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Kiev-Mosca, i fronti aperti: gas, carri armati a Sebastopoli e questione separatista,febbraio 2014
In realtà la storia è un po’ diversa perché
per capire che cosa sta accadendo davvero in Ucraina bisogna considerare
le nuove tecniche di comunicazione e di manipolazione dell’opinione
pubblica. Bisogna considerare due fattori: primo, dalla metà degli anni
Novanta l’Ucraina è diventata uno scenario strategico importante, da
quando Brzezinski lo
indicò come un obiettivo prioritario per gli interessi dell’Occidente.
Secondo punto, dalla fine degli anni Novanta si applicano tecniche di
occupazione del potere molto diverse rispetto a quelle usate fino a quel
momento.
Funziona così: proteste
di piazza in apparenza spontanee sono in realtà pianificate con cura e
guidate per il tramite di Organizzazioni non governative, Associazioni
umanitarie e partiti politici;
in un crescendo di operazioni pubbliche amplificate dai media
internazionali e con appoggi all’interno delle istituzioni, in
particolare dell’esercito, che finiscono per provocare la caduta del
“tiranno”.
Si fa salire la tensione, le proteste fino al momento in cui il
Presidente, per quanto in apparenza potente, cede e va via. Queste
tecniche furono ideate alla fine degli anni Novanta, e applicate per la
prima volta in Serbia alla fine degli anni Novanta. Ricorderete Milošević,
sembrava fortissimo benché sconfitto in Kosovo, improvvisamente fu
costretto alle dimissioni grazie alle proteste di piazza di un
movimento.
Quell’esperimento ebbe un successo clamoroso e fu ripetuto altre volte.
Fu ripetuto sempre nello spazio dell’ex Unione Sovietica, in Georgia, in
Kirghizistan e in Ucraina nel 2004 quando la rivoluzione
arancione ebbe
un clamoroso successo emozionando tutti noi. Era il periodo natalizio,
seguimmo quella rivoluzione dagli schermi e facemmo tutti il tifo per
quella bella rivoluzione, che portò al potere per la prima volta un
leader, amico degli occidentali, degli americani e nemico dei russi.
Fu proprio in quell’occasione però che Putin,fino
a quel momento in rapporti ottimi con gli americani, capì che cosa stava
accadendo e decise di reagire. Reagì usando gli stessi metodi: cominciò
a tagliare il petrolio, a fare pressioni sociali, a spaccare l’opinione
pubblica interna fino a quando nel 2010 Yanukovich vinse le elezioni e
per cui l’Ucraina della sfera americana tornò nella sfera russa.
Se non si è consapevoli di questi movimenti con un’origine piuttosto
lunga non si capisce quello che è accaduto in questi giorni, perché è
andato in scena esattamente lo stesso scenario. Le manifestazioni di
piazza sono state in buona parte ispirate, organizzate, incoraggiate da
dei professionisti. La
variabile nuova emersa è molto inquietante perché accanto
a migliaia di pacifisti sinceri e disinteressati che nemmeno riuscivano
a leggere questi disegni, sono apparsi degli estremisti neonazisti
impresentabili che per la prima volta, rispetto ad altre rivoluzioni
pacifiste. Hanno usato delle tecniche di guerriglia sofisticate: assalto
ai ministeri, barricate, bombe molotov e con modalità ulteriori molto
sorprendenti e inquietanti, perché in questi giorni abbiamo
avuto la prova che dei cecchini hanno sparato sia sui manifestanti, sia
sull’esercito,facendo
però ricadere la colpa su Yanukovich. Tutto questo ovviamente per
fomentare il caos che poi ha portato alla caduta di Yanukovich.
Perché è successo proprio alla fine di febbraio? Perché è accaduto
proprio durante i giochi olimpici di Soci, ovvero sull’evento
internazionale che Putin aveva pianificato per rinverdire l’immagine di
Russia come potenza. In quei giorni la Russia non poteva permettersi di
intervenire, né di reagire nell’Ucraina, e proprio in quei giorni la
guerriglia armata, perché tale è stata, ha esercitato la massima
pressione costringendo Yanukovich alle dimissioni.
Finite le Olimpiadi Putin ha risposto in maniera meno sofisticata, ma in
modo altrettanto sorprendente invadendo o comunque occupando la Crimea che
ormai è evidente, si avvia verso l’indipendenza dall' Ucraina.
Questo cosa significa? Oggi le guerre, gli scontri di potere molto
spesso avvengono attraverso queste modalità, queste tecniche di
comunicazione e di manipolazione delle masse e dell’opinione
pubblica,estremamente sofisticate, usate anche in tempi recenti in
Tunisia, in Egitto e in maniera drammatica e violenta in Siria e in
Libia.
Tutto questo con un corollario dei media. Perché i media sono
importanti? Per una ragione molto semplice: se una rivoluzione, un
movimento di piazza non ha un audience televisiva importante non esiste
e per il regime è facilissimo reprimerlo. In più, se ci sono i grandi
media internazionali, e pensiamo al peso della Cnn ma in generale di
tutti i media che parlano in maniera intensa di quell’argomento, i
manifestanti si sentono sostenuti e ringalluzziti e il potere si sente
sempre più fragile. Fino a quando non è costretto a cedere e,
chiaramente, chi perde viene descritto come il dittatore, il cattivo,
l’impresentabile anche quando in realtà non lo è. Nel caso di Yanukovich
non c’è gara, era l’uomo dei russi benché i russi non lo amassero
troppo, ma se
noi pensiamo a Mubarak o
piuttosto a Ben
Ali in Egitto e in
Tunisia che sono stati amici a lungo dell’Occidente, ci rendiamo conto
di quanto spregiudicate possono essere queste tecniche moderne che
vengono usate in maniera molto più diffusa di quanto l’opinione pubblica
possa capire.
Dunque la
guerra non dichiarata tra Stati Uniti e Russia per il controllo di
questo territorio durerà ancora a lungo con colpi informali,
asimmetrici, metodi non convenzionali che a mio giudizio l’opinione
pubblica quasi sempre non riuscirà a capire.
Secondo punto, in genere chi
vuole capire davvero che cosa accade nel mondo non può accontentarsi di
una lettura superficiale,
limitata solo alle grandi tematiche lanciate dai media, ma, per quanto
possibile, deve cercare di leggere in trasparenza per capire e per
cogliere quei segnali, e ce ne sono sempre tanti, che indicano quando un
movimento è davvero spontaneo oppure quando il movimento è indotto per
fini e con ispiratori, che non si mostrano quasi mai.
E se avete trovato interessante questo intervento non esitate a farlo
circolare e passate parola!
Iraq, l’Occidente e quel vizio del petrolio
Le violenze degli ultimi giorni testimoniano che dopo la (ri)presa delle città irachene di Falluja e Ramadi da parte di cellule qaediste il Paese vive ancora nell’inquietante ricordo del decennio passato. L’invasione americana del 2003 ha aperto un vuoto di potere destabilizzante, di cui da diversi anni traggono beneficio soprattutto le multinazionali petrolifere. Perché sì, possiamo dirlo: in Iraq c’è stata una guerra per l’oro nero.
Nel 2011, anno in cui si chiuse formalmente il conflitto, le truppe statunitensi e le compagnie mondiali del greggio hanno fatto staffetta, si sono date il cambio con l’obiettivo di avviare unrestyling completo dell’industria petrolifera nazionale. Prima della guerra il comparto era totalmente chiuso all’ingresso delle società occidentali. I margini di trattativa erano bassisssimi. Dopo dieci anni di sangue e migliaia di vittime il mercato del petrolio iracheno, oggi, è gestito esclusivamente da privati come ExxonMobil, Chevron, British Petroleum e Shell.
Ognuna di queste compagnie possiede filiali importanti nel Paese. Anche la texana Halliburton, dove lavorò Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti, oggi mantiene diverse attività redditizie. In molti negli anni hanno sostenuto che il petrolio fosse il primo motivo (anche se non il solo) alla base di una guerra per cui i cittadini iracheni stanno pagando ancora il loro prezzo.
“Non possiamo negare che di mezzo ci sia il petrolio”, confessò il generale John Abizaid, ex capo del Comando Centrale degli Stati Uniti e delle operazioni militari in Iraq, nel 2007. “Sono rattristato che sia politicamente sconveniente riconoscere quello che tutti sanno, ovvero che la guerra in Iraq è stata aperta per il petrolio”, si legge su un libro di memorie scritto dall’ex segretario del Comitato dei Governatori della Federal Reserve, Alan Greenspan.
Il risultato è che per la prima volta in 30 anni le compagnie petrolifere occidentali hanno cominciato ad esplorare la via dei giacimenti iracheni, tra i più grandi al mondo, raccogliendo ingenti profitti. Dal canto suo Washington ha mantenuto un alto livello d’importazioni a seguito dell’invasione, anche se l’approccio commerciale degli States non è servito in alcun modo a rilanciare l’economia nazionale di Baghdad.
Nel 1998 Kenneth Derr, allora amministratore delegato di Chevron, disse che “l’Iraq possiede enormi riserve di petrolio e di gas“. Ammise che gli sarebbe piaciuto accedervi. Oggi lo fa. Nel 2000 sono state la Exxon, Chevron, BP e Shell a promuovere George W. Bush e il suo vice Cheney alla Casa Bianca. Dopo nemmeno una settimana dalle elezioni il loro sforzo venne ampiamente ripagato con la creazione della National Energy Policy Development Group (NEPDG), una task force energetica affidata, guarda caso, proprio a Dick Cheney, con il compito di sviluppare una politica energetica nazionale in supporto del comparto privato.
La circostanza naturalmente accompagnò l’amministrazione americana e le multinazionali mondiali del greggio a un tavolo comune; nel mese di marzo furono rivisti gli elenchi e le mappe che delineavano l’intera capacità produttiva irachena nel comparto. E’ in quel momento – secondo diversi analisti dell’industria petrolifera – che si apre la pianificazione di un invasione militare contro Saddam Hussein. L’allora primo segretario al Tesoro Paul O’Neill nel 2004 confessa che il progetto era già stato pensato nel febbraio 2001, ben 6 mesi prima degli attentati dell’11 settembre.
Tant’è che un mese più tardi la NEPDG, in una delle sue numerosi relazioni, sostiene che i paesi del Medio Oriente vanno sollecitati “ad aprire le aree dei loro settori energetici agli investimenti esteri”. Questo, precisamente, è ciò che è stato realizzato in Iraq.
Trascorsi un paio d’anni e iniziato il conflitto, il governo di Baghdad, già fortemente condizionato da Washington, decise infatti che il suo mercato petrolifero avrebbe dovuto accogliere l’interesse degli investitori internazionali. Per questo venne costituito un comitato ad hoc che guidasse le operazioni commerciali. I membri non sono mai stati resi pubblici, ma è noto che vi facesse parte Ibrahim Bahr al-Uloum, poi nominato ministro del Petrolio iracheno dal governo americano di occupazione. Da quel momento i rappresentanti di ExxonMobil, Chevron, ConocoPhillips e Halliburton, mantennero incontri di routine con lo staff di Cheney agendo come dei veri e propri consulenti dell’esecutivo iracheno.
Prima dell’invasione erano due i fattori che ostacolavano l’attività delle compagnie petrolifere occidentali: Saddam Hussein e la legislazione nazionale. Ucciso il primo e by-passata la seconda, con la ferma opposizione dell’opinione pubblica irachena e del Parlamento, tutto cambiò. Le imprese occidentali cominciarono a firmare contratti su contratti che agevolassero l’accesso al trattamento del petrolio nel Paese aprendo, nel tempo, un vortice di privatizzazioni inarrestabile.
Il meccanismo portò la produzione petrolifera irachena ad aumentare di oltre il 40 per cento in cinque anni, per 3 milioni di barili di greggio al giorno, ma l’80 per cento del prodotto ancora oggi viene esportato lasciando la popolazione locale in una paradossale precarietà energetica. Il Pil pro capite è aumentato significativamente, ma rimane ancora tra i più bassi al mondo e ben al di sotto delle stime vantate dagli altri vicini arabi. I servizi di prima necessità come l’acqua e l’elettricità rimangono un lusso, mentre il 25 per cento della popolazione vive in uno stato di assoluta povertà.
La promessa di nuovi posti di lavoro legati allo sviluppo del comparto energetico deve ancora materializzarsi. I settori del petrolio e del gas oggi rappresentano meno del 2 per cento dell’occupazione totale, mentre le società straniere si affidano a una manodopera importata. Ebbene sì, in Iraq c’è stata una guerra per il petrolio. A poco più di una decina di giorni dall’anniversario dell’aggressione americana (il 20 marzo 2003) è sempre un bene ricordarlo.
Ungheria: vittoria scontata di Orban, padrone anti-Ue
Da un lato c’è lui, Viktor Orban: nazionalista anti-europeista, leader indiscusso del partito populista e conservatore Fidesz. Il premier magiaro in carica dal 2010 sarà riconfermato senza problemi nelle elezioni del 6 aprile, anche grazie alla riforma elettorale maggioritaria e uninominale disegnata a sua immagine e somiglianza. Dall’altro l’opposizione -una coalizione variegata, composta da socialisti, liberali, centristi e verdi- che candida il 39enne socialista Attila Mesterhazy, ma è data per sconfitta. Gli ultimi sondaggi accreditano Orban addirittura al 47% mentre il suo sfidante sarebbe fermo a un misero 20% (con la coalizione comunque sotto il 30%). In gioco c’è il futuro dell’Ungheria, un Paese di quasi 10 milioni di abitanti dove da anni si diffondono pericolose tendenze autoritarie associate ad un rinascente antisemitismo: quello incarnato dal partito di estrema destra Jobbik (una formazione ideologicamente non lontana dalla greca Alba Dorata), che domenica potrebbe volare oltre l’inquietante soglia del 15%.
“Orban rimane forte, ma almeno stavolta l’opposizione ha provato ad unirsi. Certo, la sfida elettorale in un solo round (prima della riforma c’era un sistema a doppio turno, ndr) non aiuta”. Isvan Hegedus, ex parlamentare ungherese, è una delle più autorevoli voci critiche del premier in carica. Militante di Fidesz “quando era un partito conservatore e liberale” negli anni post-sovietici, ne è uscito non appena il partito ha iniziato la virata a destra. Lo abbiamo incontrato a Bruxelles, dove dirige un centro studi sulla politica ungherese, poco prima della partenza alla volta di Budapest. Perché, gli chiediamo, Orban rimane così popolare se ha fatto una legge bavaglio per la stampa, riformato la costituzione a colpi di maggioranza accentrando su di sé moti poteri e messo a rischio l’autonomia della magistratura? “In realtà il Paese è più diviso di quello che si crede, e molta gente è stanca di Orban”. Ma la verità è che manca una vera alternativa. “Molte sono le colpe della coalizione che sfida il premier. Innanzitutto i partiti non hanno una chiara strategia comune, incerti tra competizioni e cooperazione. E poi c’è la corruzione”. Il numero due socialdemocratico Gabor Simon è stato recentemente coinvolto in un grosso scandalo per aver depositato 800.000 euro al fisco depositandoli in una banca austriaca.
Insomma, la domanda non è se Orban sarà riconfermato premier, ma con quale percentuale. E se porterà il suo Paese più lontano dalla democrazia nei prossimi quattro anni. “Possiamo solo augurarci che non stravinca. Già perdere con un margine aiuterebbe”, conclude amaro Istvan.
