ANCORA SU FISCAL COMPACT E SIX PACK

Tutto ha un limite. Persino la severità di Berlino e Bruxelles in fatto di bilanci pubblici. Un fiscal compact che davvero contemplasse tagli annuali per decine di miliardi di euro sarebbe la pietra tombale su qualsiasi velleità di ripresa economica della zona euro. In realtà su questo accordo messo in cantiere ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e poi siglato da Mario Monti sono fiorite interpretazioni inesatte che in alcuni casi sono sfociate in ipotesi da far accapponare la pelle. Come quella stando alla quale dovremmo fare 50 miliardi di tagli ogni anno per vent’anni. Una lettura attenta dei documenti suggerisce conclusioni più prudenti: la camicia di forza Ue – o la sana gestione dei conti, a seconda dei punti di vista – potrebbe costarci tra i 5 e i 7 miliardi di euro. Le critiche sull’eccesso di austerità imposto da Bruxelles sono legittime. Il continuo sovrapporsi e avvicendarsi di norme e trattati con dentro regole complesse crea oggettivamente confusione. E’ però sbagliato pensare che il fiscal compact, che sarà applicato dal 2015 e produrrà effetti dal 2016, comporti stravolgimenti. Le nuove regole possono diventare una zavorra, ma non una pietra al collo. Partiamo dall’inizio: giuridicamente il fiscal compact è un trattato internazionale che deve essere espressamente recepito dagli Stati membri. Non si tratta cioè di un atto normativo dell’Unione europea che come tale entra automaticamente (o quasi) nella legislazione nazionale. I contenuti sono in sostanza quelli previsti dal cosiddetto “Six Pack” della Commissione europea (il pacchetto di misure entrato in vigore nel 2011): un sentiero di riduzione del debito pubblico in eccesso e limiti ai deficit tarati sulle specificità dei singoli Paesi, ma un po’ più severi rispetto alla semplice regola del 3 per cento.

La regola del debito – E’ lo spauracchio di molti commentatori, ma si tratta di un vincolo molto più morbido di quanto possa sembrare. E, peraltro, già contemplato da tempo nei trattati europei. I Paesi con un debito che supera il 60% del Pil devono ridurre la parte eccedente di un ventesimoogni anno fino a riportarlo al di sotto di questa soglia. La regola può effettivamente generare confusione e ha dato origine all’equivoco più grande. Siccome l’Italia ha un debito di 2.107 miliardi di euro, più del 132% del Pil, si è pensato che dovesse ridurlo di circa mille miliardi (la parte eccedente il 60%, appunto) di un ventesimo l’anno: i famigerati 50 miliardi. In realtà la diminuzione che interessa è quella del rapporto tra il debito e il Pil, non del suo valore assoluto. Ossia: se il Pil cresce, il debito può restare comunque oltre i 2.100 miliardi (o persino salire) e in proporzione scendere comunque. Non solo. Il valore del prodotto interno lordo da utilizzare ai fini della regola del fiscal compact non è quello “reale”, di cui si legge abitualmente sui giornali (per esempio: nel 2014 il Pil italiano crescerà dello 0,7%) ma quello nominale, cioè non depurato dagli effetti dell’inflazione. Per esempio, se in un dato anno la crescita economica è pari allo 0,5% e i prezzi aumentano dell’1% il Pil nominale crescerà dell’1,5 per cento. Questo offre margini aggiuntivi per ridurre il quoziente debito/pil senza tagli alla spesa. Ovviamente i margini saranno più ampi in periodo di forte crescita economica e/o alta inflazione, minori se, come accade ora in Italia, la crescita è asfittica e l’inflazione è bassa. Inoltre, spiega Angelo Baglioni, economista dell’università Cattolica di Milano, il ritmo di discesa del debito (il famoso ventesimo, ndr) viene ricalcolato ogni anno sulla base del triennio precedente. Quindi, se il debito inizia a scendere la quota da ridurre si assottiglia via via: se ho un debito di 200 e lo riduco di un ventesimo arrivo a 190, quindi l’anno successivo il ventesimo richiesto non sarà più 10, ma 9,5. Inoltre, essendo calcolata come media annuale del triennio la riduzione può essere nulla se si prevede che l’anno successivo sarà di un decimo.

Per farsi un’idea, si consideri che alcune simulazioni hanno evidenziato come con un debito al 120% del Pil sarebbe sufficiente una crescita nominale (Pil reale + inflazione) del 2,6% per ottenere automaticamente una riduzione del debito pari al ventesimo richiesto dal fiscal compact. Si tenga presente poi che tra il 2000 e il 2007 la crescita nominale italiana è stata in media del 3,6% annuo. Prendiamo per buone le stime dell’Fmi, stando alle quali nel 2015 il Pil reale italiano salirà dell’1,1% e l’inflazione dell’1 per cento. L’incremento del Pil nominale dovrebbe essere quindi del 2,1 per cento. Mancherebbe quindi uno 0,5%-0,7% per ottenere una crescita sufficiente ad abbattere il debito di un ventesimo. Si parla insomma di 7-10 miliardi di euro, ammesso che il gap non venga compensato nei due anni successivi. Fin qui tutto bene, o quasi. Che cosa succederebbe, però, in una situazione come quella del 2013, quando per effetto del calo del Pil reale e della bassa inflazione il Pil nominale è addirittura arretrato? In teoria, ma solo in teoria, una puntuale applicazione della regola comporterebbe effettivamente esborsi nell’ordine di decine di miliardi di euro. Sono tuttavia previste una serie di circostanze attenuanti che sospendono l’applicazione del vincolo in situazioni di particolare difficoltà, precisa Giuseppe Pisauro, economista dell’universitàLa Sapienza. Tra queste tutti i fattori che condizionano il ciclo economico e allontanano l’economia di un paese dal suo potenziale di crescita.

Pareggio strutturale e deficit – Le nuove regole europee in materia di bilanci pubblici ribadiscono il limite del deficit al 3% del Pil ma aggiungono un nuovo parametro. Che è, questo sì, lavera novità del fiscal compact. Si tratta del fatto che il deficit strutturale non deve superare lo 0,5% del Pil (l’1% per i paesi più virtuosi). Il deficit strutturale è quello calcolato tenendo conto deglieffetti del ciclo economico: per esempio considera se il calo delle entrate dello Stato o l’aumento della spesa per sussidi di disoccupazione è temporaneo e legato a una fase di crisi. Detto in altri termini, un Paese è in deficit strutturale se le spese sono superiori alle entrate anche ipotizzando che l’economia marci al massimo delle sue potenzialità. Qui però sorgono non pochi problemi: quantificare l’ipotetica crescita potenziale è estremamente complesso e non mancano gli elementi diarbitrarietà. Un recente studio degli economisti Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Milani pubblicato su lavoce.info ha messo in luce come in tal senso stiano prevalendo orientamenti piuttosto penalizzanti nei confronti dell’Italia.

Le vere cifre – In condizioni normali (dove per normale si intende una crescita nominale del 2-2,5%) il pareggio strutturale, spiegano fonti dell’Unione europea, è in linea di massima sufficiente per garantire il ritmo di riduzione del debito richiesto dal fiscal compact. La regola sulla riduzione del debito diventerà pienamente operativa dal 2016 e fino a quella data il parametro che viene tenuto sotto sorveglianza è appunto il pareggio strutturale. Su questo fronte potrebbe emergere qualche difficoltà. Dalla Ue non si sbilanciano su quello che ciò potrebbe comportare in tema di aggiustamento dei conti (attraverso tagli o nuove tasse) negli anni a venire. Ricordano però come, rispetto a quanto previsto nell’ultima legge di stabilità, siano ritenuti opportuni interventi aggiuntivi di aggiustamento pari allo 0,4 – 0,5% del Pil, ossia tra i 5 e 7,5 miliardi di euro. Secondo Fedele De Novellis del centro Ref ricerche, le stime del governo sull’evoluzione dei conti pubblici partono da due assunzioni molto favorevoli ma contraddittorie. Si prevedono infatti sia un’accelerazione dellacrescita economica sia tassi di interesse sui titoli di Stato a livelli bassissimi, anche per effetto delle misure messe in campo dalla Bce proprio per sostenere la crescita. La vera difficoltà, continua De Novellis, non è tanto quella di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale quanto il modo in cui ci si arriva. Farlo mentre si cerca di abbassare la pressione fiscale è ovviamente più complicato.

Le sanzioni – Che cosa succede se un Paese non rispetta i vincoli di bilancio? In teoria, se il debito in eccesso non scende può essere sanzionato anche se presenta un deficit “a norma” (entro il 3% del Pil). L’eventuale avvio della procedura viene però deciso tenendo conto dei fattori che influenzano il ciclo economico e valutando tre parametri: deviazione dal Pil potenziale, riduzione rispetto ai tre anni precedenti, prospettive per i tre anni successivi. Soltanto se lo Stato sotto esame è fuori dai parametri da tutti e tre i punti di vista possono scattare le sanzioni. Che devono comunque essere votate dal Consiglio europeo e precedute da una serie di avvertimenti. Un iter barocco e tortuoso il cui esito rischia di essere quello della montagna che partorisce il topolino.

La resilenza da Bristol, un nuovo modo di fare "resistenza" abbandonando i canovacci novecenteschi. Il voto in ciò che si compra, l'attacco all'economia corporate "neo-cons",lo smantellamento dei grossi gangli a favore del tessuto connettivo locale.

Ciao, sono Rob Hopkins, uno dei fondatori del movimento “Transition Town Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. Sono a Milano per un paio di eventi che hanno a che fare con Transition. 
Transition è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico. 
Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l'agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell'amministrazione comunale. 
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile, bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. 
Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. 
I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. 
Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del 
Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche, etc.. Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo, la differenza che fa Transition è creare un collegamento tra tutte queste cose. 
Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi che vanno così a formare un sistema.Transition fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico. 
Transition è nata nel Regno Unito nel 2005, e da allora si è diffusa in tutto il mondo, siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative Transition in tutto il mondo, che è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce. C’è un movimento Transition, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna.C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste Transition Italy, se c’è qualcuno che sta ascoltando ed è interessato sappiate che ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti, c’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a Transition. 
Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, etc., e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. 
C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè disinvestite, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili. 
Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno, invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia corporate, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. 
Oogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. 
Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq,l’amministrazione Bush aveva previsto, le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che questa protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo, infatti non le persone non hanno smesso di comprare benzina. 
Quindi il sistema è concepito proprio per lasciare sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. 
Oggi dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si

possano fare.

CHE COSA CAZZO HA FATTO RENZI FINO AD ORA?

L'Italicum è senza preferenze, Senato e Province non vengono aboliti e non sono neanche elettivi
L'intesa Renzi-B toglie potere di indicare chi mandare nelle istituzioni. Eppure non la pensavano così

Benvenuti nella Terza Repubblica Targata Licio Gelli trent'anni dopo, era politica della "democrazia dei nominati". Sembra un secolo fa quando i politici inveivano contro se stessi, additando il "Parlamento dei nominati", che produce scollamento tra Palazzo e territorio. Ma le riforme di Renzi e Berlusconi non cambiano niente: l’Italicum avrà i listini bloccati, le Province non sono state abolite ma sono non elettive e il Senato 2.0 sarà composto da designati dai consigli regionali,peggio di così non si poteva....

Palazzo Madama, una camera di nominati
Senatori designati dai consigli regionali

Matteo Renzi trova il compromesso con Berlusconi e con la fronda interna al Pd. Le modifiche: meno
sindaci e più regione. Resta fermo il caposaldo di una camera che non voterà la fiducia al governo 

 

 

Il Sole 24 Ore di ieri attirava l’attenzione critica sul piano per le scuole: il premier aveva annunciato 3, 5 miliardi, ma il decreto Irpef permette agli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità soltanto 240 milioni di euro. L’intervento, più a beneficio delle imprese di ristrutturazione che degli studenti, avrà quindi una dimensione minima.

Nei ‘semafori’ che pubblichiamo oggi su il Fatto Quotidiano, facciamo il punto sulla distanza che separa gli annunci dai risultati. A una prima analisi si può vedere come Renzi sia risultato più efficace sui dossier che gli garantiscono il maggiore ritorno di consenso, e questo è comprensibile visto che manca un mese alle elezioni europee. La promessa di far trovare in busta paga ad alcuni milioni di italiani 80 euro in più a maggio è stata rispettata, anche se con tanti compromessi al ribasso che rendono l’intervento molto diverso da come lo sognava il premier. La pecca maggiore è che la copertura non è strutturale, quindi è ancora molto incerto che il bonus fiscale sia garantito dal 2015 in poi.

I tagli alla casta, simbolici (o demagogici) ma molto richiesti, ci sono: dalla vendita delle auto blu su eBay al tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro fino a minuzie, ma significative, come la cancellazione delle tariffe postali agevolate per il materiale di propaganda dei partiti. Anche le nomine nelle società partecipate dal Tesoro sono state gestite in coerenza con le promesse: via tutti i dinosauri, incluso il potentissimo Paolo Scaroni. Anche se non tutti i nomi prescelti per la successione sono all’altezza dei proclami di rottamazione di Renzi, basti guardare Emma Marcegaglia alla presidenza Eni. I problemi arrivano dove il premier non può decidere da solo ma ha bisogno del consenso o dei voti di altri bizzosi soggetti, da Silvio Berlusconi con Forza Italia all’ala sinistra del Pd in Parlamento. Quando Renzi non può fare tutto da solo, il risultato è quasi zero: la legge elettorale si è impantanata al Senato, il suo destino è legato al superamento del bicameralismo, ma anche la trasformazione del Senato in camera delle autonomie locali è bloccata da un’opposizione sempre più larga.

A parte i vari interessi politici contrapposti, una delle spiegazioni di merito è che nessuno ha ben chiaro cosa dovrà fare il nuovo Senato, visto che prima (o poi) bisognerebbe redistribuire le competenze tra Stato ed enti locali riformando la Costituzione nel titolo quinto. Anche l’altra riforma ambiziosa del renzismo, quella del mercato del lavoro, per il momento ha prodotto pochino: un decreto legge che aiutava le imprese a ridurre il rischio di cause legali permettendo loro una maggiore flessibilità nel ricorrere al lavoro precario (i disoccupati sono felici alla prospettiva di diventare precari, ma i precari sono piuttosto seccati dalla prospettiva di rimanere in quella condizione più a lungo di prima). In Parlamento il Pd ha iniziato a svuotarla, reintroducendo parte dei vincoli eliminati dal ministro Giuliano Poletti. Risultato: impalpabile.

Quanto alla riforma più complessiva, la legge delega che dovrebbe essere il vero Jobs Act, è un tema da affrontare nei prossimi mesi. Anche della delega fiscale non si è più saputo niente, eppure dovrebbe essere la leva per una vera riforma delle tasse. Morale: se lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni e il politico chi pensa alle prossime elezioni, Renzi è un politico efficace. Ma le grandi riforme sono molto più complesse.

 

Bce pronta a "stampare" 1000 miliardi. Come funziona il QE anti-deflazione

La Banca centrale europea ha aperto all'ipotesi di lanciare un Quantitative Easing europeo, ovvero di acquistare titoli per contrastare i rischi di deflazione e far ripartire l'economia.

