreana Kcna, “il messaggio sottolineava che l’esercito popolare coreano avrebbe condotto operazioni coordinate strategiche e tattiche con l’esercito cinese”.

Arriviamo così all’inizio di settembre quando, l’AP, riferiva di un rapporto dell’intelligence statunitense secondo cui la Russia stava acquistando milioni di razzi e proiettili di artiglieria dalla Corea del Nord. Il Cremlino ha bollato la notizia come “falsa” e, in seguito, anche Pyongyang ha negato il fatto, dicendo di non aver esportato armi in Russia durante la guerra e di non avere intenzione di farlo.

Kim-Putin e l'”alleanza 2.0″

Dall’inizio della pandemia all’inizio del 2020, per più di due anni le relazioni tra la Russia e la Repubblica popolare democratica di Corea sono rimaste bloccate in un limbo, quasi congelate. Temendo la diffusione del coronavirus, Pyongyang si è isolata pesantemente. Di conseguenza, il commercio e ogni contatto umano tra Mosca e Pyongyang si sono fermati quasi del tutto. Allo stesso tempo si sono bloccati anche i processi diplomatici, ravvivati, come abbiamo ricostruito, negli ultimi mesi.

Il Nord ha dichiarato la vittoria sul Covid e, come sottolinea il think tank 38North, ci sono buone ragioni per ritenere che almeno alcune delle restrizioni al confine sul lato nordcoreano inizieranno a essere presto revocate, consentendo al Nord di riprendere i contatti fisici con la Russia. In un incontro con il governatore della regione russa Primorsky, l’ambasciatore nordcoreano in Russia, Sin Hong Chol, ha annunciato che il Nord avrebbe ripreso il traffico ferroviario con la Russia – solo per le merci e non le persone – già a settembre.

Tornando alla guerra in Ucraina, Il Pentagono sostiene che la Russia si sia avvicinata alla Corea del Nord per chiedere armi e munizioni. Del resto – è il ragionamento che potrebbe fare il Nord – se il Pakistan, come affermano alcuni report, invia munizioni all’Ucraina, e la Corea del Sud conclude importanti accordi di armi con la Polonia, perché la Corea del Nord non può vendere armi alla parte opposta del conflitto, e quindi alla Russia? Considerando, poi, che molte delle armi di Pyongyang sono basate su standard sovietici, le sue munizioni potrebbero essere compatibili con i sistemi d’arma utilizzati dall’esercito russo.

In definitiva, Mosca e Pyongyang potrebbero essere sul punto di ristabilire l’alleanza che esisteva tra loro durante la Guerra Fredda, un’alleanza dissoltasi in seguito al crollo dell’Unione Sovietica. È però probabile che, a differenza del passato, il loro nuovo legame possa assumere i connotati di un allineamento strategico anziché di un’alleanza formale basata su un trattato vincolante.

Kim Jong un, a ben vedere, ha già raggiunto una capacità di deterrenza nucleare e non ha più bisogno di impegni di difesa da parte di Putin. Come se non bastasse, l’intesa Mosca-Pyongyang dovrebbe essere inclusa nel più ampio allineamento trilaterale che potrebbe comprendere anche la Cina (in un allineamento che sarà guidato da Pechino). Resta da capire quale sarà il modus operandi di questo emergente allineamento trilaterale. Qualsiasi blocco sino-russo-nordcoreano avrà tuttavia profonde implicazioni per gli equilibri di potere in Asia e nel resto del mondo.

L'UK IN CRISI ENERGETICA

Il Regno Unito, diversamente da altri paesi Europei, Germania e Italia in primis, gode di una maggiore indipendenza dal gas russo grazie alle risorse presenti nel Mare del Nord e a quelle fornite attraverso il passaggio dalla Norvegia. Tre quarti del gas importati arrivano da lì, oltre a circa 1.4 gigawatts (GW) di elettricità che percorrono 730km lungo un cavo che collega Blyth in Northumberland a Kvilldal sulla costa opposta norvegese.

Questa, come evidenziato nella lettera che Liz Truss ha pubblicato sul Times prima di recarsi a Praga per incontrare i leader europei, rappresenta la fonte di approvvigionamento per almeno 1 milione e mezzo di case, considerando che qui, dati del 2021, il 40% dell’elettricità si produce dal gas. Di più, il Paese è collegato all’Europa da condotti che arrivano in Belgio e Olanda e attraverso i quali il gas viene spedito in entrambe le direzioni, sulla base dei costi. Questo flusso è principalmente diretto verso le esportazioni nel continente per assicurare i grandi stoccaggi che sull’isola non sarebbero possibili. 

Finora il sistema ha retto perché, in caso di necessità, gli inglesi si sono ripresi indietro il loro gas, esattamente come accade con l’elettricità trasferita attraverso conduttori collegati a Francia, Belgio, Olanda e Norvegia.  Ma l’inverno in arrivo si prospetta differente, ha chiarito il report di National Grid, perché anche i paesi europei sono in deficit.

Al di là degli scenari geopolitici, la Francia sta avendo problemi con i suoi reattori nucleari e la Norvegia sta soffrendo per via della siccità che non permette di alimentare il suo potenziale idroelettrico. Da qui il timore che lo stato scandinavo possa decidere di tagliare il cordone con Uk ed Europa per proteggere e garantire il suo uso interno.

Il conflitto in Ucraina e le conseguenze nelle forniture in arrivo dalla Russia per il Regno Unito non rappresentano, invece, un problema primario.  Negli ultimi 4 mesi, le importazioni di gas da quella latitudine sono state praticamente azzerate e lo stesso dicasi per il flusso di petrolio russo che, negli ultimi 2 mesi, è arrivato a zero. Il complessivo delle importazioni dalla Russia, nel periodo che va da Gennaio a Luglio 2022 è sceso a una percentuale del 4%.

A controbilanciare questi tagli è la capacità di fare affidamento sul gas liquido naturale (LNG) fornito da Qatar e Stati Uniti, ma se le temperature precipitassero repentinamente, non ci sarebbe nessuna garanzia di forniture adeguate, sopratutto per le abitazioni degli inglesi.

Il blackout di Liz Truss

L’allarme blackout in realtà era già scattato quando, solo qualche giorno prima del report di ESO, il fornitore di energia Ofgem aveva parlato apertamente del “rischio importante” di trovarsi in emergenza per l’impossibilità di garantire forniture di gas secondo gli standard richiesti abitualmente. 

E qui tornano in gioco le promesse e i guai di Liz Truss. Interpellata sul tema, mentre si trovava a Praga a rinsaldare il rapporti di “amicizia” con Emmanuel Macron e a farsi immortalare sorridente con Mario Draghi, ha glissato, limitandosi ad un generico “Siamo messi meglio di molti altri paesi europei”, ma senza smentire chiaramente la possibilità del blackout. Questa impasse è un’altra mina sulla già fragile posizione del primo ministro la cui leadership non è mai stata veramente riconosciuta.

La sua elezione, in settembre, non è avvenuta grazie al sostegno dei deputati del suo partito presenti a Westminster e questa mancanza di un largo consenso, con un automatismo tipico della spietatezza della politica, trasforma ogni passo falso in un’occasione per generare caos. 

Il fracking per la ricerca di petrolio e gas

Il fuoco amico non si ferma qui. Le ultime decisioni da parte del governo, che ha revocato i divieti imposti nel 2019 di effettuare fracking in mare per estrarre gas e ha elargito 100 nuove licenze per scavare alla ricerca petrolio e gas, non sono andate giù ai laburisti, agli ambientalisti e a molti deputati conservatori, preoccupati per le conseguenze nell’opinione pubblica e della loro futura rielezione.

Il rischio sismico che potrebbe conseguire alle trivellazioni è una eventualità sulla quale la scienza ancora non avrebbe una posizione univoca e definita e questo fa paura. L’ultimo sondaggio commissionato dal governo sul fracking, nell’autunno del 2021, dimostrò che solo il 17% dei cittadini intervistati sosteneva la possibilità di procedere su quella strada, mentre ’87% era totalmente favorevole alle energie rinnovabili. 

Per aggirare l’ostacolo, il governo ha già in tasca la sua strategia pronta: pagare da 500 a 1000 sterline i residenti delle zone interessate al fracking per ottenere il consenso a procedere con le esplorazioni.  E se questo non bastasse è pronto un piano per distribuire royalties, dall’1 al 6%, sulle estrazioni effettuate.

La stima fornita dalle aziende del settore valuta un costo tra i 4 e i 400 milioni di sterline per ogni sito interessato, soldi che andrebbero spalmati in circa 20 anni e soggetti al prezzo del gas e alla produttività dei pozzi. “Con il 50% più uno dei consensi, raccolti porta a porta – ha spiegato Rees Moog – si potrà procedere”. Nel frattempo, se non si potranno garantire le forniture necessarie si dovrà approvare il via libera ai blackout.  

 

 IL PROBLEMA COREA DEL NORD

Era l’11 luglio del 1961 quando Cina e Corea del Nord firmarono il China-DPRK Treaty on Friendship, Cooperation and Mutual Assistance, traducibile come Trattato di mutuo soccorso e cooperazione sino-coreano. In piena Guerra Fredda, e pochi anni dopo la fine della Guerra di Corea, nella penisola coreana il clima continuava ad essere tesissimo. In Corea del Sud, il nuovo leader Park Chung Hee sollecitava un aumento delle spese militari e inaspriva la politica contro Pyongyang. Il governo nordcoreano, temendo un attacco da parte del Sud, decise così di rivolgersi ai suoi unici due partner dell’epoca, Unione Sovietica e Cina, per chiedere un supporto preventivo.

Kim Il Sung, nonno dell’attuale presidente nordcoreano Kim Jong Un, firmò prima il Trattato di mutuo soccorso e cooperazione tra Corea del Nord e Unione Sovietica (questo il testo completo), poi, pochi giorni dopo, approdò a Pechino per mettere nero su bianco, assieme al premier cinese Zhou Enlai, un trattato analogo con la Repubblica Popolare Cinese (questo il testo completo). Kim aveva finalmente un “ombrello”, per altro doppio, con il quale difendersi da eventuali azioni congiunte tra Seoul e Washington.

Già, perché, in virtù dei freschissimi accordi, nel caso in cui qualcuno – Paese o coalizione di Paesi – avesse dovuto torcere un capello alla Corea del Nord, o anche solo minacciato di farlo, Cina e Urss avrebbero intrapreso tutte le misure necessarie per opporvisi. Allo stesso modo, Pyongyang avrebbe supportato militarmente Pechino e Mosca qualora una o entrambe avessero subito attacchi militari o aggressioni esterne.

Mentre il trattato con l’Urss non è più in vigore dagli anni ’90, ed è stato riadattato tra il 1999 e il 2000 ad un semplice trattato di consultazione, il patto con la Cina continua ad essere in vigore. Il 7 luglio 2021, in occasione del 60esimo anniversario della firma, il Trattato di mutuo soccorso e cooperazione sino-coreano è stato rinnovato, con tanto di annuncio ufficiale. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha spiegato che il trattato del 1961 è stata una “decisione strategica presa con lungimiranza dalla vecchia generazione di leader dei due Paesi” nonché “un evento importante nella storia delle relazioni bilaterali” tra Cina e Corea del Nord. Infine la parte più importante: il trattato “rimane in vigore fino a quando non viene raggiunto un accordo sulla sua modifica o risoluzione”, ha chiarito Wang.

Dal punto di vista tecnico, e in conformità con l’articolo 7 dello stesso trattato, il patto sino-nordcoreano resta in vigore (e si rinnova automaticamente ogni 20 anni), a meno che le due parti, e quindi Pechino e Pyongyang, non raggiungano un accordo sulla sua modifica o risoluzione. Potrebbe sembrare un trattato simbolo dei tempi che furono, anacronistico e privo di collegamenti con il presente, tanto che soltanto gli addetti ai lavori conoscono la sua esistenza. E invece, complice la tensione alle stelle nella penisola coreana e la recente escalation missilistica di Kim Jong Un, questo trattato dovrebbe essere riletto con attenzione. Per il contenuto, certo, ma anche per le possibili implicazioni globali che potrebbe avere.