Corea del Nord "come apartheid, nazismo, khmer rossi". Duro rapporto dell'Onu sui diritti umani
Una commissione di giuristi incaricata dalle Nazioni Unite relaziona a Ginevra. Il rappresentante di Pyongyang lascia la sessione per protesta. Anche la Cina critica: "Critiche su informazioni non di prima mano"
GINEVRA
- I crimini commessi dal regime Nordcoreano sono paragonabili a quelli dei nazisti, del regime dell'apartheid e dei khmer rossi e devono essere fermati. Lo ha dichiarato a Ginevra il presidente di una commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite."Affrontare le piaghe del nazismo, dell'apartheid dei khmer rossi ha richiesto coraggio da parte delle grandi nazioni", ha dichiarato Michael Kirby, di fronte al consiglio dei diritti umani dell'Onu. "E' nostro dovere" affrontare "le violazioni dei diritti umani e i crimini contro l'umani commessi nella repubblica popolare di corea", ha aggiunto. Siamo nel 21mo secolo e ci troviamo di fronte ad un altro flagello vergognoso che tocca il mondo di oggi. Non possiamo più permetterci di vederlo", ha insistito. Nel rapporto pubblicato il 17 febbraio i giuristi incaricati dall'Onu hanno stilato una lista documentata di accuse per crimini contro l'umanità su larga scala.
Il rapporto ha provocato la dura reazione sia della Cina sia della stessa Corea del Nord. Il rappresentante nordcoreano presso l'Onu a Ginevra, Se Pyong So, ha abbandonato il dibattito mentre prendeva la parola il rappresentante del Giappone. Shigeo Lizuka, a nome dell'associazione delle vittime rapite in Corea è intervenuto durante il tempo concesso al Giappone in sede di dibattito, e l'ambasciatore nordcoreano ha inizialmente presentato una mozione d'ordine e interrotto il discorso di Lizuka. Quest'ultimo ha ripreso la parola su richiesta del presidente del consiglio. L'ambasciatore nordcoreano si è allora alzato in silenzio e ha lasciato la sala, seguito da una decina di fotografi. Anche la Cina ha protestato, sostenendo che il rapporto non ha legami con la realtà, perché non si basa su informazioni di prima mano, e che formula accuse contro la Cina non corroborate. Il rapporto, sostiene Pechino, getta ombre sulla credibilità dell'organismo dell'Onu.
Lo spot con il David armato di fucile
un fotomontaggio scatena
le polemiche
Interviene Franceschini: "Ritiratelo"
E la soprintendente vuole chiedere i danni
Le mani unte di Putin sull’ex Urss. “In Transnistria può capitare lo stesso”
Dopo la Crimea "potrebbe continuare un’ulteriore disgregazione dello spazio post-sovietico", spiegano alcuni esperti a ilfattoquotidiano.it. Nel mirino di Mosca, l'ipotesi dello Stato de facto che si è staccato dalla Moldavia a seguito del crollo dell'impero sovietico
“Oggi la Georgia, domani l’Ucraina, dopodomani i Paesi baltici. E poi, chissà, magari toccherà anche alla Polonia”. Parole del presidente polacco Lech Kaczyński scomparso nel 2010 in un incidente aereo, pronunciate durante una manifestazione antirussa a Tbilisi, in pieno conflitto russo-georgiano del 2008. Il leader polacco era noto per la sua antipatia verso la Russia, ma aveva previsto che le ambizioni geopolitiche di Mosca si sarebbero allargate sempre di più sui Paesi dell’ex “blocco sovietico”. La galassia degli Stati non riconosciuti che si spande dal Caucaso(Nagorno Karabakh) all’Europa dell’Est (Transnistria) potrebbe ora includere anche laRepubblica autonoma di Crimea.
Il governo presieduto dal nuovo capo, il filorusso Sergey Aksyonov, si è affrettato ad anticipare al 30 marzo il referendum sullo status della repubblica. A prescindere da un intervento ufficiale dell’esercito russo sulla penisola, non cambierà il risultato del voto che sembra già volgere in favore di Mosca. Mentre il senatore americano John McCain si dice pronto ad una nuova “guerra fredda” con la Russia, e la “cortina di ferro” sembra alzarsi di nuovo per dividere il mondo a metà tra ilblocco filorusso e pro-americano, alcuni esperti dell’Ucraina frenano questa retorica. “La Crimea è un caso a parte”, spiega a ilfattoquotidiano.it Alexey Vlasov, tra i massimi esperti della materia e vice preside della facoltà di Storia dell’Università statale di Mosca. All’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), da dove è appena tornato, molti colleghi concordano con lui sul fatto che la questione della Crimea esiste e andrebbe risolta. “I diritti dei cittadini russofoni della Crimea che sono stati promessi dopo il crollo dell’Urss, in realtà non sono mai stati garantiti”, osserva lo studioso.
L’autonomia della repubblica è stata sancita dalla Costituzione del 1998, ma Vlasov sostiene che valga “solo sulla carta”. La soluzione, secondo l’esperto, potrebbe essere quella di creare una commissione ad hoc che coinvolga tutte le parti in causa per garantire l’autonomia effettiva della Crimea, sia sul piano economico, sia su quello linguistico. Nell’ipotesi in cui la Russia cercasse solo una sua maggiore autonomia, il risultato sarebbe un’entità territoriale in bilico, come lo sono già l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, ai confini con la Georgia. Queste due repubbliche autoproclamate sono riconosciute ad oggi soltanto dalla Russia, dal Venezuela e da alcuni una manciata di altri stati minori, mentre la comunità internazionale si schiera con la Georgia che li considera territori occupati.
La storia post-sovietica dei due territori, diversamente della Crimea, è stata segnata da conflitti sanguinosi con Tbilisi in seguito alla disgregazione dell’Urss. Le due repubbliche hanno cercato protezione sotto l’ala della “Madre Russia”. Ma se il primo presidente della Federazione russa,Boris Eltsin, ha respinto la richiesta per sostenere il suo alleato, l’allora presidente georgianoEduard Shevarnadze, la svolta è arrivata con Putin. Nel 2006 ha usato il precedente del Kosovoper dettare il nuovo corso della politica estera russa. Secondo il Cremlino, il principio dell’autodeterminazione dei popoli applicato ai kosovari doveva valere anche per gli Stati non riconosciuti sullo spazio dell’ex Urss. Anche se la posizione di Mosca sul Kosovo è rimasta immutata: in una sorta di doppio gioco si è sempre schierata a favore dell’integrità territoriale della Serbia.
“La Russia ha garantito l’integrità territoriale della Georgia per 18 anni, finché Tbilisi non ha scatenato la guerra contro di noi uccidendo i nostri caschi blu nell’Ossezia del Sud”, commenta Andrei Suzdaltsev, vicepreside della facoltà dell’Economia e politica mondiale dellaHigh School of economics di Mosca. A ilfattoquotidaino.it illustra la dinamica del conflitto russo georgiano scoppiato nell’agosto del 2008 (per la Georgia, è stata la Russia a muovere guerra). Proprio in seguito di quella crisi, con una disposizione dell’allora presidente Dmitry Medvedev, la Russia ha riconosciuto l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, “tenendo conto della volontà degli osseti e degli abcasi”. Infatti sia l’Ossezia del Sud col referendum del 1991, sia l’Abcasia con l’iniziativa del parlamento del 1995 avevano già bussato alla porta di Mosca.
“Con il caso della Crimea potrebbe continuare un’ulteriore disgregazione dello spazio post-sovietico”, nota Suzdaltsev, che comunque più che una Crimea indipendente vede, in futuro, una specie di confederazione tra l’Ucraina e la Repubblica autonoma. Il nuovo governo della Crimea ha detto che spera di poter contare su un sostegno economico russo, seguendo l’esempio di alcuni Stati non riconosciuti della galassia russa che costituiscono una voce significativa del bilancio federale. Ciò è vero soprattutto per l’Ossezia del Sud, che nel 2009 contava una popolazione di 50mila persone (secondo i dati dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa). Infatti, soltanto con “i decreti di maggio”della terza presidenza Putin, sono stati stanziati 669 milioni di rubli(circa 14 milioni di euro) alla repubblica del Caucaso. Risolta la crisi in Crimea, sullo spazio dell’ex blocco sovietico se ne potrebbe presentare subito un’altra.
La Moldavia, a differenza dell’Ucraina, non ha rinunciato alla firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Anzi, al vertice di Vilnius a novembre scorso ha fatto un’ulteriore passo versoBruxelles. Mosca non ha visto di buon occhio questo gesto, rivolgendo la sua attenzione sullo Stato non riconosciuto della Transnistria, territorio con una vasta popolazione russa che si è staccato dalla Moldavia dopo il crollo dell’impero sovietico. Anche la repubblica autoproclamata è stata luogo di un conflitto sanguinoso tra Chisinau e i separatisti, placato nel 1992 dalle forze russe dislocate in Transnistria. “Conflitto che è stato congelato, ma che potrebbe riaccendersi ora che Chisianau si sta avvicinando all’Ue”, sostiene a ilfattoquotidiano.it Vladimir Solovyev, giornalista che segue la Moldavia per il giornale russo Kommersant. Minaccia che si legge nelle parole pronunciate di recente dall’inviato speciale di Putin per la Transnistria, Dmitry Rogozin. “Il ‘treno Moldavia’ che corre verso l’Europa potrebbe perdere qualche carrozza”. Proprio in questi giorni allaDuma è stata presentata una proposta di legge per facilitare l’ingresso nella Russia di nuovi soggetti territoriali. Questo provvedimento potrebbe essere funzionale non solo al caso della Crimea, ma anche della Transnistria.
Venezuela, proteste contro Maduro. “Paese in crisi, diritti umani a rischio”
International Crisis Group pubblica un'analisi sugli scontri a Caracas, che hanno già provocato dieci morti. E punta il dito contro il successore di Chavez, incapace di fermare le violenze. Stati Uniti accusati di finanziare quello che il governo definisce “golpe fascista”Le manifestazioni di sabato in Venezuela, con da una parte i sostenitori e dall’altra gli oppositori del presidente Nicolas Maduro, sono state l’immagine della spaccatura politica del Paese. Decine di migliaia di venezuelani hanno manifestato a Caracas e in altre città. Maduro deve fronteggiare la più grave protesta dall’elezione, contestata dall’opposizione, a capo di Stato lo scorso aprile. I morti nelle violenze e negli scontri sono già almeno dieci. La situazione “rischia di erodere ulteriormente la stabilità e la tutela dei diritti umani in una nazione già polarizzata alle prese con un grave crisi economica e con uno dei tassi di omicidio più alti al mondo”, si legge in un’analisi dell’International Crisis Group
Edimburgo contro Londra
: “Senza sterlina non ci accolleremo nostra quot
a debito”. La Scozia può
rendersi indipendente
a 3 secoli dall'Union
Act. Il 6 dicembre
del 1922 il Regno Un
ito perdeva l'Irlanda
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Oltre 100 feriti. Per la polizia gli autori fanno parte della minoranza turcofona e musulmana originaria del Xinjiang
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a Gioia Tauro: "Container difettosi"
Lo riferiscono fonti siriane. I cassoni che avrebbero dovuto trasportare le armi chimiche, merci pericolose e tossiche, non rispettavano i parametri di sicurezza
Putin si è preso
la Crimea
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G7 condanna
la Russia
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Crollo Borsa e rublo
Mosca accettamediazione Osce .
I militari di Putin controllano il territorio. Il capo della Marina ucraina giura fedeltà alle autorità della Crimea. Premier ucraino Iatseniuk: "Ci hanno dichiarato guerra". Kerry va a Kiev: "A rischio posto di Mosca nel G8". Merkel: "Putin accetta gruppo di contatto Osce". Medvedev: "Dialogo sì, ma non con chi ha usurpato il potere"
Dopo la paura, si fa strada la diplomazia. Putin accetta
una mediazione, parteciperà a un tavolo di discussione. Anche se la
Russia, per bocca di Medvedev, non riconosce il nuovo regime ucraino, e
ritiene Yanukovich "un presidente democraticamente eletto e rimosso con la
forza". Di certo, l'esercito russo ha preso il controllo della Crimea. E
ha dalla sua parte il comandante della Marina ucraina, che passa con Putin
e rischia il processo per alto tradimento. Gli Stati Uniti si schierano
con forza: Kerry sarà martedì a Kiev, incontrando quel governo provvisorio
che Mosca non riconosce. Washington fa sapere di aver annullato ogni
missione e colloquio di collaborazione economica con la Russia.Obama,
che ha condannato senza mezzi termini l'intervento russo in Crimea e si
è confrontato con Putin in una telefonata-fiume di 90 minuti, sta
studiando la situazione e sentirà al telefono i leader dei Paesi alleati.
In Ucraina è in corso un'occupazione di fatto da parte della Russia che,
secondo il segretario di Stato americano, John Kerry, mette a rischio il
posto di Mosca all'interno del G8 e le sue relazioni con Washington. Il
fronte occidentale della fermezza, guidato dagli Usa, accusa un
significativo smarcamento: la Germania non condivide l'idea di espellere
la Russia dal G8. Come spiega il ministro degli Esteri Frank-Walter
Steinmeier: "C'è chi vorrebbe mandare un segnale forte a Mosca, c'è invece
chi, e io sono tra questi, considera il G8 l'unico formato in cui
l'Occidente può parlare direttamente con la Russia, dovremmo
sacrificarlo?". Il ministro Steinmeier anticipa la proposta tedesca, che
di lì a poco la cancelliera Angela Merkel avrebbe fatto a Putin: chiedere
all'Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Copperazione in Europa) di
promuovere un "gruppo di contatto". Anche il governo italiano "si associa
alle pressanti richieste della comunità internazionale affinché sia
rispettata la sovranità e l'integrità territoriale dell'Ucraina" (leggi
articolo di Vincenzo Nigro).
Colloquio Merkel-Putin.
Più tardi, il Cremlino riferisce che ad Angela MerkelVladimir
Putin ha
ribadito le ragioni dell'intervento russo in Crimea già espresse a Obama:
si è reso necessario per la minaccia portata alla popolazione a
maggioranza russofona da parte delle frange ultranazionaliste salite al
potere a Kiev. Misure, a detta del presidente russo, "appropriate" vista
la situazione in Ucraina. Il Cremlino conclude sottolineando la posizione
comune di Putin e Merkel sul proseguimento di consultazioni bilaterali e
multilaterali alla ricerca di una "normalizzazione" in Ucraina.
Da Berlino,
la versione dei fatti è decisamente diversa. Durante il colloquio,
riferisce il portavoce del governo tedesco, Angela Merkel ha accusato
senza mezzi termini il presidente Putin di aver violato il diritto
internazionale con "l'inaccettabile intervento russo" in Crimea. La
cancelliera ha contestato a Putin la violazione del memorandum di Budapest
del 1994, con cui la Russia si era impegnata a rispettare l'indipendenza e
la sovranità di Kiev secondo le frontiere allora esistenti, e anche la
violazione del trattato sulla presenza della flotta russa del Mar Nero del
1997. E Putin ha detto sì alla proposta di un "gruppo di contatto" che
accerti i fatti e avvii il dialogo sotto l'egida dell'Osce (Organizzazione
per la Sicurezza e la Cooperazione Europea). A
seguire, il premier russo Medvedev,
citato da Ria, ha dichiarato che la Russia è pronta ad aprire relazioni
con l'Ucraina, "ma non con quanti hanno preso il potere con il sangue.
Anche se la sua autorità è praticamente inesistente, Yanukovich è l'unico
capo di Stato legittimato dalla Costituzione ucraina". "La Russia - ha
aggiunto - ha bisogno di una Ucraina forte e stabile, una partner
affidabile ed economicamente prospera. Invece i nuovi leader hanno
usurpato il potere, prevedo che il loro governo sarà molto instabile e si
concluderà con un'altra rivoluzione e altro sangue".