Uscita dall’euro: il metodo stamina della svalutazione

Tre le frange che propugnano l’uscita dall’euro, vale a dire il metodo Stamina per guarire dalla recessione, i supposti effetti miracolistico-salvifici della svalutazione costituiscono i bastioni retorici della propaganda.

Da un elemento semplice, che anche i meno istruiti credono di capire, nelle varie Lourdes “der webbe”, si imbastisce la mistica della guarigione ricorrendo ad un filo logico (si fa per dire) di questo tenore: i tedeschi sono efficienti, hanno un sistema Paese che funziona, un mercato del lavoro che crea occupazione, la scuola forgia competenze, si investe in ricerca, i politici pizzicati a copiare una tesi si dimettono, quelli corrotti sono una rarità, i grandi evasori fiscali finiscono in galera sul serio, non ad articolare riforme costituzionali. Noi italiani invece ci troviamo metà Paese in mano alle mafie, i leader di tre partiti sono pregiudicati, la corruzione è diffusa, la burocrazia è demenziale, la giustizia è una tragica barzelletta, la scuola è un somarificio, la ricerca langue, le tasse sono confiscatorie. Però noi Italiani, quintessenza della furbizia, fotteremmo tutti con svalutazioni a getto continuo. In tal modo sparirebbe d’incanto il divario con il mondo civile, l’economia si  risolleverebbe senza dover riformare alcunché, i ladri potrebbero continuare a rubare e governare senza conseguenze di sorta. Però i maledetti tedeschi per impedire il dispiegarsi di cotale sopraffina furbizia hanno ordito un subdolo complotto avvalendosi di complicità oscure tra banche, Bilderberg, Trilaterale, gnomi del signoraggio e WTO (mentre si indaga sul ruolo delle Sirene).

Inoltre se solo si potesse accumulare altro debito pubblico avremo un’economia da sogno e un futuro di bagordi tra Montecarlo e Acapulco con il reddito di cittadinanza finanziato da vagoni di moneta filosofale.

Contro la stamina eurexit purtroppo i Guariniello non possono intervenire, anche se – come le iniezioni di intrugli che non guariscono malattie incurabili – la flessibilità del cambio non influisce sulla produttività dell’economia reale (l’unico fattore di crescita sostenibile e di benessere).

Una spiegazione densa ed esaustiva in merito si trova in due articoli a questo link e a quest’altro. Se avete difficoltà con numeri e logica, un viaggio in Argentina, in Venezuela o in Yemen dovrebbe convincervi. Oppure basta un’occhiata ai dati giapponesi: dopo la svalutazione del 30% dello yen il deficit commerciale ha toccato livelli record quadruplicando in un anno e senza miglioramenti in vista.

Ma i Vannoni prestati all’economia e i negazionisti dell’euro insistono che il tasso di cambio dell’euro ha colpito il sistema manifatturiero italiano. Sicuro? Iniziamo dai concetti elementari.

1) Il tasso di cambio tra due monete (alcuni usano il termine valute), ad esempio euro e dollaro, è la quantità di una moneta necessaria per comprare un’unità dell’altra. Oggi per comprare un euro servono circa 1,38 dollari.

2) Ogni moneta ha almeno un centinaio di tassi di cambio, quante sono le altre monete in circolazione nel mondo. Quindi l’euro in un anno, può rivalutarsi rispetto al dollaro e svalutarsi rispetto allo yuan cinese.

3) Il tasso di cambio definito al punto 1) è il tasso di cambio NOMINALE. In realtà quello che davvero conta è il tasso di cambio REALE di cui non si fa cenno nei “toc sciò” per telelobotomizzati.

4) Il tasso di cambio REALE è il tasso di cambio nominale diviso per il livello dei prezzi nei due paesi. Che significa? Lo spiego con un esempio. Comprereste un’auto prodotta in Argentina, perché il tasso di cambio euro-peso si è dimezzato? Chi crede al metodo stamina forse risponderebbe di si. Ma se il prezzo in peso dell’auto prodotta in Argentina fosse triplicato, a dispetto della svalutazione, non vi sarebbe nessuna convenienza.

 5) Ergo va considerato il cambio REALE con tutti i paesi con cui l’Italia ha relazioni commerciali, cioè l’indice del tasso di cambio REALE EFFETTIVO. Che significa? Che se l’Italia, poniamo, esportasse per metà verso gli USA e per metà verso il Giappone, il tasso di cambio reale effettivo sarebbe una media dei tassi di cambio REALI tra euro e dollaro e tra euro e yen. Nella realtà il tasso di cambio reale effettivo è una media di decine di tassi di cambio reali. Questo articolo nel Bollettino Economico della Banca d’Italia spiega come viene calcolato per l’Italia, questo articolo della BCE spiega le varie differenze metodologiche. 

Pil: crescere nonostante la deflazione sarchiaponica

di 

Al pari del Sarchiapone nell’indimenticabile scenetta di Walter Chiari, Carlo Campanini e Ornella Vanoni, la deflazione è un classico spauracchio per suscitare ad arte paure di sconquassi e incanalare acqua putrida verso mulini parolai che macinano argomenti senza costrutto.

Al pari del Sarchiapone, è sconosciuto il motivo plausibile per cui prezzi in discesa sarebbero una iattura. Qualcuno soffre perché la benzina non costa più due euro? O perché i cellulari valgono ormai come tre pacchetti di sigarette e due di caramelle? Misteri dei corto circuiti logico-cognitivi già illustrati, da un punto di vista speculare, nel post sulla “leggenda dell’inflazione stimolatoria“.

Al pari di Walter Chiari, che per impressionare i compagni di viaggio spacciava, con tono magniloquente e assertivo, il suo sapere in fatto di sarchiaponi (sia americani che asiatici, precisava), un’eccelsa scuola di pensiero sostiene che la gente in tempi di deflazione rimanda gli acquisti in attesa di affari più ghiotti e di conseguenza inevitabilmente il Pil collassa. Secondo le teorie sarchiaponiche si rinuncerebbe al ristorante perché fra 6 mesi la carbonara costerà l’1,35% in meno? Oppure non si mandano le camicie con patacche di unto e salsa in lavanderia in attesa del ritocco dei listini? E le signore si acconcerebbero a vestire tailleur sdruciti e collant smagliati? O magari si procrastina la visita dal medico tanto fra tre mesi la parcella sarà più lieve? 

Obnubilata dagli effetti stroboscopici dei millenarismi sarchiaponici, la logica si fa evanescente e lo scompartimento ferroviario assurge a cenacolo intellettuale. Eppure la deflazione l’abbiamo sperimentata per decenni in tanti settori, dai computer all’elettronica, alle telecomunicazioni. Non mi risulta che non si vendano smartphone o tablet, anzi per tali oggetti la gente fa la fila e si accampa la notte fuori dai negozi. Ne ho conoscenti in astinenza da cellulare perché il prossimo trimestre le tariffe saranno più convenienti o che reprimono il desiderio di vacanza pregustando il biglietto aereolowest cost. E che dire degli abbonamenti internet? Si segnalano milioni di aspiranti utenti in paziente attesa di sconti? 

Per prevenire il riflesso condizionato di quanti, in perenne conflitto con l’ovvio, invocano i mitici dati, esiste una ricerca pubblicata nel 2004, in tempi non sospetti, da Andrew Atkeson e Patrick Kehoe intitolata “Deflation and depression: is there an empirical link?” (Deflazione e depressione: esiste un legame empirico?). I dati esaminati coprono 17 paesi lungo quasi due secoli dal 1820 fino al 2000.

Tolto il periodo 1929-34 (su cui dirò in seguito) in circa il 90% dei casi in cui venne registrata una caduta generalizzata del livello dei prezzi non vi fu alcuna recessione. Solo in 8 casi su 73 la deflazione fu associata a una caduta del Pil. Inoltre, in 8 depressioni sulle 29 esaminate non vi fu alcuna deflazione. Insomma il legame tra deflazione e decrescita del Pil è fievole. Se poi si eliminano dal campione gli episodi di depressione senza deflazione legati alle due guerre mondiali e all’immediato dopoguerra, il legame svanisce in un tenue singulto statistico.

Allora da dove si alimenta lo spauracchio? In buona sostanza da ciò che avvenne durante la Grande Depressione in America. È  il caso menzionato e studiato ad libitum, su cui l’interpretazione considerata quasi universalmente definitiva si deve alla Storia Monetaria degli Stati Uniti (1867-1960) di Milton Friedman e Anna Schwartz. Al dilettantismo della Fed si aggiunse il protezionismo cialtrone e la Grande Depressione si propagò in tutto il mondo (a questo link, pag. 41, si trova un’esposizione in italiano). Le serie storiche a disposizione su quel periodo coprono 16 paesi. Tutti registrarono una deflazione, ma solo in 8 vi fu una depressione.

Conclusione di Atkeson e Kehoe (pag. 6): l’esperienza storica insegna che “ci sono stati molti più periodi di deflazione con crescita ragionevole che con depressione e molti più periodi di depressione con inflazione che con deflazione”.

Gli autori fanno notare che dall’immediato dopoguerra si è verificato un solo caso di deflazione: inGiappone. Tuttavia crescita ed inflazione erano su un trend decrescente sin dagli anni ‘60 e ’70, rispettivamente. Quindi è difficile attribuire alla politica monetaria un fenomeno strutturale dipanatosi lungo 40 anni. Se poi si attua un confronto internazionale, negli anni ‘90 la crescita del Giappone fu in media dell’1,41%, non troppo diversa da quella dell’Italia 1,61% (dove l’inflazione era sostenuta), o della Francia 1,84% dove rimase moderata.

Ad ogni modo oggi in Eurolandia l’inflazione annuale è bassa, non negativa, con l’eccezione di Grecia e Cipro e in misura lieve in Spagna, Portogallo e Slovacchia (insieme a paesi fuori della moneta unica, come la Svizzera o la Svezia, di certo non in crisi). Pur adottando politiche monetarie diverseEurolandia e Usa hanno tassi di inflazione simili (idem per i deflatori del Pil, nel 2013 rispettivamente 1,54% e 1,64%). La frenata dell’inflazione finora deve molto al fatto che i prezzi delle materie prime ristagnano, fenomeno per quale immagino nessuno si dolga. Le previsioni e le aspettative insite nei rendimenti dei titoli a reddito fisso indicano un’inflazione in risalita.

C’è però qualcuno a cui la bassa inflazione duole: i governi e in parte alcune banche. Senza inflazione i debiti non vengono erosi dall’illusione monetaria e il torchio del fiscal drag sui contribuenti si inceppa. Le tasse non aumentano più senza dover sfidare l’impopolarità di aliquote maggiorate e gli sprechi pubblici bisogna davvero ridurli, senza cortine fumogene nominali. Ecco da dove si amplifica la grancassa della deflazione sarchiaponica per continuare nei propri comodi, come faceva sul treno lo scaltro personaggio della scenetta a danno dei gonzi.