Il patto di ferro tra Cina e Corea del Nord

Il Trattato di mutuo soccorso e cooperazione sino-coreano è nato per promuovere la cooperazione pacifica tra Cina e Corea del Nord in vari settori: dall’ambito culturale a quello economico passando attraverso lo sviluppo tecnologico. Il documento originale è molto breve, un paio di pagine, condite da un’introduzione generale e sette articoli. In apertura Zhou e Kim Il Sung si impegnarono a “rafforzare e sviluppare ulteriormente le relazioni fraterne di amicizia” tra i rispettivi Paesi, a rafforzare la “cooperazione e assistenza reciproca tra la Repubblica popolare cinese e il Repubblica Democratica Popolare di Corea”, e a “presidiare congiuntamente la sicurezza” dei due popoli per salvaguardare e consolidare la pace dell’Asia e del mondo”.

Il secondo articolo merita di essere evidenziato: “Le Parti contraenti si impegnano congiuntamente ad adottare tutte le misure per prevenire un’aggressione contro una delle Parti contraenti da parte di qualsiasi Stato. Nel caso in cui una delle Parti contraenti dovesse essere oggetto dell’attacco armato da parte di uno o più Stati, ed essere coinvolta in uno stato di guerra, l’altra Parte contraente le fornirà immediatamente assistenza militare e di altro tipo con tutti i mezzi a sua disposizione”.

Attenzione, poi, all’articolo 7: “Nessuna delle Parti contraenti concluderà alcuna alleanza diretta contro l’altra parte contraente né prenderà parte a qualsiasi blocco o a qualsiasi azione o misura diretta nei confronti dell’altra Parte contraente”.

Il trattato di difesa stipulato con la Corea del Nord, inoltre, è l’unico trattato formale di alleanza militare firmato dalla Cina con un altro Paese che non è stato revocato dalla fondazione della Repubblica Popolare. Come abbiamo visto è stato anzi rinnovato. A conferma della sua importanza strategica.

L’importanza strategica del trattato

Con il passare degli anni molte clausole del trattato sino-coreano sono diventate intrinsecamente contraddittorie. Ad esempio, per garantire la pace in Asia e la sicurezza di tutti i popoli (articolo 1), Pechino è stata costretta a partecipare ad azioni contro Pyongyang imponendole sanzioni attraverso il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (ONU). Molti analisti e diplomatici hanno poi maturato l’idea che Pechino non sarebbe più “obbligata” a proteggere il Nord in caso di conflitto, visto che lo sviluppo nordcoreano di armi nucleari avrebbe messo a repentaglio la sicurezza nazionale cinese, violando così l’impegno di difesa comune. In realtà, come abbiamo visto, la Cina ha ribadito l’importanza del documento.

Attenzione però: oggi la Repubblica Popolare non considera più la Corea del Nord come un “bene strategico” bensì una “responsabilità strategica“. Il legame ideologico che univa i due Paesi è stato sostituito da interessi geopolitici reciproci, riassumibili nel tenere a distanza gli Stati Uniti dalla regione. Riducendo all’osso il trattato, e riadattandolo al presente, qualora Stati Uniti o Corea del Sud dovessero punire la Corea del Nord per i suoi test missilistici, sempre più provocatori, allora la Cina sarebbe teoricamente costretta a scendere in campo per difendere Pyongyang.

C’è chi sostiene che Pechino, anche a fronte di una guerra mossa contro il Nord, non entrerà mai in guerra contro gli Usa e i loro alleati. È tuttavia soltanto una possibile supposizione perché il trattato esiste ed è valido. Valido, si badi bene, anche a parti invertite, e cioè qualora gli statunitensi dovessero attaccare la Cina (ipotesi non utopica viste le tensioni intorno a Taiwan). In tal caso toccherebbe a Kim Jong Un l’onere e l’onore di supportare il Dragone.

Allo stesso modo, la sezione 2 del trattato stabilisce che l’aiuto sarà fornito solo quando una delle due nazioni “viene invasa da” un Paese terzo, e non quando e se una delle due nazioni dovesse invadere o attaccare terzi. Giusto per capirsi, nel novembre 2010 la Corea del Nord bombardò l’isola sudcoreana di Yeonpyeong, portando la tensione intercoreana sull’orlo della guerra. Secondo le memorie dell’ex presidente sudcoreano Lee Myung-bak, l’allora emissario del leader cinese Hu Jintao, Dai Bingguo, volò a Pyongyang e si sedette faccia a faccia con il defunto leader nordcoreano Kim Jong Il, padre dell’attuale Kim. Dai fu chiarissimo: “Se la Corea del Nord attaccasse prima la Corea del Sud e, di conseguenza, ci fossero scontri di armi su vasta scala, la Cina non aiuterebbe la Corea del Nord”. Ma se, oggi, la situazione dovesse essere inversa, la Cina di Xi Jinping potrebbe pensarla diversamente.  

GERMANIA; DOPO I 100 MILIARDI DI EURO PER IL RIARMO, 200 MILIARDI DI EURO PER L'ABBATTIMENTO DEI COSTI ENERGETICI

La svolta della Germania

Compatta, anche se con distinguo sulle priorità, la maggioranza. Robert Habeck, vicecancelliere e Ministro dell’Economia in rappresentanza dei Verdi ha parlato di necessità di reagire alla “guerra energetica” della Russia. Ma la svolta più importante è quella di Christian Lindner, “falco” rigorista dei Liberali che, da Ministro delle Finanze, solo pochi giorni fa proponeva in Europa il ritorno al Patto di Stabilità e ora ha corretto le sue posizioni preparandosi, sul fronte interno, a dare il via libera alle spese massicce del governo ma mantenendo, a parole, il sostegno alla necessità di tornare nel 2023 alla disciplina di bilancio.

“In passato”, nota La Stampa, “durante la pandemia, il governo sospese la regola del “freno al debito” per ridare fiato all’economia. Si tratta di una costituzionale che permette di derogare al pareggio di bilancio per lo 0,35% del Pil annuale e che può essere sospesa in caso di situazioni di eccezione e di catastrofi naturale”. La guerra in Ucraina è lo stato d’eccezione dopo la catastrofe pandemica che in questo caso può, anche negli anni a venire, giustificare comunque eventuali prese di posizione in controtendenza con questo auspicio. E Lindner nel frattempo mira a mettere in campo aiuti attraverso il Fondo di stabilizzazione economica introdotto durante la pandemia.

Il maxi-fondo su cui puntano Scholz e Lindner

Lo scopo del Fondo di stabilizzazione economica (Fse) era quello di stabilizzare l’economia in risposta alla pandemia di Covid. L’Fse è stato creato con l’obbiettivo di fornire sostegno sotto forma di misure di stabilizzazione per aiutare le imprese di tutti i settori a rafforzare la loro base di capitale e ad affrontare le carenze di liquidità. Si rivolge alle imprese dell’economia reale la cui scomparsa avrebbe un impatto significativo sul mercato del lavoro tedesco o sull’attrattiva della Germania come sede di attività. L’Fse agisce per mezzo di due strumenti di stabilizzazione (che possono essere applicati in combinazione) da un lato, promuove garanzie federali sui prestiti, comprese le linee di credito, e sui prodotti del mercato dei capitali; dall’altro, promuove misure di ricapitalizzazione come mezzo diretto per rafforzare il patrimonio netto delle imprese in difficoltà.

Fse ha fino ad oggi promosso operazioni di ricapitalizzazione per 9 miliardi di euro e si prevede il suo utilizzo anche per operazioni come quella di Uniper che raddoppierà tale cifra. Può inoltre promuovere manovre di sostegno alla banca pubblica KfW, la Cassa Depositi e Prestiti tedesca, a cui fino ad ora ha concesso 30 miliardi di euro. Dunque, il Fse creato nel 2020 è di fatto ben al di là dal raggiungere le quote di risorse stanziate: di fatto esso è stato “armato” con 600 miliardi di euro di risorse, corrette a 250 miliardi nel 2022. Una somma che Lindner spera di poter orientare per coprire le spese per la crisi energetica. Ma occultare una spesa pari al 5% del Pil in un fondo che copre la metà dei 1.300 miliardi messi in campo da Angela Merkel e da Scholz, ai tempi Ministro delle Finanze, è complesso.

La “Cdp” tedesca

Così come è complesso operare con KfW. Negli anni la KfW è diventata la più grande banca pubblica per lo sviluppo al mondo e gestisce asset per 500 miliardi di euro. Durante la pandemia le risorse sono state orientate per fare in grande ciò che in Italia è stato affidato a Sace con il programma Garanzia Italia: aprire alla concessione di prestiti alle imprese in crisi mediate dalla garanzia pubblica.

Due settimane fa il governo federale ha chiesto che KfW si rafforzi, in modo che le società energetiche possano esser sostenute con ancora più garanzie e supporto alla liquidità. Si tratta di autorizzazioni di credito per un importo di circa 67 miliardi di euro, che ricadranno alla fine nel piano del Fse.

Il nuovo debito inevitabile

Sulla carta Berlino avrebbe i numeri per coprire dunque i 200 miliardi con fondi già stanziati. Ma il diavolo è nei dettagli e riporta alla considerazione che per la Germania sarà necessario fare deficit. In virtù del nuovo regolamento Ue sugli aiuti di Stato, infatti, la Germania ha promosso misure di sostegno alle imprese tramite Fse e KfW, ma non può mettere in campo con il loro ausilio i piani che Scholz ha in mente per abbattere il prezzo del gas nella loro interezza. Scholz ha intenzione di sterilizzare diverse imposte, calmierare i prezzi del gas, finanziare gli importatori, accelerare sugli investimenti in transizione per superare la dipendenza dall’oro blu. Tutte misure per cui un ricorso alla leva della spesa pubblica è necessaria, in quanto politiche omnicomprensive e non mirate su un singolo obiettivo come un’operazione di salvataggio aziendale.

Quando Lindner è subentrato all’inizio di dicembre, si è trovato a lavorare con un progetto di bilancio per il 2022 scritto dal suo predecessore (ora cancelliere) Olaf Scholz prima dello scoppio dell’ondata di omicron della pandemia di coronavirus. Tale progetto includeva circa 100 miliardi di euro di nuovo debito. E dopo aver assunto nuovi debiti per quasi 140 miliardi di euro quest’anno, il bilancio nazionale della Germania per il 2023 prevede solo 17 miliardi di euro di nuovo debito. Ipotesi irrealistica, in virtù dell’adesione al freno costituzionale, di fronte a tale onerose necessità. Semplicemente, il gioco delle tre carte potrebbe essere l’assunzione di una forte quota di nuovo debito negli ultimi mesi dell’anno per poi tornare alla disciplina sulla carta l’anno prossimo. Anche se restano “elefanti nella stanza” come il fondo per il riarmo da 100 miliardi di euro annunciato da Scholz a febbraio e ancora da strutturare operativamente, che sicuramente convoglierà risorse pubbliche in un Paese che viaggia verso una dura recessione.

E sulla necessità di fare debito si è espressa criticamente anche la prestigiosa Frankfurter Allgemeine Zeitung, che in un articolo ha puntualizzato: “La Costituzione consente di aggirare il tetto all’indebitamento solo se lo Stato non ha avuto alcuna influenza sulla causa. Per questo Olaf Scholz e Christian Lindner hanno parlato di guerra energetica che la Russia sta conducendo contro la Germania”, osserva la Faz, che attacca: “In effetti, la Germania non può fare nulla per questa guerra, anche se deve essere considerato criminalmente negligente che questo Stato non abbia corretto la sua dipendenza unilaterale da una Russia che da anni si comporta in modo più aggressivo, ma, al contrario, l’ha smaccatamente perseguita”.

Più probabile che si arrivi a un regime ibrido, ma se anche la metà delle risorse fosse utilizzata per compensare il caro-bollette, finanziare tagli fiscali e aumentare le reti di protezione sociale Berlino è in grado di arrivare a 240 miliardi di nuovo debito nel 2022, una quota pari al 6% del Pil. Alla faccia di ogni prospettato ritorno all’austerità. Dal 58,9% del 2019 la quota debito/Pil è salita al 68,3% nel 2021; ora l’indebitamento netto lo potrebbe portare, come minimo, al 70,9% a fine anno con prospettive di peggioramento connesse alla prossima recessione. Per Berlino si fa dura e giustamente Scholz mette in campo tutte le carte superando ogni possibile tentazione austeritaria di ritorno. 