Nato a Russia: ritiro truppe e dialogo.
Al termine delle riunioni del Consiglio Atlantico straordinario e del
Comitato Nato-Ucraina, il segretario generale della Nato, Anders
Fogh Rasmussen,
ha spiegato che "molti Stati membri hanno chiesto" un Consiglio
Nato-Russia, che può essere convocato anche a richiesta di uno solo dei 28
Paesi dell'Alleanza. Rasmussen ha precisato che "nessuno al momento" ha
invocato l'articolo 4 del trattato, che implica l'attivazione
dell'Alleanza militare. La Nato auspica una pacifica soluzione, da
ricercare sotto l'egida del Consiglio di Sicurezza dell'Onu o dell'Osce
anche con il dispiegamento di osservatori internazionali. Rasmussen ha
espresso "grande preoccupazione per l'autorizzazione all'uso della forza
in Ucraina da parte del parlamento russo" e che l'Alleanza Atlantica
"resta al fianco" di Kiev. Rasmussen ha ribadito che l'azione di Mosca è
contraria al diritto internazionale e ha chiesto alle truppe russe di
ritirarsi.
I soldati russi in Crimea.
Secondo il governo di Kiev, sono già 15 mila e muovono sul territorio
senza resistenze. Prendendo il controllo dei luoghi strategici. E
sequestrando le armi, come accaduto in una base radar e in un'accademia
della Marina militare ucraina. I
russi hanno esortato il personale delle due strutture a schierarsi con
quelli che hanno definito i "legittimi" leader della penisola. Dalla base
radar di Sudak sono stati portati via fucili, pistole e munizioni,
caricati su un'auto. Armi sono state prelevate anche dalla struttura per
l'addestramento della Marina a Sebastopoli, la città sul Mar Nero che
ospita una base della Flotta russa. Nella notte sono atterrati altri sette
aerei militari russi per il trasporto delle truppe e 11 elicotteri. Uomini
armati e in mimetica, presunti militari russi, hanno circondato la caserma
del reparto A-0669 della Marina militare ucraina vicino a Kerch (Crimea) e
controllano gli ingressi della struttura. Secondo il vice comandante
ucraino del reparto, Alexiei Nikoforov, i militari hanno detto di volere
"sorvegliare la struttura assieme agli ucraini". Attaccato
prima solo da civili con giubbotto anti proiettile e caschi poi anche da
militari russi il quartier generale della Guardia di frontiera ucraina a
Simferopoli. L'edificio è ora sotto controllo di "uomini armati non
identificati", rende noto l'agenzia ucraina Unian. Militari ucraini e
russi si fronteggiano, oltre che alla base di Perevalnoe, a 25 chilometri
da Simferopoli, anche in quella della marina ucraina di Feodosia, sempre
in Crimea. Intanto,
dopo che Interfax aveva
riferito di interi reparti dell'esercito ucraino in Crimea passati dalla
parte delle autorità locali filorusse, arriva l'annuncio di una
clamorosa defezione:
il comandante in capo della Marina ucraina ha giurato fedeltà alle
autorità filo-russe di Crimea. L'ammiraglio Denis Berezovski, in
conferenza stampa dallo stato maggiore della base navale russa a
Sebastopoli, ha giurato fedeltà "al popolo della Crimea" impegnandosi a
"difenderlo". Berezovski,
nominato solo venerdì scorso al vertice della Marina ucraina dal
presidente ad interim Olexandre Tourtchinov, ha inoltre giurato di
"obbedire agli ordini del comandante supremo della Repubblica autonoma di
Crimea". Parole che il primo ministro di Crimea, Sergey Axionov, ha
salutato come un "evento storico", perché l'ammiraglio Berezovski
accettava di porsi "agli ordini delle autorità legittime della penisola",
che Kiev considera invece nominate in violazione della sua costituzione.Kiev
risponde alla defezione di Berezovski annunciando di averlo rimosso
dall'incarico e di indagarlo per alto tradimento dopo essersi rifiutato di
combattere i russi e di essersi invece arreso alla base russa di
Sebastopoli. Il nuovo comandante in capo della Marina ucraina è Serhiy
Hayduk.
Edimburgo contro Londra: “Senza sterlina non ci accolleremo nostra quota debito”. La Scozia può rendersi indipendente a 3 secoli dall'Union Act. Il 6 dicembre del 1922 il Regno Unito perdeva l'Irlanda
Nervi sempre più tesi dopo che il cancelliere dello scacchiere George Osborne ha negato alla Scozia la possibilità di mantenere la moneta inglese in caso di indipendenza. La paura principale dei britannici del sud è che, appunto, si possa ripetere in scala isolana quello che sta succedendo a livello europeo, con tutte le turbolenze della moneta unica comunitaria
“Vogliamo continuare a tenere la vostra moneta e, se non ce la concedete, non ci facciamo carico della nostra quota di debito pubblico”, dicono ora gli scozzesi. “Assolutamente no, non vogliamo una unione monetaria senza una politica federale, volete che facciamo la fine dell’Eurozona?”, dicono gli inglesi.
Si giocherà soprattutto sul versante finanziario la lotta delle prossime settimane fra Londra edEdimburgo. La Scozia, come noto, voterà per l’indipendenza a settembre. Per ora pare prevalere il fronte dei “no”, ma il battaglione dell’autonomia dal resto del Regno Unito cresce di giorno in giorno. Il primo ministro scozzese Alex Salmond, del resto, ha stupito più di una volta in cabina elettorale. Così, ora, nervi sempre più tesi a Londra, dopo che il cancelliere dello scacchiere (ministro del Tesoro) George Osborne ha negato al governo scozzese la possibilità di mantenere la sterlina in caso di indipendenza. La paura principale dei britannici del sud è che, appunto, si possa ripetere in scala isolana quello che sta succedendo a livello europeo, con tutte le turbolenze della moneta unica comunitaria. Però gli scozzesi ribattono piccati e ipotizzano il rifiuto di accollarsi quei 146 miliardi di quota “nordica” del debito del Regno Unito.
Il calcolo, fatto dal National institute of economic and social research, porta anche a una considerazione: il rapporto fra debito pubblico “ereditato” e Pil in una Scozia indipendente sarebbe dell’80%. Troppo e troppo pericoloso per una stabilità finanziaria di un nuovo Stato. Così, ecco la mossa di Salmond, che annuncia la possibilità di sganciarsi anche dalla quota di debito. Di scritto, tuttavia, c’è ancora ben poco, si tratta soprattutto di annunci televisivi e ai comizi. Però la minaccia dimostra una guerra di tensione fra Londra e Edimburgo che, molto probabilmente, come scrive anche il Financial Times, sarà la vera prova di questa lotta per l’indipendenza.
Lo stesso giornale sottolinea l’ambiguità di Salmond. Se a fine anni Novanta voleva una Scozia nell’euro, ora ecco arrivare la richiesta di mantenere la sterlina. Richiesta negata e che, dicono gli analisti, potrebbe anche portare l’area più a nord del Regno Unito a pratiche non proprio “eleganti”, come inventare una valuta dal nulla, oppure, ancora peggio, continuare a usare la sterlina informalmente, imitando – scrive il Financial Times – Panama e il suo uso appunto “informale” del dollaro statunitense.
Una unione monetaria con il resto del Regno Unito vorrebbe dire, del resto, una unica banca centrale. Cosa che non va a genio a Londra e dintorni, dove si è sempre stati critici sull’esperienza europea e sui travagli dell’euro. Intanto, a Edimburgo e a Glasgow, si teme che la finanza – anche in Scozia esiste, ed è anche forte – possa emigrare più a sud, a Londra, per la paura dell’eventuale collasso di una Scozia messa in grado di correre sulle proprie gambe. Le campagne per il “sì” e per il “no” proseguono spedite, con il primo ministro britannico David Cameron che è quasi arrivato a implorare gli scozzesi, dicendo loro di riflettere bene prima di votare.
Ma c’è un limite ben conosciuto nei palazzi del potere londinesi: una eventuale ingerenza troppo forte da parte della capitale potrebbe portare molti più abitanti del nord a scegliere per una Scozia indipendente. E il regno, che è appunto “unito”, inizierebbe a sfaldarsi lentamente, con il Galles che potrebbe cominciare a rivendicare la propria autonomia e con la ritrovata forza di molti altrimovimenti indipendentisti. Ne esiste uno persino in Cornovaglia, placida terra di villaggi di pescatori e di giardini fioriti. Inghilterra che più Inghilterra non si può, ma non per questo priva di proprie rivendicazioni.
LE RIVENDICAZIONI DEI PAESE CATALANI NEI SOMMOVIMENTI INDIPENDENTISTICI EUROPEI
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"Responsabile di omicidi di massa"
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E' Oleksandr Turchynov, braccio destro della pasionaria, eletto dal Parlamento con un voto di dubbia legittimità. Nelle strade verso l'aeroporto di Kiev, i manifestanti controllano le auto muniti di mazze e foto degli ex ministri, affinché non scappino dal Paese. Timoshenko: "Non mi candido a primo ministro". Il ministro dell'interno ha annunciato il mandato contro l'ex con l'accusa di omicidio di massa
Piazza Maidan (che significa “indipendenza” in ucraino, ndr), cuore della protesta a Kiev, è tranquilla ma ancora presidiata dagli oppositori, raggiunti venerdì sera da Yulia Timoshenko.Viktor Yanukovich, che ha tentato la fuga in Russia, è sparito. I manifestanti, però, non intendono lasciar scappare i ministri del governo decaduto e, lungo le arterie che portano all’aeroporto di Kiev, hanno creato improvvisati checkpoint. Lì, armati di mazze e bastoni, controllano le auto per impedire che i ‘ricercati’ lascino il Paese e con loro hanno degli elenchi con le foto dei responsabili dell’ex esecutivo. Lunedì mattina è stato emesso un mandato di arresto per l’ex presidente ucraino Viktor Yanukovych con l’accusa di omicidio di massa. Lo ha annunciato il ministro dell’Interno Arsen Avakov su Facebook. L’ex presidente sarebbe stato visto, secondo alcune indiscrezioni non confermate, a Sebastopoli, il porto della Crimea base della Flotta del Mar Nero della Marina russa.
Yanukovich rimane isolato anche dai compagni del partito delle Regioni, sua formazione politica, che lo scarica indicando lui e i suoi più stretti collaboratori come “responsabili” delle violenze diKiev in cui, tra agenti e insorti, sono morte almeno 82 persone. Il suo successore è già stato eletto dal Parlamento, anche se con un voto di dubbia legittimità. E’ Oleksandr Turchynov, braccio destro della pasionaria, che in 24 ore è diventato capo del Parlamento, premier e presidente. Entro martedì sarà completata la formazione di un nuovo governo d’unità nazionale. La decisione di far diventare Turcinov presidente ad interim è stata comunque supportata da 285 deputati su 450, ma molti parlamentari della maggioranza non sono presenti in aula. Gli attivisti diEuromaidan scrivono sul loro profilo Twitter che Timoshenko è tra i possibili candidati al ruolo di primo ministro insieme a Yatsenuk e Poroshenko. Lei, però, in un comunicato precisa: ”Vi chiedo di non considerare la mia candidatura”.
Arsen Avakov, nominato dal Parlamento come nuovo ministro degli Interni ad interim, ha ordinato di liberare 64 manifestanti arrestati durante i disordini a Kiev di questa settimana. Il neo ministro inoltre ha annunciato un’indagine sulle violenze perpetrate dalla polizia contro i manifestanti e per ora sono una trentina i poliziotti accusati. Dall’inizio delle proteste, gli scontri tra oppositori epolizia, secondo il ministero della Salute, hanno provocato 82 morti e 645 feriti. Le persone ricoverate in ospedale sono 423. L’assemblea legislativa ha inoltre abolito la legge voluta due anni fa dal deposto presidente che concedeva questo status anche alla lingua russa. Fra gli altri provvedimenti approvati vi sono stati la destituzione del ministro degli Esteri Leonid Kozhara e della pubblica Istruzione Dmytro Tabachny.
Europa e Stati Uniti - Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha chiamato Vladimir Putin e i due leader hanno convenuto sulla necessità che l’Ucraina “abbia rapidamente un governo con capacità operative e di preservare l’integrità territoriale del Paese”, ha riferito il portavoce della Cancelliera Steffen Seibert. Entrambi hanno sottolineato l’interesse comune alla stabilità politica ed economica dell’Ucraina e concordato di mantenersi in stretto contatto. Il capo della diplomazia Ue Catherine Ashton conferma che lunedì sarà a Kiev mentre il coordinatore dell’Onu per la pace in Medio Oriente Robert Serry è atteso in serata nella capitale. Dagli Stati Uniti, il consigliere alla sicurezza Usa Susan Rice ha spiegato che l’intervento militare di Mosca in Ucraina “sarebbe un grave errore” per il presidente Putin.
I dimostranti nella capitale – In piazza Indipendenza sono state allestite nuove tende. “Dobbiamo trovare e punire coloro che hanno il sangue sulle loro mani”, ha detto il manifestante Artyom Zhilyansky, ingegnere di 45 anni, riferendosi alle vittime degli scontri con la polizia la scorsa settimana. Come altri dimostranti anche Zhilyansky chiede che i capi della polizia rispondano delle loro azioni e che anche Yanukovych venga processato. Ieri la ex premier ucraina Yulia Tymoshenko è stata scarcerata dopo due anni di detenzione e, dopo avere lasciato la città orientale di Charkiv, si è subito recata a piazza Indipendenza, dove ha ricevuto un’accoglienza trionfale dai circa 50mila manifestanti che erano radunati.
Nazionalizzata la faraonica villa di Yanukovich – Nella residenza dell’ex presidente, a 20 chilometri da Kiev, sabato hanno fatto irruzione i manifestanti che hanno trovato campi da golf, zoo, galeoni e fattorie spalmati su 140 ettari (guarda la gallery). L’ingresso della folla nella magione è stato uno dei simboli della fine di un’era. La villa di Mezhighiria, lungo le rive delDnipro, è da tempo un simbolo della corruzione del governo appena caduto. Stando ai detrattori, l’ormai ex presidente avrebbe privatizzato una casa all’interno del parco e poi, attraverso una serie di atti governativi, avrebbe affittato l’intera area a due aziende, che hanno demolito gli edifici sovietici per costruirne di nuovi. Dietro queste due aziende ci sarebbe stato però lo stesso Ianukovich. Di lui, però, nessuna traccia: il suo portavoce ha detto di non sapere dove si trovi. Sabato l’aereo che lo trasportava non ha avuto il permesso di decollare dalla città di Donetsk, nell’est dell’Ucraina. I colleghi di partito però, lo scaricano: “Condanniamo la vile fuga di Yanucovich, condanniamo il tradimento, condanniamo gli ordini criminali“, si legge in un messaggio ai “cari compatrioti” apparso oggi sul sito del Partito delle Regioni, nel quale si parla di “Ucraina delusa e derubata” e del dolore di chi ha perso le persone care “dalle due parti” dello scontro. “La responsabilità di tutto questo – prosegue il messaggio – ricade su Yanucovich e la sua cerchia”. Il partito si dice pronto a lavorare per una Ucraina “unita, forte e indipendente”, sottolineando che “la differenza di opinioni e di ideologie non può essere un ostacolo per lavorare assieme a beneficio del Paese”.