Da The Telegraph del 2 aprile 2014
La paralisi deflattiva della BCE guida Italia, Francia e Spagna nelle trappole del debito. Francoforte potrebbe in qualsiasi momento rimettere in carreggiata l'euro, mostrando una ferma volontà di reagire alla situazione attuale, ma ha scelto di non farlo.
E la Banca Centrale Europea gliel'ha consentito. Negli ultimi cinque mesi, la deflazione è avanzata a un tasso annuo pari a -1.5% nell'Eurozona, in conseguenza delle tasse imposte dalle misure di austerity.
In base ai miei calcoli approssimativi (annualizzati), partendo dai dati mensili di Eurostat, da settembre i prezzi sono calati al ritmo del 6.5% in Grecia, del 5.6% in Italia, del 4.7% in Spagna, del 4% in Portogallo, del 3% in Slovenia e quasi del 2% in Olanda.
Il rialzo dell'euro rispetto a dollaro, yen, yuan e alle valute di Brasile, Turchia e paesi asiatici in via di sviluppo, è in parte responsabile di questa deflazione importata. Il trade-weighted index di Eurolandia è salito del 6% in un anno.
Ma questa non può essere una scusante: si tratta di una conseguenza diretta della politica monetaria della BCE. Francoforte potrebbe in qualsiasi momento rimettere in carreggiata l'euro, mostrando una ferma volontà di reagire alla situazione attuale. Ha scelto di non farlo, nella speranza che qualche parola di pace pronunciata senza convinzione possa in qualche modo invertire la tendenza globale.
È arduo stabilire quale sia il punto in cui la deflazione si inserisce nel sistema. Dalla metà del 2012, i prezzi alla produzione si sono notevolmente ridotti e la tendenza si è velocizzata a febbraio, raggiungendo una percentuale pari a -1.7%:il declino più vertiginoso dalla crisi Lehman. Ma questa volta non si tratta della diretta conseguenza di un crac finanziario: il fenomeno è cronico, e più insidioso.
Il professor Luis Garicano, della London School of Economics, ha affermato che i modelli economici utilizzati per prevedere l'inflazione appaiono fuorvianti e comportano una serie di errori di valutazione. "Sono necessari interventi molto seri," ha dichiarato.
Laurence Boone e Ruben Segura-Cayuela, della Bank of America, affermano che il loro indice di "sorpresa inflattiva" continua a scendere man mano che l'eurozona viene scossa da uno shock dietro l'altro, mentre il loro misuratore della "vulnerabilità deflazionistica" ha cominciato a lampeggiare in rosso per la maggior parte dei paesi della UEM.
L'effetto è pesantemente corrosivo, anche se la regione non è mai entrata in deflazione tecnica. La “lowflation” (bassa inflazione), vicina allo 0,5%, può scombinare le traiettorie del debito, se prolungata, portando nuovamente l'Europa verso una crisi debitoria. "La più pericolosa minaccia per le dinamiche del debito pubblico è un'inflazione inferiore alle aspettative. Anche solo un'inflazione più bassa del previso, non una deflazione, comporterebbe un significativo deterioramento delle finanze pubbliche dei paesi”, ha affermato.
Secondo la banca, una “lowflation” prolungata potrebbe provocare un aumento dei rapporti di indebitamento entro il 2018, il che comporterebbe un aumento di 10 punti percentuali del debito sul PIL in Francia (105%), di 15 in Italia (148%), e di 24 punti in Spagna (118%).
Questi paesi hanno di fronte un'impresa di Sisifo: qualsiasi risultato ottengano dall'austerità verrà sbaragliato dalla forza maggiore della deflazione del debito. Lo stesso "effetto denominatore” – con il peso del debito che aumenta più velocemente del PIL nominale – ingolferà anche il settore privato, che è ancora il tallone di Achille in Spagna, Portogallo e Irlanda.
Secondo Moody's , la "bassa inflazione" (dallo 0.5 all'1% fino al 2018) "rinnoverebbe la preoccupazione sulla sostenibilità del debito”, serrando lamorsa sulle famiglie e sulle aziende con debiti a tasso fisso. Eroderebbe, inoltre, gli asset bancari, comportando nuovi fallimenti delle banche, e colpirebbe gli assicuratori sulla vita per discrepanze sulle scadenze. "Evitando una decisa deflazione non si proteggerà completamente l'eurozona da uno shock: la combinazione di bassa crescita e bassa inflazione ha un impatto significativo su tutti i settori dell'economia", ha affermato.
Secondo l'affermazione di Reza Moghadam, del Fondo Monetario Internazionale, anche l'inflazione allo 0.5% minaccia di "soffocare la nascente ripresa" dell'Europa. Aggrava, inoltre, il divario nord-sud, rendendo ancora più difficile al Club Med il recupero della competitività persa. Gli stati indebitati dovranno apportare svalutazioni interne ancora più drastiche per riguadagnare terreno, ma ciò spingerà in alto i loro rapporti di indebitamento. "Ogni punto di aggiustamento relativo dei prezzi dovrà essere perseguito a costo di una maggiore deflazione del debito", ha dichiarato.
Un'inflazione molto bassa può avvantaggiare importanti segmenti della popolazione, principalmente i risparmiatori netti, ma nel contesto odierno dei problemi dovuti al diffuso indebitamento, va a detrimento della ripresa dell'eurozona, soprattutto nei paesi più fragili, dove vanifica gli sforzi per ridurre il debito", ha affermato.
Una volta compreso questo aspetto fondamentale, e cioè che “vanifica” gli sforzi per controllare il debito, la spettacolare idiozia della politica dell'UEM diviene palese. L'austerity così concepita è controproducente. Il fallimento principale è stato il rifiuto della BCE di controbilanciare le conseguenze della contrazione con uno stimolo monetario sufficiente per fare in modo che il PIL nominale crescesse più rapidamente dello stock del debito in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, ma non solo in questi paesi.
Ancora una volta, la BCE avrebbe potuto agire in modo diverso, ma ha scelto di non farlo perché ciò avrebbe consentito che la sua politica monetaria venisse contaminata dai giudizi su rischi morali che esulano dal suo ambito, dalle dottrine premoderne delle banche centrali o dalla paura di quello che potrebbe dire o non dire la Germania.
Il suo fallimento è evidente soprattutto in Italia, dove il debito è saltato dal 119 al 133% dal 2010, malgrado la stretta fiscale draconiana e un avanzo primario di bilancio. Il premier rockstar Matteo Renzi ha preso possesso della sua carica come un ciclone, portando un New Deal dei primi 100 giorni che ha stracciato il copione dell'austerità, rischiando il tutto per tutto con le riforme dal lato dell'offerta e una scossa fiscale per far partire la crescita.
Antonio Guglielmi, di Mediobanca, ha riferito che i mercati stanno scommettendo che Renzi possa essere un "catalizzatore di discontinuità " capace di tirare fuori l'Italia dall'apparentemente implacabile trappola della bassa crescita, attivando un circolo virtuoso cha alla fine possa aumentare il limite di velocità dell'economia e tagliare i rapporti di indebitamento. Ma anche questo scommettitore fiorentinoalla fine può fare ben poco contro la follia granitica della costruzione UEM.
Mediobanca ha dichiarato che la sua missione ultima di salvare l'Italia è destinata al fallimento se la BCE non lancerà un Quantitative Easing per impedire la deflazione del debito, e se dovrà adempiere al Fiscal Compact dell'UE, costringendo così il paese a un surplus primario di bilancio del 6% del PIL per il prossimo anno. Secondo la banca, "Spetta a Renzi dare un messaggio chiaro e deciso a Francoforte sull'alleggerimento dell'austerità".
Scopriremo giovedì se la BCE è pronta ad affrontare la questione del QE, o qualsiasi altra questione. I prestiti alle imprese si stanno contraendo al ritmo del 3%. La BCE ha mancato il suo obiettivo di inflazione del 2% per 150 punti base, e continuerà a mancarlo di parecchio nel 2015 e nel 2016, in base alle sue stesse previsioni. Si potrebbe dire che stia violando pesantemente il suo mandato, per non parlare dei più vasti obblighi del Trattato per sostenere la crescita e gli obiettivi economici dell'Unione, ma ancora se ne sta con le mani in mano.
I critici hanno evidenziato che da anni la crescita dell'aggregato M3 tedesco si attesta costantemente tra il 4 e il 5% all'anno, ma non riescono a dire che la BCE imposta la sua politica monetaria esclusivamente sugli interessi di un paese, indipendentemente dal grado di devastazione degli altri paesi, devastazione che ora sta toccando anche Finlandia e Olanda. Se gli altri governatori sono così inerti o intimiditi dalla supremazia della Bundesbank da sopportare tutto questo, allora si meritano questo destino.
Forse ci sarà un leggero taglio dei tassi di interesse, o un tasso negativo sui depositi, o la fine dello sterilizzazione degli acquisti di obbligazioni; o un po' di polvere negli occhi che arriva con un anno di ritardo, che sarà gravemente insufficiente e che non farà alcuna differenza. Quando la deflazione si velocizza, ci vogliono iniziative più radicali per gestirla. Jens Weidmann, dalla Bundesbank, ha aperto le porte al QE in modo davvero tiepido, apparentemente per ragioni tattiche, ma le conseguenze politiche di una simile azione sono davvero punitive in Germania.
La Bundesbank non ebbe voce in capitolo nel piano di salvataggio della BCE del 2012 (OMT), ma la Germania sì, e tale circostanza spesso non è ben non compresa dagli analisti anglosassoni. Lo schema è stato progettato di concerto con il ministro tedesco delle finanze, con il pieno supporto della Cancelliera Angela Merkel. A una cena privata tre settimane prima dell'OMT, ho udito un alto funzionario tedesco dichiarare che "non vola una mosca nell'eurozona senza l'approvazione di Berlino", e non ho dubbi che ne fosse convinto. Così funziona l'UEM. Non ci sono segnali che lascino pensare che la signora Merkel sia pronta per un QE.
La BCE insiste nel dire che l'ultimo calo dell'inflazione sarebbe dovuto alla diminuzione dei costi dell'energia, e che pertanto sarebbe transitorio. Si tratta di un alibi sospetto. La BCE ha dimostrato l'opposto nel 2008, alzando i tassi in uno shock petrolifero basato sull'affermazione secondo cui gli effetti dell'energia non sarebbero passeggeri.
In ogni caso, alcuni dei principali analisti energetici mondiali affermano che il prezzo del petrolio ha appena iniziato a scendere, visto l'aumento della produzione di greggio. La produzione dell'Iraq ha raggiunto il suo massimo da 35 anni. Le esportazioni della Libia saliranno quando le milizie ribelli termineranno il blocco. Gli Stati Uniti potrebbero aggiungere 1 milione di barili al giorno per quest'anno, toccando gli 11 milioni. Un calo a 80 dollari del prezzo del barile sarebbe un toccasana per i redditi reali che sono in calo in mezza Europa, ma potrebbe anche liberare “aspettative inflattive”, un effetto simile a quello che colpì il Giappone negli anni '90.
I timori per la deflazione in Europa si placherebbero se fosse vero che siamo giunti all'apice di un nuovo ciclo di crescita economica globale. Se ciò sia vero, proprio mentre Cina e Stati Uniti si avvicinano, rimane da vedere. "Potremmo avere di fronte a noi anni di crescita lenta e inferiore alla attese", ha dichiarato questa settimana Christine Lagarde del FMI.
"Il rischio è che, senza una sufficiente ambizione politica, il mondo possa cadere in una trappola di bassa crescita a medio-lungo termine. L'area dell'euro ha bisogno di altro monetary easing, anche attraverso misure non convenzionali".
Potremmo anche essere vicini alla fine di un ciclo quinquennale globale, che Eurolandia ha ampiamente mancato a causa dei suoi errori. Se così fosse, la regione è solo a un passo dal precipitare in una piena deflazione, che porterà matematicamente l'Italia e altri paesi verso l'insolvenza, velocizzando una crisi del debito sovrano troppo grande per essere arginata. È una scelta politica. Ci sono ventiquattro uomini e donne che vogliono che tutto questo accada." Ambrose Evans-Pritchard

Seveso, scoperta la banca della 'ndrangheta: riciclava il denaro degli imprenditori, 40 arresti

Dalle carte dell'indagine, coordinata dall'aggiunto Ilda Boccassini, emerge una 'nuova mafia' che spara poco e tratta molto con il mondo produttivo. L'intercettazione: "Il capo è come la banca d'Italia"(04-03-2014)

E' nella produttiva Brianza, non a
caso, che le cosche della 'ndrangheta hanno pensato bene di installare una sorta di banca clandestina" che movimentava "centinaia e centinaia di milioni di euro" attraverso un reticolo di società usate per riciclare capitali illeciti e spesso tolte dalle mani degli imprenditori ormai in crisi anche in quelle ricche terre. E' l'ennesimo capitolo dell'espansione della mafia calabrese al Nord, in Lombardia in particolare, portato alla luce da un'inchiesta della Dda di Milano che ha fatto emergere come altro "dato nuovo e preoccupante" la stretta collusione tra l'imprenditoria locale e i clan, oltre a una serie di estorsioni ai danni di dirigenti di società di calcio.

Con un blitz della squadra mobile, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Giuseppe D'Amico, è stata smantellata la potentissima 'locale', ossia una cosca in termini 'ndranghetisti, di Desio (Monza e Brianza), capeggiata da Giuseppe Pensabene, 47 anni originario di Reggio Calabria ma residente a Seveso, che si vantava di essere una lavanderia" di denaro e che per gli altri affiliati era il "papa" o il "sovrano" o come la "banca d'Italia". E se nelle carte dell'inchiesta viene fuori come il clan abbia cercato di riempire il vuoto prodotto dagli oltre 170 arresti in Lombardia del 2010 dell'
operazione 'Infinito-Tenacia', il gip che ha firmato l'ordinanza a carico di 40 persone (21 in carcere e 19 ai domiciliari) descrive anche una vera e propria 'nuova mafia'.

I "fenomeni di compenetrazione tra mafia e impresa", scrive il giudice, storicamente "confinati nelle ben note aree geografiche dell'Italia meridionale", non solo si sono estesi "in Lombardia e al Nord in genere (e questo è un dato risalente nel tempo), ma soprattutto" vivono grazie a "un intenso e disinvolto connubio tra forme evolute di associazioni mafiose e imprenditori calabresi e lombardi, pronti a fare affari illegali insieme come se niente fosse". E così fra gli arrestati figura l'imprenditore edile di origine calabrese Domenico Zema, in passato anche assessore in un Comune della Brianza, "uomo di storia, di fatti, di rispetto, di amicizia, di esperienza, di conoscenze", come lo definisce Pensabene.

E c'è anche Fausto Giordano, nato in Svizzera - dove la cosca portava i soldi (che finivano anche a San Marino) - altro imprenditore edile che ha il compito di "procacciare nuovi clienti e nuovi affari". Poi una serie di imprenditori e commercianti vittime di estorsioni ed usura, ma nessuno di questi, rimarca il gip, "ha mai presentato denunzia all'autorità giudiziaria". Non l'hanno fatto nemmeno il vicepresidente esecutivo del Genoa, Antonio Rosati, e un ex direttore generale della Spal, Giambortolo Pozzi, anche loro finiti nella morsa dell'organizzazione. Nell'ottobre 2011 il clan avrebbe elargito 100mila euro alla Spal Calcio e un altro prestito di 30mila euro sarebbe stato erogato personalmente a Pozzi nel gennaio 2012, con interessi, scrive il gip, "di natura chiaramente usuraia".In un incontro a Seveso, dove la cosca aveva la sua base in una sorta di "ufficio-tugurio", Pensabene e altri del clan "ottenevano il rilascio da parte di Pozzi di 36 cambiali (...) per un importo complessivo di 198mila euro". Rosati, già presidente del Varese Calcio, secondo il gip è risultato invece "in rapporti di affari con Pensabene", tanto che avrebbe concordato con uomini del clan "di operare alcune speculazioni edilizie". Mentre un ex presidente della Nocerina, Giuseppe De Marinis, sarebbe stato pestato fino al distacco della retina di un occhio per un debito usurario.

Nelle quasi 500 pagine di ordinanza il gip elenca tutte le 39 società, un vero e proprio impero, "costituite o acquisite dal gruppo criminale facente capo a Pensabene" e "utilizzate per fare circolare i flussi di denaro contante, per l'acquisizione del patrimonio immobiliare e per l'emissione di fatture fittizie". Un elemento preoccupante, ha spiegato Boccassini, "è il fatto che ancora una volta abbiamo trovato imprenditori usurati e malmenati che hanno preferito non denunciare". Fra gli arrestati non mancano i cosiddetti 'colletti bianchi', come Vincenzo Bosco e Walter Alessandro La Coce, direttore e vicedirettore dell'ufficio postale di Paderno Dugnano (Milano), che avrebbero autorizzato "sistematicamente presso i loro sportelli le operazioni di prelievo di ingenti somme di denaro contante" per la cosca.

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In Ucraina la situazione è questa: Yanucovych era stato eletto in elezioni con il 51,8 per cento dei voti. 
Ora, l’Occidente ha appoggiato questa rivolta, una rivolta molto violenta, armata. Sono stati sequestrati una sessantina di poliziotti e quindi pone il principio che anche un regime democraticamente eletto possa essere rovesciato legittimamente con la violenza. Quindi potrebbe essere uno di quei casi in cui l’Occidente si dà la zappa sui piedi, perché potrebbe accadere anche nelle democrazie ed essere considerata non più illegittima, oltretutto questa partitocrazia è ben più ladra di Yanucovych con le sue piscine. Quello che ha rubato in trent’anni altro che piscine, struzzi e bottiglie di champagne!! Siamo di fronte a una seconda guerra fredda. Dopo il crollo dell’URSS gli Stati Uniti in particolare, ma con i loro alleati occidentali, hanno inanellato credo sette o otto guerre di aggressione, tutte! E solo la prima, quella del Golfo, poteva essere giustificata se Saddam Hussein sveva aggredito il Kuwait, ma le altre, Afganistan, Iraq, Libia… Adesso che la Russia è diventata di nuovo protagonista della scena mondiale, si ripropone la contrapposizione tra questi due blocchi e l’Occidente è all’attacco, anche economicamente, da tutte le parti, nel senso che è un tentativo di occupazione geopolitica del mondo intero. Prendiamo il Venezuela, adesso, dopo la morte di Chavez, guarda caso ci sono queste rivolte. E’ chiaro che in ogni Paese c’è del malcontento, a parte il fatto che la politica di Chavez in Venezuela era stata una politica non alla Castro. Chavez non era un comunista, ma un socialista e eletto democraticamente. E’ altrettanto chiaro che gli Stati Uniti soffiano su questi malcontenti o li foraggiano. L’Argentina, che ha fatto una scelta intelligente, di non integrarsi nel mercato finanziario internazionale, che sta provocando disastri ovunque, è stata messa in ginocchio anche economicamente dal giro finanziario internazionale. 
Quindi è in atto una sorta di guerra tra mondi dove alle due potenze tradizionali si aggiunge la terza incognita, che è il mondo musulmano che non ci sta a farsi né occidentalizzare, né comunistizzare, vuole seguire una propria linea di sviluppo. Oggi la guerra non si combatte come ai vecchi tempi, dove sarebbero entrate truppe russe o arrivati gli americani, si combatte economicamente, quindi la Russia ricatta l’Ucraina con il gas e gli altri rispondono promettendo miliardi di dollari. Però tutto ciò in qualche modo avviene sulla testa degli stessi ucraini e anche di noi cittadini europei, Nessuno decide niente, noi siamo sudditi, questa è una situazione che si vede ovunque e in Italia lo vediamo bene, pur essendo governati da dei quaraquaquà. Chavez aveva un’altra consistenza e se restiamo in Europa la Merkel ha un’altra consistenza, l’Italia è ormai diventata una povera cosa. Suddita due volte, degli americani e in qualche misura di una Europa più forte." Massimo Fini

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I russi di Rosneft mettono mezzo miliardo per il 13% di Pirelli

Il 26% detenuto da Camfin passa in un veicolo che per la metà sarà controllato dalla società petrolifera. L'altro 50% si divide tra Nuove Partecipazioni, che avrà l'80% delle quote, Unicredit e Intesa Sanpaolo. L'operazione a 12 euro per azione

MILANO - Si rafforza la presa della russa Rosneft sull'Italia. Dopo aver rilevato il 20% di Saras dalla famiglia Moratti, la compagnia petrolifera russa è pronta a mettere le mani sul 13% di Pirelli dando forza ai rumors di fine gennaio quando pareva che insieme a Goldman Sachs fosse pronta a lanciare un'Opa sulla Bicocca. Indiscrezioni che il numero uno della società degli pneumatici, Marco Tronchetti Provera, aveva bollato come "illazioni. Non è arrivata nessuna proposta al sottoscritto, nè tantomeno ho fatto io proposte al board di Pirelli". 