Mentre in Italia si tentenna nel varare un intervento da una decina di miliardi, il governo tedesco si è accordato sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas pagato da famiglie e imprese. La differenza sarà a carico dello stato nell’ambito di un intervento dal valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di euro. Il governo attingerà al Fondo di stabilizzazione economica, che non fa parte del normale bilancio federale. Un gruppo di esperti elaborerà i dettagli del limite di prezzo. “Il prezzo del gas deve andare giù”, ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, annunciando il provvedimento. Alla luce di quel che è accaduto ai gasdotti Nord Stream è chiaro che “presto il gas non sarà più rifornito dalla Russia. Questo significa anche che scomparirà la prevista “Gasumlage”, il supplemento gas in bolletta che doveva aiutare le aziende energetiche in difficoltà. La misura doveva entrare in vigore il 1 ottobre, ma sarà annullata perché “non serve più”, come ha detto oggi il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck. Il governo vuole ora aiutare direttamente le aziende. Il colosso Uniper, maggior importatore tedesco di gas russo, è del resto già in corso la nazionalizzazione.La Germania è però ben preparata al cambiamento della situazione” ha aggiunto il cancelliere tedesco. “Ci troviamo in una guerra dell’energia“, ha detto il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner. “Con l’attacco ai gasdotti la situazione si è decisamente inasprita”, ha aggiunto. Putin vuole “distruggere molto di quello che le persone per decenni hanno costruito” in Germania. “Noi non possiamo accettarlo e ci difenderemo“, ha scandito Lindner. Il freno al prezzo del gas deciso oggi “è una chiara risposta a Putin, ma anche una chiara segnalazione al Paese. Noi siamo economicamente forti, e questa forza economica la mobilitiamo, quando serve, come adesso”.Secondo l’Agenzia tedesca delle reti, nell’ultima settimana il consumo di gas di famiglie e piccole imprese è stato significativamente superiore al consumo nello stesso periodo dello scorso anno. La settimana è stata anche più fredda. I dati sono “molto preoccupanti”, perché “senza un considerevole risparmio, anche nel settore privato, sarà difficile evitare una carenza di gas in inverno”, ha affermato il presidente dell’Agenzia, Klaus Mueller. Secondo Mueller, grazie ai serbatoi gas ben riempiti (al 92%, ndr), si potrà superare l’inverno senza danni, ma, appunto, sarà necessario risparmiare e “questo dipenderà da ogni singolo individuo”.Il fronte europeo – La mossa tedesca spiazza gli altri paesi europei. Domani è in programma il vertice straordinario dei ministri dell’Energia dell’Ue in cui dovrebbero essere decisi provvedimenti da adottare congiuntamente ma Berlino ha deciso di muoversi da sola. Le trattative erano già prima complicate. “La proposta di un price cap allo stesso livello per tutto l’import del gas è una misura radicale che comporta rischi significativi legati alla sicurezza di forniture di energia”, hanno sottolineato fonti Ue spiegando il testo presentato ieri sera dalla Commissione sugli interventi sul mercato dell’energia. “E’ una valutazione di bilanciamenti, vantaggi e rischi. Non credo che stiamo dicendo ‘no a 15 Paesi membri, diciamo che è meglio mettere un price cap al gas russo e negoziare” con i singoli fornitori i prezzi dell’energia, aggiungono le stesse fonti.Diversi paesi membri” tra quelli che da settimane chiedono una proposta Ue sul price cap su tutte le importazioni di gas, “stanno diventando sempre più nervosi per la mancata reazione della Commissione europea, è un dato di fatto”, afferma un alto funzionario europeo alla vigilia della riunione straordinaria dei ministri dell’Energia. La richiesta di un price cap generalizato contenuta in una lettera indirizzata all’esecutivo Ue firmata da 15 stati, tra cui l’Italia, è stata avanzata “per esercitare pressioni sulla Commissione”, tuttavia – sottolinea la stessa fonte – “al tavolo” dei Paesi membri “non c’è una voce univoca”.

   DISASTRO AMBIENTALE

Groenlandia, gli iceberg hanno perso sei miliardi di tonnellate di acqua al giorno: “Si potrebbero riempire 7 milioni di piscine”

In Groenlandia gli iceberg hanno 

perso sei miliardi di tonnellate di acqua al giorno tra il 15 e il 17 luglio. La “guerra del caldo” ha colpito anche la grande isola, soprattutto nella parte a nord ovest. A comunicarlo è stata la Cnn, basandosi sullo studio del Centro Nazionale Statunitense per i dati su neve e ghiaccio, (Nsidc). Per dare un’idea di quei due giorni di luglio, la Cnn ha commentato che l’acqua persa è sufficiente a riempire 7,2 milioni di piscine olimpioniche. L’emittente ha sottolineato, inoltre, che la temperatura in Groenlandia si mantiene attualmente attorno ai 15,5°, ovvero circa 5 gradi in più del normale per questo periodo dell’anno.“Lo scioglimento del nord di quest’ultima settimana non è normale, se si considerano i 30-40 anni di medie climatiche”, ha detto Ted Scambos, ricercatore dell’Nsidc dell’Università del Colorado. “Il disfacimento è in aumento e questo evento ha rappresentato un picco” ha aggiunto. La preoccupazione degli scienziati è che si possa ripetere lo scioglimento record del 2019, quando 532 miliardi di tonnellate di ghiaccio sono finite in mare. Una primavera inaspettatamente calda e un’ondata di calore nel mese di luglio di quell’anno hanno causato lo scioglimento di quasi tutta la superficie della calotta glaciale e, in quell’occasione, il livello globale del mare si è alzato in modo permanente di 1,5 millimetri. La Groenlandia, infatti, contiene una quantità di ghiaccio tale da permettere di alzare il livello del mare di 7,5 metri in tutto il mondo, se si sciogliesse completamente.

Crisi climatica, dighe svuotate e “raccolti persi”: la siccità mette in ginocchio il Marocco. “In passato abbiamo patito la fame, mai la sete”

Il Marocco sta vivendo uno dei periodi di siccità più intensi e lunghi di sempre. Secondo un rapporto del Ministero dell’acqua già da due anni a questa parte la situazione climatica è peggiorata costantemente. Il 2021 è stato “il quarto anno più caldo dal 1981, dopo il 2020, 2017 e 2010”. “La temperatura media ha superato quella della norma per il periodo 1981-2010, fino a circa 0,9°C”, indica il ministero. Sempre secondo lo stesso rapporto, a settembre 2021 il Paese del Maghreb ha registrato precipitazioni che oscillano in media tra 11,5 e 325 millimetri, “che costituiscono un deficit stimato del 50% a livello nazionale, rispetto alla media normale delle precipitazioni per questo periodo”. Inoltre, fino al 18 luglio di quest’anno, la media nazionale del tasso di riempimento delle principali dighe del Paese era solo del 29,2%, un calo di quasi la metà (45,2%) rispetto allo stesso giorno nel 2021, o addirittura nel 2020 (44,4%) . Il dato si allontana sempre più dal 53,8% registrato alla stessa data nel 2019.

Il ministro dell’agricoltura marocchino, Mohammed Sadiki, ha espresso preoccupazione per la siccità, prevedendo inoltre che il 2022 segnerà potenzialmente “il peggior raccolto degli ultimi decenni”. I commenti del ministro fanno eco a quelli del dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti che, secondo quanto riporta Bloomberg, aveva definito la siccità del Paese del Maghreb “eccezionale”.

La siccità – “Non ho mai visto una cosa del genere in più di ottant’anni della mia vita”. Esordisce Fatima alla domanda se avesse mai avuto esperienza della siccità che sta colpendo il Marocco nell’ultimo anno. “L’acqua potabile scarseggia – continua Fatima – alcune volte manca in casa anche per più di 48 ore di fila. Non possiamo lavarci né cucinare”. “In passato abbiamo certamente patito la fame, ma mai la sete. Ora a malapena troviamo da bere. La pioggia non la vediamo da mesi, i nostri raccolti sono tutti persi” spiega invece Mustafa, un contadino della zona dei Beni Mellal, al ilfattoquotidiano.it. Il ministero dell’acqua marocchino conferma infatti che il periodo dal 2018 al 2022 ha visto “un susseguirsi di anni di siccità”. La superficie innevata è notevolmente diminuita nel periodo 2018-2022, essendo scesa da un valore massimo di 45.000 chilometri quadrati nel 2018 a soli 5.000 nel 2022, un deficit di circa l’89%. Anche il numero di giorni di neve è diminuito notevolmente, da 41 nel 2018 a 14 nel 2022, ovvero una diminuzione del 65% in 4 anni. Di conseguenza, il volume degli afflussi d’acqua da settembre 2021 ammonta a circa 1,83 miliardi di metri cubi, che rappresenta un deficit dell’85% rispetto alla media annua. La situazione allarmante è illustrata in particolare dal fatto che una delle dighe più grandi del Paese, quella di Sidi Mohamed Ben Abdellah, a Rabat, ha registrato quest’anno “l’afflusso d’acqua più basso della sua storia“, ovvero 51 milioni di metri cubi, che rappresentano “un deficit del 93% rispetto alla sua media annuale”. Ma il ministero rimprovera che anche l’uso irrazionale dell’acqua sta avendo un effetto negativo sulla situazione già drammatica che sta vivendo il Marocco. Secondo il dicastero, dei 258.931 pozzi acquiferi individuati tra marzo e maggio del 2022, solo 22.519 (l’8,7%) sono autorizzati. Lo sfruttamento non autorizzato dei pozzi, così come i pompaggi illegali, sprecano infatti grandi quantità di acqua prima ancora che venga utilizzata per soddisfare il bisogno di acqua potabile.

Il cambiamento climatico – Già nel 2021 il Gruppo della Banca Mondiale (Wbg) aveva evidenziato la vulnerabilità del Marocco ai 

cambiamenti climatici nel suo ultimo rapporto “Climate Risk Country Profile”. Secondo lo studio, il cambiamento climatico ha “già messo sotto pressione le risorse naturali del Paese, influendo sulla resilienza del settore agricolo, in particolare a causa della scarsità d’acqua”. Il rapporto del Wbg prevede che le temperature in tutto il Nord Africa aumenteranno da 1,5°C a 3,5°C entro il 2050 e potenzialmente 5°C entro la fine del secolo. Pertanto, “si prevede che i tassi di riscaldamento saranno più rapidi all’interno del paese”, spiegano gli esperti. Nel frattempo, le proiezioni della Banca Mondiale mostrano una significativa diminuzione delle precipitazioni annuali in tutto il Marocco tra il 10% e il 20% e fino al 30% nella regione del Sahara. Lo studio richiama l’attenzione poi sulle sfide che il Paese nordafricano deve affrontare nelle aree semiaride, in quanto molte delle comunità che vivono in queste aree remote del Marocco sono vulnerabili all’insicurezza alimentare. Il Marocco ha già compiuto sforzi per alleviare la sofferenza rurale, stanziando 200 milioni di dirham (circa 20 milioni di euro) agli agricoltori colpiti dalla siccità nella regione di Rehamna a Marrakech-Safi nel 2020 e avviando un piano nazionale per l’acqua, da 12 miliardi di euro, che prevede la costruzione di decine di dighe in tutto il paese entro il 2027, ma sembra che gli sforzi del governo siano ancora insufficienti. Uno degli effetti più attuali del cambiamento climatico è inoltre una maggiore frequenza di incendi dovuta all’aumento delle temperature estive, con medie costanti (anche per settimane) superiori ai 45°C. Dal 13 luglio incendi multipli hanno distrutto almeno 9.000 ettari di foresta nelle province di Larache, Ouezzane, Tetouan, Taza e Chefchaouen, tutte situate nel nord del Paese. La rapida progressione delle fiamme, alimentate da raffiche di vento fino a 45 km/h, ha costretto più di mille famiglie a evacuare diciassette villaggi nelle zone bruciate di Larache, dove persistono tre grandi focolai. Il 21 luglio la Direzione generale della meteorologia (Dmn) del Marocco ha riportato una nuova allerta meteo, affermando che un’ondata di caldo con temperature comprese tra 44 e 48 gradi colpirà le province di Agadir Ida Ou Tanane, Inzegane Ait Melloul, Taroudant, Es-Semara e Assa-Zag nei prossimi giorni, allarmando il Paese su eventuali nuovi incendi distruttivi.Crisi alimentare e inflazione – La siccità e gli effetti del cambiamento climatico stanno impattando negativamente anche i mercati del Paese, anche alla luce della crisi alimentare mondiale dovuta alla guerra in Ucraina. Secondo i dati condivisi dalla Fao, si stima che il Marocco registrerà un calo del 68,4% della produzione di grano e orzo nella stagione agricola 2022-2023, pari a circa 3,3 milioni di tonnellate. Uno degli effetti più visibili è quello che riguarda il rialzo dei prezzi dei generi alimentari, che ha raggiunto il 9,4% ad aprile, con un aumento del 5% su base mensile. Questo aumento dei prezzi ha avuto un effetto diretto anche sull’inflazione che, in base ai dati dell’Alto Commissariato per la Pianificazione (Hcp) del Marocco, è aumentata del 6,3% su base annua nel secondo trimestre del 2022. Sempre secondo un sondaggio dell’Hcp, il 79,2% delle famiglie marocchine afferma che il tenore di vita è peggiorato negli ultimi 12 mesi. I risultati dell’indagine indicano che le famiglie marocchine sono complessivamente pessimiste su ogni indice, con l’86% delle famiglie intervistate che afferma di aspettarsi un aumento della disoccupazione nei prossimi 12 mesi. La Banca Mondiale ha avvertito che l’aumento dell’inflazione e l’impennata dei prezzi di beni non sovvenzionati come il carburante causerebbero infatti un aumento della povertà dell’1,7% nella regione. La banca ha aggiunto che “per ogni aumento dell’1% dei prezzi del cibo nel Nordafrica, quasi mezzo milione di persone in più potrebbero vivere in povertà”.