Aiuti finanziari urgenti – Il commissario europeo per gli affari economici e monetari, Olli Rehn, ai margini del G20 finanziario di Sidney ha spiegato che l’Unione europea è pronta ad offrire un pacchetto di aiuti finanziari all’Ucraina per svariati miliardi di dollari “una volta raggiunta una soluzione politica, sulla base di principi democratici, con l’impegno a avviare le riforme e un governo legittimo”. Per evitare il default imminente, il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov ha detto che Kiev dovrebbe chiedere un prestito al Fondo monetario internazionale, ma dovrebbe soddisfare le richieste di difficili riforme strutturali.
La Russia a dicembre ha offerto all’Ucraina un salvataggio da 15 miliardi di dollari, ma finora ha fornito solo 3 miliardi, congelando ulteriori pagamenti in attesa del risultato della crisi politica in corso. “Pensiamo che una simile situazione incontrerebbe gli interessi dell’Ucraina, metterebbe il Paese sul cammino verso riforme strutturali maggiori”, ha detto Siluanov, secondo le agenzie di stampa russe. “Auguriamo loro successo per questa impresa, e per una rapida stabilizzazione della situazione politica e sociale”.
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I dipinti erano nascosti in un appartamento di Monaco di Baviera, dietro scaffali pieni di cibo avariato. A tenerli nascosti, il figlio di un collezionista, che li vendeva per vivere. Secondo gli esperti, i capolavori valgono più di un miliardo di euro
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Brasile, duri scontri a San Paolo
Protesta contro i Mondiali di calcio
RIO
DE JANEIRO -
Tornano le proteste e le manifestazioni
anti-Mondiali in Brasile, già viste nel giugno
scorso durante la Confederations Cup. Sono in corso
scontri tra polizia e manifestanti, in particolare
black-bloc, nel centro di San Paolo, dove si stava
tenendo una manifestazione di protesta contro lo
svolgimento del torneo iridato di calcio nel paese
sudamericano.
Filiali di banche e negozi sono stati presi di
assalto dai vandali, che hanno anche incendiato
alcune auto e cassonetti della spazzatura. E' stato
anche attaccato il McDonald's che si trova in rua
Barao de Itapetiniga. Saccheggiati dei negozi e una
concessionaria della Fiat che si trova in rua
Augusta. Le forze dell'ordine hanno reagito con il
lancio di gas lacrimogeni.
Circa 40 persone sono nel frattempo state fermate
dagli agenti.
Tutto era cominciato con
una 'passeggiata', inizialmente pacifica, con
manifestanti che avevano letto il manifesto "Qui non
ci sarà il Mondiale" e che reggevano striscioni con
analoga scritta o che protestavano con le spese
"milionarie per gli stadi della Coppa". "Non venite
in Brasile", hanno urlato altre persone che
prendevano parte al corteo.
Manifestazioni di protesta, ma con minore
partecipazione popolare, ci sono state anche a Rio
de Janeiro, Curitiba e Natal.
Ucraina, la svolta di Yanukovich
"Governo ai leader opposizione"
La piazza: "No, protesta continua"
Si combatte a Kiev, assalto ai palazzi dir.tv
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d'acqua e barricate di fuoco
Egitto, ancora battaglia nelle piazze
scontri in tutto il Paese: 29 vittime
Hollande-Valerie, tutto finito foto
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Tweet L'ex
first lady: "Grata a dipendenti Eliseo"
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notizia sul sito JdD / Lo
scoop di Closer
Russia, attentati Volgograd: 87 fermi. Autobomba uccide magistrato
Gli agenti hanno sequestrato finora 152 armi da fuoco e 4,7 chili di sostanze stupefacenti. Nel Daghestan un nuovo attentato in cui ha perso la vita un assistente procuratore regionale
Dopo i due attentati in meno di 24 ore a Volgograd la polizia ha fermato 87 persone. I due attacchi terroristici hanno provocato, ieri e domenica, la morte di 34 persone e decine di feriti tra cui anche bambini. Gli agenti hanno sequestrato finora 152 armi da fuoco e 4,7 chili di sostanze stupefacenti.
Già dopo il primo attentato il presidente Vladimir Putin aveva ordinato un rafforzamento delle misure di sicurezza e assicurato che i Giochi Olimipici invernali di Sochi, al via tra poche settimane, sarebbero stati sicuri. La Russia “continuerà a lottare ardentemente e fermamente contro i terroristi fino al loro completo annientamento” ha il leader del Cremlino in un discorso di fine anno ripreso dall’agenzia Interfax.
Allo stato non c’è nessuna indicazione su eventuali connessioni tra i fermati e gli attentati. Secondo le forze dell’ordine, le persone fermate hanno opposto resistenza agli agenti o non avevanodocumenti d’identità o di registrazione validi. All’operazione, denominata “Vortice”, stanno partecipando 5.200 poliziotti. Secondo il portavoce della polizia Andrei Pilipchuk, gli agenti hanno già controllato 152 alberghi, 104 dormitori, 32 stazioni degli autobus, 23 stazioni ferroviarie, l’aeroporto e tre porti fluviali, nonché 592 soffitte e 673 scantinati. Secondo l’agenzia Itar-Tass, gli agenti stanno concentrando i controlli sui lavoratori provenienti dal Caucaso, persone che secondo le associazioni per la difesa dei diritti umani sono spesso vittime di violenze da parte della polizia russa.
Per l’attentato di domenica alla stazione ferroviaria di Volgograd, dove sono morte 18 persone, gli investigatori hanno dapprima pensato a una vedova nera, la 26enne daghestana Oksana Aslanova, poi però hanno detto che il kamikaze potrebbe anche essere stato un uomo: Pavel Pecenkin, che nel 2012 si è unito ai militanti del Daghestan dopo essersi convertito all’Islam.
Intanto l’ondata di terrore non si ferma. Rasul Gasanov, un assistente procuratore regionale è stato ucciso oggi da una bomba piazzata sotto la sua Toyota a Buinaksk, nella repubblica russa delDaghestan, nel Caucaso settentrionale.
Irlanda del Nord, fallisce la trattativa: nessun patto per processi e nuovi scontri
Il processo di pace sui fatti più recenti si trova ad un bivio. Le cinque principali formazioni politiche non sono riuscite a trovare un accordo. In 35 anni, oltre 3500 persone hanno perso la vita nei "Troubles", gli scontri che hanno caratterizzato il Paese, e oltre 3mila casi sono ancora irrisolti
Un fallimento, con il processo di pace ancora fermo a un bivio. Non è bastata una maratona di incontri nella notte fra lunedì 30 e martedì 31 dicembre, così un accordo fra le cinque principali formazioni politiche dell’Irlanda del Nord non è stato possibile. Il motivo principale del mancato patto è stato il piano del mediatore, il diplomatico americano Richard Haass, di avviare una nuova stagione giudiziaria per il riesame dei casi più controversi. In 35 anni, oltre 3.500 persone hanno perso la vita nel conflitto, più di 3mila casi sono ancora irrisolti. Decine di migliaia di persone inoltre sono rimaste ferite oppure traumatizzate psicologicamente, nei tribunali sono ancora in corso migliaia di processi. La diplomazia internazionale e quella dell’Irlanda del Nord cercavano, appunto, una soluzione. Ma la firma congiunta non è arrivata, con un drammatico stop alle negoziazioni all’alba di martedì, così ora si dovrà aspettare ancora qualche mese per riprendere il dialogo.
I nodi del contendere erano tanti: gli omicidi irrisolti dei Troubles, appunto, le bombe dell’Ira, le marce spesso provocatorie dei lealisti e l’esposizione di bandiere irlandesi da parte dei repubblicani, tutti fattori che negli ultimi anni e anche negli ultimi mesi hanno causato continue tensioni. Non passa giorno, nel Regno Unito, senza che risse, sassaiole, pistolettate o piccole bombe non compaiano sui quotidiani, vicende che magari non fanno notizia a livello internazionale ma che tengono sempre alta la tensione a Belfast e dintorni. Il tutto nonostante gli accordi del Good Friday, che consentirono una devoluzione dei poteri al parlamento di Belfast, ma che non sono riusciti a porre un freno alle incomprensioni fra le due comunità. Il diplomatico Haass aveva proposto anche l’istituzione di un gruppo di studio e di lavoro per la riconciliazione, ma anche questa proposta è stata bocciata e rifiutata. Il Democratic unionist party e il partito degli Ulster unionists, che hanno fortissimi legami con la chiesa protestante, in particolare, sono stati molto critici nei confronti del testo finale, ma ognuno dei cinque partiti ha comunque trovato molti elementi “inaccettabili” nel documento.
Gerry Adams, presidente del partito repubblicano Sinn Féin, poche ore prima delle negoziazioni aveva dichiarato: “Finora è stato fatto tanto buon lavoro e il mio partito farà il suo meglio per trovare un accordo con le altre formazioni. Ogni partito dell’Irlanda del Nord ha un dovere verso le future generazioni e dobbiamo evitare che fuggano in Scozia on in Inghilterra o in altri Paesi, come già sta avvenendo. Dobbiamo portare la pace e l’uguaglianza a tutte le nostre comunità”. Ma Adams ha anche poi rivelato di avere un piano “B” per l’imposizione di una roadmap, mostrando una fermezza spesso ritenuta insufficiente da parte di molti repubblicani nordirlandesi. Ora, nonostante la mancata firma, il testo finale verrà comunque inviato al governo di Belfast, in modo che possa discuterlo e trovare una quadra al problema. “Speriamo anche in un supporto da parte dell’opinione pubblica”, ha detto Haass. Lasciando intendere che, a volte, la cittadinanza è ben più avanti della politica.
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Russia, attentato a pochi giorni dalle Olimpiadi. Due esplosioni nel Daghestan
A Makhatchkala, un uomo ha sparato con un lanciagranate.Poco dopo è esplosa un’autobomba. Dieci feriti. Le esplosioni sono avvenute contemporaneamente al discorso di Putin alle tv straniere, per assicurare che la Russia farà "di tutto" per garantire la sicurezza dei Giochi
Un altro attentato colpisce la Russia a venti giorni dal via dei giochi di Sochi. A Makhachkala, capitale del Daghestan, il ristorante ”Impero d’oro” è stato bersaglio dai colpi di lanciagranate e dall’esplosione di un’autobomba. Per ora si contano solo una decina di feriti, ma il livello di allerta è di nuovo al massimo. L’attentato arriva nel giorno in cui il leader ceceno Ramzan Kadyrov ha annunciato nuovamente la scomparsa di Doku Umarov, il Bin Laden del Caucaso del nord che dal 2007 tiene sotto scacco il Cremlino e che ora minaccia sangue anche sui giochi di Sochi.
Le esplosioni sono avvenute contemporaneamente al discorso del presidente russo Vladimir Putin alle televisioni straniere, per assicurare che la Russia farà “di tutto” per garantire la sicurezza dei Giochi che inizieranno il 7 febbraio. Nel suo intervento, Putin ha fatto riferimento anche agliomosessuali, che possono sentirsi i benvenuti alle Olimpiadi, ma “devono lasciare in pace i minorenni”.
Finora l’hanno dato per morto almeno sei volte, ma Kadyrov stavolta ha affermato di avere nuove prove: l’intercettazione di una conversazione tra cosiddetti “emiri” del Daghestan e dellaKabardino-Balkaria che discutono l’elezione del successore del sedicente Emiro del CaucasoDoku Umarov in seguito alla sua morte. Nel colloquio ciascuno sostiene il proprio candidato, anche se stranamente l’emiro della Kabardino-Balkaria propone un capo daghestano mentre i daghestani insistono per un certo Vadalov, nato in Cecenia. “Eravamo sicuri al 99% che Umarovfosse stato ucciso in una operazione. Ora abbiamo la prova che è morto, anche se il suo corpo non è ancora stato trovato. Lo stiamo cercando”, ha scritto sul suo account Instagram Kadyrov, che già il 18 dicembre aveva annunciato l’eliminazione del capo della guerriglia caucasica. I servizi segreti russi, tuttavia, non confermano: “Non abbiamo un’informazione simile”, ha precisato una loro fonte.
La prima volta che Umarov è stato dato per morto risale addirittura al 2000, poi in altre occasioni, prima e dopo il 2007, quando ha raccolto il testimone di Shamil Basaev, il ‘leggendario’ padre del terrorismo ceceno ucciso l’anno prima in circostanze mai ben chiarite. Fu lui a firmare, tra l’altro, la presa degli ostaggi al teatro Dubrovka (2002) e quella della scuola di Beslan (2004). ConUmarov però la guerriglia cecena si è trasformata da una battaglia secessionista a una guerra di religione per creare un Emirato islamico nel cuore del Caucaso. Sempre a colpi di attentati: dal treno Mosca-San Pietroburgo nel 2009 (28 morti) alle ‘vedove nere’ che si sono lasciate esplodere nella metro di Mosca nel 2010 (38 morti), al kamikaze all’aeroporto Domodedovo di Mosca (37 morti).
Grandi stragi in mezzo ad una scia quasi quotidiana di attacchi minori nelle varie regioni caucasiche, in particolare in Daghestan, come quello di stasera al ristorante ‘Impero d’orò, dove un uomo ha sparato con un lanciagranate e un’autobomba è esplosa all’arrivo dei poliziotti. Nessuna rivendicazione al momento è arrivata però per i tre recenti attentati kamikaze a Volgograd: due su un bus (21 ottobre, 7 morti; 30 dicembre, 16 morti) e uno alla stazione ferroviaria (29 dicembre, 18 morti). Potrebbe essere forse un segno che Umarov è morto davvero e che la guerriglia è ancora viva, in attesa di un nuovo capo. Ma quella di Kadyrov potrebbe essere anche una trappola, un modo per costringere il Bin Laden russo a battere un colpo, consentendo alle forze di sicurezza, ora dispiegate alla massima potenza in vista di Sochi, di individuarlo. Per ora comunque resta il ricercato numero uno in Russia e su di lui pende anche una taglia di 5 milioni di dollari offerta anche dagli Usa.
Iraq, 370 morti in 10 giorni
"Morti sepolti in casa
per colpa dei cecchini"
Quasi 18.000 famiglie hanno dovuto lasciare le proprie case
La Casa Bianca è pronta a fornire nuovi armamenti al governo iracheno per stanare le cellule di al-Qaeda attive nel Paese, che questa settimana hanno conquistato importanti città come Falluja (RASA AL SUOLO DAGLI STATUNITENSI NEL 2004) e Ramadi
BAGDAD - Le recenti vittorie di al-Qaeda in Iraq preoccupano la Casa Bianca, che ha fatto sapere che nelle prossime settimane invierà al governo di Bagdad 58 droni (gli aerei guidati a distanza) per scovare i nascondigli dei miliziani di al-Qaeda che operano sul territorio. I 10 Scan Eagle e i 48 Raven promessi dovrebbero essere inviati disarmati entro la fine dell'anno, mentre per la primavera è prevista la fornitura di missili anticarro Hellfire da montare su elicotteri da guerra. Al momento, però, la Casa Bianca non sembra aver intenzione di mandare soldati di terra in aiuto del premier, Nouri al Maliki.
La situazione era andata fuori controllo meno di una settimana fa, quando al-Qaeda aveva conquistato Falluja issando le bandiere nere dell'organizzazione terroristica sulla città, che dista circa 50 chilometri dalla capitale Bagdad. Secondo uno sceicco locale, Ali al-Hammad, i combattenti islamici hanno lasciato la città dopo la controffensiva dell'esercito regolare avvenuta nei giorni scorsi, sebbene alcuni testimoni riferiscono che ci siano ancora miliziani attivi in zona. Maliki ha comunque esortato i cittadini delle città assediate dai miliziani a combattere per impedire che al-Qaeda prenda il controllo del Paese.