Certo per il momento il passaggio di controllo non è all'ordine del giorno e anzi nei nuovi patti l'uscita di Tronchetti non è più prevista nel 2017, anzi i tempi per decidere il futuro della Bicocca si allungano di altri 5 anni. Nel frattempo, però, esce di scena il fondo Clessidra di Claudio Sposito cambiando così la catena di controllo degli pneumatici, secondo un accordo di massima del quale ha dato notizia con una nota mattutina Intesa Sanpaolo.

Proprio Ca' de Sass, insieme a Unicredit, Clessidra, Nuove Partecipazioni (Marco Tronchetti Provera e soci) e Rosneft è tra i firmatari di questo accordo, secondo il quale verranno "valorizzate" le quote indirette di Pirelli possedute attraverso Camfin "a un prezzo in trasparenza pari a 12 euro per azione" (grossomodo l'attuale
 
prezzo di Borsa). Clessidra dovrebbe incassare 260

milioni, dopo averne investiti poco più di 150 milioni nel giugno scorso.

Ai tempi dell'opa su Camfin della scorsa estate la valutazione di Pirelli era stata di 8 euro ad azione. Di fatto, il pacchetto del 26% circa di azioni Pirelli, detenuto oggi da Lauro 61/Camfin, entrerà in una nuova scatola. Questa "newco", cioè una nuova società creata ad hocper l'operazione, sarà a sua volta detenuta da due diverse realtà. Metà del capitale andrà appunto ai russi di Rosneft, che secondo le indiscrezioni dovrebbero pagare mezzo miliardo. L'altra metà del capitale andrà a un nuovo veicolo nel quale continueranno a sedere Nuove Partecipazioni (Tronchetti Provera) con l'80% delle quote, e le due banche (Intesa Sanpaolo e Unicredit) con il 10% a testa. Entrambi gli istituti di credito avevano investito meno di 120 milioni in Lauro-Camfin e vedranno le proprie quote valorizzate 200 milioni circa prima di reinvestire una cinquantina di milioni nella nuova operazione.

Le banche reinvestiranno quindi parte dei denari ottenuti liquidando le attuali posizioni nella nuova scatola di controllo di Pirelli, mentre il fondo Clessidra sarà del tutto fuori dai giochi. Quanto alla governance, la nota di Intesa specifica che Nuove Partecipazioni "indicherà il presidente e ceo di Pirelli, con pieni poteri sulla gestione ordinaria della società. 

La governance di Pirelli rimane invariata, resta centrale il ruolo di guida del board, in linea con" le migliori prassi internazionali. Con l'uscita di scena di Sposito e di Clessidra decade l'obbligo di valorizzazione delle quote dopo 4 anni, la preannunciata 'exit' da Pirelli nel 2017. I nuovi accordi con Rosneft avranno, durata di 5 anni, rinnovabili a scadenza. E' possibile ipotizzare che il gruppo russo, con questa mossa, si candidi a rilevare il controllo della società, anche se in base ai nuovi accordi il numero uno della Bicocca, Tronchetti Provera, non avrà più alcun obbligo di uscire dal gruppo italiano entro il 2017. Ci sarebbero così cinque anni per decidere del futuro del celebre marchio italiano.

Quanto infine agli aspetti industriali, "obiettivo dell'accordo - si legge nel comunicato - è sviluppare le attività e il business di Pirelli, anche rafforzando la rete commerciale in Russia grazie alla capillare presenza sul territorio di Rosneft". E ancora: "Già dalla fine del 2012 Rosneft, la più importante società quotata nel settore oil and gas al mondo, ha definito con Pirelli una serie di intese commerciali e nel settore della ricerca e sviluppo, in particolare nei materiali per la produzione di pneumatici e nella gomma sintetica". Rosneft, come detto, è la stessa società che ha siglato un accordo con i Moratti, storicamente legati a Tronchetti Provera, per rilevare il 20% della Saras, la società della raffinazione.

L'ultimo aggiornamento Consob sull'azionariato dell'azienda della Bicocca vede Lauro 61 al 26,2% di Pirelli, seguito dai Malacalza poco sotto il 7%, poi Edizione al 4,6%, Mediobanca al 3,95%, il fondo Harbor International al 3,94%. L'azione della Bicocca (segui in diretta) scivola in fondo al listino principale dopo la notizia. Secondo gli analisti l'accordo rafforza la posizione di Marco Tronchetti in confronto a quella delle istituzioni finanziarie. L'operazione è però vista in modo ambivalente: per gli esperti di Mediobanca riduce l'appeal speculativo. Nei mesi scorsi, infatti, il titolo aveva in parte beneficiato in Borsa della convinzione del mercato che fosse imminente un riassetto, magari anche attraverso anche un'opa. Per Intermonte, invece, "l'ingresso di Rosneft apre una nuova fase in Pirelli: una notizia positiva per il titolo".

Il M5S occupa la commissione giustizia
Renzi: "Grillini bloccano la democrazia"

La presidente della Camera usa la 'tagliola' contro ostruzionismo 5 Stelle su dl Imu-Bankitalia (leggi)
Scoppia la bagarre dei pentastellati e FdI. Il segretario Pd: "Scambiano il Parlamento per un ring" che cos'è il decreto IMU-Bankitalia??

E' un importante decreto voluto il 27 novembre 2013 da Saccomanni nell'ignoranza assoluta degli italioti ipnotizzati dall'espulsione del delinquente di Arcore dal Senato. L'opposizione pentastellata non è riferita ovviamente all'abolizione della seconda rata IMU 2013, ma alla SELVAGGIA PRIVATIZZAZIONE IMPOSTA DAL GOVERNO alla Banca d'Italia. Come già ampiamente descritto nel nostro articolo

Banche, così il governo anticipa di un anno il regalo da 4 miliardi di euro, il Governicchio Burletta ha proceduto ad una spaventosa rivalutazione del capitale sociale della Banca d'Italia (7,5 miliardi di euro contro i precedenti 156.000 !!!) allo scopo di rivalutare a sua volta le partecipazioni azionarie delle varie banchette italiote (Unicredit ed Intesa su tutti...)per fare in modo che rastrellassero 4 miliardini di crediti in relazione alla vendita delle loro partecipazioni che deve essere ridotta al 3%, contemporaneamente aprendo l'intero capitale alle partecipazione privata anche estera in quanto i soggeti devono semplicemente essere membri UE. Da questa colossale vendita il Governo rastrellerà 1,5 miliardi di euro contro la perdita totale della funzione pubblica della Banca d'Italia nonchè di garante a tutela dl risparmiatore. Altresì i giganti bancari europei potranno attingere ad una quota rivalutatissima, spuntare ottime cedole e mettere il becco negli affari italioti. Di fronte a questa porcata allucinante cha fa il paio con la cessione del 40% di Poste Italiote e con la messa in vendita di quote di FinMeccanica e di Enav - la rete di gestione dei controllori di volo - al peggior Italonia del secondo dopoguerra sta svendendo gli ultimissimi rimasugli di patrimonio pubblico dopo aver disintegrato telefonia (Sip-Telecom), industria metal-meccanica (Alfa, ferriere,Italsider), autostrade (date in gestione a Bemetton), credito al risparmio italiano (il fu Credito Italiano), chimica. Uno strapuntino suggellato altresì dal comportamento diarroico dell'ex comunista Boldrini che ormai si è ampiamente scordata di cosa significhi stare all'opposizione

Banche, nuovo record dei crediti a forte rischio: sofferenze a 155,8 miliardi (+24,6%)

Mentre Visco ragiona sulla bad bank nazionale, arrivano i nuovi dati sulla crescita esponenziale dei prestiti a creditori insolventi che zavorrano gli istituti

La mole dei crediti bancari italiani in sofferenza per l’insolvenza del debitore tocca un nuovo record: a dicembre il tasso di crescita sui dodici mesi è risultato pari al 24,6% (con una crescita di 1,9 punti rispetto al 22,7% di novembre). Si tratta di un nuovo massimo dal 1998. Lo fa sapere la stessa Banca d’Italia il cui governatore, Ignazio Visco, sabato 8 febbraio ha aperto la strada alla creazione di una bad bank nazionale, cioè una sorta di veicolo-lavatrice in cui convogliare e smaltire tutta la “spazzatura” del sistema il cui controvalore supera i 300 miliardi di euro. Mentre le sole sofferenze lorde delle banche italiane (categoria che riguarda esclusivamente i crediti accordati a un debitore in stato di insolvenza anche non certificata) a dicembre ammontavano a 155,8 miliardi, 6,2 in più dei 149,6 di fine novembre e ben 30,9 in più rispetto ai 124,9 miliardi di fine 2012. 

Secondo il Financial Times, che cita fonti di governo, l’ipotesi non troverebbe però sponda nel premier Enrico Letta. Le fonti citate dal quotidiano della City sostengono che “l’idea di una bad bank potrebbe essere controproducente per l’Italia” e che il timore del premier sarebbe quello di “accelerare il processo di un downgrade da parte delle agenzie di rating nei prossimi mesi”. Bad bank o meno, secondo il direttore generale dell’Abi, Giovanni Sabatini, che ne ha parlato con l’agenzia Bloomberg, dall’analisi della Bce sulle banche italiane potrebbero emergere carenze tra i10-15 miliardi di euro. Una cifra a suo dire gestibile e in linea con le stime di Bankitalia. 

Intanto imprese e famiglie continua a fare i conti con la stretta del credito. A dicembre, sempre secondo Bankitalia, i prestiti delle banche italiane al settore privato hanno registrato una contrazione su base annua del 3,8 per cento (-4,3 per cento a novembre). Quelli alle famiglie sono in particolare scesi dell’1,2 per cento (-1,5 per cento nel mese precedente), mentre quelli alle società non finanziarie sono diminuiti, sempre su base annua, del 5,3 per cento (-6 per cento a novembre). 

“L’aumento esponenziale di sofferenze ed incagli, non è addebitabile esclusivamente alla crisi sistemica seppur generata dai banchieri, ma in massima parte ad una gestione del credito spesso clientelare“, fanno nel frattempo sapere Adusbef e Federconsumatori in una nota. Un credito, attaccano le associazioni dei consumatori, “che nega piccoli fidi a platee vaste di richiedenti senza Santi in Paradiso, per erogare masse creditizie di decine di miliardi di euro privi di garanzie reali, ai soliti amici, sodali, compagni di merende dei banchieri di sistema, come insegnano i casi di scuola di Zaleski, Zunino, Ligresti, che dovrebbero perfino interessare le Procure della Repubblica per violazione al codice penale per incauti affidamenti“. Reiterata, quindi, la richiesta di chiarimenti sul progetto bad bank nazionale del governatore della Banca d’Italia “il quale, con la usuale scusa di liberare risorse da utilizzare per il finanziamento dell’economia, vuole rifilare l’ennesima patacca agli italiani”.

Dal canto suo il Comitas, l’associazione delle microimprese italiane, ricorda come “la causa della crescita delle sofferenze è delle banche stesse. Negli ultimi anni, infatti, gli istituti di credito da un lato hanno fortemente ridotto il credito concesso a imprese e privati, dall’altro hanno incrementato la revoca dei fidi, rendendo insolventi aziende e cittadini. Se quindi non si concedono più i soldi ai privati e si ritirano – spesso immotivatamente – i prestiti già elargiti, si getta benzina sul fuoco accentuando le difficoltà economiche di una pluralità di soggetti, con effetti diretti sul tasso di sofferenza”. Quanto alla bad bank, “auspichiamo che l’ipotesi avanzata di costituire un fondo dove far confluire i crediti in sofferenza possa alleggerire la situazione a patto che, contemporaneamente, le banche allarghino i cordoni della borsa e ridiano ossigeno alle aziende, soprattutto piccole, che sono in grado di crescere, innovarsi, internazionalizzarsi, e assumere giovani”.

Berlino contro la Bce sull'acquisto Bond.
Ma il tasso Btp scende ai minimi dal 2006

I mercati leggono positivamente il rimando tedesco alla Corte di giustizia europea sul programma di acquisto di titoli di Stato della Bce: di fatto riconosce l'autorità del tribunale comunitario su quello nazionale. Milano chiude in rialzo dello 0,96%, spread in area 200. Negli Usa la disoccupazione cala come previsto al 6,6%, ai minimi da cinque anni, ma i nuovi posti di lavoro sono 'solo' 113mila

MILANO - L'Alta Corte federale tedesca chiede l'intervento della Corte europea sul programma Omt della Bce, lanciato a settembre da Mario Draghi, che prevede l'acquisto di titoli di Stato di Paesi in difficoltà in cambio di rigorosi piani di austerità di bilancio. Una mossa di cui l'Eurotower prende atto ribadendo seccamente che "il programma Omt rientra nel suo mandato". La lettura dei mercati è, tuttavia, positiva: "La Germania - spiegano gli addetti ai lavori - riconosce di fatto di non poter deliberare senza aver interpellato la Corte europea. Proprio quello che voleva la Bce secondo cui è competente solo il tribunale comunitario". Questa versione è sufficientemente accreditata da allentare - dopo un primo scossone - le tensioni sul debito pubblico dell'Eurozona in scia anche alle parole di ieri del governatore Bce Mario Draghi, che ha promesso costo del denaro basso ancora a lungo e ha assicurato che l'Eurozona non si trova in deflazione.