POLITICA

 

 ITALIOTA

 

 

PD: UNA MASSA DI INVERTEBRATI

Dal libro dell'ebetino di Firenze (perche' scrive pure libri.....)

 

 “Dopo che il Movimento 5 Stelle ha annunciato che non voterà la fiducia anche la destra prende le distanze. Lega e Forza Italia non vogliono che i ministri grillini rimangano dentro (…). Se anche la destra non vota la fiducia è tutto finito e si va a votare”, scrive l’ex segretario del Pd, nelle anticipazioni diffuse dal Corriere della Sera. “Se voglio fare qualcosa – prosegue Renzi – devo muovermi. Avvicino il ministro Giorgetti in aula. Ci provo: ‘Giancarlo, sai meglio di me che sarà un autunno complicato. Se mandiamo a casa Draghi per chiunque governerà sarà peggio. Anche per voi’. ‘Ho capito ma a questo punto che si può fare?’. Gli dico: ‘Prova a convincere il tuo’ indicando (…) Salvini. ‘Se dice davvero di sì al Draghi bis, io provo a convincere il Pd’. In quel momento Lega sembrava disposta a far nascere un nuovo esecutivo guidato sempre dall’ex presidente della Bce. “Giorgetti sale le scale, confabula con Salvini per qualche minuto. Poi si girano. Salvini mi fa segno con la testa che lui sul Draghi bis c’è e Giorgetti scende le scale a confermarlo. Non è entusiasta, anzi. (…) Ma il primo step è fatto: la Lega c’è. E se c’è la Lega, Forza Italia non può che starci”. E’ a quel punto, sempre secondo il racconto di Renzi, che il Pd si defila. A parlare per i dem è il ministro della Cultura: “Fermo Franceschini, lo vedo scettico: ‘A noi conviene lasciare che sia la destra a intestarsi la fine di Draghi. E a quel punto si va a votare. Noi faremo una campagna elettorale tutta impostata sul rivendicare Draghi e lasceremo che Di Maio svuoti i 5 Stelle‘. ‘Ma sei sicuro, Dario? Ci sono due mesi e c’è l’estate nel mezzo. Questo Paese ha la memoria di un criceto, nessuno si ricorda quello che è successo la settimana scorsa e secondo te qualcuno ti darà (…) il merito di Draghi? Che poi tanto ti allei con la sinistra che era contro Draghi. E poi dove pensate che vada Di Maio? Non sposta nulla. Non ha un voto‘.In effetti la previsione di Franceschini era clamorosamente errata: rivendicare Draghi si è rivelata una strategia fallimentare per Enrico Letta, che infatti ha eliminato quasi totalmente i riferimenti al vecchio esecutivo nella parte finale della campagna elettorale, mentre come è noto Impegno civico, la lista creata da Di Maio dopo la scissione dal M5s, non è neanche arrivata al punto percentuale. Eppure, secondo Renzi, Franceschini aveva chiuso la porta a un Draghi bis.

Renzi racconta pure di un incontro con Draghi: “Siamo entrambi in aula. Gli mando un sms. Ci incrociamo con lo sguardo. Esco prima io, così che nessuno si accorga di nulla. (…) ‘Mario, c’è un unico modo per tenere aperta la partita. (…) Prendi la parola e annunci che vai a dimetterti senza attendere il voto. E a quel punto si fanno le consultazioni e la maggioranza delle forze politiche indica il Draghi bis per 10 mesi, da qui a maggio 2023. Ci sarà un nuovo governo guidato ancora da te con i grillini all’opposizione”. Ma neanche l’ex presidente del consiglio sembrava d’accordo su una sua permanenza a Palazzo Chigi: “Draghi non mi sembra per nulla convinto – scrive Renzi- Mi sento come quello che vuol convincere gli altri ma che rimane da solo. (…) Il governo non riceve la fiducia di Forza Italia, Lega e 5 Stelle. L’esperienza Draghi è finita. (…) Chi ha vinto la partita senza giocarla è Giorgia Meloni“. Il leader d’Italia viva racconta dunque di avere sempre mantenuto in dialogo personale con la capa di Fdi: “Alle 21.38 sono in collegamento televisivo con il Tg1 . ‘Ma la smetti di stare in tv? Tanto non ti vota nessuno’ mi scrive la Meloni. ‘Devo prendere il 5% per fare opposizione al nuovo governo’ le replico scherzoso. Risate ed emoticon. Poi mi faccio serio: ‘Però è incredibile: lavorano tutti per te’. Lei ride: ‘Manchi solo tu‘. Certo! Qualcuno che rimanga a fare una vera opposizione ci vuole: tocca a noi”.

 


 

 

 

IL GOVERNO DEI MEDIOCRI

L’unica novità del governo Meloni è Giorgia Meloni. È la prima premier donna d’Italia, non un maschio travestito, come insinua chi non ha ancora capito che la campagna elettorale è finita e ha vinto la destra. Una bella svolta, anzi una svolta bella: l’unica, però. La premier è stata abile a destreggiarsi nella gabbia di matti della coalizione, a dimostrare di non essere ricattabile da B. (né Giustizia né Mise), a non subire diktat neppure da Salvini (sennò lui sarebbe all’Interno e Giorgetti non sarebbe al Mef). Ma nulla ha potuto contro il suo vero tallone d’Achille, la mancanza di una classe dirigente all’altezza delle attese dei tanti elettori che l’hanno votata sperando in ben altro: un governo di forte cambiamento e discontinuità, guidato dall’unica leader rimasta sempre all’opposizione nell’ultimo decennio. E se ne ritrovano uno di manutenzione, in continuità con la restaurazione avviata da Draghi&C. dopo il cambiamento dei due governi Conte.

Trovare qualcosa di nuovo e di buono in questa squadra, o squadretta, è arduo, se si eccettuano un paio di nomi decorosi, come Schillaci alla Salute. Abituati a giudicare dai fatti, speriamo di essere smentiti. Ma gli 11 ministri (su 24, più Meloni) reduci dai governi B. sono un pessimo segnale. Idem per Salvini, di cui s’ignorava la competenza in Infrastrutture. E per Giorgetti, che conquista l’Economia per mancanza di alternative, ma sarà difficile spacciare per nuovo, visto che sedeva nei governi B. 2 e 3, ma anche in quelli più duramente osteggiati da Meloni: Conte 1 e Draghi. I conflitti di interessi non sono più quelli macroscopici di B., ma sopravvivono in scala alla Difesa con Crosetto, capo della lobby delle armi e consulente di Leonardoal Lavoro con Calderone e al Turismo con Santanchè. Il guardasigilli Nordio, pur non indicato da B., la pensa come lui, ed è un’aggravante. Un velo pietoso su Casellati alle Riforme (si spera che anche lì non cavi un ragno dal buco), Locatelli persecutrice di mendicanti alla Disabilità, il prescritto Fitto al Pnrr e la sanfedista Roccella alla “Famiglia, Natalità e Pari opportunità”: il ministero dei cavoli a merenda, così ribattezzato con un maquillage che cambia i nomi per non cambiare le facce.

Dopo i Migliori, che lasciano l’eredità peggiore, arrivano i Mediocri, tutti allineati all’establishment, che ora si spera ci risparmi almeno il mantra sul populismo e il sovranismo, ufficialmente estinti. È il prezzo altissimo pagato da Meloni per farsi accettare dai poteri che comandano in Italia: quelli stranieri. Altrimenti mai avrebbe giurato, già alla vigilia, fedeltà cieca e assoluta a Usa, Nato e Ucraina, cioè all’ottuso bellicismo draghiano, in tandem col neoministro degli Esteri Tajani. Il famoso sovranismo a sovranità limitata.

 

Il centrodestra esplode sugli appunti di Berlusconi: 

“Giorgia Meloni supponente, arrogante e offensiva”. Lei lo gela: “Manca un punto, io non sono ricattabile”14-10-2022

Acceso scambio di vedute tra Ignazio La Russa e Silvio Berlusconi in Senato. Berlusconi appare molto irritato, batte i pugni sul tavolo e dopo aver parlato con l’esponente di Fratelli d’Italia (poi eletto alla presidenza del Senato), gli rivolge un vistoso “Vaffanculo“. Il tutto accade poco dopo l’appello di Liliana Segre a moderare i toni e ad evitare l’imbarbarimento del confronto politico.

Un doveroso omaggio ai veri esperti e professionisti della politica, che avevano previsto tutto perché non ne sbagliano mai una.

Il CONTE MORTO. “Cinquestelle sotto il 10%, anche il Sud boccia Conte” (Messaggero, 14.6).

“Perché Letta e Di Maio escluderanno Conte. Come è ormai evidente, la parabola politica di Giuseppe Conte è vicina a concludersi… Letta ha bisogno dei 5Stelle… ma devono essere 5S “de-contizzati”, ossia che si sono liberati della guida dell’ex premier, relegandolo ai confini dello schieramento o fuori… La frenesia anti-governativa di Conte rende i 5S marginali e inservibili” (Stefano Folli, Repubblica, 17.5).

“I disastri di Giuseppe Conte. L’irresistibile discesa del leader mai nato nel M5S” (Domani, 28.5).

“Meglio Fico e Di Maio che Conte per i 5Stelle” (Domani, 30.5).

“I 5Stelle pensano all’addio a Conte dopo il nostro editoriale” (Domani, 31.5).

“Da un anno Conte tenta di diventare un leader, e ancora non ha imparato a cosa va incontro chi prova a fare un mestiere che non è il suo” (Sebastiano Messina, Rep, 31.5).

Ora è certo: Conte non esiste” (Piero Sansonetti, Riformista, 15.6).

“Conte e il M5S sparito” (Rep, 15.6).

“Di Maio se ne va, a Conte restano 4 stelle. Per il tacchino M5S è arrivato Natale” (Alessandro Sallusti, Libero, 17.6).

Un partito di Di Maio? Per i sondaggisti sarebbe il colpo mortale ai 5Stelle” (Messaggero, 18.6).

“Il romanzesco tramonto del M5S” (Messina, Rep, 18.6).

Un conflitto che certifica il tramonto populista” (Massimo Franco, Corriere, 18.6).

“Antonio Noto, sondaggista: ‘Se andasse via Di Maio sarebbe la fine del M5S’” (Libero, 20.6).

“Il Movimento è finito” (Massimo Cacciari, Dubbio, 22.6).

“Il funerale del grillismo” (Giornale, 22.6).

“Polvere di 5Stelle” (Repubblica, 22.6).

“M5S, il senso di una fine” (Antonio Polito, Corriere, 22.6).

La solitudine del Fondatore davanti all’abisso del fallimento” (Messina, Rep, 23.6).

“5S, fallimento senza gloria” (Francesco Merlo, Rep, 23.6).

“Quei leader meteora che spariscono nel nulla. Giuseppi teme di finire come Dini, Monti&C.” (Giornale, 23.6).

“Il M5S di Conte diventa una bad company” (Massimiliano Panarari, Stampa, 23.6).

“Più premier che leader: il lungo declino di Conte” (Piero Ignazi, Domani, 24.6).

“Di Maio è furbo e Conte un pirla” (Gianluigi Paragone, Verità, 24.6).

Il M5S è finito” (Piero Ignazi, Riformista, 24.6). “Il M5S di Conte non arriva al voto” (Vincenzo Spadafora, Messaggero, 25.6).

“Caro Grillo, sciogli questa banda di paraculi” (Marcello Veneziani, Verità, 26.6).

“Dai che ci liberiamo della piaga grillina”, “Ormai è finita, Beppe scrive il necrologio del Movimento” (Libero, 29.6).

“Il prezzo della fine grillina” (Cappellini, Rep, 1.7).