A seguito della conquista di Falluja, la scorsa domenica al-Qaeda ha provocato una strage di civili a Bagdad che ha fatto 19 morti. In questa situazione instabile per il Paese, Iyad Allawi, leader del principale blocco laico sciita di opposizione al governo, ha detto che se il premier Maliki non imprimerà una svolta "trascinerà il Paese al disastro". Allawi ha poi puntato il dito anche contro la comunità internazionale, "colpevole della situazione di instabilità politica".Nel frattempo anche l'Iran, il nemico storico dell' Iraq guidato dall'Ex dittatore, Saddam Ussein, tende una mano a Maliki: secondo un comandante dell'esercito iraniano, il generale Mohammad Hejazi, la repubblica islamica è pronta a combattere i terroristi di al-Qaeda nella provincia ovest di Anbar, a maggioranza sunnita, e ha fornire armamenti nel caso le venissero chiesti. "L'Iraq è nostro amico - ha detto il generale - e Theran è amica del governo sciita di Maliki.
Freddo record negli Usa: in Montana -53 gradi, migliaia di voli cancellati per i venti polari
Era glaciale in arrivo? Esperti Usa e Messico confermano ipotesi
Scienziati statunitensi e messicani confermano la teoria del russo Abdussamatov: una nuova era glaciale sta arrivando, inizierà nel 2014
Il clima terrestre si sta raffreddando: è ciò che sostiene, ormai da anni, lo scienziato russo Habibullo Abdussamatov.
Secondo tale ipotesi, dal 2014 assisteremo ad una graduale diminuzione delle temperature che porteranno il nostro pianeta a vivere una piccola “Era Glaciale”.
Dinamica del cambiamento.
Il clima del Nord Europa,
compreso quello del Regno Unito, diverrà presto gelido, con
inverni simili a quelli siberiani,
ma ripercussioni anche per le altre stagioni. L’Europa
meridionale subirà un cambiamento meno drammatico, ma
certamente rilevante. Le simulazioni indicano che il raffreddamento potrebbe
raggiungere il picco nel 2050,
per poi durare per tutto il resto del secolo.
La colpa? Tutta dell’attività solare, che indebolendosi, influenzerebbe significativamente la temperature terrestre.
Secondo Abdussamatov, il riscaldamento globale nel corso degli ultimi decenni del ventesimo secolo non è legato alla CO2, ma alla de-gassificazione di grandi quantità di biossido di carbonio rilasciato in atmosfera dagli oceani a causa della radiazione solare.
A supporto della propria teoria ci sarebbero una serie di fattori:
-I cinque periodi di freddo dell’ultimo millennio (nel 1030,
1315, 1500, 1680 e 1805) si sono verificati tutti durante
minimi dell’attività solare, i cosiddetti Minimi di Maunder.
-Il “global warming” s’è verificato nel secolo scorso anche su
Marte e sugli altri pianeti del sistema solare, senza il
concorso di gas serra.
-Negli ultimi 15-17 anni la temperatura media del pianeta, non
è più salita.
Gli ultimi dati di temperatura media a livello globale
evidenziano effettivamente una “frenata” del surriscaldamento
terrestre. Il grafico sottostante mostra le anomalie termiche
media mensili a partire dal 1958 misurate con l’ausilio dei
satelliti. Si evidenzia la salita della temperatura a partire
dalla metà degli anni ’70 fino ai primi anni 2000 e una
successiva stazionarietà o addirittura leggero calo. E’
inoltre plottata la curva che rappresenta le concentrazioni di
CO2 rilevate dall’Osservatorio di Mauna Loa (Hawaii); il
differente andamento proprio a partire dagli anni duemila
suggerisce che l’aumento di CO2 non porta necessariamente ad
un aumento della temperatura, o meglio, è solo uno dei fattori
che però in questo caso non risulta predominante. I dati di
anomalia sono calcolati in base al periodo 1998-2006, una
scelta dell’autore (Ole Humlum, Climate4you), dettata dalla
vicinanza del suddetto periodo ai giorni nostri.
La Casa Bianca è pronta a fornire nuovi armamenti al governo iracheno per stanare le cellule di al-Qaeda attive nel Paese, che questa settimana hanno conquistato importanti città come Falluja (RASA AL SUOLO DAGLI STATUNITENSI NEL 2004) e Ramadi
BAGDAD - Le recenti vittorie di al-Qaeda in Iraq preoccupano
la Casa Bianca, che ha fatto sapere che nelle prossime
settimane invierà al governo di Bagdad 58 droni (gli aerei
guidati a distanza) per scovare i nascondigli dei miliziani di
al-Qaeda che operano sul territorio. I 10 Scan
Eagle e
i 48 Raven promessi
dovrebbero essere inviati disarmati entro la fine dell'anno,
mentre per la primavera è prevista la fornitura di missili
anticarro Hellfire da
montare su elicotteri da guerra. Al momento, però, la Casa
Bianca non sembra aver intenzione di mandare soldati di terra
in aiuto del premier, Nouri al Maliki.
La situazione era andata fuori controllo meno di una settimana
fa, quando al-Qaeda aveva conquistato Falluja issando le
bandiere nere dell'organizzazione terroristica sulla città,
che dista circa 50 chilometri dalla capitale Bagdad. Secondo
uno sceicco locale, Ali al-Hammad, i combattenti islamici
hanno lasciato la città dopo la controffensiva dell'esercito
regolare avvenuta nei giorni scorsi, sebbene alcuni testimoni
riferiscono che ci siano ancora miliziani attivi in zona.
Maliki ha comunque esortato i cittadini delle città assediate
dai miliziani a combattere per impedire che al-Qaeda prenda il
controllo del Paese.
A seguito della conquista di Falluja, la
scorsa domenica al-Qaeda
ha provocato una strage di civili a Bagdad che ha fatto 19
morti. In questa situazione instabile per il Paese, Iyad
Allawi, leader del principale blocco laico sciita di
opposizione al governo, ha detto che se il premier Maliki non
imprimerà una svolta "trascinerà il Paese al disastro". Allawi
ha poi puntato il dito anche contro la comunità
internazionale, "colpevole della situazione di instabilità
politica".Nel frattempo anche l'Iran, il nemico storico dell'
Iraq guidato dall'Ex dittatore, Saddam Ussein, tende una
mano a Maliki: secondo un comandante dell'esercito iraniano,
il generale Mohammad Hejazi, la repubblica islamica è pronta a
combattere i terroristi di al-Qaeda nella provincia ovest di
Anbar, a maggioranza sunnita, e ha fornire armamenti nel caso
le venissero chiesti. "L'Iraq è nostro amico - ha detto il
generale - e Theran è amica del governo sciita di Maliki.
Datagate, Obama presenta riforma Nsa. Ma non modifica il sistema di spionaggio. Snowden e Wikiliks non hanno insegnato un cazzo....
Il presidente americano annuncia che il programma di intercettazioni, "nella sua forma attuale, è finito". Non accenna però al controllo delle e-mail, uno dei principali campi di violazione della privacy in questi anni
“Il programma di intercettazioni telefoniche della National security agency, nella sua forma attuale, è finito”. Lo ha annunciato Barack Obama in un discorso – a lungo atteso e pubblicizzato dalla Casa Bianca – dal podio del dipartimento di Giustizia americano. Obama ha parlato per poco meno di un’ora, passando da dettagli tecnici a complesse ricostruzioni storiche. Il suo obiettivo era quello di placare le polemiche internazionali e il disagio della sua opinione pubblica di fronte alle complesse e intrusive politiche di controllo della Nsa, l’agenzia governativa di intelligence coinvolta nello scandalo Datagate.
Alla fine il presidente ha proposto alcune riforme – maggiori controlli giudiziari sull’attività delleagenzie di intelligence, limiti allo spionaggio dei leader dei Paesi amici – senza però davvero mettere in discussione il sistema di controlli e violazioni della privacy instaurato dopo l’11 settembre.
La riforma più significativa presentata da Obama riguarda chi dovrà conservare i database con le informazioni sulle telefonate di milioni di cittadini, americani e non. Obama ha detto che non sarà più il governo Usa a mantenere il controllo dei dati, che invece potrebbero essere conservati dalle società di comunicazione. Ma Obama ha anche precisato che sarà necessario “fare un lavoro più approfondito” e ha chiesto all’attorney general Eric Holder di formulare una proposta più dettagliata entro il 28 marzo. Intanto, ha aggiunto, le autorità investigative Usa perseguiranno soltanto quegli individui che presentano “due gradi, e non più tre”, di separazione da un presuntocomplotto terroristico.
Questo significa che le indagini dovrebbero essere più limitate e in qualche modo garantiste. Un’altra modifica, presentata dal presidente Usa, riguarda la possibilità per la Nsa e le altre agenzie di intelligence di indagare e intercettare le conversazioni telefoniche. La richiesta dovrà passare d’ora in poi attraverso un tribunale, che sorveglierà sulle attività della Nsa. Obama, hanno fatto notare subito alcuni critici, ha però soltanto fatto riferimento alle “conversazioni telefoniche”, non accennando allo spionaggio delle e-mail, uno dei principali campi di violazione della privacy in questi anni. Come ha fatto notare Glenn Greenwald, il giornalista che con Edward Snowden ha dato il via al Datagate, Obama non ha messo minimamente in discussione l’architettura teorica che ha condotto alle violazioni.
“Saranno le società di comunicazione private a conservare i database? – ha twittato Greenwald -. Ma è proprio necessario immagazzinare queste informazioni?” Un’altra riforma annunciata da Obama ha riguardato le intercettazioni dei leader stranieri. “Non spieremo più i leader dei Paesi amici”, ha spiegato, aggiungendo però subito dopo un passaggio più ambiguo. “Questo non significa che verremo meno alla nostra capacità di raccogliere informazioni ovunque”. Obama è arrivato al discorso sulla riforma della Nsa dopo settimane di incontri e colloqui alla Casa Bianca con deputati, senatori, membri della comunità di intelligence, esperti di sistemi di sorveglianza, militanti dei diritti civili. Da mesi la Nsa, ma anche l’Fbi e la Cia, insistevano perché il presidente non facesse troppe concessioni.
Alla fine il discorso di Obama, e le sue proposte, appaiono un compromesso tra chi chiede limiti a un’attività di spionaggio che appare troppo invasiva e chi invece ritiene che le necessità della sicurezza siano prioritarie. A molti osservatori non è comunque sfuggito che nella proposta di riforma di Obama mancano molte delle 46 recommendation elaborate dalla Commissione istituita dal presidente per riformare la Nsa. Manca per esempio il punto relativo alle national security letters, le richieste del governo americano alle società di comunicazione per l’apertura dei propri archivi. Lesocietà hi-tech avrebbero voluto che le richieste fossero approvate da una corte. L’Fbi si è opposta, citando presunti rallentamenti nelle indagini e alla fine il presidente ha ceduto.
E’ assente dalla proposta di riforma di Obama anche un altro punto fortemente richiesto dalle società della Silicon Valley, che negli ultimi mesi hanno lamentato crolli di vendite per i loro software in Europa per i timori sulla possibilità del governo americano di condurre cyber-attacchi e violare i sistemi di criptazione dei dati. Obama non ha fatto alcun riferimento alla questione, deludendo i top executives delle società che, di fronte a minacce di boicottaggio che vanno dallaGermania alla Cina, stanno cercando di sviluppare prodotti “resistenti alla Nsa”.
Per il resto il discorso è stato tutto rivolto a riaffermare che gli Stati Uniti non violano i trattati internazionali sulla privacy, che nessun membro della comunità dell’intelligence americana intende entrare nella vita e nel privato dei semplici cittadini e che i sistemi di controllo hanno l’unico scopo di tutelare la sicurezza. Obama ha riconosciuto che “il dibattito attuale è importante”, ma non ha ricordato che l’attuale dibattito è stato innescato da un cittadino americano, Edward Snowden, che in questo momento è ricercato dalle autorità federali del suo Paese per tradimento.
Debito pubblico, chi lo crea stampando moneta e chi lo paga
con le tasse
Fed, Bce e il controllo democratico delle banche centrali. Si
può disturbare il conducente?
Abu Omar, chiesta condanna a 6 anni e 8 mesi per l'ex imam. La sentenza il 6 dicembre
L'accusa è terrorismo internazionale. La richiesta di pena arriva dieci anni dopo il suo rapimento a opera della Cia avvenuto il 17 febbraio del 2003. Il sequestro portò all'inchiesta su alcuni agenti del Sismi guidato da Nicolò Pollari
MILANO - Sei
anni e 8 mesi con l'accusa di terrorismo
internazionale. E' quanto ha chiesto il procuratore
aggiunto Maurizio Romanelli per Abu Omar, l'ex imam
della moschea di viale Jenner a Milano, a oltre 10
anni di distanza dal suo rapimento a opera della Cia,
avvenuto il 17 febbraio del 2003. Sequestro che
portò all'inchiesta su alcuni agenti del Sismi
guidato da Nicolò Pollari. Abu Omar è processato in
contumacia perché si trova in Egitto.
La richiesta di condanna è stata formulata dal pm al
giudice per l'udienza preliminare Stefania Donadeo,
davanti al quale è in corso il procedimento con rito
abbreviato. La sentenza è prevista per il 6
dicembre.
L'INCHIESTA L'imam rapito dalla Cia di
GIUSEPPE D'AVANZO
Abu Omar, prima di essere sequestrato nel 2003 a
Milano dalla Cia in un'operazione di 'extraordinary
rendition' e portato in Egitto dove fu anche
torturato, era sotto indagine con l'accusa di
associazione per delinquere con finalità di
terrorismo internazionale nell'ambito dell'inchiesta
coordinata dai pm del pool 'antiterrorismo' Armando
Spataro e Ferdinando Pomarici. Tanto che gli stessi
pm, che poi iniziarono ad indagare sul sequestro
messo in atto dalla Cia, nel 2005 ottennero un
mandato di cattura per l'ex imam. Ma non ebbero mai
risposte dall'Egitto, anche quando chiesero di
poterlo interrogare.
IL RACCONTO di Abu Omar: "La mia vita spezzata"
Oggi è iniziato il processo con rito abbreviato in
contumacia, con l'ex imam che è difeso dall'avvocato
Carmelo Scambia. Abu Omar deve rispondere di aver
fatto parte tra il 2000 e il 2003, assieme ad altri
13 stranieri (molti dei quali già condannati in via
definitiva) di una associazione che aveva lo "scopo
di compiere atti di violenza con finalità di
terrorismo in Italia e all'estero all'interno di
un'organizzazione sovranazionale localmente
denominata con varie sigle (tra cui 'Ansar Al Islam')".
Associazione che avrebbe operato "sulla base di un
complessivo programma criminoso condiviso con
similari organizzazioni attive in Europa, Nord
Africa, Asia e Medio Oriente".
Secondo l'accusa, tra gli appartenenti a tale
organizzazione figurano el-Ayashi Radi Abd el-Samie
Abou el-Yazid (alias Merai), Muhamad Majid (alias
Mullah Fouad), Abderrazak Mahjoub, Bouyahia Maher
Ben Abdelaziz, Housni Jamal (alias Jamal al-Maghrebi),
Mohamed Amin Mostafa, Mohammed Tahir Hammid, Ciise
Maxamed Cabdullaah, Daki Mohammed, Toumi Ali Ben
Sassi, Trabelsi Mourad, Drissi Noureddine e Hamraoui
Kamel Ben Mouldi.