I primi a beneficiarne sono i Btp italiani che ben comprati sul mercato secondario hanno visto il rendimento precipitare al 3,68% ai minimi dal febbraio 2006 (lospread è in calo in area 200 punti), quando la crisi del debito sovrano pareva impossibile. La mossa della Germania si aggiunge

al trend delle ultime settimane con i grandi investitori internazionali che spostano capitali dai paesi emergenti verso i più sicuri mercati occidentali premiando gli ex Piigs: dal Portogallo all'Italia, dall'Irlanda alla Spagna fino alla Grecia. La convizione è che la crisi sia alle spalle e oggi, quindi, si tratta di Paesi che offrono buoni rendimenti (se comparati ai treasury americani o ai bund tedeschi) con rischi limitati. 

A questa importante novità si aggiungono i dati sul lavoro negli Stati Uniti, che erano molto attesi dai mercati. Come da previsioni, la disoccupazione Usa è scesa al 6,6% a gennaio e si è portata ai minimi da cinque anni; d'altra parte, però, la creazione di nuovi posti di lavoro si è fermata a 113 mila unità e ha deluso le aspettative per 170-180 mila nuovi occupati. Nell'intero 2013 l'economia ha creato in media 194 mila nuove buste paga al mese, secondo i dati rivisto oggi dal Dipartimento del lavoro, non lontane dalle 200mila poste come obiettivo dalla Fed. L'andamento degli ultimi due mesi è stato però ben più lento e questo sarà oggetto di discussione in seno alla Banca centrale Usa, chiamata sotto la nuova guida di Janet Yellen a continuare o meno la stretta agli stimoli monetari. E così a Wall Street il Dow Jones sale dello 0,4%, l'S&P 500 dello 0,55%, mentre il Nasdaq avanza dello 0,9% alla chiusura dei mercati europei. 

Chiusura che avviene in terreno positivo: a Milano, Piazza Affari rimbalza positivamente al dato americano sul lavoro e termina gli scambi a +0,96%. Rispetto allo scorso venerdì, il Ftse Mib ha guadagnato un punto percentuale circa, dopo un avvio di ottava decisamente negativo. In rialzo anche gli altri listini: Londrachiude a +0,2%, Francoforte aggiunge lo 0,49%, e Parigi lo 0,96%. Sulla Borsa milanese è stata volatile
Telecom, che è partita a razzo, è passata in negativo e poi ha chiuso tra i migliori; in evidenza ancheMediolanum, dopo il giudizio positivo degli analisti di Citigroup. In rialzo anche Mediaset, grazie alle dichiarazioni del vice presidente Pier Silvio Berlusconi, che ha parlato di "qualche segnale positivo" per la pubblicità dall'inizio dell'anno. L'euro chiude sopra quota 1,36 dollari dopo i deludenti dati sull'occupazione Usa, mentre il biglietto verde arretra. La moneta europea passa di mano a 1,3616 dollari, dopo aver toccato in precedenza un minimo di 1,3551 dollari.

Prima dei dati sull'occupazione Usa si sono registrate alcune indicazioni macroeconomiche dal Vecchio continente. In Germania la bilancia commerciale ha segnato un surplus di 18,5 miliardi a dicembre con un avanzo di 198,9 miliardi nel 2013. L'export è diminuito dello 0,9% su mese a dicembre e aumentato del 4,6% su anno, mentre l'import è sceso dello 0,6% congiunturale e salito del 2% tendenziale. Dati sulla bilancia commerciale anche in Gran Bretagna, dove il deficit di dicembre scende a 7,7 miliardi di sterline. In Spagna, invece, la produzione industriale è salita del 3,5% tendenziale a dicembre. Nell'intero 2013 la produzione industriale è scesa dell'1,8% sul 2012. Numeri che dimostrano come la ripresa a Madrid sia cominciata.

Draghi esclude il “rischio deflazione”. E annuncia: “Azioni decisive se servirà”

L'Eurotower non tocca il costo del denaro e lo lascia agli attuali minimi storici. Il presidente: "Politica Bce non si riflette sui tassi in Italia e Francia". E poi rassicura sul rischio di un calo dei prezzi. Ma per gli analisti resta una reale minaccia per la ripresa

Mario Draghi tenta di allontanare lo spettro della deflazione. “L’Eurozona sperimenterà un lungo periodo di bassa inflazione“, ha avvertito il presidente della Banca centrale europea, ma “seguirà poi un rialzo graduale dei prezzi” e per questo motivo è presto per parlare di “deflazione”. Rispondendo ai giornalisti a Francoforte, l’ex numero uno di Bankitalia ha spiegato che la Bce ”monitora attentamente” gli sviluppi sui mercati monetari ed è pronta ad “azioni decisive“ se necessario, promettendo tassi ai livelli attuali o inferiori “ancora a lungo”.

L’Eurotower ha poi annunciato che il tasso d’interesse di riferimento resta invariato al minimo storico dello 0,25 per cento. “Gli effetti della politica monetaria di bassi tassi della Bce non si riflettono a quelli applicati in Italia e in Francia“, ha affermato il presidente dell’istituto centrale durante la conferenza stampa.

Tornando al rischio deflazione, Draghi ha precisato che “non c’è alcuna analogia con la situazione del Giappone negli anni ’90″ e ha ricordato che l’inflazione nell’area della moneta unica “non è molto diversa dagli Stati Uniti, dopo la ripresa è in corso da più tempo”. Il numero uno dell’Eurotower ha quindi spiegato che l’andamento dei prezzi al consumo è condizionato “dai prezzi di energia e cibo” ma anche “dalla debole domanda, dovuta all’elevato tasso di disoccupazione”.

Ma molti analisti - come riportava nei giorni scorsi il Financial Times - restano convinti che un periodo prolungato di calo dei prezzi possa rappresentare una reale minaccia per la ripresa. “I rischi di deflazione ora sono maggiori”, affermano gli osservatori, sottolineando che se la minaccia deflazione si realizzasse questo potrebbe esacerbare le pressioni sui Paesi della periferia dell’area euro aumentando il costo del debito e soffocando le spese di famiglie e aziende. Tra gli economisti, poi, non manca chi sostiene che alcuni settori economici abbiano già crescita negativa. Anche per questo la Banca d’Inghilterra ha lasciato i tassi di riferimento invariati allo 0,50% confermando il piano di riacquisto Bond a 375 miliardi di sterline.

Proprio l’inflazione era uno dei dossier alla base dell’incontro dei banchieri centrali, che si sono riuniti oggi. Continua infatti a preoccupare l’aumento dei prezzi, in ulteriore rallentamento nell’Eurozona (0,7% a gennaio), in Paesi come l’Italia (0,6%) e inferiore alle attese persino inGermania (1,3%), che assottiglia pericolosamente la distanza di sicurezza dal rischio-deflazione. Draghi – come aveva già fatto in passato – non ha nascosto che l’inflazione è molto bassa e ci rimarrà “a lungo”, promettendo di agire se i rischi di deflazione si facessero troppo concreti.

E ha cercato di rassicurare sul rischio deflazione. Ogni crisi finanziaria, ha detto, “è sempre seguita da un periodo di bassa inflazione”. E quella in corso è dovuta ai bassi prezzi alimentari ed energetici globali e a Paesi come Portogallo, Irlanda e soprattutto Grecia, il Paese più in difficoltà che secondo Bloomberg potrebbe ricevere dall’Ue una estensione a 50 anni dei suoi prestiti, con un taglio dei tassi su alcuni degli aiuti già ricevuti.

L’altro dossier all’ordine del giorno sono i tassi troppo alti che le banche si applicano sui prestiti di liquidità fra loro. Gli stress test sulle banche non hanno infatti ancora fatto chiarezza sui bilanci. C’è quindi poca fiducia a prestare liquidità, specie verso il Sud dell’Eurozona. Aggiungendosi allospread sui titoli di Stato, che fa salire i tassi pagati dalle banche e applicati poi sui prestiti a famiglie e imprese, tutto ciò amplifica la stretta creditizia che sta frenando la ripresa in Paesi come l’Italia.

ARTIFICI CONTABILI PER INVENTARSI LA CRESCITA

Si può! Truccare i dadi si può! Cambiare le statistiche pur di nascondere la verità si può. A giugno 2013 l’Istat trasformò il calcolo dell’indice di fiducia degli italiani ottenendo un aumento di ben 20 punti celebrato da Saccomanni (regalategli un lampadario) e Letta come l’ennesima luce in fondo al tunnel. Da allora gli italiani sorridono alla vita. Ora ci risiamo. A settembre 2014 la Commissione Europea utilizzerà una nuova metodologia di calcolo del PIL. Spese militari (?!) e di ricerca e sviluppo diventeranno investimenti. La valutazione delle spese relative alla bilancia dei pagamenti e al sistema previdenziale cambierà. Il tutto al fine di abbandonare l'ESA 95 (European system of national accounts) e allineare il calcolo del PIL europeo alla analoga metodologia di calcolo americana. L'Europa riparte alla grande. Alcuni Paesi europei hanno già fornito i nuovi risultati con delle simulazioni. Siamo tutti più ricchi e la luce splende in fondo al tunnel. Per l'Italia, durante il periodo 2010-2012, vi è un aumento di PIL di più di un punto percentuale. I cacciabombardieri F-35 diventano un ottimo investimento, in fondoportano lavoro.Gli altri Paesi europei anticipano addirittura un sensibile miglioramento: la Gran Bretagna di 4%, Svezia e Finlandia di 5%. 
Se il risultato di 1-2 punti percentuali in più sarà confermato per l'Italia avremo 500 dai ai 900 milioni di euro da spendere in quanto diventati virtuosi per la UE. Il problema è che i soldi non ci sono. Preparatevi a sei mesi di chiacchiere su un tesoretto che attribuiranno alle capacità di Capitan Findus Letta e di Gelatina Saccomanni senza spiegare che è solo artificio contabile. Più Pil e più bombe per tutti. E' l'Italia che va... Ma dove va?

Le agenzie di rating non sono sempre affidabili, sappiamo bene i danni che hanno fatto certificando come investimenti sicuri i derivati tossici e amplificando la speculazione sul debito pubblico dei Paesi dell’euro tra 2010 e 2012. Ma ogni tanto hanno il pregio di sottolineare l’ovvio, come ha fatto ieri Standard&Poor’s, la più importante delle tre agenzie americane che dominano il mercato. Nel suo report sull’Eurozona, S&P avanza un certo scetticismo sull’Italia: “Siamo ancora incerti se i trend economici e nelle decisioni politiche reggeranno”.

Non è ovviamente solo la situazione politica, difficile da decodificare, a inquietare gli analisti. Ci sono i numeri. Due in particolare. Quello sulla crescita è il più preoccupante: “La domanda di lavoro e le condizioni del credito strette limiteranno la crescita media del Pil in Italia al +0,5 per cento annuo tra il 2014 e il 2016″. Le previsioni del governo sono ormai così chiaramente gonfiate che perfino lo stesso premier Enrico Letta dice pubblicamente che la crescita dell’1,1 per cento nel 2014 è un “obiettivo”, anche se nei documenti ufficiali è indicata come previsione. E la differenza non è ovviamente solo semantica ma di credibilità.

Secondo dato: dice S&P che a fine anno il debito pubblico sarà del 134 per cento del Pil, inutile che Letta celebri riduzioni temporanee di qualche zero virgola. Ci vorrebbero delle liberalizzazioni per liberare la crescita, non potendo usare la leva della spesa pubblica. Ma di queste non c’è traccia nel programma di Letta e neppure in quello di Matteo Renzi, per la verità. Purtroppo ormai il governo, sia con Letta che con il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, ha scelto la linea dello struzzo: negare sempre, contro ogni evidenza, contro ogni numero. E promettere, promettere, promettere.

O si cambia tutto o fra 9 anni il nostro tenore di vita sarà il 60% di quello statunitense, come negli anni’60

Niente luci e ombre, solo bianco e nero. L’Europa corre veloce nella sfida economica con gli Stati Uniti, ma corre all’indietro, talmente veloce che anche l’incerta economia statunitense sembra una locomotiva che porterà la differenza tra i livelli di vita del Vecchio continente nel 2023, praticamente domani, al 60% dei quelli Usa. Peggio di quanto era negli anni’60.

Questo, naturalmente in assenza di profonde riforme economiche. Ma se ne vedono così tante?

A spaventare è che questa previsione, basata su 50 pagine di cifre e grafici complessi, la fa la normalmente tranquillizzante Commissione europea, che non fa altro, da mesi e mesi, che parlare di luce in fondo al tunnel, di ripresa difficile ma che c’è e così via. Lo fa nel suo ultimo report trimestrale sull’area euro, uscito alcuni giorni fa a Bruxelles.

Le voci sulla ripresa sono dunque troppo ottimistiche? Il Trattato commerciale che stiamo negoziando con gli Usa è forse solo un menù che Washington si sta servendo in Europa? Oppure alla Commissione hanno già considerato che questo importante accordo commerciale si incastrerà perfettamente con una serie di riforme decisive a livello europeo e nazionale (Italia compresa) e dunque il rischio non c’è davvero? Tutti gli sforzi fatti dopo il boom della fine degli anni ’50 sono stati bruciati da cinque anni di crisi? Eravamo arrivati quasi alla pari con i ricchi spendaccioni statunitensi e invece, tra nove anni, la nostra economia sarà andata così male che il nostro livello di vita sarà solo il 60% del loro: Loro dieci bistecche? Noi sei. Loro dieci posti di lavoro? Noi sei. Loro dieci giorni di ferie? Noi sei, e via così…

Vale la pena di leggere il passaggio originale: “On the assumption that the euro area and US forecasts underpinning this scenario prove accurate, the euro area is forecast to end up in 2023 with living standards relative to the US which would be lower than in the mid-1960′s. If this was to materialise, euro area living standards (potential GDP per capita) would be at only around 60% of US levels in 2023…”

Eravamo diventati alleati con pari dignità, stavamo nella Nato tutti insieme a gestire le sorti del Mondo e ci ritroviamo invece (tutti noi dell’eurozona) a dover pietire una commessa da un’industria di Cincinnati per tirare avanti?

Secondo i dati diffusi dalla Commissione il crollo europeo è evidente nei dati sulla produttività del lavoro: un’ora di produttività del lavoro nella zona euro era quasi il 90 per cento del valore negli Stati Uniti nella metà degli anni ’90 , ma la cifra è scesa oggi di un 10% e si prevede che arrivi al 73% entro il 2023. Qui si concentreranno le principali motivazioni della differenza, per il resto sarà colpa dei tassi di occupazione e delle ore lavorate procapite.

Secondo la Commissione dunque gli Usa sono usciti dalla crisi meglio di quanto stia facendo la zona euro, con un tasso medio annuo di crescita potenziale del 2,5% nei prossimi 10 anni, mentre la zona euro sarà in media solo all’1% . I tassi di crescita procapite saranno anche qui la metà di quelli statunitensi.

Marco Buti, direttore generale Affari economici cerca di trovare un aspetto positivo in questo dramma, e scrive nella sua introduzione che “il messaggio incoraggiante, tuttavia, è che le prospettive di crescita modesta non sono ‘scolpite nella pietra’. Le proiezioni riportate sono basati su uno scenario “del far nulla”, assumendo cioè che le politiche attuali rimangono invariate. I responsabili politici – ammonisce Buti – possono evitare il terribile scenario di crescita mediante l’attuazione di riforme che contribuiscano a sviluppare appieno il potenziale dell’economia”.