“Ei fu. Siccome grillino” (Diego Bianchi, Venerdì Rep, 1.7).

Sansonetti: ‘Pronto chi parla? Nessuno. Era Conte’” (Libero, 3.7). “La crisi del partito mai nato. Conte non controlla più il M5S. Tutti guardano a Crippa e D’Incà” (Domani, 19.7).

“L’isolamento dell’avvocato stretto dal duo Raggi-Dibba” (Messaggero, 19.7).

“Giarrusso rivela: Conte non ha alcun potere, è la Taverna che comanda” (Libero, 19.7).

“Il capolavoro del M5S: fa la crisi e ci finisce secco” (Libero, 21.7).

Il M5S scompare, resta solo Di Battista” (Domani, 21.7).

“Lo zigzag di Conte, l’eterno indecisionista ridotto all’irrilevanza. Ora si ritrova verso le elezioni alla guida di un’Armata Brancaleone” (Sebastiano Messina, Rep, 21.7).

“È davvero l’ora (per il Pd) di mollare questi disperati 5Stelle” (Merlo, Rep, 22.7).

“Gli ‘affossatori’ (di Draghi, ndr) M5S: pochi seggi e sondaggi impietosi” (Corriere, 23.7).

“Conte crolla nei sondaggi” (Rep, 24.7).

Conte giù nei sondaggi attacca Draghi” (Rep, 24.7).

“Conte pagherà il prezzo più alto per la caduta di Draghi. È uscito completamente stritolato dal braccio di ferro con il premier” (Ernesto Galli della Loggia, Corriere, 1.8).

“Il brand grillino non tira più” (Federico Pizzarotti, Rep, 2.8).

“Conte è stato l’unico beneficiato dalla pandemia, altrimenti mai sarebbe finito a Palazzo Chigi. Fra un po’ inizierà a vendere i filmini di quando andava al G8, come le dive sul viale del tramonto. Propongo da anni una specie di San Patrignano per i celebro-lesi caduti” (Roberto D’Agostino, Stampa, 9.8).

Raggi, idea di scalare il partito con Dibba” (Rep, 9.8).

“Conte come un nobile decaduto cerca un ruolo” (Corriere, 11.8).

“Grillo commissaria Giuseppi su simbolo e nomi. L’Elevato ha un ‘vaffa’ autunnale pronto. In caso di flop elettorale, si libererà dell’avvocato” (Giornale, 15.8).

“La scelta di rompere con i 5S… può essere sanata solo se il Pd avrà un buon risultato unito a un disastro dei ‘contiani’… Fino al 25 settembre Conte è un avversario a cui vanno sottratti gli elettori con argomenti convincenti. Più il bottino elettorale dei 5S sarà magro, più il Pd avrà modo di tirare i fili dell’opposizione. O di manovrare nei palazzi se ne avrà il destro” (Stefano Folli, Rep, 23.8).

I guai grillini. Così Conte ha sfasciato tutto: governo, M5S, campo largo” (Giornale, 24.8). “Per Conte l’asticella è il 10%. Raggi è pronta a sfilargli il Movimento” (Messaggero, 24.8).

“Conte è un paternalista da Regno delle Due Sicilie” (Sofia Ventura, Rep, 1.9).

“Volturara, Thailandia. Conte segue l’agenda Bettini” (Foglio, 2.9).

“In 4 anni quel professore con il curriculum quasi vero ha dimostrato che la sua identità consiste nel non avere identità: si adegua ed esibisce quella che, di volta in volta, gli commissionano… Come Arlecchino, ha due padroni: Grillo e Bettini. È la sinistra dove è vero anche il contrario” (Merlo, Rep, 3.9).

 
 

“Orfini: ‘Di sinistra? Macché, i 5S non vinceranno da nessuna parte’” (Rep, 3.9).

“Voto a Conte: 3” (Francesco Bei sul suo discorso al Forum di Cernobbio, Rep, 5.9).

“Conte senza voto” (Marco Zatterin, Stampa, 5.9).

“L’abbraccio di Trump soffoca Conte” (Rep, 7.9).

“Ignavo e opportunista” (Merlo, Rep, 6.9).

“Conte sottoscrive l’agenda Putin” (Giornale, 12.9).

Conte è un progressista della domenica” (Enrico Letta, 10.9).

“I sondaggi sono profezie che quasi mai si avverano. Dubiti dunque di questa resurrezione di Conte. Nessun dubbio invece su di lui, su Conte: ha sempre mentito” (Merlo, Rep, 13.9).

“Ha il talento di dire una cosa che vale l’altra e non pensarne nessuna” (Mattia Feltri, Stampa, 13.9).

“Movimento 5Xylelle” (Foglio, 14.9).

Conte ha tradito, il M5S non esiste più” (Di Maio, 20.9).

“Mezzo uomo, parla un linguaggio mafioso. Se sarò aggredito, il mandante morale è lui” (Matteo Renzi, 17.9).

“Ha un’aggressività di stampo peronista” (Antonio Polito, Corriere, 20.9).

“Forse oggi Conte caccerà Scarpinato” (Riformista, 23.9).

“Conte non lo voteranno i poveri, ma i poveracci, i ‘neet’, i nullafacenti, gli assistiti professionisti, le zecche, i parassiti, gli scarafaggi, i moscerini: che poi sono la dieta del camaleonte” (Filippo Facci, Libero, 24.9).

LETTA CONTINUA. “Io in questo momento ho gli occhi di tigre, non ho nessuna intenzione di perdere le elezioni” (Enrico Letta, 21.7).

“Questa neonata grande coalizione (Pd-Calenda, ndr) è un altro passo, forse quello definitivo, della Bad Godesberg di Enrico Letta, della scelta definitivamente occidentale ed europea che la sinistra italiana insegue da 50 anni… Solo adesso, nell’estate del 2022, e proprio nelle elezioni più importanti dopo quelle del 1948, la sinistra umiliata, dimessa e bastonata ha rialzato la testa… Non è un’esagerazione: l’agenda Draghi è stata il lampo di Paul Klee sulla politica che produce somiglianze ed è oggi l’abracadabra della nuova coalizione del centrosinistra… Enrico Letta è il papa che dell’altro ‘dolce Enrico’ sta completando il lavoro… con l’ironia del front runner e degli occhi di tigre… Molto più di un accordo elettorale… questa neonata grande coalizione il 25 settembre contenderà il governo del Paese a Meloni” (Francesco Merlo, Rep, 3.8).

Ora scateniamo la campagna Pd. Quando vedo i sondaggi sono preoccupato fino a un certo punto: abbiamo il ruolo di partito guida, a differenza degli altri” (Letta, Stampa, 8.7).

“Ogni voto a Conte va alla destra” (Letta, Corriere, 10.8).

“Il M5S è sempre più la Lega del Sud. Per noi la loro crescita è positiva: rende contendibili parecchi collegi nel Mezzogiorno” (Letta, Rep, 22.9).

“Bobo è contento per il Pd guarito dal virus dei grillini che ha fatto ammalare la sinistra. Potevamo accorgercene molto prima, l’importante è esserci arrivati. Letta tiene insieme i cocci” (Sergio Staino, Stampa, 7.8).

“Letta rivede la rotta: ‘Ora io contro FdI, il Pd punta al 30%. Noi primo partito” (Rep, 9.8).

“Il duello tra Meloni e Letta, sintesi personalizzata dello scontro bipolare” (Folli, Rep, 12.8).

“Saremo il primo partito” (Letta, 17.8).

“Meloni ha lo svantaggio del sopravvalutato e Letta il vantaggio del sottovalutato” (Merlo, Rep, 24.8).

Questa scelta ‘O noi o loro’ è fondamentale per far capire la posta in gioco” (Letta, 26.8).

“Pancetta o guanciale? E Letta cavalca la parodia della sua campagna social” (Filippo Ceccarelli, Rep, 27.8). “Enrico e la parodia social-carbonara per tornare al centro della scena” (Panarari, Stampa, 27.8).

“Letta e la sfida del Nord: dai giovani agli indecisi, la rimonta parte da qui’” (Stampa, 2.9).

“E Letta è pronto a schierare anche Sala: ‘In prima linea per la sfida del Nord’” (Messaggero, 3.9).

La Sicilia è contendibile. Letta: ‘Il vantaggio di Schifani si è ridotto a 6 punti’” (Rep, 6.9).

“Dossier Pd: la strategia della rimonta” (Stampa, 7.9).

“La battaglia decisiva è su 62 seggi. I dem ora credono nella rimonta” (Rep, 7.9).

“Letta punta sul voto utile: ‘Per il pareggio basta il 4%’” (Messaggero, 7.9).

“Letta convince le imprese” (Rep, 10.9).

“La scommessa di Letta sul Sud: partita aperta in decine di seggi” (Corriere, 12.9).

Il vento è cambiato, la rimonta è possibile” (Dario Franceschini, Rep, 14.9).

“La notizia buona, per Letta, è che più si avvicina il voto più si rafforza il senso della sfida a due tra lui e Giorgia Meloni: difficile che non abbia effetti positivi su entrambe le liste” (Cappellini, Rep, 14.9).

“Letta vede la rimonta” (Stampa, 15.9).

“Lunga vita a Enrico Letta… finché c’è Letta c’è speranza” (Merlo, Rep, 17.9).

“Il tracollo di Salvini cambierà le elezioni e Berlusconi a Nord viene eroso da Calenda” (Letta, 17.9).

Vinciamo noi’: il mantra di Letta” (Foglio, 19.9).

“Bari, la sinistra si sente Forrest Gump e cerca il colpaccio” (Rep, 20.9).

“L’orgoglio del Pd. Letta: ‘E ora la rimonta’” (Rep, 24.9).

“Anche se perdo resto segretario” (Letta, Rep, 23.9).

IL TERZO PELO. “C’è un’area al centro, con percentuali forse non irrilevanti, che può offrire al Pd una sponda meno inaffidabile di Conte” (Folli, Rep, 22.7).

“Un Centro europeo per il dopo-Draghi” (Cacciari, Stampa, 23.7).

“Abbiamo tolto a FI la sua parte migliore, Gelmini e Carfagna. Possiamo ripetere il 19% di Roma e battere il sovranismo” (Calenda, Corriere, 1.8).

“Calenda: da soli per frenare la destra. Portiamo via voti a FI e al Senato può uscire fuori un pareggio” (Messaggero, 2.8).

“Pd-Azione, obiettivo 37% per pareggiare al Senato” (Messaggero, 3.8). “È nato un nuovo bipolarismo. Noi abbiamo messo al centro metodo e agenda Draghi” (Mariastella Gelmini, Corriere, 3.8).

“L’accordo Letta-Calenda riequilibra in parte una gara sbilanciata a favore del centrodestra” (Antonio Polito, Corriere, 3.8). Calenda somiglia un po’ a un Ulivo senza Prodi” (Folli, Rep, 3.8).

“Calenda aspira all’eredità dei papi laici o forse luterani, Ugo La Malfa, Bruno Visentini, Giovanni Spadolini, la buona amministrazione, il rigore dei conti e il cattivo carattere che è stato una grande risorsa italiana, una specie di lievito del progresso” (Merlo, Rep, 3.8).

“Se per il centrosinistra c’è una strada, non può che passare da qui” (Annalisa Cuzzocrea, Stampa, 3.8).

ccordo Pd-Azione: il centrosinistra ha evitato il suicidio”, “Il trionfo delle destre non è più così scontato” (Domani, 3.8).

“Da soli noi di Iv possiamo superare il 5%” (Maria Elena Boschi, Messaggero, 4.8).

“Il M5S ha il 10 per cento” (Calenda, Corriere, 8.8).

“Il terzo polo smuove le acque” (Stefano Folli, Rep, 9.8). “Io e Carlo insieme possiamo fare il botto” (Renzi, Stampa, 10.8).

“Sarò io a sottrarre voti a Meloni, prenderò consensi in uscita dal centrodestra, posso mandare FI sotto il 3%” (Calenda, Rep, 9.8).

Azione come il Sassuolo: una sorpresa. Col 10% freniamo la destra al Senato” (Matteo Richetti, Messaggero, 13.8).

“Terzo Polo argine anti-destra. Maggioranza Ursula con larghe intese che chiedano a Draghi di rimanere” (Calenda, Stampa, 10.8).

“Il Terzo Polo può ambire almeno al 10%, toglieremo voti al centrodestra. Io candidato? Non so ancora dove” (Federico Pizzarotti, che non sarà candidato da nessuna parte, Messaggero, 12.8).

“Siamo noi gli eredi politici di Draghi, ruberemo voti a tutti. Possiamo raggiungere la doppia cifra” (Gelmini, Rep, 12.8).