Il procedimento si tiene a diversi anni di distanza
dai fatti contestati proprio a causa del sequestro
dell'imputato, che ha intralciato l'indagine svolta
dalla Digos sotto il coordinamento del procuratore
aggiunto Armando Spataro. Risalgono al 2005 i due
provvedimenti di cattura emessi poi nei suoi
confronti e negli anni successivi il magistrato ha
più volte chiesto invano all'Egitto la possibilità
di interrogarlo prima della chiusura dell'indagine,
che poi è stata ereditata da Romanelli.
Per il sequestro di Abu Omar, intanto, nel settembre 2012 sono stati condannati in via definitiva 23 agenti della Cia, mentre per il 16 dicembre è fissata in Cassazione l'udienza per l'ex vertice del Sismi Nicolò Pollari e il funzionario Marco Mancini, condannati rispettivamente a dieci e a nove anni di reclusione.
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L’Italia è in bancarotta
Egitto, il referendum sulla Costituzione è un plebiscito. Ma l’affluenza è solo al 38%
I dati sono ancora ufficiosi. Raggiungono il 96,2% i "sì" alla Carta voluta dal governo militare del generale El Sisi. L'esercito parla di "vittoria per la democrazia", ma il risultato è macchiato dall'alto livello di astensionismo. La consultazione arriva a seguito di una vasta repressione delle opposizioni, soprattutto nei confronti dei Fratelli Musulmani
Un plebiscito, il 96,2% di “sì” per la Costituzione, consacra il governo militare che lo scorso luglio ha destituito il presidente Mohammed Morsi. I dati sono ancora ufficiosi – la commissione elettorale li annuncerà oggi – ma sono già sufficienti all’esercito per parlare di “vittoria della democrazia”. L’unico punto debole, e che tradisce le aspettative, è l’affluenza del 38,5%, solo cinque punti percentuali in più del referendum sulla Costituzione islamista del 2012.
Nei dati divisi per governatorato il “no” non supera mai la soglia del 7 per cento, un chiaro segnale che la parte di opinione pubblica egiziana in disaccordo con la carta ha preferito l’astensionismo e ha accolto l’invito dei Fratelli Musulmani e di diversi gruppi rivoluzionari. Intanto, cresce sempre di più l’attesa sulle prossime mosse del capo delle forze armate El Sisi e sulla sua probabile candidatura. I media egiziani dipingono il generale come un predestinato alla guida del paese mentre per le strade del paese non c’è prodotto, dalle t-shirt alle cupcakes, che non abbia la sua immagine.
Questa adorazione popolare si respirava anche alle urne dove il “sì” alla costituzione era spesso associato alla candidatura del generale. “Io credo che molta gente potrebbe restare delusa se non partecipasse alle elezioni”, spiegava Magda mercoledì scorso mentre era in fila per votare nel seggio di Zamalek. Al momento sembra che le elezioni presidenziali potrebbero svolgersi prima delle parlamentari. In merito al disaccordo nella costituente, spetta alla presidenza emettere un provvedimento ad hoc.
La vittoria di El Sisi, nel caso di una sua candidatura, sarebbe resa più semplice anche da un’ opposizione resa sempre più debole dalla repressione dei militari. La grande macchina elettorale dei Fratelli Musulmani, è stata completamente decapitata. Quasi tutti i suoi vertici sono in carcerementre il movimento circa un mese fa è stato dichiarato un’organizzazione terroristica dal nuovo governo egiziano. Inoltre, la sua costola politica, il partito Giustizia e Libertà, è ormai fuori legge perché la nuova costituzione, tramite l’articolo 74, bandisce gli schieramenti fondati su base religiosa.
Per quanto riguarda i partiti laici, la maggioranza ha deciso di appoggiare il governo sin dal giorno della deposizione di Morsi causando un’implosione del Fronte di Salvezza Nazionale che ha annunciato il suo scioglimento. Restano i rivoluzionari, anche loro con diversi leader in carcere dal noto blogger Alaa Abdel Fattah ad Ahmed Maher, fondatore del movimento 6 aprile.
Sono loro a pagare il prezzo più alto di questa polarizzazione politica mentre, annaspando nella repressione, continuano a fronteggiare diversi problemi di organizzazione e la difficoltà di trovare unità su un eventuale leader in vista delle elezioni. L’ultima speranza, con alti e bassi, era stataMohammed El Baradei. La storia è nota: il suo Fronte di Salvezza Nazionale ha appoggiato l’autoritarismo dell’esercito voltandogli le spalle. Le sue dimissioni dal governo transitorio, e il conseguente abbandono della vita politica, restano uno dei fallimenti politici più grandi per chi pensava di trovare in lui un degno rappresentate delle richieste di piazza Tahrir.
Nonostante ciò molti analisti avvertono che la candidatura del capo delle forze armate potrebbe essere un errore. La crisi economica egiziana resta una delle più dure della storia e il governo per ora fa cassa solo grazie ai prestiti stranieri. Lo scenario, dunque, è sempre lo stesso che porto gli egiziani a ribellarsi contro Mubarak nel 2011 e poi, dopo appena un anno di governo, contro Morsi lo scorso 30 luglio. “Ora tutti amano El Sisi ma la gente continua a morire di fame”, afferma l’attivistaOmar Robert Hamilton. “La situazione è drammatica e la rabbia sociale, repressione o meno, potrebbe tornare nelle strade anche con El Sisi”.
LA NECESSITA' IMPROROGABILE DI RIDISCUTERE I PATTI
IL MIRACOLO POLONIA
JpMorgan patteggia con governo Usa: 13 miliardi dollari per i mutui subprime
Senza precedenti l'importo dell'accordo per risolvere le dispute sui titoli simbolo della crisi. Sei miliardi andranno agli investitori, 4 ai proprietari di case, tre all'erario come sanzione. Il procuratore Schneidermann: "Necessaria assunzione di responsabilità per negligenze che hanno portato al collasso dell'economia"
JpMorgan patteggia con gli Stati Uniti il pagamento di 13 miliardi di dollari per risolvere le dispute sui mutui subprime. Si tratta di un accordo storico, il maggiore mai raggiunto con una singola banca. Lo annuncia il procuratore generale di New York, Eric Schneiderman.
Il patteggiamento invia un segnale chiaro: le indagini del Dipartimento di Giustizia sulle frodi finanziarie sono lontane dall’essere terminate. Lo afferma il ministro della Giustizia americano, Eric Holder. L’accordo riguarda la vendita di Rmbs (residential mortgage-backed security), i titoli legati ai mutui, di JPMorgan, Bear Stearns e Washington Mutual prima del primo gennaio 2009.
In giornata erano filtrate indiscrezioni su quello che è l’accordo più imporante in termini economici mai raggiunto tra un governo e una società. Il patteggiamento prevede che la banca paghi più di 6 miliardi per compensare gli investitori, 4 miliardi per aiutare i proprietari e il resto come multa. L’accordo supera di molto quello record da 4 miliardi di dollari raggiunto a novembre da Bpcon le autorità americane a proposito delle accuse penali per il disastro della marea nera.
Le ultime ore sono state decisive per l’intesa, rimuovendo gli ultimi ostacoli, ovvero l’intesa su un pacchetto di 4 miliardi di dollari di aiuti ai proprietari di casa in difficoltà e l’assunzione di responsabilità per gli errori di Washington Mutual prima dell’acquisizione da parte di JPMorgan, cheammette di aver venduto deliberatamente prodotti inadatti ai clienti. Inclusi nel conto i 4 miliardi di dollari che JPMorgan si è già impegnata a pagare in precedenza alla Federal Housing Finance Agency (Fhfa).
Soddisfatto dell’accordo il procuratore generale di New York Schneiderman: “Fin dal mio primo giorno in carica, ho insistito sul fatto che ci debba essere l’assunzione di responsabilità a fronte di negligenze che si sono tradotte nel crollo del mercato immobiliare e nel collasso dell’economia americana” afferma. In base all’intesa, New York riceverà 1,3 miliardi di dollari, di cui 400 milioni di dollari di aiuti ai proprietari di casa e 613 milioni di dollari in contanti.
L’intesa rappresenta un significativo progresso per JPMorgan nel lasciarsi dietro le spalle parte delle battaglie legali. La banca guidata da Jamie Dimon ha pagato nelle ultime settimane oltre un 1 miliardo di dollari per chiudere le indagini sulla ‘Balena di Londra’, il trader Bruno Iksil che ha assunto posizioni talmente importanti sul mercato dei derivati da influenzarne l’andamento. Le scommesse di Iksil sono costate a JPMorgan perdite per più di 6 miliardi di dollari e hanno messo in dubbio la governance della banca. Dimon, il “maghetto” di Wall Street era in corsa, prima del fiasco, per il posto di segretario al Tesoro.
Globalizzazione, il cardinale Maradiaga: “E’ come il comunismo e il nazismo”
La denuncia del coordinatore degli "otto saggi" scelti da Papa Francesco per elaborare una riforma della Curia romana nel suo libro "Senza etica niente sviluppo"
“La globalizzazione come comunismo e nazismo”. Parola del cardinale Óscar Rodríguez Maradiaga, coordinatore degli “otto saggi” scelti da Papa Francesco per elaborare una riforma della Curia romana e consigliarlo nel governo della Chiesa. “Come il comunismo e il nazionalsocialismo – scrive il porporato salesiano nel suo ultimo libro “Senza etica niente sviluppo”, pubblicato dalla Emi, che ilfattoquotidiano.it ha letto in anteprima – ogni sistema di organizzazione del mondo che sacrifichi la realtà dell’esistenza umana a un’ideologia cieca è da condannare. Laglobalizzazione ha creato la percezione che le possibilità di consumo e di godimento siano illimitate. E quando i mezzi necessari per raggiungere questi bisogni vengono meno, allora affiorano sentimenti di risentimento e di frustrazione“.
In un altro passaggio l’arcivescovo di Tegucigalpa in Honduras e presidente di Caritas internationalis sottolinea che “le morti per fame superano quelle causate dalle mitragliatrici e dai campi di concentramento vecchia maniera (nazisti o sovietici) o moderni (come i campi di ‘accoglienza’ per i migranti), o dai ghetti per le minoranze”. Parole importantissime anche perché sono pronunciate da uno dei porporati più vicini a Papa Francesco che, dopo aver svolto il ruolo di grande elettore nel conclave che ha eletto Bergoglio, è stato subito scelto dal Pontefice argentino per lavorare alla riforma della Curia romana nello spirito della collegialità richiesta dai cardinali durante le congregazioni generali che hanno preceduto le votazioni nella Cappella Sistina.
Nel suo libro “Senza etica niente sviluppo” Maradiaga, considerato tra i papabili già nel conclave del 2005 successivo alla morte di Giovanni Paolo II, sottolinea che oggi nel mondo c’è il maggior numero di miliardari mai registrato finora (1226) ma, ci sono 925 milioni di persone che soffrono la fame. “Solo negli Stati Uniti – denuncia Maradiaga – si sono spesi 50 miliardi di dollari in cibo per animali domestici l’anno scorso, la stessa cifra promessa dal G8 nel 2005 ai Paesi più poveri, promessa che ancora non è stata mantenuta. In Cina la General Motors vende un’auto ogni 12 secondi, mentre ogni 12 secondi un bambino muore di fame nel mondo. La globalizzazione – precisa il porporato – ha molte contraddizioni, è complessa e ambigua. Il modo in cui la gestiamo è la chiave del nostro lavoro e della nostra responsabilità per il futuro”.
Il cardinale salesiano sottolinea, inoltre, che se da un lato il numero di persone che vivono in povertà estrema è dimezzato negli ultimi tre decenni, dall’altro l’ineguaglianza è arrivata a livelli mai raggiunti prima. “Lo sviluppo tecnologico e il sistema economico neoliberista come unico progetto globale – sostiene Maradiaga – hanno portato con sé la dura realtà del mercato -casinò e del capitalismo senza regole, dove è normale scommettere sui titoli e sull’andamento dei mercati al solo scopo di ottenere un profitto slegato dall’economia reale“. La denuncia del porporato è chiara: “Si sta creando un mondo in cui l’avidità di pochi lascia le maggioranze ai margini della storia. La globalizzazione appare più come un mito che una realtà. Soltanto la logica dei mercati finanziari è stata globalizzata e l’assolutismo di questo capitale sta creando veri e propri scempi. Potremmo dire che solo i ricchi sono globalizzati”.
Sulla crisi economica esplosa nel 2008 Maradiaga afferma che essa “ha indotto a mettere in dubbio uno dei pilastri centrali della globalizzazione: il fatto che il mercato sappia governare sé stesso e che il modello del capitalismo neoliberale sia la sola risposta. Il 2008 è stata una lezione costosa e lo è ancor di più perché è una lezione dalla quale non abbiamo imparato. L’economia globale è ancora sull’orlo di un tracollo. I timori di una crisi del debito sovrano si stanno spandendo nella zona euro. I mercati finanziari globali sono in turbolenza. Il vero timore è che si sia imparata la lezione sbagliata. La crisi economica è stata usata da diversi governi come una motivazione razionale per tagliare gli aiuti. L’aiuto dei principali paesi donatori è diminuito del 3 per cento nel 2011″.
E qui Maradiaga fa sua la lezione dell’ex capo di gabinetto della Casa Bianca, Rahm Israel Emanuel: “Mai lasciare che una buona crisi vada sprecata”. “La finanza e il business – conclude il porporato – possono lavorare per il beneficio di tutti, non solo per gli azionisti. Il ritorno a un modello equo basato sul dovere nei confronti della collettività è la chiave per ridurre il divario fra ricchi e poveri. Dobbiamo fare in modo – conclude Maradiaga – che la globalizzazione e il capitale vadano a beneficio dell’universale bene comune”.
I dimostranti, che contestano il no all'accordo su libero scambio e associazione con l’Ue, hanno anche occupato il municipio della capitale
Mao, le schiave e il codice enigma
l'incredibile storia del compagno Bala
Italia-Russia, firmati 28 accordi.
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Rivive il copricapo della Marianne
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Operazione 'Stormfront II', razzismo 2.0
sul web e post contro Roberto Saviano
Perquisizioni in tutta Italia contro la rete che diffonde idee e video contro gli ebrei e prende di mira alcuni personaggi pubblici come lo scrittore e il sindaco di Lampedusa
Alitalia approva revisione del piano
Ma Air France - Klm vota contro
Ufficializzato il rinvio di tredici giorni del termine per la ricapitalizzazione da 300 milioni. Ma la trattativa coi soci francesi è tutta in salita e all'appello mancano ancora una tentina di milioni
Russia, omicidio di Anna Politkovskaja
La giuria dà forfait, processo azzerato
I giudici non si sono presentati ufficialmente per motivi di lavoro o salute. La nuova corte sarà nominata il 14 gennaio
Filippine, oltre 10mila morti video
Superstiti a caccia di cibo: saccheggi
Trema il Vietnam: fuga dal tifone foto
Foto Le barche
distrutte simbolo della tragedia
Video Reporter eroe:
in diretta con le maxi-onde
Foto: superstiti / danni / scia
di morte / dall'alto
BRASILE IN CRISI:
Rio de Janeiro, i manifestanti adottano i black bloc per difendersi dalla polizia
Russia, bomba sull’autobus a Volgograd: almeno 10 morti (video)
VOLGOGARD - Una bomba è esplosa a bordo di un autobus di linea a Volgograd, nella Russia europea. Almeno dieci i morti e numerosi feriti. La notizia diffusa dai media locali è stata confermata dal comitato nazionale anti terrorismo.