Monte dei Paschi, il mistero dei bilanci è un segreto di Stato

Da due mesi il governo italiano impedisce agli uffici di Bruxelles di rendere nota la decisione con cui la Commissione europea il 27 novembre scorso ha imposto alla banca senese di restituire entro il 2014 tre dei quattro miliardi di aiuti di Stato ottenuti un anno fa

Il documento chiave è secretato. Da due mesi il governo italiano impedisce agli uffici di Bruxelles di rendere nota la decisione con cui la Commissione europea ha imposto il 27 novembre scorso alMonte dei Paschi di Siena di restituire entro il 2014 tre dei quattro miliardi di prestito statale (i cosiddetti Monti bond) ottenuti un anno fa. Il ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni si avvale del diritto di espungere dal testo “informazioni considerate confidenziali”. Un lavoro di sbianchettatura evidentemente laborioso che indica come la vicenda Mps sia ormai affare di Stato.

Il triangolo delle Bermude - Il comunicato emesso lunedì scorso dalla Banca d’Italia lo conferma. Il governatore Ignazio Visco e il direttore generale Salvatore Rossi hanno ricevuto – con un rappresentante del ministero dell’Economia – il presidente di Mps Alessandro Profumo con l’amministratore delegato Fabrizio Viola e il presidente della Fondazione Mps (azionista di controllo della banca) Antonella Mansi con il direttore generale Enrico Granata. Banca, vigilanza e governo – intorno a un tavolo triangolare sempre più somigliante al triangolo delle Bermude – comunicano la loro compattezza: “L’incontro si è svolto in un clima costruttivo, nella responsabile consapevolezza di tutte le parti che il Monte possa continuare a rappresentare una realtà bancaria importante nell’economia del Paese, a condizione di poter contare su un adeguato supporto patrimoniale e su un assetto azionario stabile”. In termini calcistici lo schema di gioco adottato è il catenaccio. Adesso tenete bene a mente l’espressione “adeguato supporto patrimoniale” per capire che cosa c’è sotto.

Tutto comincia nell’autunno del 2011. Lo spread supera quota 500, nasce il governo Monti. L’Eba (European banking authority) ordina a Mps una trasfusione di capitali freschi da 3,3 miliardi di euro. La banca senese è pesantemente esposta sui titoli di Stato italiani, la cui perdita di valore è misurata dall’impennata dello spread. Scatta l’allarme. Il direttore generale Antonio Vigni viene sostituito con un uomo di fiducia della Banca d’Italia, Viola. Il presidente del Monte, Giuseppe Mussari, prima minaccia un ricorso alla Corte di giustizia europea contro la raccomandazione Eba, ma poco dopo si dimette. I suoi amici del Pd senese e nazionale chiamano Profumo.

Per quasi tutto il 2012 il nuovo vertice tratta la crisi Mps come difficoltà fisiologica. Il 9 ottobre 2012, agli azionisti che invocano l’azione di responsabilità contro Mussari, Profumo replica seccamente: “Non abbiamo elementi”. È vero che già dai primi di maggio il Monte dei Paschi è oggetto di perquisizioni a tappeto per l’inchiesta sulla acquisizione della banca Antonveneta, l’operazione del novembre 2007 che segna l’inizio della fine. Ma il 20 giugno Mussari è stato confermato presidente dell’Abi, l’associazione delle banche, all’unanimità. E, soprattutto, il 9 ottobre Profumo non ha elementi, però il 10 ottobre Viola scova in fondo a una cassaforte in uso al suo predecessore Vigni l’ormai celebre mandate agreement, la prova che inchioderebbe Mussari, oggi a processo per ostacolo alle autorità di vigilanza. Nei giorni scorsi la dirigente della Consob Guglielmina Onofri ha testimoniato al tribunale di Siena che gli uomini di Viola avevano già trovato il 20 settembre – venti giorni prima – copia di contratto, con l’indicazione che l’originale si trovava in quella cassaforte. Elio Lannutti, presidente dell’associazione di risparmiatori Adusbef, ha denunciato Viola per falsa testimonianza.

Per capire tante stranezze va spiegato il mandate agreement. Nel 2009 Mussari sta andando con i conti in rosso sotto il peso della sciagurata acquisizione di Antonveneta, pagata 9 miliardi quando ne valeva forse la metà. Per rinviare i problemi convince Nomura e Deutsche Bank a ricontrattare operazioni che vedono Mps in forte perdita. Le due banche fanno il favore, ma a fronte della ricontrattazione con cui rinunciano ai guadagni di due operazioni (rispettivamente Alexandria e Santorini) ottengono una nuova complicata manovra su titoli di Stato (Btp a scadenza 2034) con cui si rifanno abbondantemente ma a lungo termine, consentendo a Mussari di nascondere per un po’ il buco del bilancio.

Gli ispettori di Consob e Bankitalia notano già a fine 2011 queste operazioni in pesante perdita, ma fare cattivi affari non è vietato. E al processo, incalzati dalle domande della difesa di Mussari, argomentano che senza il mandate agreement, il contratto che appunto lega le due operazioni (Btp 2034 e ristrutturazione Alexandria), l’operazione in Btp restava un’operazione in Btp, anche se somigliava terribilmente a un “derivato sintetico” con perdita automatica incorporata.

Come cambia il pensiero di Profumo - La distinzione è decisiva per capire la portata dell’affare di Stato. L’esistenza del mandate agreement viene rivelata dal Fatto il 22 gennaio 2013, con un articolo di Marco Lillo. Lo scandalo esplode e Mussari si dimette dall’Abi. Due giorni dopo a Siena si svolge un’infuocata assemblea degli azionisti, chiamati a un aumento di capitale da 4,1 miliardi al servizio della eventuale conversione dei Monti Bond. Infatti a dicembre 2012, prima dello scandalo, Profumo ha avuto dal governo Monti un prestito di quell’importo, perpetuo ma convertibile in azioni quando lo decida la banca. Trattandosi di un aiuto di Stato, la Commissione europea dà la necessaria approvazione, provvisoria in attesa di un piano di ritrutturazione della banca. All’assemblea del 25 gennaio, nonostante la fresca scoperta dei derivati nascosti di Mussari, Profumo non perde l’aplomb: “La necessaria richiesta del supporto pubblico si riconduce prevalentemente alla crisi del debito sovrano e solo in misura minore anche alle attività di verifica ancora in corso sulle operazioni Alexandria, Santorini e Nota Italia di cui tutti parlano”. Profumo ha dunque chiesto gli aiuti di Stato lamentando difficoltà esogene, come si dice in gergo, cioè non dovute alla gestione di Mussari ma alla crisi mondiale. Il commissario europeo alla Concorrenza,Joaquin Almunia, se ne ricorderà.

Il 6 febbraio Mps comunica di aver calcolato in 730 milioni la perdita su Alexandria e Santorini. All’assemblea degli azionisti del 29 aprile successivo torna in ballo l’azione di responsabilità contro Mussari, e Profumo sfodera un argomento opposto rispetto a tre mesi prima: “La rilevazione operata a fini Eba a fine settembre 2011 ha evidenziato per la Banca una riserva AFS negativa per 3,2 miliardi circa (di cui 1,2 miliardi imputabili all’operazione Nomura e 870 milioni imputabili all’operazione Deutsche Bank), costringendo la Banca a ricorrere a onerose azioni di rafforzamento patrimoniale”. Dunque le operazioni di Mussari hanno lasciato in eredità un buco patrimoniale di 2,07 miliardi, che Profumo fino a quel giorno aveva ascritto alla “crisi del debito sovrano”.

Qui parte l’attacco di Almunia. A luglio 2013 scrive a Saccomanni (fino a due mesi prima direttore generale della Banca d’Italia) minacciando l’Italia di una procedura d’infrazione sugli aiuti di Stato a Mps. Ai primi di settembre, a Cernobbio, scopre le carte. Prima dichiara che l’aumento di capitale da un miliardo prospettato da Profumo è insufficiente. Poi concorda con Saccomanni che l’aumento dovrà essere da tre miliardi, finalizzati alla rapida restituzione del 74 per cento dei Monti Bond. Strano. Profumo lavora su un rafforzamento patrimoniale da 5,1 miliardi (4,1 di Monti Bond più un miliardo di aumento di capitale). Almunia invece impone di restituire 3 miliardi di Monti Bond, e, siccome un decimo dell’aumento di capitale da 3 miliardi va in spese, la banca ci deve mettere 300 milioni suoi, mentre svanisce anche il miliardo di maggior patrimonio che Profumo voleva chiedere al mercato. Risultato: il di cui sopra “adeguato supporto patrimoniale” scende da 5,1 a non più di 3,8 miliardi, e per Mps non è una bella notizia.

Le ragioni del castigo inflitto da Almunia a Mps – compreso il ridimensionamento da terza banca italiana a banca regionale – sono scritte nel documento che il governo italiano non vuole rendere pubblico. All’assemblea del 28 dicembre scorso l’azionista Giuseppe Bivona, rappresentante del Codacons, ha sostenuto, logica e Trattato europeo alla mano, che Almunia, imponendone la restituzione, ha di fatto bocciato gli aiuti di Stato ai sensi dell’articolo 108 del trattato europeo, secondo il quale una mazzata simile è ammessa se “tale aiuto e` attuato in modo abusivo”. Ma attenzione: la scelta di rimborsare i Monti Bond, indebolendo la banca e ribaltando una decisione di pochi mesi prima, è tutta italiana. Per Almunia andava bene anche la conversione in azioni dei Monti Bond, che avrebbe nazionalizzato il Monte quasi azzerando gli azionisti attuali, a cominciare dalla Fondazione. Per Bruxelles basta che gli azionisti non risolvano i loro problemi con i soldi di Pantalone. Perché dunque gridare in coro “tutto ma non la nazionalizzazione!”, visto che i soldi dei contribuenti erano stati già versati senza rimpianti un anno fa? Forse per evitare che un giorno emergano altre sorprese che – trattandosi di banca controllata dallo Stato – gravino sui conti pubblici. Qui si può solo formulare un’ipotesi, visto che il documento ufficiale è segretato nell’evidente imbarazzo di banca, vigilanza e governo.

Fino a che Mussari era presidente dell’Abi… - Per tutto il 2012 Profumo e Viola, in sintonia con Bankitalia e Consob, non hanno visto i perniciosi derivati del presidente dell’Abi in carica, continuando a battezzarli come operazioni in Btp. Così anche dopo la scoperta del mandate agreement Mps ha continuato a contabilizzare quelle operazioni esattamente come le contabilizzava Mussari, che è sotto processo per ostacolo alla vigilanza ma non per falso in bilancio. Lo ha confermato Viola il 28 dicembre scorso: “In data 10 dicembre 2013, la Consob ha di fatto confermato il trattamento contabile applicato dalla banca, che risulta conforme ai principi contabili IAS/IFRS ed è stato concordato con i revisori esterni Kpmg sino al 2010 e Ernst & Young dal 2011”. È quel “di fatto” a segnalare una continuità quantomeno sospetta. Infatti, a dimostrazione di una situazione confusa, la stessa Consob ordina a Mps anche di allegare al bilancio i cosiddetti prospetti pro-forma, che mostrano il bilancio come sarebbe se quelle operazioni in Btp fossero considerate derivati: con miliardi di euro che vanno e vengono da una partita all’altra. Adesso l’unico obiettivo del triangolo Mps-Bankitalia-governo è portare a casa al più presto l’aumento di capitale da 3 miliardi: eviterebbe le insidie della nazionalizzazione e coprirebbe tutto, prima che dal nuovo esame europeo di fine anno (in gergo asset quality review) emerga un nuovo fabbisogno di capitale. O che dal documento secretato di Almunia i mitici mercati scoprano qualche scomoda verità.

Banche, così il governo anticipa di un anno il regalo da 4 miliardi di euro

All'indomani della cacciata dal Senato di Mister B., ancora a piede libero per la dimenticanza generale di questo popolo di rincoglioniti, avevamo parlato di come il Governo, nel silenzio più assoluto, avesse INCREDIBILMENTE  PRIVATIZZATO LA BANCA D'ITALIA. (VEDERE : L'ULTIMA SVENDITA SILENZIOSA). Il Governo BURLETTA, infatti, con un bel decretino ad hoc fatto per rastrellare un miliardo di euro senza sforare IL DEFICIT DEL 3% SECONDO GLI OBBLIGHI DELLA LETTERA DRAGHI-TRICHET DEL 5 AGOSTO 2011( SOTTO IL IV GOVERNO BERLUSCONI), HA RIVALUTATO LE QUOTE DELLA BANCA D'ITALIA. Cosa significa?? Fino ad ieri, le quote della Banca d'Italia, PRIVATIZZATA DA AMATO NEL 1993 PER LA FAMOSA MANOVRA DA 94.000 MILIARDI DI LIRE FATTA PER LA BANCAROTTA DELLA LIRA SUL MERCATO MONETARIO,con temporanea uscita della stessa dallo SME,fruttavano lo 0,5% delle riserve. In soldoni il capitale originario della Banca d'Italia di 156.000 euro,mai toccato nemmeno da Amato,fruttava al massimo 70 milioni di euro agli azionisti privati come INTESA SAN PAOLO,UNICREDIT,POPOLARE DI MILANO,ecc. Incredibilmente, come descritto ne L'ULTIMA SVENDITA SILENZIOSA, il III Governo Berlusconi riesce a partorire l'unica legge buona in 20 anni: ovvero il ritorno in mani pubbliche di tutte le quote della Banca d'Italia detenute dalle merdose mani private. La legge, del 2005, non viene attuata. Non solo, nella notte del 27 novembre 2013, mentre tutti applaudono all'espulsione di Berlusconi dal merdoso Senato di Roma, Saccomanni fa un decretino che stabilisce  La Banca d'Italia come una PUBLIC COMPANY, il solito neologismo inglese del cazzo PER DIRE CHE L'ISTITUTO DIVIENE A TOTALE PARTECIPAZIONE PRIVATA !!! Il termine english COMPANY non sta per "COSA PUBBLICA", ma per "APERTO AL PUBBLICO", cioè aperto a PINCO PALLA O VATTELAPESCA. Il patrimonio originario di 156.000 euro viene portato a 7.500.000.000 di euro !!! Non solo: il limite dello 0,5% sulle riserve viene portato al 6% così al posto dei 70 milioni di euro di utili si passa a 450 milioni di euro per la gioia di INTESA-SAN PAOLO,UNICREDIT,BPM,UBI,ecc. !!! Infine tutte le quote detenute dal pubblico vengono messe sul mercato a chi le vuole, ovvero BARCLAYS, CITYGROUP,DEUTCH BANK,PNB PARIBAS, perchè il soggeto non deve essere italiota ma comunitario !!! Tutto questo giro delle "tre tavolette" doveva garantire un miliardo allo stato  e utili alle Banche private italiote con PERDITA TOTALE DELLA SOVRANITA' BANCARIA PUBBLICA DELLA BANCA D'ITALIA. Purtroppo non è bastato: BURLETTA ha dovuto imporre la retroattività al decreto per far incassare subito AD INTESA ED UNICREDIT una rivalutazione tra i 2,7 ed i 4 MILIARDI DI EURO !!!