Dopo il voto il terzo polo sarà decisivo. Pronti al dialogo con tutti” (Renzi, Messaggero, 25.8).

“Calenda è la prova che il Centro esiste, la stagione di Berlusconi è finita, il machismo dei populisti non digerirà una donna premier” (Elsa Fornero, Stampa, 31.8).

“Debutta la coppia Calenda-Renzi: ‘Noi al 10% e Draghi può tornare. Gelmini: ‘Saremo la sorpresa del voto’” (Corriere, 3.9).

“Servirà un nuovo governo Draghi isolando le estremità di FdI e 5Stelle” (Calenda, Corriere, 21.8).

“No accordi col Pd, sì a un governo di unità nazionale, anche con FdI” (Calenda, 5.9 mattina). “La linea non cambia, stop a populisti e sovranisti” (Calenda, 5.9 sera).

“Il terzo polo supererà FI” (Boschi, Messaggero, 16.9).

“Draghi ha detto stop? Non poteva fare altrimenti, Ma dopo il 25 tutti capiranno che serve l’unità nazionale” (Calenda, Corriere, 17.9).

“Calenda: ‘Puntiamo al 13%’” (Messaggero, 20.9).

“Prenderemo più voti della Lega. E la Meloni non governerà mai” (Calenda, Foglio, 21.9).

“Calenda e Renzi ci credono: ‘Nel 2024 noi primo partito’” (Messaggero, 24.9).

“Calenda: ‘Giorgia, sei pronta? Pure io, ma è meglio Draghi’” (Rep, 24.9).

“Profilo basso e campagna in sordina. La strategia di Renzi per il ‘dopodomani’. L’ex premier studia una svolta ‘alla Pirlo’: arretrare la posizione per contare di più” (Corriere, 29.8).

“La nostra missione è cancellare i 5Stelle” (Calenda, 1.9).

Vasto programma.

DAL CROLLO DI DRAGHI ALLE ELEZIONI AL 25 SETTEMBRE: CENTRODESTRA

APPARENTEMENTE

IN VANTAGGIO

,PARTITO della DIOSSINA ARROGANTE verso il M5S

Draghi verso le dimissioni. Sì del Senato alla fiducia ma Fi, Lega e 5S non votano. Domani il premier alla Camera. Letta: "Parlamento contro l'Italia".  Conte: "Messi alla porta". Meloni esulta.20-07-22

CLAMOROSA CRISI DI GOVERNO ITALIOTA, IL LEADER DEL M5S STUFO DI STARE NEL GOVERNICCHIO DEI BANCHIERI CHE NON VEDONO L'ORA DI METTERE LE MANACCE UNTUOSE SOPRA I 200 MILIARDI DEL PNRR GARANTITI DA CONTE SOTTO IL SUO GOVERNO,Draghi rassegna le dimissioni, Mattarella le respinge: “Si presenti in Parlamento per valutare la situazione”. Mercoledì il discorso alle Camere – Scenari possibili..14-07.2022

"....che un intero Paese si metta con cieca fiducia nelle mani di ottantenni sfidando le leggi della natura, prima ancora che della Costituzione, mi lascia sgomento. Ancora di più, visto il curriculum, affidarsi a Draghi. A partire dall’acquisto dei derivati di Morgan Stanley, che pesano ancora oggi sui conti pubblici per miliardi, alle privatizzazioni selvagge, come Autostrade e Telecom. Poi l’autorizzazione all’acquisto di Antonveneta data a Montepaschi come governatore di Bankitalia. Il capolavoro della lettera con i compitini assegnati al governo Berlusconi e attuate da Monti e che, secondo quanto contenuto nel Pnrr del governo Gentiloni, ci è costata 300 miliardi di euro di Pil solo dal 2012 al 2015. Per carità di patria non parlo della Grecia e dell’uso che fece della Bce. Oggi, da sostituto di Conte, appoggia un piano di sanzioni che sembra fatto più per penalizzare l’Italia che la Russia con la richiesta di tetto al prezzo del gas snobbata da tutti: non bisogna essere esperti in materia per capire quanto sia ridicola.Sta provocando il fallimento di imprese edilizie che hanno l’unica colpa di aver creduto nello Stato, che in 6 mesi ha varato 16 norme diverse, e poi le gaffe come “Erdogan dittatore”. Daje e daje lo spread va alle stelle, oltre 200. Credo che la buona immagine di Draghi derivi solo dalla narrazione omissiva fatta dai media dei salotti buoni e dal loro braccio politico: il Pd. Nessuna democrazia liberale può reggere a lungo a tutto questo.....", parole scrittte da Pietro Francesco Maria De Sarlo, sostenitore del Fatto Quotidiano, che io approvo totalmente sperando che Conte esca da questa escrescenza di governo prima della chiusura estiva del Parlamento, quantomeno per rendere un pochino amare le "vacanzine" dei "nostri" "signori" parlamentari

Il decreto Aiuti è in mano a una bella galleria di incoscienti

“C’è del metodo in questa pazzia” dice Polonio riferendosi ad Amleto. Come nell’omonima pièce di William Shakespeare, anche il manicomio della politica italiana – a ben guardare – è attraversato da un filo di logica che ne spiega (al limite, giustifica) le ricorrenti mattane.

Scrivo queste note la sera prima degli esami del decreto Aiuti e della possibile implosione del governo; senza possedere sfere di cristallo di sorta. Non per questo mi sfugge la follia, dagli evidenti esiti provocatori, di inserire nel cruciale provvedimento, in discussione il 14 luglio, il corpo estraneo rappresentato dall’inceneritore romano. Così come la costante ostentazione di un vassallaggio psicologico al limite del servilismo nei confronti di Nato e ambienti guerrafondai anglo-americani riduce al ruolo di lacchè dello straniero presunti rappresentanti del popolo italiano, quali il primo ministro Mario Draghi e il titolare della Farnesina Luigi Di Maio.Che dire delle materie ambientali e della riconversione energetica affidate alle cure irridenti del pifferaio magico Roberto Cingolani, che se ne strafrega dell’emergenza climatica e dei morti per il crollo dei ghiacciai, visto che quanto risulta interessargli – come da lunga biografia di impresario dei finanziamenti all’accaparramento gabellato per scientifico – è soltanto la benevolenza di quanti dalla congiuntura di crisi intendono ricavarci i dollaroni. Senza dimenticare la gestione temeraria delle relazioni industriali da parte del ministro preposto Andrea Orlando, intento a baloccarsi con le questioni salariali e occupazionali di sua competenza, mentre l’insofferenza dei nostri lavoratori per gli ingiusti taglieggiamenti subiti e le promesse migliorative mai attuate sta trascinandoli innanzi a un bivio: disperazione o ribellione. E parliamo non di nicchie disagiate, bensì di una componente rilevante della società nazionale. Con le facilmente prevedibili conseguenze in quanto a tenuta della coesione sociale – per non dire di ordine pubblico – che l’espressione imbambolata in permanenza del politico in carriera sembra non tenere minimamente in considerazione.

Dunque, una bella galleria di incoscienti, che al proprio particulare sacrificano qualunque priorità, a partire dall’interesse generale per arrivare alla dignità. Ma che razza di pensieri albergano in quelle loro testoline?

Prendiamo l’ultimo caso citato, l’Orlando stordito: il ragazzotto cresciuto insieme alla quasi coetanea Raffaella Paita (1969 contro 1974) nella Fgci (la federazione dei giovani comunisti) de La Spezia, la città più litigiosamente politicante d’Italia. Così i due personaggetti hanno iniziato una scalata partendo dai polverosi corridoi in penombra di partito, apprendendo un’idea di politica come pura tecnologia del potere. La stessa convinzione che accomuna tutti gli altri folli succitati, il cui distacco dalla realtà assume due aspetti: il carrierismo e la passione per i ricchi; di converso, l’insofferenza nei confronti dei meno abbienti. Quelli che Matteo Renzi definiva “gli sfigati” e François Hollande “gli sdentati”.Tutti figli – questi e quelli – di un unico fenomeno sociale: l’arrivo ai vertici della società di una pletora di parvenu, interessati esclusivamente alla propria ascesa personale. In larga misura allevati alle teorie della cosiddetta Terza Via, promossa negli anni Novanta da Tony Blair, Bill Clinton e Gerard Schröder; gente che si faceva strada incassando il consenso tradizionale del popolo di sinistra e promuovendo politiche di destra. Il motivo per cui ora i giovani e i ceti in difficoltà non si fidano più di questa sinistra: il garden club del Terzo Millennio.

Il circolo dei privilegiati, composto da politicanti e affaristi, a cui sbavano di appartenere anche consistenti fette di giornalismo, anch’esso in carriera e sempre pronto a offrire i propri servizi per acquisire benemerenze. In questo momento cercando di sferrare il colpo finale al tentativo di Giuseppe Conte per salvare il salvabile del lascito Cinquestelle; in quanto realtà incasinata ma estranea alle frequentazioni compromettenti. Dalle “puntuali” accuse al candido fazzoletto a tre punte da taschino di Giuseppi, scambiato per una vaporosa “pochette” multicolore (nevvero, Max Panarari?) alla rimozione del ruolo svolto nell’assegnazione all’Italia del Recovery (da Mariolina Sattanino in giù).

In effetti Conte bersaglio di invettive è la cartina di tornasole della collusione, a mio avviso abbastanza mafiosetta, tra carrieristi a oltranza. Il motivo della mia simpatia nei confronti dell’ex premier, pur riconoscendone i limiti di carattere e di determinazione politica. Insomma, un bravo riformista moroteo di provincia, inviso alla canea di privilegiati posizionali che nelle loro ansia accaparrativa porteranno popolo e Paese allo stremo; a partire dall’indifferenza nei confronti di esclusioni e disuguaglianze. Che necessiterebbero “Aiuti”.

 

 

ALLARME RECESSIONE BIS dopo il disastro della prima ondata Covid marzo 2020. L’inflazione accelera: 8% a giugno. Mai così dal 1986. Letta: “Rischiamo la recessione e il conflitto sociale”. Conte: priorità poveri e precari, serve salario minimo.Il leader M5s: “Nel 2050 5,7 milioni di lavoratori poveri, serve pensione di cittadinanza” (leggi)

ALLARME REGGIO CALABRIA, la cartina tornasole dello sfascio meridionale.

https://www.repubblica.it/cronaca/2022/07/01/news/reggio_calabria_

sospesa_e_tutte_le_inchieste_di_ndrangheta-356079237/?ref=RHTP-BH-I353657054-P3-S1-T1

 

M5S, Grillo dal blog attacca gli scissionisti: "Il traditore si sente un eroe". Di Maio: "Basta picconare il governo"

L'IMPERO DEGLI UOMINI MERDA: DOPO AVER DISINTEGRATO IL MOVIMENTO LIQUIDO FONDATO DA CASALEGGIO-GRILLO CON UN "BORBONISMO" DA POLTRONA, DI MAIO, IL RAGIONIERE COL TERNO AL LOTTO DEL SUCCESSO DEL FU MOVIMENTO 5 SBERLE, SI STACCA DALLA SUA FORTUNA PER FONDARE UNA SUA PSEUDO-CREATURA PER CONCLUDERE LA LEGISLATURA ED INCASSARE IL BONUS A VITA...