Erano circa una quarantina le persone a bordo dell’autobus al momento dell’esplosione, le 14 ora locale (mezzogiorno in Italia).
Almeno 17 sono rimaste ferite e sette sono in gravi condizioni, secondo l’agenzia Interfax. Fonti di polizia, citate dall’Itar-Tass, confermano di aver rinvenuto frammenti di ordigno.
Scontro Francia-Usa
Datagate, intercettate
milioni di chiamate
Parigi convoca ambasciatore / vd
Valls: "Scioccante, ora spiegazioni"
Francia, l'estrema destra di Marine Le Pen
vince nelle elezioni di Brignoles
Un sondaggio dava il Fn primo partito alle europee
La candidata del Fronte Nazionale ha sconfitto l'esponente della destra gollista dell'Ump, su cui si era riversato anche il voto delle sinistre sconfitte al 1° turno. Un voto solo locale ma che è un importante termometro per la politica francese
L'intervista Le Pen: se vado al governo, Parigi fuori dalla Ue
Libia, rapito il primo ministro
Alì Zeidan portato via da Tripoli
Il sequestro rivendicato da un gruppo di ex ribelli libici che ha fatto sapere il primo ministro sconta il ruolo del suo governo nella cattura da parte degli Usa di Abu Anas al-Libi, uno dei leader di al Qaeda e mente delle stragi di Nairobi e Dar es Salam del 1998
In edicola sul Fatto del 10 ottobre: 'Siamo
nella mani della signora del dollaro'
Obama ha nominato una donna, Janet Yellen, presidente della Federal Reserve al posto di Ben Bernanke. Sarà in grado di far uscire gli Usa dalla crisi? Poi vi raccontiamo le verità e le menzogne sul sovraffollamento delle carceri e un approfondimento sul mercato del libro tra crisi di lettori e boom di recensioni
Inghilterra, Cameron annuncia altri 7 anni di tagli. Intanto il Paese soffoca
Usa, Obama sullo shutdown: "Non cederò
Basta attacchi alla riforma sanitaria"
A due anni dall'innalzamento del tetto di spesa per
evitare il default( agosto 2011),gli Stati Uniti ancora sull'orlo del
collasso finanziario
Il presidente degli Stati Uniti chiede ancora una volta ai repubblicani di abbandonare la loro richiesta: il rifinanziamento delle agenzie del governo federale in cambio di modifiche dell'Affordable Care Act. Ma tra le forze politiche continua lo stallo e soprattutto il rimpallo delle responsabilità
Il Caucaso lascia la guerra fredda
Vukovar è ancora un fronte?
Elezioni in Germania, trionfo Merkel MA NON RAGGIUNGE LA MAGGIORANZA
ASSOLUTA. NECESSARIO UN ALTRO GOVERNO DI COALIZIONE PER IL CROLLO DEI
LIBERALI TEDESCHI.
vd Il
boato
flop dei liberali, anti-euro sotto il quorum foto
"Risultato super", dice Angela Merkel, che porta la Cdu al 41,5%, con un
più 8% rispetto alle ultime elezioni. La Cancelliera conquista il terzo
mandato ma dovrà costruire una nuova coalizione per il crollo del suo
alleato di questi ultimi anni, i liberal democratici arrivati al 4,8%
(fuori dal Parlamento). "Ora la palla è nel campo della Merkel", ha
dichiarato Peer Steinbrueck, il candidato socialdemocratico sconfitto ma
in pole position come partner nella "grosse koalition"
Si va verso le larghe intese Vd il
discorso della Cancelliera
Il ritratto Angie, da
'pulcino' a donna più potente del mondo
Cadalanu:
gioia Spd,non siamo scomparsi dal Parlamento
Kenya, ancora spari
Terroristi: "Pronti
a uccidere gli ostaggi"
I soldati stanno cercando di prendere il controllo del centro commerciale sotto attacco del gruppo somalo al Shabaab (leggi). I morti sono 68, 175 i feriti e molti i dispersi
Nairobi, si combatte nel mall dir.tv
Spari e denso fumo, terroristi nascosti foto
Audio Italiana ostaggio:
così sono fuggita
RNews Nigro: "Ancora
sparatorie"
Diretta multimediale. Scontri a fuoco all'interno del centro commerciale kenyano dopo tre giorni di assedio dei terroristi islamici: i morti sono 62, 170 feriti. Molti degli ostaggi sarebbero stati liberati, ma si cercano superstiti e assalitori nascosti. Secondo fonti della sicurezza alcuni si sarebbero vestiti da donna. Fonti SkyNews: "Si sono fatti esplodere"
Pakistan, attentato kamikaze in chiesa
cristiana: "Il numero di vittime sale a 81”
I feriti sono oltre 145. Mentre i fedeli stavano uscendo dopo una funziona religiosa, sono scoppiati due ordigni. Il duplice attacco suicida è stato rivendicato dal gruppo fondamentalista islamico Jandullah, vicino ad al-Qaida. Il Papa: "Una scelta sbagliata di odio e di guerra"
Strage Washington, boom di referendum anti-armi. Ma la lobby è sempre più forte
Usa, sparatoria in un parco di Chicago
13 feriti tra cui un bambino di 3 anni
Secondo un testimone, gli autori sono "uomini con i capelli rasta a bordo di un’auto grigia che vanno in giro a cercare qualcuno a cui sparare ogni notte". L'ultimo episodio, lo scorso 16 settembre quando il texano Aaron Alexis ha ucciso 13 persone al Navy Yard di Washington
G20, Putin: “Aiuti a Siria se attaccata”. Obama: “Martedì discorso a Nazione”
Siria, i rifugiati sono oltre
due milioni
Assad minaccia una "guerra
regionale".
Siria, a vuoto il vertice dei Grandi
neanche un cenno nel documento finale
Vaticano contro l'intervento militare
Foto Quella cena di
Kerry con Assad
I dati dell'agenzia dell'Onu: ogni giorno 5.000 persone cercano scampo nei Paesi confinanti. In un'intervista a Le Figaro il presidente siriano minaccia un'estensione del conflitto e attacca il governo francese: "Contro di noi non ci sono prove". Bonino: "Potrei digiunare con il Papa". Russia e Cina spingono per via diplomatica (video). Il Papa: "Guerra porta guerra". Kerry: "Assad come Saddam e Hitler"
LA
GUERRA CIVILE D'IRAQ,
I MERAVIGLIOSI
MESTIERI STELLE E
STRISCE:
Ondata di attentati
in Iraq video
decine di morti a
Bagdad
Una serie di bombe e ordigni sono esplosi in diversi quartieri della capitale, in particolare quelli a maggioranza sciita, nell'ora in cui molte persone si recavano al lavoro
Verso
il settimo default:
l'Argentina sempre
più vicina
all'appuntamento col
destino
Read L'Argentina sembra
essere nuovamente
prossima al
fallimento: il meno
credibile degli
emittenti pubblici
potrebbe decidere, a
fronte di una
economia sempre più
fuori controllo e a
riserve di valuta
estera ormai ridotte
al lumicino, di
imporre nuove
perdite ai (pochi)
investitori che
hanno deciso di
credere in Buenos
Aires dodici anni
dopo il sesto
default della storia
del paese
sudamericano
(passata per un buon
terzo nel caos
economico).
Nuova bufera sulla
Nsa
scardinati sistemi
criptati
di email, banche,
sanità
E Obama assicura
sostegno
ai leader di Brasile
e Messico
Rivelazioni di Guardian e Nyt: spiate tecnologie usate da miliardi di utenti internet per proteggere i loro messaggi di posta e dati riservati. Intanto il presidente Usa cerca di mediare sul caso Rousseff
Datagate, Edward
Snowden è in fuga video
Videointervista
integrale: "Perché
ho parlato"
Foto La fidanzata sul web: "Il mio supereroe mi ha lasciato"
Dopo aver rilasciato l'intervista al Guardian, il protagonista della più grave fuga di notizie per la Nsa ha lasciato il suo albergo-rifugio di Hong Kong. Sulle sue tracce una squadra speciale Usa. In sua difesa il partito pirata islandese e Julian Assange di A. LONGO
L'algoritmo che scova mail e chiamate sospette
Argentina, verso un nuovo default
Egitto, massacri e democrazia
L'ULTIMO VETEROSTATO COMUNISTA D'EUROPA, LA BIELORUSSIA, APRE UNA LINEA DI CREDITO CON LA CINA CAPITAL-COMUNISTA. Prosegue la manovra a tenaglia del Dragone Rosso dopo l'assalto alla Grecia in svendita
Lanciagranate e kamikaze contro il carcere vicino a Baghdad divenuto famoso per le torture inflitte dai soldati Usa. Attaccato in simultanea il peniteniario di Taji, il bilancio complessivo sarebbe di 41 morti. Militanti islamici rivendicano on line
PEGGIO DELL'NKWD DI BERIJA E DELLE SS DI HIMMLER:ARRESTATO UN MASSACRATORE MESSICANO, A LUI SI IMPUTANO QUALCOSA COME 70.000 MORTI!!
Catturato in Messico
Trevino Morales,detto
Los Zetas "Z-40"
il capo del più feroce
cartello della droga
Miguel Angel Trevino
Morales, conosciuto
con "Z-40" e capo del
cartello della droga
messicano "Zetas", è
stato arrestato nel
nord del Messico, nei
pressi di Nuevo Laredo,
al confine con gli
Stati Uniti. Con lui
arrestate anche altre
due persone. Aveva
raggiunto i vertici
dell'organizzazione
criminale,
responsabile dei più
feroci omicidi
avvenuti in Messico
negli ultimi anni,
dopo la morte del
fondatore del gruppo,
Heriberto Lazcano,
nell'ottobre del 2012,
ucciso durante
un'azione della Marina
militare. Lazcano era
conosciuto come "El
Lazca". Il suo corpo
fu poi prelevato da un
gruppo armato e non è
stato mai ritrovato.
Questo arresto
è considerato tra i
più importanti dopo la
vittoria alle elezioni
del presidente Enrique
Pena Nieto. Durante il
precedente mandato
presidenziale, tenuto
da Felip Calderon, in
sei anni ci sono stati
ben 70 mila morti
nella feroce guerra
tra le gang del
traffico della droga e
del crimine
organizzato.
Il dipartimento di
stato americano aveva
offerto una taglia di
cinque milioni di
dollari per la cattura
del feroce
Kuwait, Arabia
Saudita ed Emirati
pioggia di dollari
in Egitto dopo il
golpe
Le monarchie del Golfo, che temevano l'egemonia degli islamisti Conservatori anti secolari, lanciano una campagna di prestiti e finanziamenti. Il re saudita Abdullah ha subito telefonato per complimentarsi
di ALBERTO STABILE
BEIRUT - Il colpo di Stato con cui i generali hanno estromesso il presidente Morsi si sta rivelando, all'apparenza, un ottimo affare per la disastrata economia egiziana. Così sembrerebbe, almeno, a giudicare dalla valanga di finanziamenti, prestiti e aiuti che alcune monarchie del Golfo stanno riversando sui nuovi governanti del Cairo. Soltanto per citare l'ultimo dei benefattori, il Kuwait ha promesso di donare all'Egitto 4 miliardi di dollari, che si aggiungono agli otto miliardi messi insieme da Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Un'epifania come non s'era mai vista, dietro la quale, però, si celano lotte e manovre per l'egemonia, o per trarre i maggiori benefici dal terremoto politico che da due anni e mezzo scuote il mondo arabo.
Con la vittoria elettorale di Morsi e della Fratellanza musulmana, la Primavera egiziana sembrava essersi incanalata verso la realizzazione di quegli obiettivi che i fautori dell'Islam politico avevano proposto come la cura di ogni male ereditato dai vecchi regimi e le condizioni per la rinascita. A fornire i mezzi per attuare questo progetto erano stati Paesi come il Qatar e la Turchia. Il primo, munito di ricchezze pressoché illimitate e di una politica estera assai spregiudicata, era intervenuto in soccorso di Morsi con un pacchetto da 8 miliardi di dollari. La seconda, offrendo la più modesta cifra di due miliardi di dollari, ma soprattutto proponendo un modello di sviluppo, quello incarnato dal boom economico turco. Entrambi, Qatar e Turchia, vantano eccellenti rapporti con i Fratelli musulmani.
L'Arabia Saudita e gli emirati satelliti hanno assistito a questo rimescolamento di carte sul teatro egiziano senza, apparentemente, battere ciglio. Ma è nota l'avversione di Riad verso la Fratellanza, che considera una minaccia alla legittimità della monarchia, mentre negli Emirati decine, se non centinaia, di confratelli musulmani sono stati mandati alla sbarra con l'accusa di aver tramato i regimi del Golfo.
Così, quando il generale Abdel Fattah al Sissi ha annunciato che Mohammed Morsi era stato deposto, il re saudita, Abdullah, non ha aspettato neanche che venisse nominato il nuovo presidente ad interim per telefonare al Cairo e congratularsi con il comandante in capo dell'esercito egiziano. Bruciando sul tempo il giovane emiro del Qatar mentre la Turchia s'è scagliata contro i golpisti. Che il Qatar e l'Arabia Saudita sin dall'inizio della Primavera araba viaggiassero su binari diplomatici paralleli e inconciliabili non è una novità. La crisi egiziana ha sancito questa spaccatura.
Ora, non deve stupire che nel gioire per il golpe, re Abdullah si sia ritrovato accanto ad un imbarazzante e sicuramente non richiesto compagno di viaggio, il rais siriano Bashar al Assad, contro cui (al pari del Qatar, ma con diversi referenti sul terreno) ha dichiarato una guerra senza quartiere. Entrambi avevano le loro buone, seppure opposte, ragioni per compiacersi del colpo subito dall'Islam politico in Egitto: Assad, nella speranza che i Fratelli musulmani egiziani trascinino nella loro caduta anche i Fratelli musulmani siriani, sempre dominanti nello schieramento delle forze ribelli; re Abdullah, nel tentativo di mantenere al sicuro da elementi eversivi la sua monarchia teocratica. Ma talvolta, come si sa, gli opposti coincidono. La sfida per l’egemonia regionale tra l’Iran sciita alauita e l’Arabia Saudita wahhabita (sunnita) secolarizzata si sta progressivamente estendendo dal territorio iracheno a quello siriano dove, seppur ancora in maniera velata, Riyadh vuole giocare un ruolo da protagonista. L’Arabia Saudita, alle prese con un periodo di precari equilibri interni, vuole cercare di sfruttare a proprio vantaggio i disordini siriani; per questo motivo ha da tempo iniziato a sostenere i ribelli organizzati intorno all’Esercito Libero Siriano (FSA), ma, al tempo stesso, ha fornito armamenti e appoggio finanziario ai gruppi di combattenti salafiti provenienti dal confine iracheno e dal vicino Libano. Nelle ultime settimane proprio queste cellule si sono rese protagoniste di diversi attacchi compiuti sul suolo siriano, creando imbarazzi a Riyadh ma anche a Washington dove ora iniziano a temere un effetto boomerang.
L’Arabia Saudita sta attraversando un periodo molto delicato in cui oltre a dover affrontare le sempre maggiori richieste di riforma interna, placate attraverso un cospicuo aumento dei sussidi (tra dicembre 2011 e gennaio 2012 circa 100 miliardi di dollari) destinati ai sudditi, si trova alle prese con una difficile situazione che coinvolge direttamente la dinastia, dove equilibri già precari si sono aggravati con la morte, il 16 giugno, del principe Naif bin Abdulaziz, storico Ministro dell’Interno (dal 1975 al 2011) ed erede designato al trono dall’attuale sovrano re Abdullah Ibn Abdel-Aziz. Conosciuto come il membro della famiglia reale più vicino agli ambienti wahhabiti, Naif bin Abdulaziz deteneva il controllo delle forze di sicurezza saudite, compresa la potente polizia segreta, ed era stato il reale artefice delle politiche saudite in Yemen e in Bahrein.