“Il governo presenterà un emendamento per confermare che le modifiche allo statuto di Bankitalia sono valide a partire dal bilancio del 2013 – hanno rivelato i relatori al decreto legge Imu ­Bankitalia, Andrea Fornaro e Andrea Oliviero, entrambi in quota Partito Democratico. La proposta di modifica, che sarà presentata nell’aula di palazzo Madama, si rende necessaria perché il provvedimento è stato pubblicato nella gazzetta ufficiale del 31 dicembre e quindi, entrando in vigore il giorno successivo, si correva il rischio di poter applicare la misura solo a partire da quest’anno”.

Un rischio che evidentemente il sistema bancario italiano, sotto pressione per via della crisi del mattone, dei grandi debitori inadempienti e dell’arrivo di nuovi paletti internazionali, non può correre. L’intera faccenda non ha però mancato di generare malumori in Parlamento. Con Sel che non ha esitato a parlare di incostituzionalità del decreto legge.

”Questo ennesimo decreto in esame non risponde ai requisiti di costituzionalità per vari motivi – ha dichiarato il senatore Luciano Uras che ha posto la pregiudiziale di costituzionalità poi respinta dall’Aula. Si scrive dl Imu si legge dl Bankitalia. Infatti, si tratta in realtà della copertura di un’operazione ingannevole ed artificiosa a favore di una parte del sistema bancario italiano in vista di importanti scadenze europee, del tutto lontane ed estranee dalla necessità di ridefinire la governance dell’Istituto”. Uras ha contestato l’assenza di un vero dibattito politico procedendo “per decreto ad una riforma storica dell’assetto proprietario e della governance della Banca d’Italia che pregiudica palesemente la tutela del risparmio”.

Senza contare che il governo ha già trovato un compratore per le partecipazioni superiori alla nuova soglia di proprietà del 3/5%, cioè quelle di Intesa e Unicredit. E che il guadagno delle banche venditrici sarà tassato al 12% contro il 16% inizialmente previsto e il tradizionale 20 per cento. “Il testo che ci apprestiamo a votare, sottolinea il senatore M5S, Francesco Molinari ­è un regalo alle banche private e ai suoi padroni e una truffa ai danni del popolo italiano. Ormai la svendita delpatrimonio dello Stato per mantenere intatti gli sprechi di una classe politica corrotta non conosce limiti”.

L’aula del Senato ha approvato (9 gennaio) in prima lettura la conversione in legge del discusso decreto che rivaluta le quote di partecipazione al capitale della Banca d’Italia (1). In questa fase, sono state introdotte modifiche opportune che, come giàavevamo notato, seppelliscono l’idea iniziale di creare un libero mercato internazionale delle “azioni” della banca centrale.
Nel frattempo, è stato reso noto (27 dicembre) il 
parere della 
Banca centrale europea sulla bozza di decreto. Il parere richiede “ulteriori dettagli” sul metodo di valutazione, che ha condotto alla cifra di 7,5 miliardi per il capitale complessivo della Banca d’Italia, e richiama il rispetto delle regole prudenziali e contabili europee nelle operazioni di ricapitalizzazione che le banche italiane, azioniste della Banca d’Italia, potranno fare sfruttando la rivalutazione delle loro quote. Ma al di là di questi aspetti tecnici, quello che colpisce sono due richiami espliciti, seppure formulati nel linguaggio soft dei banchieri centrali.

Troppa fretta

A pagina 2 del parere leggiamo: “La Bce ha ricevuto la richiesta di consultazione il 22 novembre 2013, mentre il decreto legge è stato approvato il 27 novembre 2013”. Il Governo italiano ha dato solo tre giorni lavorativi alla Bce per emanare il parere che, secondo quanto previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, doveva precedere l’approvazione del decreto. Ciò equivale in sostanza a “un caso di non consultazione”, ragion per cui “la Bce desidera richiamare l’attenzione del Ministero circa il rispetto della procedura di consultazione”. In altre parole, Mario Draghi (firmatario del parere in qualità di Presidente della Bce), ha dovuto tirare le orecchie al suo ex-collega Saccomanni, che prima di diventare Ministro sedeva al vertice della Banca d’Italia, parte dell’Eurosistema.

Possibili trasferimenti dalla Banca d’Italia alle banche azioniste

Ma veniamo a un aspetto di sostanza, anziché di procedura. Il decreto prevede un limite massimo alle singole quote, pari al 3 per cento del capitale della Banca (2).  Esso autorizza la Banca d’Italia a effettuare operazioni di acquisto (temporaneo) delle proprie quote, presso quegli azionisti che detengano partecipazioni superiori a quel limite. A pagina 5 del parere si legge: “La Bce prende atto che la possibilità, per la Banca d’Italia, di effettuare tali operazioni, può comportare un trasferimento di risorse finanziarie agli azionisti”. In sostanza, la Bce richiama l’attenzione sul potenziale costo, a carico della banca centrale, di quelle operazioni a favore dei suoi azionisti. Poiché la Bce non quantifica questo costo, proviamo a farlo noi. Naturalmente, il costo effettivo dipenderà dalle decisioni del Consiglio superiore della Banca d’Italia. Noi possiamo solo indicare una forchetta, che va da un minimo pari a zero, qualora il Consiglio decidesse di non fare alcuna operazione di riacquisto, a unmassimo indicato nella tabella sottostante. Gli importi massimi, indicati nella terza colonna della tabella, sono stati calcolati moltiplicando la quote di capitale che devono essere cedute da alcuni azionisti della Banca d’Italia (in pratica le partecipazioni in eccesso rispetto alla soglia del 3 per cento, indicate nella seconda colonna) per il valore nominale del capitale della Banca, che rappresenta il prezzo massimo d’acquisto da parte della Banca d’Italia. Come si vede, si tratta di importi rilevanti, che sommano a un totale di quasi 4,2 miliardi di euro (corrispondente a quasi il 56 per cento del capitale della Banca).

Trasferimento massimo a carico della Banca d’Italia, a favore di:

trasferimento-massimo-bankitalia È bene sottolineare che quello esposto qui è solo un esercizio. Siamo sicuri che la Banca d’Italia eserciterà con la massima prudenza e parsimonia l’autorizzazione ricevuta con il decreto legge, facendo in modo che gli azionisti che hanno partecipazioni eccedenti il 3 per cento trovino altri acquirenti delle eccedenze. Forse però si poteva evitare di introdurre una discrezionalità, il cui esercizio potrebbe esporre la banca centrale al rischio di acquistare le proprie quote a un prezzo superiore a quello al quale le dovrà rivendere in un momento successivo. Si può obiettare che questa autorizzazione era necessaria, per agevolare il processo di smaltimento delle quote in eccesso rispetto al limite del 3 per cento. Tuttavia, lo stesso decreto prevede che le quote eccedenti siano “sterilizzate”: private del diritto di voto e di ricevere dividendi (dopo un periodo transitorio). Quindi, i “grandi azionisti” hanno tutto l’incentivo a trovare acquirenti per le partecipazioni in eccesso; al giusto prezzo, s’intende. Perché allora introdurre una agevolazione? Forse anche alla Bce se lo sono chiesto…

(1) Su questo sito siamo più volte intervenuti sull’argomento: si vedano gli articoli raccolti nel dossier. Si vedano anche gli interventi di Marco Onado e di Luigi Zingales sul Sole-24-Ore del 20/12/2013.
(2) La soglia era pari al 5 per cento nel decreto originale; è stata abbassata al 3 per cento in fase di conversione.

Inps, 2013 in rosso per altri 14,4 miliardi. Quest’anno atteso un buco nel patrimonio

I conti non migliorano neanche nel 2014, quando è previsto un passivo di 11,9 miliardi. Lo si apprende dall'ultimo documento firmato da Mastrapasqua, che ha lasciato sabato scorso la presidenza dell'Istituto. Pensioni, effetto Fornero: nuovi assegni crollano del 43%

 risultato d’esercizio dell’Inps per il 2013 sarà negativo per 14,4 miliardi. Continuano quindi a peggiorare, anno dopo anno, i conti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, a pochi giorni dall’addio di “mister 25 poltrone”, Antonio Mastrapasqua, che ha lasciato sabato scorso la presidenza dopo l’approvazione di un ddl sul conflitto di interessi. Ma il dato più preoccupante è un altro: l’azzeramento del patrimonio dell’Istituto atteso nei prossimi mesi. Dal preventivo per l’esercizio appena iniziato emerge infatti che negli ultimi quattro anni il patrimonio netto è passato dai circa 40 miliardi di euro del 2009 a 7,47 miliardi del 2013. E per il 21 dicembre 2014 è atteso unrosso di 4,5 miliardi.

Le attese per il 2014 non sono quindi più rassicuranti. Per l’esercizio appena iniziato è previsto un ulteriore passivo di 11,99 miliardi in attesa di chiarire però se lo Stato si accollerà in via definitiva l’onere delle pensioni dei dipendenti pubblici dal 2012 in poi, cioè dall’anno in cui l’ente di previdenza pubblica, Inpdap, è stato fuso nell’Inps in scia alla riforma Fornero.

Da ricordare inoltre che l’Inps è anche azionista della Banca d’Italia e quindi beneficerà dellarivalutazione delle quote di via nazionale prevista dal decreto Imu-Bankitalia, come le banche tra cui Intesa SanPaolo e Unicredit.

Pensioni, effetto Fornero: nuovi assegni crollano del 43%
Dal confronto tra il bilancio preventivo Inps per il 2014 (nel quale sono contenuti i dati 2013 assestati che risentono della riforma Fornero) e il bilancio sociale per il 2012 emergono poi dati preoccupanti sulle
 pensioni. Nel 2013 sono stati stati liquidati 649.621 nuovi assegni con un calo del 43% rispetto ai 1,14 milioni di nuovi assegni liquidati nel 2012. E il divario dovrebbe aumentare ancora nel 2014, con 596.556 nuove pensioni previste e 739.924 assegni che si prevede di eliminare. Tra il 2013 e il 2014 si prevede un crollo dei nuovi trattamenti di anzianità. Nel 2013 – secondo i dati assestati – sono stati nel complesso 170.604, mentre nel 2014 si stima che scendano a quota 80.457 (57.891 delle quali ai lavoratori dipendenti) con un calo del 52,8 per cento.

“Conti poco trasparenti, separare previdenza e assistenza”
“Sono anni che ci battiamo per fare chiarezza sui conti dell’Inps chiedendo innanzitutto la separazione della spesa previdenziale pura da quella assistenziale“, ricorda il segretario confederale Uil, Domenico Proietti, sottolineando che “il dato che emerge dal documento di previsione 2014 dell’Inps è frutto di questa commistione, sulla quale bisogna far chiarezza attraverso un’operazione di trasparenza finanziaria“. E aggiunge: “Sui conti dell’Inps pesa anche l’altissimo livello di disoccupazione degli ultimi anni che, in un sistema a ripartizione, incide negativamente attraverso la diminuzione della contribuzione versata”.

Consumatori, azione di responsabilità verso Mastrapasqua
Di fronte al buco di bilancio dell’Inps, Adusbef e Federconsumatori auspicano invece che venga avviata una “doverosa azione di responsabilità verso l’artefice unico di questa catastrofe, l’ex presidente e collezionista di poltrone il dimissionario Antonio Mastrapasqua”. E’ quanto si legge in una nota dei consumatori. “Come mai – si chiedono – sono stati disattesi i richiami della Corte dei Conti e le segnalazioni alle commissioni parlamentari su una situazione allarmante dei bilanci Inps, che gettano ombre su una gestione quanto meno discutibile?”.

La disoccupazione di massa è una scelta politica?

Questa è una sintesi dell’articolo “Serve un acceleratore della crescita” pubblicato oggi sul Sole 24 Ore.

Nel 2013 il mondo ha raggiunto nuovi vertici di benessere: + 8% la produzione industriale, + 11% il commercio mondiale rispetto al 2008 …Le banche centrali hanno collaborato allo stimolo fiscale garantendo tassi d’interesse prossimi a zero; stabilità dei titoli pubblici qualunque fosse il livello del debito e del deficit; finanziamenti diretti all’economia reale; acquisti sul mercato dei titoli pubblici e versamento degli interessi nelle casse del Tesoro.

Questi risultati mettono in luce, per contrasto, l’inaccettabile e gratuita performance dell’Eurozona: qui la produzione industriale e il PIL sono ancora inferiori del 15% e dell’1,6% rispetto al 2008; la crescita è minima, tutta importata dall’estero, non in grado di abbattere la disoccupazione (…) Se l’Europa – solo l’Europa – adotta un sistema monetario simile al gold standard, a cui aggiunge politiche del cambio, monetarie, e fiscali Hooveriane, non sorprende che le conseguenze siano simili a quelle degli anni ‘30.

Fra queste conseguenze, vi è anche l’isolata prosperità di un grande paese europeo che gode di un tasso di cambio sottovalutato. Il suo enorme surplus commerciale drena domanda dal resto del continente; i capitali affluiscono copiosi; (…) il bilancio è in pareggio senza austerità. Scambiando la buona sorte per virtù, impartisce lezioni ai vicini. “La nostra nazione merita l’ammirazione di tutti” – diceva nel ’32 il Presidente del Consiglio francese, Tardieu – per la sua “struttura economica armoniosa”, la “parsimonia” dei suoi abitanti, “la flessibilità del sistema economico”, la sua “modernità (…)”. La Francia (…) insegna che un paese in surplus non ha alcun incentivo a modificare la situazione. Così è per la Germania. Nel suo recente discorso al Bundestag, la Cancelliera ha ribadito che la deflazione è la strada obbligata per i paesi in deficit commerciale. Dunque, tagli ai salari e ai bilanci pubblici; aiuti, sotto pesanti condizioni, solo quando si fosse sull’orlo di una crisi sistemica. Ed in futuro, ‘contratti’ per imporre le riforme strutturali: le nazioni europee – ha osservato Carlo Clericetti – dopo aver rinunciato alla moneta e alla sovranità di bilancio, dovrebbero anche lasciare ad altri le decisioni su quali riforme fare e come; se non sono d’accordo, dice la Merkel, “li spingeremo” ad accettare (…)

La storia degli anni ‘30 offre un altro insegnamento: nonostante i pessimi risultati, le politiche deflazioniste non vennero mai abbandonate dalle élite democratiche del tempo, trincerate dietro il motto: “l’austerità non ha alternative!”. Solo i partiti anti-sistema o perfetti outsider come F.D.Roosevelt risposero al grido d’aiuto dei disoccupati. La crisi odierna è per certi versi ancora più complessa: l’Euro è più rigido del gold standard, non è così facile uscirne (…) Ma negli anni ‘30 non esisteva la teoria macroeconomica, oggi la scusa dell’ignoranza non vale più. O non dovrebbe valere. Eppure, in questi anni ci è stato detto, prima, che non c’era una crisi della domanda; poi, che l’insufficienza della domanda era reale, ma ‘di breve termine’; infine, si fa capire che la crisi è necessaria per imporre le riforme. La saldatura degli interessi della Germania, dei riformatori neoliberali, e degli eurocrati che puntano all’Unione Politica Europea sta prolungando la crisi. Il problema non è economico, è interamente politico.