M5s, la scissione di Di Maio: “Oltre 60 parlamentari nel nuovo gruppo”. C’è già il nome: “Insieme per il futuro”. Di Battista: “Il futuro? Il suo”.Annunciata dai giornali, auspicata (da una parte e dell’altra) e mai veramente portata fino in fondo, alla fine è successa: Luigi Di Maio ha messo in atto la scissione dal Movimento 5 stelle. Proprio quando Mario Draghi stava per iniziare il suo discorso davanti al Senato, le agenzie di stampa hanno iniziato a battere la notizia che più di 50 parlamentari hanno firmato per seguire il ministro degli Esteri nella sua nuova formazione politica. Era già pronto anche il nome, “Insieme per il futuro”, e la prima lista di nomi. Il primo a commentare è stato l’ex deputato e (per ora) ex esponente 5 stelle Alessandro Di Battista. E, seppur dicendo di non voler parlare della “nuova scissione”, ha ricordato il perché lui se ne è andato: “Un Movimento”, ha scritto su Facebook, “nato per non governare con nessuno ha il diritto di evolversi e governare con qualcuno per portare a casa risultati. Non ha alcun diritto di governare con tutti per portare a casa comode poltrone. Si chiama ignobile tradimento“. Un messaggio molto chiaro per l’ex collega, al quale poco prima si era rivolto provocatoriamente anche su Instagram: “Insieme per il futuro? Il futuro di Di Maio”, ha scritto. In mattinata era tornato a parlare sul blog anche Beppe Grillo: “Chi non crede più nelle regole parli”, ha scritto. Neanche tre ore dopo, l’ex capo politico, quello che nel 2018 guidava il Movimento al 33%, dava il via alla sua operazione per spaccare definitivamente con il passato. Gli impatti sull’esecutivo – Quali effetti avrà l’operazione sull’esecutivo? Per ora, non molti. Di Maio ha informato Draghi, che ha rinnovato la sua fiducia e in serata è andato al Quirinale, poco prima della conferenza stampa, per informare Mattarella. Intanto i 5 stelle si sono affrettati a smentire le indiscrezioni di Bloomberg: “Il M5s smentisce categoricamente una sua uscita dal governo”, si legge. Quindi hanno rivendicato l’impegno a lavorare con la maggioranza: “Oggi il M5s ha lavorato sino all’ultimo minuto, nell’interesse di tutti i cittadini, per ottenere nella risoluzione votata dal Parlamento un chiaro riferimento alla necessità di perseguire un’escalation diplomatica, non militare e un più ampio coinvolgimento del Parlamento in ordine agli indirizzi che verranno decisi nei più rilevanti summit internazionali sul conflitto ucraino. Il costante impegno che abbiamo dedicato a elaborare la risoluzione è la smentita più forte alle voci di una nostra uscita dal governo, che in queste ore sta malevolmente circolando”.

I nomi di chi segue Di Maio – Al momento si tratta di nomi da confermare. Ma insieme alle indiscrezioni dello strappo, ha iniziato a circolare anche la lista di chi ha deciso di seguire l’ormai ex leader M5s. I numeri sono cambiati più volte nel corso del pomeriggio, ma partendo dal fatto che alla Camera servono almeno 20 deputati per far nascere un nuovo gruppo e al Senato ne bastano 10, Di Maio può contare sul sostegno minimo per continuare a giustificare la sua permanenza all’esecutivo. A Palazzo Madama sono 11 i nomi di chi sta con lui: sicuramente Primo Di Nicola, senatore al primo mandato e che in questi giorni si è più volte esposto in sua difesa, e Simona Nocerino, la senatrice (anche lei al primo giro) che avrebbe dovuto sostituire Petrocelli alla commissione Esteri e fu silurata dai suoi stessi colleghi. Poi i senatori (tutti eletti nel 2018) Fabrizio Trentacoste, Antonella Campagna, Vincenzo Presutto, Francesco Castiello, Gianmarco Corbetta, Pietro Lorefice, Sergio Vaccaro Daniela Donno (già eletta anche nel 2013). Ha detto che lascia il M5s, ma per ora non aderisce al progetto di Di Maio, il senatore Emiliano Fenu. Alla Camera sono almeno 24: ci sono i fedelissimi al secondo mandato come Gianluca Vacca, Sergio Battelli, Daniele Del Grosso, Carla Ruocco e il questore della Camera Francesco D’Uva. Ma anche la viceministra all’Economia Laura Castelli e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano (entrambi al secondo giro). E naturalmente Vincenzo Spadafora (al primo mandato). Si parla anche dell’adesione del viceministro della Salute Pierpaolo Sileri. Poi Alberto Manca, Caterina Licatini, Luigi Iovino, Andrea Caso, Davide Serritella, Paola Deiana, Filippo Gallinella, Elisabetta Barbuto, Iolanda Di Stasio, Sabrina De Carlo, Alessandro Amitrano, Elisa Tripodi, Nicola Grimaldi, Dalila Nesci, Simone Valente, Andrea Giarrizzo. Il Movimento 5 stelle finora poteva contare su 155 deputati e 72 senatori. Dopo la fuoriuscita dei dimaiani, i numeri saranno ridimensionati: “Puntiamo a 60 iscritti”, dicono alcuni vicini al ministro degli Esteri.


 

“Insieme per il futuro” – Ma cosa vuole fare Di Maio? Per il momento le intenzioni del ministro degli Esteri restano confuse. I piani di rottura sono accelerati nelle ultime ore: tutto è iniziato con la rottura pubblica della scorsa settimana e poi si è passati allo scontro sulla bozza di risoluzione che chiedeva lo stop all’invio delle armi in Ucraina. Di Maio è arrivato sabato scorso ad accusare alcuni colleghi M5s di “disallineare l’Italia da Nato e Ue”. Un’accusa che ha provocato un terremoto e portato alla diffida ufficiale di ieri del Consiglio nazionale M5s. E soprattutto alla dura condanna anche di una voce solitamente molto prudente nel Movimento come Roberto Fico, che ha invece definito “stupidaggini” le parole di Di Maio e poi si è detto “deluso e arrabbiato”. E’ stato uno dei tanti punti di non ritorno delle scorse ore. Ma adesso Di Maio cosa vuole fare? Già stasera il ministro degli Esteri dovrebbe radunare i nuovi gruppi. Dicono alcuni dei suoi più vicini, che l’obiettivo non sarebbe quello di fare un “partito personale”, anche perché difficile basarsi sui suoi consensi che sono indissolubilmente legati al Movimento. Piuttosto Di Maio guarderebbe al 2023, a una formazione che “parta dai territori, dalle esperienze degli amministratori locali e delle liste civiche”, dicono. Per questo il primo cittadino di Milano, Beppe Sala, è considerato un interlocutore. E per questo lo stesso sindaco ha avuto contatti diretti con Di Maio negli ultimi mesi. Interlocutori sono pure tutti gli altri che guardano al centro. L’obiettivo, in Parlamento, è quello di attrarre anche deputati e senatori dei gruppi di centrodestra ma in rotta con le forze di appartenenza. “I valori fondanti del M5s restano e ce li portiamo con noi”, hanno assicurato. Ma le cose possono ancora cambiare decine di volte.

La causa scatenante: la politica estera, Draghi, Grillo o il doppio mandato? – Come si è arrivati alla rottura lo abbiamo visto tutti, ma ancora resta da chiarire quali sono state le vere cause scatenanti. I dimaiani ribadiscono che tutto si è giocato sulle questioni di politica estera: “Troppe fibrillazioni“, dicono a ilfattoquotidiano.it, “troppe minacce senza mai arrivare a niente. Sul nostro posizionamento in questa guerra non si possono fare battaglie politiche”. Il casus belli è stato quello sicuramente, ma da solo non poteva bastare per far crollare tutto. Un elemento da non trascurare è anche quello che più volte viene rinfacciato a Luigi Di Maio: il ministro degli Esteri è al secondo mandato in Parlamento e a breve gli iscritti dovranno votare per decidere cosa vogliono fare di quello che è il principio fondante del Movimento. Di Maio nega che sia quello il punto della questione, ma è un fatto che restando dentro il M5s la sua carriera politica aveva una data di scadenza e ora no. Inutile dire che le prese di posizione, molto chiare, degli ultimi giorni, di Grillo sul tema hanno avuto un’influenza: il fondatore del Movimento non ne vuole sapere di derogare a quello che è l’ultimo (unico) principio davvero intoccabile del suo progetto politico. Poi c’è stato sicuramente il fattore Draghi: mancano le conferme ufficiali, ma per il presidente del Consiglio governare con un’opposizione (quella M5s) che contesta le sue scarse comunicazioni al Parlamento e alcune delle strategie di politica estera, era ed è un problema da risolvere. Non è escluso che nelle ultime ore abbia osservato (se non incoraggiato) le mosse di Di Maio. Infine a scatenare lo strappo ci sono stati sicuramente i pessimi rapporti tra Di Maio e Conte: negli ambienti M5s non si esita a parlare di “odio politico” ed è quello che di fatto si è scatenato più o meno pubblicamente. La verità è che la scissione arriva dopo mesi (anni) di faide interne e strategie per costruire quella che di fatto si è dimostrata la sua corrente di potere. L’obiettivo è sempre stato quello di costruire il suo percorso personale che resistesse alla fine dei suoi due mandati nel Movimento. Ora, senza simbolo e senza Beppe Grillo, si completa la sua metamorfosi senza 5 stelle.

 


 

Ci aspetta una tempesta economica perfetta. Come negli anni 70, ma senza soldi da stampare

Neppure se l’avessero fatto apposta gli europei sarebbero riusciti a creare una tempesta economica e finanziaria perfetta come quella attuale. Dopo decenni di crescita e di innovazione tecnologica siamo ripiombati negli anni Settanta: inflazione galoppante, guerra in alcuni paesi produttori di materie prime strategiche, caduta dei salari reali, rallentamento della crescita economica, aumento dei tassi d’interesse e tumulto a piazza affari. Mancano solo le Brigate Rosse, l’Ira, l’Eta e la leva militare negli Usa per guerra in Vietnam per ottenere de-ja-vu storico perfetto.

Negli anni Settanta due guerre posero fine ad un lunghissimo periodo di crescita e prosperità, molto simile a quello che abbiamo vissuto negli ultimi trent’anni. La guerra del Yom Kippur del 1973 e quella tra Iraq ed Iran del 1980. Entrambe causarono una contrazione dell’offerta di petrolio che ne provocò un aumento improvviso dei prezzi. Negli anni Settanta, però, i paesi importatori non avevano nessun potere nei confronti dei paesi produttori. Oggi la decisione di non acquistare più petrolio e gas naturale dalla Russia è stata presa da noi europei. Perché questa decisione è importante? Vediamolo.

L’embargo del 1973 che fece quadruplicare i prezzi del petrolio quasi nottetempo fu un evento di portata mondiale, tutti ne risentirono e quindi si dovette correre ai ripari usando organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario. A seguito dell’aumento vertiginoso delle entrate in dollari nella bilancia dei pagamenti dei paesi produttori di petrolio, il Fmi iniziò il riciclaggio dei petroldollari, incanalò questa liquidità nel sistema finanziario occidentale. I petroldollari sostennero l’economia americana e quella occidentale attraverso investimenti principalmente finanziari.

Oggi la situazione è completamente diversa. Paesi emergenti come la Cina, l’India ed una buona fetta del continente africano non partecipano all’embargo ed acquistano petrolio e gas russo in rubli a prezzi privilegiati, stabiliti da contratti bilaterali. Grazie al fracking, gli Stati Uniti sono tornati ad essere un esportatore netto di petrolio e gas naturale, e quindi beneficiano dell’aumento del prezzo, nonostante partecipino alle sanzioni. L’improvvisa impennata della domanda energetica europea è stata positiva per gli Stati Uniti, ha assorbito l’aumento di capacità produttiva iniziato nel 2017 e programmato per soddisfare l’ascesa futura della domanda asiatica. La Russia, come avvenne negli anni Settanta con i paesi arabi produttori di petrolio, si è trovata a dover gestire un improvviso aumento delle entrate energetiche nella bilancia dei pagament, – e già la contrazione della domanda europea non ne ha fiaccato le finanze grazie all’aumento vertiginoso dei prezzi -, entrate a quanto pare in gran misura in rubli. Ma certo non verrà a riciclarle da noi.

Morale, la situazione in Europa è critica come lo era negli anni Settanta, ma non nel resto del mondo, e questa criticità viene messa in evidenza dal ritorno di un’inflazione galoppante. Negli Stati Uniti, invece, l’impennata dei prezzi è dovuta alla crescita sostenuta delle domanda interna nel post Covid. Tanto per capire, il prezzo della benzina negli Stati Uniti è la metà di quello che paghiamo in Europa, i salari dei lavoratori privi di qualificazione sono aumentati dal 2019 e continuano a salire per attirare forza lavoro, l’offerta di lavoro continua a crescere. Riequilibrare l’economia americana sarà più facile perché è essenzialmente una questione interna legata, riequilibrare l’economia europea è molto più complicato a causa della dipendenza dal petrolio e dal gas estero.

Sapevano gli americani che lanciare la campagna di sanzioni contro la Russia avrebbe fiaccato noi europei e rafforzato la propria economia energetica? E’ chiaro che la risposta è positiva, Washington non avrebbe mai preso una decisione tanto negativa per la propria economia. Noi invece sì.