Ai sensi
dell’articolo 5
dello statuto del
Regno spetta ora a
re Abdullah il
compito di nominare
l’erede al trono;
una scelta che
troverà poi una
conferma,
prettamente formale,
del Consiglio di
Fedeltà; il
Consiglio di Fedeltà
è un organismo
istituito nel 2006 e
composto da 35
membri della
famiglia reale volto
a creare un consenso
intorno alle scelte
del monarca1.
Il timore maggiore è
quello che si
ripropongano vecchie
faide e lotte
interne alla
famiglia minando
così gli equilibri
di potere di un
regno che si trova
ad affrontare una
delicata fase di
transizione.
Sullo sfondo vi è
però un ulteriore
pericolo che lega
l’Arabia Saudita ad
altre monarchie del
Golfo, come il
Bahrein, ossia le
crescenti mire
iraniane sul governo
iracheno; l’Iraq
rappresenta un Paese
cruciale perché
rappresenta la porta
verso il Golfo e la
sua posizione
geografica ha per
anni rappresentato
un solido cuscinetto
alle mire degli Ayatollah.
L’Iran prova a proporsi come modello per il giovane governo iracheno guidato dallo sciita Nuri al-Mālikī, che in passato scappò dal regime di Saddam Hussein trovando rifugio proprio in Iran. Ciò rappresenta una grave sconfitta per la dinastia saudita nella lotta per l’egemonia regionale. La situazione irachena, con il sopravvento della comunità sciita sulla componente sunnita vicina a Riyadh, ha aperto una profonda crisi all’interno dell’universo sunnita, di cui l’Arabia Saudita si sente storicamente protettrice e baluardo, convincendo le autorità saudite a passare al contrattacco aumentando il proprio sostegno all’opposizione siriana.
L’intento saudita è quello di riuscire a rovesciare il regime degli Asad sferrando così un duro colpo all’Iran che ha nella Siria il suo alleato geo-politicamente più prezioso; per questo Riyadh, con l’assenso di Ankara e Washington, avrebbe da tempo cominciato a sostenere apertamente i ribelli armati che combattono contro il regime siriano2. Fin dai primi giorni successivi allo scoppio delle rivolte, la principale forza di opposizione siriana è organizzata nell’Esercito Libero Siriano (FSA), forza irregolare sunnita, le cui roccaforti sono le città siriane di Homs e Hama, e nelle cui fila si sarebbero arruolati da tempo anche diversi sunniti libanesi reclutati, ovvero finanziati, proprio dall’Arabia Saudita3. Molti degli aiuti forniti dall’Arabia Saudita andrebbero all’organizzazione libanese Movimento del Futuro (al-Mustaqbal) guidato dall’ex Primo Ministro Saad al-Hariri (figlio del più famoso Rafiq al-Hariri) e collegato al Al-Jama’a Al-Islamiyya, movimento libanese vicino ai Fratelli Musulmani4.
Attraverso l’utilizzo delle vecchie rotte usate per il contrabbando nella valle di Bekaa, il FSA ha goduto fino a questo momento di ingenti forniture non solo di armi, ma anche di cibo, medicinali, acqua e strumenti determinanti a garantire la comunicazione tra i diversi gruppi d’opposizione al regime siriano. Oltre a fornire assistenza finanziaria, i sauditi possono dare ai militanti legittimità e motivazioni dal punto di vista ideologico sfruttando proprio il crescente e diffuso timore delle diverse comunità sunnite in tutto il Medio Oriente, sconcertate dalle denunce di continui massacri che gli uomini di Asad compirebbero nei confronti della popolazione civile siriana.
Tra i molti combattenti ribelli che in questi mesi hanno intrapreso diverse azioni di ritorsione contro il regime siriano e più in generale contro la comunità alawita, ramo dello sciismo a cui appartengono i membri della famiglia Asad e dell’establishment di potere, vi sono diversi jihadisti salafiti. La Salafiyyah è un movimento modernistico islamico nato a metà Ottocento il cui termine richiama l’era imperfettibile degli antenati pii (appunto i salaf); il movimento, che ha avuto in Muḥammad ‛Abduh, Giamāl ad-Dīn al-Afghānī e Rashīd Riḍā i suoi principali teorici, mirava ad islamizzare la modernità attraverso il recupero dell’antica purezza delle origini5. Il salafismo è progressivamente evoluto passando da movimento riformista a movimento radicale nel corso del XX secolo attraverso la crescente influenza della corrente wahhabita; non tutti i salafiti sono jihadisti, ma tutti i jihadisti richiamano l’interpretazione rigorosa dei testi promossa dal salafismo.
Al momento diversi jihadisti si trovano in territorio siriano o nel vicino Libano; l’elemento di raccordo sarebbe costituito dal gruppo libanese guidato da Saad al-Hariri che da tempo ha sviluppato relazioni sempre più strette con diversi movimenti salafiti che, nell’ottica di Riyadh, dovrebbero diventare una forza di contrasto alle milizie sciite libanesi di Hezbollah6. All’interno dei gruppi salafiti vi sono molti jihadisti, veri e propri mercenari, che durante gli ultimi anni hanno operato azioni di guerriglia e attacchi terroristici in Iraq, anche contro militari nordamericani, ma soprattutto molti di loro hanno in passato combattuto proprio contro il regime saudita.
Alcuni sono discendenti della profonda frattura che colpì l’Arabia Saudita nel 1991, quando decise di concedere ai militari nordamericani di calpestare il suolo sacro (in territorio saudita si trovano Mecca e Medina, i due luoghi sacri dell’Islam); in quel contesto mosse i suoi primi passi anche Osama bin Laden. Tuttavia, a seguito del 11 settembre 2001, l’Arabia Saudita ha promosso, di comune accordo con le autorità religiose, un processo di correzione e riabilitazione della componente salafita cercando di allontanarla dal concetto di “jihadismo” per riavvicinarla a quello di “jihad”. Il “jihadismo” è un’ideologia adottata dai movimenti radicali islamici nel corso del XX secolo che fonda le proprie radici nella concezione aggressiva di jihad proposta da Ibn Taymiyya7; il jihadismo, che ha in Sayyid Qutb e Al-Mawdudi i suoi principali teorici moderni, considera solamente l’uso della lotta armata come mezzo per rovesciare i governi laici e sostituirli con forme di Stato islamico autentiche in cui vi sia la cieca osservanza del dettato coranico, compresa l’applicazione integrale della Shari’ah.
Il concetto di jihad (sforzo) invece, come esplicitato in molteplici sure coraniche, rimanda essenzialmente ad un uso della forza della ragione, che porti il singolo individuo all’osservanza dei precetti islamici; iljihad più importante e difficile non è quello rivolto contro qualcuno, sia esso infedele o cattivo musulmano, ma quello interiore che ogni buon musulmano persegue quotidianamente8. Nessuno Stato musulmano si opporrebbe all’applicazione del jihad. L’Arabia Saudita nel difficile percorso volto a riabilitare molti ex combattenti jihadisti ha promosso, con l’avallo delle autorità clericali wahhabite, la tesi per cui attori non statali non possano intraprendere alcuna jihad di loro iniziativa, in quanto una tale chiamata spetta solo ed esclusivamente ad autorità statali o religiose riconosciute dallo Stato9. Se tradizionalmente le forze jihadiste erano solite vedere come principale minaccia l’Occidente e i governi considerati asserviti ad esso, per Riyadh, a maggior ragione in questo delicato momento, il pericolo principale proviene dallo sciismo.
È tuttavia vero che al momento il regno saudita, come già avvenuto in passato, non ha ufficialmente preso alcuna posizione nei riguardi di un eventuale jihad o guerra diretta contro la Siria; una scelta dettata dall’ulteriore imbarazzo che una tale posizione creerebbe nelle relazioni con gli Stati Uniti. Nelle ultime settimane vi sono stati molteplici interventi sui media nazionali (radio, giornali, Tv) di eminenti ulama e sceicchi, compresa una recente fatwa emessa da un membro del Consiglio Supremo Religioso del regno, volti a interdire qualsiasi forma di jihad in Siria o in altri Paesi senza che vi sia stato prima un qualche consenso statale10.
Dichiarazioni resesi necessarie dopo i molti video comparsi sul web a partire dai primi di febbraio, in cui illeader di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri, ha esortato i musulmani sauditi a ribellarsi contro il governo di Riyadh, seguendo l’esempio di quanto fatto dai loro “fratelli” siriani, tunisini, egiziani e yemeniti. Già in passato l’Arabia Saudita ha dovuto affrontare il problema del controllo di queste forze, incarico affidato al servizio di intelligence saudita (General Intelligence Presidency) il quale si è dimostrato in grado di operare nella distribuzione di finanziamenti e armamenti ma incapace di controllarne il loro successivo utilizzo. Manca un organismo maturo ed efficiente come il MOIS iraniano, Ministero di Intelligence e Sicurezza, in grado di gestire a distanze le operazioni dei propri corpi d’élite o di gruppi armati affiliati e il più delle volte da esso addestrati. L’Arabia Saudita già in passato ha operato soprattutto grazie al sostegno di altri apparati di intelligence, come per esempio l’ISI (Inter-Services Intelligence), branca dell’intelligence pakistana, sfruttata da Riyadh nel contesto afghano11.
Timori di innescare
un processo del
tutto fuori
controllo sono stati
espressi, seppur
timidamente, anche
da Washington, dove
sono ben consapevoli
che l’assenza
nell’apparato
governativo saudita
di un solido
organismo di
controllo sui
combattenti
jihadisti, potrebbe
rivelarsi un
pericolosissimo “boomerang”.
Nonostante tra i
corridoi del
Pentagono siano
restii nel dare il
proprio assenso ad
operazioni di
combattenti
jihadisti in
territorio siriano,
i molti attacchi
delle ultime
settimane hanno
dimostrato che
qualcosa
sottotraccia a
Riyadh hanno già
deciso.
Per l’Arabia Saudita
il contesto siriano
e la caduta del
regime degli Asad è
vista sempre più
come battaglia per
la propria sicurezza
nazionale in virtù
anche del fatto che
la fiducia
nell’alleato
storico, gli Stati
Uniti, è
gradualmente venuta
meno a seguito della
caduta di Mubarak in
Egitto e del ritiro
delle truppe
dall’Iraq, ritiro
che ha consegnato il
Paese nelle mani
sciite.
Combattenti animati ideologicamente e da principi di stampo religioso rappresentano nell’ottica saudita un elemento fondamentale per la propria sopravvivenza. Tuttavia, ciò che più spaventa gli Stati Uniti è la consapevolezza che storicamente l’uso di combattenti jihadisti ha creato ulteriori problemi sia interni che esterni al regno saudita e una tale eventualità oggi, in un periodo di instabilità e debolezza, potrebbe portare all’indebolimento del potere della dinastia dei Saud, aprendo definitivamente le porte ad una pericolosa egemonia regionale dell’Iran.
LA FINANZA DEI ROBOT E DEI CAVI SOTTOMARINI TRANSOCEANICI
Le coste della Cornovaglia sono oggi oggetto di grande interesse da parte di società finanziariee di telecomunicazione. Ed infatti, nel 2012, la Crown Estate, impresa che gestisce il fondale marino nel Regno Unito e che vende licenze per tutto ciò che lo attraversa, ha registrato un aumento delle entrate del 104 per cento. Circa il 95 per cento delle notizie finanziarie viaggiano via cavo e non via satellite e questo spiega perché ogni anno si investono intorno ai 2 miliardi di dollari per produrre 50 mila chilometri di autostrade di fibre ottiche, lungo le quali viaggiano le notizie finanziarie al altissima velocità. L’arteria più importante è quella che attraversa l’Atlantico. I cavi partono dalla costa est e riemergono in Portogallo ed in Cornovaglia. Anche se il primo è il paese più vicino agli Stati Uniti, è sempre stato un mercato finanziario marginale, mentre in Gran Bretagna si trova la piazza affari più importante d’Europa.
Nel Vecchio continente il nodo principale dell’informazione finanziaria è dunque la Cornovaglia, ed è dal profondo dei suoi fondali che emergono dati e notizie che Wall Street ha prodotto appena 65 millesimi di secondo prima. Questi alimentano computer sofisticatissimi e velocissimi, abilitati alla contrattazione finanziaria, ubicati nella City di Londra.
Il trading ad alta frequenza utilizza formule matematiche ed algoritmi per scambiare prodotti finanziari nel modo più veloce possibile e con la frequenza più elevata. L’obiettivo è battere sul tempo la concorrenza nelle contrattazioni finanziarie. A differenza degli investimenti tradizionali, una posizione può essere mantenuta soltanto per pochi istanti o anche per molto meno ed il computer può vendere e comprare da solo migliaia di volte al giorno lo stesso prodotto, sfruttando variazioni di prezzo infinitesimali.
La tecnologia non è però l’unica variabile da tener presente, anche la geografia gioca un suo ruolo. Persino i computer più veloci sono svantaggiati se geograficamente lontani dal centro di smistamento dei dati. Chi si trova a Londra ha un vantaggio di 5 millesimi di secondo rispetto a chi è a Francoforte o a Parigi. A parità di tecnologia, tra Londra e Francoforte ci sarà sempre uno scarto di 5 millesimi di secondo, un vantaggio non indifferente in questo settore. Per capire perché basta dire che alcune società private come Hibernia Networks e Reliance Globalcom stanno investendo circa 300 milioni di dollari per migliorare le fibre ottiche ed i cavi che corrono sul letto dell’Atlantico per poter risparmiare 6 millesimi di secondo.
Siamo nella fantascienza? No, il trading ad alta frequenza è più diffuso di quanto si creda, negli Stati Uniti il 50 per cento delle contrattazioni sul mercato azionario è gestito da macchine. I rischi sono tanti ed infatti l’Unione Europea sta indagando sulla possibilità di proibirlo. Al trading ad alta frequenza, ad esempio, è attribuito il crollo del Dow Jones del 6 maggio del 2010 – il più grosso nell’arco di una giornata nella storia di questo indice – che perse tra le 14:42 e le 15:05 1000 punti (circa il 9 per cento) per poi recuperarli subito dopo. In un mercato molto frammentato, quale quello del 6 maggio del 2010 a causa della crisi greca, una singola operazione riprodotta da migliaia di computer ad alta frequenza ha creato una spirale negativa, o una situazione di panico, che ha spinto macchine ed operatori finanziari a vendere in blocco.
I nostri risparmi potrebbero finire in una di queste macchine ed essere investiti da un complesso di microchip e dipendere dalla velocità con la quale i dati corrono lungo cavi seppelliti negli abissi o riemergono dalle sabbie bianche della Cornovaglia. Un pensiero che si, sarebbe meglio se appartenesse alla fantascienza che alla realtà finanziaria.
Venezuela, vittoria di
Maduro,il delfino di
Chavez,per un soffio
Capriles: "Ricontare
tutti i voti"
Il delfino di Chavez prende il 50.66 per cento dei voti, contro il 49,07 dell'oppositore Henrique Capriles. Un sorpasso risicato per il "chavista" che apre uno scenario politico difficilissimo da gestire
Assalto agli stranieri
ribelli di Abu Sayyaf, gruppo terrorista vicino a Al Qaeda. Fra loro anche Eugenio Vagni.