Adesso che la guerra in Ucraina sta diventando una realtà di lungo periodo e che fare il pieno di benzina costa quanto un biglietto aereo low cost, ci si accorge che siamo noi quelli che stanno peggio di tutti. Persino la politica di armare l’Ucraina è più positiva per gli Stati Uniti, dove si trova l’epicentro dell’industria bellica occidentale e spera che i governi continuino a spedire armi ed armamenti svuotando i magazzini militari e così facendo dando spazio all’acquisto di nuove armi, più moderne e micidiali. Altro pilastro della politica delle sanzioni l’embargo su tutti i prodotti russi, e così non solo si è chiuso l’accesso del Vecchio Continente a fonti energetiche a prezzi competitivi, con un colpo di spugna è scomparso anche il mercato russo per i nostri esportatori e per l’industria del turismo. Voilà, la crisi energetica ed il ritorno agli anni Settanta in Europa. E la Russia? Dopo lo choc iniziale l’economia sembra riprendersi, anche grazie all’aumento vertiginoso dei prezzi energetici.

Una domanda: ma che succederà a guerra finita? Ipotizzando che Putin perda, cosa pensano i nostri leader europei che succederà in Russia? Un’elezione democratica? O il caos che abbiamo visto negli anni Novanta. Sia che Putin perda o vinca quel petrolio e gas naturale a basso prezzo non lo vedremo più! Riflettiamo su questo punto.

La cosa più triste è che alla guida dell’Italia durante questo disastro di politica estera c’era l’uomo che ha salvato l’Europa dalla crisi del debito sovrano, così almeno si diceva. Ma stampare soldi, va detto, è molto, molto più semplice di guadagnarli.

 

 

 

RUSSIA, IMPERO DEL GRANO, DEL PETROLIO, DEL GAS, DELLE TERRE RARE, DEI GAS NEON E DEL NICKEL

Ha fatto molto scalpore il fatto che nel sesto pacchetto di sanzioni europee alla Russia non sia stato incluso il “re del nickel” Vladimir Potanin, tra i più importanti oligarchi di Mosca. Ex vicepremier di Boris Eltsin e attuale fedelissimo di Vladimir Putin, secondo uomo più ricco della Russia con 33,6 miliardi di dollari di patrimonio, Potanin è stato risparmiato dall’attacco sanzionatorio europeo, complice la dipendenza di Bruxelles e dei 27 Paesi membri dell’Ue dalle forniture di nickel russe.

L’impotenza sul nickel

Dopo esser raddoppiato a 48mila dollari la tonnellata nei primi giorni della guerra tra Russia e Ucraina, il prezzo del nickel è oggi assestato poco sopra i 29.500 dollari, un prezzo del 22% superiore rispetto al periodo pre-conflitto. Mosca è il terzo produttore mondiale di nickel dopo le Filippine e l’Indonesia, coprendo circa l’11% della disponibilità globale. La sua capacità chiave sta nella potenzialità nel mercato del nickel raffinato: nel 2021 la Russia ha estratto 250.000 tonnellate, di cui 193.006 tonnellate da Nornickel, il principale produttore mondiale di nickel raffinato, di valore più pregiato rispetto a quello grezzo.

Data l’importanza di questo materiale per la transizione energetica e settori industriali come quello dell’auto elettrica, sanzionare il nickel russo è complicato. Nel 2021 le importazioni europee di questo prezioso materiale hanno toccato quota 5,92 miliardi di dollari e il peso della Russia è cresciuto dopo il bando alle esportazioni di nickel grezzo da parte dell’Indonesia toccando, per la precisione, quota 2,51 miliardi di dollari. In particolare secondo Forbes, “l’Unione europea ha acquistato da Norilsk Nickel”, la società dell’oligarca risparmiato, “il 27% del nichel importato nel 2021”.

Una quota che mostra come per Bruxelles sia difficile dire del tutto di no a ogni importazione di materie prime strategiche da Mosca. Il disaccoppiamento tra le catene del valore del Vecchio Continente e quelle di Mosca, e in parte tra quelle degli Usa e del loro rivale, non sarà mai totale. Il caso del gas naturale è emblematico e arcinoto, ma sono decisamente numerosi gli esempi di questo tipo.

Washington risparmia l’uranio russo

Gli Usa non sono dipendenti dal nickel russo ma, essendo esposti alla necessità di approvvigionarsi dai mercati mondiali partendo da una quota dominante nell’export del confinante Canada (fonte di 44% degli approvvigionamenti di Washington), non hanno toccato il patrimonio di Potanin e, di conseguenza, il suo importante colosso.

Gli Usa sono maggiormente esposti sul fronte dell’uranio: nel mercato della materia prima strategica per le centrali nucleari, infatti, Mosca è centrale per gli States assieme agli alleati Kazakistan e Uzbekistan. A inizio maggio era emerso un discorso chiaro sulla presenza di una strategia Usa per formalizzare il bando alle importazioni dalla Russia, ma nulla di tutto questo è ancora ufficiale. I dati della US Energy Information Administration certificano che il Paese importa uranio per il 22% sia dal Canada che dal Kazakistan e per il 16% dalla Russia, terza nella classifica dei fornitori agli Usa, con una quota che consentirebbe di ricevere da Washington 1,2 miliardi di dollari nel 2022.

Nella classifica seguono poi l’Australia (11%) e, quinto, l’Uzbekistan (8%). Astana, Mosca e Tashkent, nel complesso, coprono il 46% delle forniture d’uranio agli Stati Uniti, una quota difficilmente cancellabile in poco tempo.

Neon, arma segreta di Mosca

La Russia non ha subito sanzioni nemmeno sul fronte del gas neon, un materiale importante in cui, invece, proprio Mosca ha giocato d’anticipo contro l’Occidente. Il gas nobile in questione è necessario per produrre semiconduttori, che alimentano qualsiasi cosa, da smartphone e laptop alle automobili. “Il gas”, ha scritto Foreign Policy, “è un sottoprodotto della produzione russa di acciaio, che viene poi inviato in Ucraina per essere purificato e, a sua volta, spedito ai produttori di semiconduttori all’estero”. Tutto questo, ovviamente, “in tempo di pace”.

Bisogna sottolineare che “circa la metà del neon mondiale per semiconduttori proviene da due sole società ucraine, entrambe costrette a chiudere le loro operazioni durante l’invasione russa”. Una di queste è tra i tesori del Donbass agognati dalla Russia. Il blocco delle forniture di neon al mercato globale, sottolineava ad aprile Start Mag, ha reso ulteriormente più critica la problematica sul mercato mondiale dei semiconduttori. Esso rappresenta una crisi strutturale che può riverberarsi su quel Chipageddon che si sta prefigurando come la grande crisi industriale del XXI secolo. Nella prima settimana di giugno il governo russo ha imposto una restrizione alla vendita all’estero dei gas nobili, di cui complessivamente controlla il 30% del mercato mondiale, e spiegato che le vendite all’estero di prodotti come il neon saranno subordinate all’ottenimento di un permesso speciale dallo Stato; la politica resterà in vigore fino al prossimo 31 dicembre. In questo campo, nemmeno è possibile immaginare sanzioni occidentali. Anzi, è la Russia a imporre un gioco duro.

Gli altri fronti caldi

Una serie di altri beni strategici per l’industria sono stati interessati da sanzioni a macchia di leopardo o restrizioni tali da non far pensare a rotture totali. Il 9 maggio scorso, ad esempio, il governo britannico ha annunciato un nuovo pacchetto di sanzioni, sia contro Russia che Bielorussia: dazi più alti all’importazione dei metalli preziosi, come platino e palladio, con una tariffa del 35% imposta a un mercato dal valore di circa 2 miliardi di dollari, ma nessun bando totale. Usa e Ue non hanno fatto altrettanto: in particolare, la Russia conta per il 40% della produzione mondiale di un altro materiale fondamentale per le industrie a più alto tasso di complessità tecnologica.

Pilatesca invece la soluzione adottata sull’alluminio. Cinque anni fa gli Usa, in pieno braccio di ferro con la Russia, provarono a imporre sanzioni su Rusal, primo produttore mondiale di alluminio e sul suo oligarca Oleg Deripaska. Il boom dei prezzi fece un clamore tale da portare a un rientro dalle sanzioni stesse a fine 2018. Oggi invece Deripaska e il suo patrimonio personale sono sotto sanzioni da parte del campo euroatlantico, ma Rusal può operare. La Russia con 4,5 miliardi di dollari di esportazioni è il secondo maggior venditore di alluminio al mondo. I Paesi verso cui si dirigono i prodotti made in Russia sono Turchia (20%), Giappone (14%), Cina (10%), Paesi Bassi (9%), Corea del Sud (7,2%) e Italia (5,6%): sei Paesi coprono i due terzi dell’export russo e Cina a parte sono tutti vicini o membri del campo occidentale.

Le sanzioni, un Giano Bifronte

Si capisce dunque il perché di un sistema sanzionatorio a macchia di leopardo che vede Mosca più colpita in alcuni ambiti e trattata col guanto di velluto in altri: l’integrazione della Russia nella globalizzazione e nelle catene del valore ha retto a otto anni di braccio di ferro e non finirà nemmeno col grande spartiacque della guerra in Ucraina. Indipendentemente dai voleri di Vladimir Putin e dell’Occidente. Vero e proprio caleidoscopio, le sanzioni sono estremamente complesse: Usa, Europa e alleati mettono sotto pressione la Russia in settori come la finanza, la meccanica industriale, i beni di consumo e contribuiscono a danneggiare la condizione economica del Paese e della sua fascia più povera, oltre ovviamente a mettere in difficoltà gli oligarchi, ma risparmiano quei settori critici in cui la dipendenza dalla Russia è più strutturata.

Parimenti, la Russia aumenta la sua dipendenza dall’esportazione di materie prime strategiche ma in questo campo riesce a puntare alla tempia dell’Occidente la pistola del decoupling totale. Opzione nucleare che non farebbe altro, però, che mandare una volta per tutte nelle braccia della Cina il Paese guidato da Vladimir Putin. Non a caso, sia che si parli di materie prime che di gas o derrate alimentari, la grande vincente della guerra in Ucraina e delle sanzioni è Pechino. In grado di continuare ad accaparrarsi forniture a prezzi privilegiati dalla Russia e ad essere corteggiata come mediatrice dall’Ovest mentre nel mondo infuria la tempesta scatenata dal conflitto ucraino.

 

Embargo al petrolio russo, il danno per Mosca stimato in 3 miliardi al mese. Ma l’Europa spenderà 2 miliardi in più

Il nuovo pacchetto di sanzioni europee contro Mosca contempla anche il blocco delle importazioni via nave di petrolio russo. Un divieto immediato del 75% dell’ import e del 90% entro fine anno. L’Unione europea importa ogni giorno tra i 3 e i 3,7 milioni di barili di petrolio russo, circa il 30-40% della produzione di Mosca attestata intorno ai 10 milioni di barili al giorno. Con l’embargo verrebbero meno rapidamente 1,7 milioni di barili. Ai valori di mercato attuali (124 dollari al barile) il taglio deciso dall’Europa vale circa 200 milioni di euro al giorno con un danno finale che potrebbe superare gli 8 miliardi di euro al mese. Naturalmente la Russia può vendere questi carichi altrove. A differenza del gas che è più legato alle condotte, il greggio si sposta principalmente via nave. Cina, India ed altri paesi hanno già mostrato grande interesse per quantità aggiuntive di barili di Mosca, specie se offerti a sconto anche di 20-30 dollari al barile come avviene oggi. Del resto le quotazioni sono così alte (il 70% in più di un anno fa) che i guadagni per chi vende sono in ogni caso assicurati.

Tuttavia, analisti di Rystad Energy citati da Reuters, affermano che Mosca sarebbe in grado di reindirizzare al massimo 1 milione di barili precedentemente destinati all’Ue. L’economia cinese fatica e le raffinerie indiane lavorano già al massimo delle loro capacità. Ciò significa una perdita di entrate di almeno 3 miliardi di euro al mese nella fase iniziale dell’embargo e poi fino a 4,5 miliardi una volta entrato in vigore il divieto totale. Inutili farsi illusioni, l’embargo sarà doloroso anche per l’Europa che dovrà a sua volta compensare il venire meno dei carichi russi comprando da altri fornitori e verosimilmente a prezzi più alti. Sempre secondo Rystad i costi aggiuntivi per i paesi Ue potrebbero raggiungere i 2 miliardi di euro al mese.

La Russia è il terzo produttore di petrolio al mondo dopo Stati Uniti ed Arabia Saudita. Dispone di riserve per 107 miliardi di barili, le seste più grandi al mondo dopo Venezuela, Arabia Saudita, Iran, Canada e Iraq. A parte il Canada questi paesi sono tutti membri dell’Opec, l’organizzazione dei grandi produttori, che sinora non ha accolto le richieste occidentali di aumentare la produzione per calmierare il costo dei barili.

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