Ha notato Paolo Savona sul Sole del 22 Dicembre che le ricette deflazioniste – sconfitte alla prova dei fatti – tuttavia hanno vinto sul piano politico. Ma questa ‘vittoria’ comporta alti prezzi politici: una deriva tecnocratico-autoritaria in Europa, e una forte riduzione dei consensi alle istituzioni democratiche nazionali. Perciò un compromesso dovrebbe essere nell’interesse anche dell’establishment, per favorire la vera pacificazione nazionale: quella fra chi non ha lavoro e chi governa. In Italia, si tende a cavalcare le pulsioni maggioritarie, peroniste, e anti-costituzionali nella speranza di contenere gli effetti del calo dei consensi. Ma la Corte Costituzionale ci ricorda che non si può favorire la governabilità a scapito della rappresentanza oltre un certo limite. Bisogna essere davvero miopi per non vedere la fragilità di questo disegno. Meglio sarebbe rappresentare gli interessi del corpo elettorale, e ritrovarne il consenso. Come fare?

Una strada c’è. La Confindustria prevede una crescita dello 0.7% quest’anno e dell’1,2% nel 2015. Sono cifre che non cambiano il quadro generale (…) La nostra proposta è questa. Stabiliamo un obiettivo di crescita del 2% nel 2014 e del 3% nel 2015. Supponendo che, in assenza di politica economica, gli andamenti siano quelli previsti dalla Confindustria, si tratta di aggiungere 1,3% di crescita nel 2014 e 1,8% nel 2015. A parità di politica monetaria e di tasso di cambio dell’euro, l’onere di una accelerazione della crescita ricade sul deficit pubblico. A sua volta la misura del deficit necessario dipende dai moltiplicatori fiscali. Recentemente i moltiplicatori in Italia sono stati pari a circa 1, ma quelli di alcune poste del bilancio – in particolare gli investimenti pubblici, gli acquisti di beni e servizi, i trasferimenti alle fasce in condizioni di povertà assoluta (come le spese sociali studiate dal sottosegretario Guerra per le famiglie più bisognose) – paiono avere valori pari o superiori a 2. 

Sarebbe dunque sufficiente uno stanziamento – rispetto alle cifre di finanza pubblica indicate nella Legge di Stabilità – dell’ordine dell’1% del PIL nel 2014 e del 0,6% nel 2015. L’impatto iniziale degli aumenti di spesa parrebbe portare il deficit dal 2,7% al 3,8% nel 2014 e dal 2,4% al 3% nel 2015. Ma già nel 2014 l’allargamento della base imponibile darebbe un maggiore gettito fiscale e risparmi di spesa, per 0,5% del PIL (deficit al 3,3%) e nel 2015 per 0,7% (deficit al 2,3%). Il rapporto debito/Pil nel 2017, grazie all’effetto sul denominatore, cioè sul PIL, sarebbe inferiore di 3,5 punti percentuali rispetto a quello che si avrebbe in assenza di tale manovra; e vi sarebbero quasi mezzo milione di disoccupati di meno. Inoltre questi scostamenti modesti, rispetto al vincolo del 3%, non farebbero scattare alcuna sanzione nei confronti dell’Italia.

Questo è il minimo che le classi dirigenti devono al paese. Se non lo si vuol fare, si ha il dovere di spiegare il perché.

PierGiorgio Gawronski

Il bitcoin: un paradosso e un atto di fede. Chi ci guadagna?

Il successo dei bitcoin tra gli speculatori non solo è un paradosso ma conferma che dietro la moneta, di qualsiasi tipo essa sia, non c’è nulla di concreto, soltanto un atto di fede.

Iniziamo dal paradosso. All’inizio di gennaio del 2009 compare in rete il bitcoin, nessuno sa bene chi lo abbia inventato, sicuramente si è trattato di uno o più hacker che hanno scelto lo pseudonimo Satoshi Nakamoto. La leggenda vuole che il bitcoin fosse la risposta di costui o costoro alla crisi del credito del 2008, all’uso del denaro pubblico, dei risparmi dei contribuenti per salvare i giganti di Wall Street. Si dice anche che Satoshi, chiunque esso sia, facesse parte del movimento Cypherpunk, nato negli anni Ottanta sulla scia dell’omonimo movimento musicale, che vuole liberalizzare l’informazione e distruggere un sistema basato sul suo controllo e sui privilegi.

La leggenda vuole insomma che Satoshi ed i bitcoin siano pane per il popolo, il primo sicuramente vuole sostituire un sistema equo, trasparente ed accessibile a tutti alla creazione della moneta da parte delle banche centrali, controllate da un élite bancaria che ne è la sola beneficiaria e che ormai governa il mondo – fa eleggere i presidenti, gestisce il Fondo monetario e de facto controlla anche i nostri conti in banca. Il bitcoin è lo strumento attraverso il quale il popolo, o almeno quello che naviga in rete, può riconquistare la sovranità monetaria. Insomma come Prometeo Satoshi ci ha dato il fuoco per conquistare la libertà.

Non è facile in poche parole spiegare il meccanismo attraverso il quale ci liberemo della schiavitù della moneta cartacea stampata dalla Bce o dalla Fed, ma proviamoci. All’origine della creazione dei bitcoin ci sono complessissime formule matematiche che offrono soltanto una soluzione e che non sono reversibili, le hash. Ogni volta che qualcuno ci riesce crea bitcoin, ma prima che l’operazione si concluda c’è bisogno dell’approvazione di tutta la comunità che li maneggia. Ogni soluzione è poi legata a quella precedente ed alla successiva in una catena temporale che è iniziata a gennaio del 2009 e finirà quando tutti i 21 milioni di bitcoin nascosti in rete saranno stati letteralmente ‘estratti’ dal web. Chi si dedica a questa attività infatti lavora come in miniera, così nel gergo si parla di estrazione e di minatori. La concatenazione delle soluzioni, come le vene minerarie, è il filo conduttore della produzione dei bitcoin e garantisce il massimo di trasparenza e di sicurezzacontro la contraffazione.

E veniamo al paradosso: dal 2009 quando è comparso il valore del bitcoin è passato da 0 fino a1200 dollari (il picco dello scorso novembre). Il motivo? La speculazione. E chi specula non sono gli adolescenti che passano la vita in rete o su facebook, neppure gli impiegati ai quali viene tagliato lo stipendio ad ogni manovra finanziaria, ma i giovanotti di Wall Street. Sono nate squadre di minatori pagate dalle grandi banche e finanziarie che usano computer velocissimi e tecniche sempre più complesse per estrarre i bitcoin. Per ora grazie all’aumento della complessità delle soluzioni man mano che si estraggono i bitcoin (siamo a quota nove milioni) ed al sistema di verifica, la creazione dei bitcoin è stabile ma il valore, il valore non fa che salire perché tutti vogliono far parte di questa ennesima speculazione. E chi ci guadagna? I soliti noti.

E veniamo all’atto di fede. Che il valore di una moneta creata in rete da non si sa bene chi, la cui produzione è legata a soluzioni matematiche complessissime che richiedono programmi informatici passi da 0 a 1200 dollari in 3 anni, non sorprende perché rientra nella passione per il gioco d’azzardo che brucia dentro gran parte dell’umanità, e quindi su questo c’è ben poco da dire, ma che questa stessa moneta inizi ad essere usata per gli scambi da individui comuni, ecco questo può essere spiegato soltanto come un atto di fede.

In fondo tutte le monete oggi esistono in base ad un atto di fede che chi le maneggia esprime nel momento in cui le usa per scambiare bene e servizi. Dietro al dollaro o all’euro non c’è una riserva diricchezza, e cioè lingotti d’oro o tonnellate d’argento, ne’ si può parlare di industrie o risorse, come il petrolio o il gas naturale, la creazione di moneta avviene invece attraverso l’emissione del debito, un principio che come la soluzione delle formule dei bitcoin non ha nulla a che vedere con la ricchezza di una nazione, anzi in un certo senso le va contro. E’ però un principio come un altro accettato come undogma religioso da chi queste monete le usa ed in nome del quale, a giudicare dalla storia, si è disposti a tutto.

Riflettiamo su questi principi: nell’immaginario collettivo il dollaro, l’euro come il bitcoin, monete prodotte dal nulla, sono simboli di una divinità monetaria, l’ultimo sicuramente rientra in una categoria sui generis perché potenzialmente tutti noi possiamo farne parte ma de facto solo chi ha strumenti costosissimi e particolari può produrlo. Come le indulgenze medioevali chi stampa o estrae  queste monete si arricchisce, e chi le usa non solo non va in Paradiso ma finisce per impoverirsi.

Il muro delle Sparkassen tedesche:417 CASSE DI RISPARMIO LOCALI CHE TRATTENGONO 1000 MILIARDI DI EURO FUORI CONTROLLO BCE, DI QUESTI , 67 MILIARDI SONO ANDATI A COPRIRE I BUCHI DELLE LANDESBANKEN SPROFONDATE SOTTO I COLPI DEI SUBPRIME
contro una piena unione bancaria

La Germania è riuscita a tenere le sue 417 casse locali, di proprietà pubblica, fuori dai meccanismi di supervisione della Bce. Ma nel complesso questa rete di istituti ha attivi per mille miliardi. Trascurata così la lezione delle Landesbanken, le casse regionali: per salvarle Berlino ha speso più soldi (67 mld) di quelli a disposizione dell'intero fondo di salvataggio Ue

ROMA - I soliti tedeschi che, pur di non correre il rischio di dover sborsare un solo euro per conto di un istituto straniero, stanno sabotando e castrando l'unione bancaria europea, rendendola inutile, se non dannosa? Il giudizio, assai diffuso dopo le ultime contorte trattative sulla futura regolamentazione delle banche europee, è, in realtà, ingeneroso. Nella cocciuta, insormontabile resistenza tedesca ai progetti di integrazione bancaria europea, la diffidenza e l'avarizia non sono gli elementi cruciali. Per i politici di Berlino, di qualsiasi colore, si è trattato soprattutto di difendere un intero sistema politico: quello costruito e alimentato dalle Sparkasse, le Casse di risparmio.

Le 417 Sparkassen sono, insieme, il sale e il lubrificante della politica tedesca. Di proprietà pubblica, riversano al pubblico i loro profitti, ma, soprattutto, con le loro attività locali di beneficenza finanziano molte delle più vistose iniziative (dalla squadra di calcio al parco per bambini) delle amministrazioni locali nonché il grosso delle imprese locali. Chi ricorda le Casse di risparmio italiane della prima Repubblica ha un'idea dell'intreccio strettissimo che, attorno a questi istituti, si crea fra politica locale, nazionale e finanza. Su questa trincea, i politici tedeschi non hanno ceduto un centimetro. Un fondo comune europeo di assicurazione dei depositi non si farà, perché le Sparkassen non vogliono rinunciare al loro fondo di categoria e non vogliono che i loro soldi vengano utilizzati

per salvare banche estranee. Le regole europee sulle riserve obbligatorie di capitale per loro non saranno applicate, consentendo alle Sparkassen di risparmiare miliardi di euro. Infine, continueranno ad essere sorvegliate da controllori tedeschi e non da quelli della Bce. Berlino ha infatti ottenuto che gli uomini di Draghi si occupino solo di banche con più di 30 miliardi di euro di attivo, soglia che supera una sola cassa di risparmio (quella di Amburgo).

Non è un'esclusione marginale, perché, tutte insieme, le Sparkassen hanno attivi per mille miliardi di euro, su un totale, per tutte le banche europee, di 27 mila miliardi: stiamo quindi parlando del 3-4 per cento dell'intero sistema bancario europeo. Inoltre, il trattamento preferenziale delle Sparkassen ha fondamenta assai poco solide. Le banche sono tenute ad una gestione prudenziale ed agiscono solo a livello locale, ma questo non ha impedito, negli Usa di Reagan o nella Spagna di questi anni, crisi drammatiche di istituti del tutto analoghi. Basta che esploda una bolla immobiliare e i tassi d'interesse salgano all'improvviso: improbabile oggi, ma non domani. Infine, l'anello debole del sistema è la sua proiezione extralocale: le Landesbanken, emanazione, insieme, delle Sparkassen e dei governi regionali. E' attraverso le Landesbanken che lo sbandierato localismo delle Sparkassen si affaccia sui mercati internazionali.

Con esiti che sono stati disastrosi. Le Landesbanken sono state fra i protagonisti negativi della bolla dei subprime e ne sono state travolte. Poiché fanno parte del sistema Sparkassen è intervenuto l'apposito fondo di salvataggio (quello preservato nei confronti della futura unione bancaria). Ma le Landesbanken erano troppo grosse ed è dovuto intervenire il governo di Berlino. Sborsando, per il salvataggio di queste medie banche regionali, dalle tasche dei contribuenti tedeschi, ben 67 miliardi di euro. Ora, per capire perché molti pensano che l'unione bancaria che verrà trionfalmente presentata la prossima settimana sia solo una scatola vuota, basta confrontare quei 67 miliardi con le disponibilità teoriche massime del fondo di salvataggio europeo (quello che si deve confrontare con 27 mila miliardi di attivi): 55 miliardi di euro. E neanche subito. Fra dieci anni.

 

Debito pubblico, chi lo crea sta

mpando moneta e chi lo paga con le tasse

Nel 2014 diventerà operativo il fiscal compact, per chi voglia rinfrescarsi la memoria ecco la definizione che riporta Wikipedia:

“Il Patto di bilancio europeo o Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria, conosciuto anche con l’anglicismo Fiscal compact(letteralmente riduzione fiscale), è un accordo approvato con un trattato internazionale il 2 marzo 2012 da 25 dei 27 stati membri dell’Unione europea, entrato in vigore il 1º gennaio 2013.”

L’accordo contiene le regole d’oro della gestione fiscale degli stati membri, tra queste c’è l’impegno del nostro paese a ridurre il rapporto tra debito pubblico e Pil al 60 per cento attraverso una maxi manovra finanziaria all’anno per i prossimi 20 anni, la prima avverrà quest’anno. Dato che al momento questo rapporto supera il 132 per cento (equivalente a 2080 miliardi di euro circa) bisogna ridurlo di almeno 900 miliardi di euro, il che equivale a circa 45 miliardi l’anno per due decadi. Per chi voglia cifre aggiornate al nano secondo sul debito pubblico qui trovate dove il conteggio avviene in tempo reale. 

Naturalmente nel dibattito italiano non si parla del fiscal compact, ma di questo non dobbiamo sorprenderci, se ne parlerà a josa quando bisognerà tirar fuori i soldi per rispettarlo, tra qualche mese. In pratica il pagamento dei 45 miliardi avverrà o attraverso l’aumento delle tasse o attraverso la contrazione della spesa pubblica, che può comprende sia la riduzione dell’occupazione che dei salari pubblici, o in tutti e due i modi. Morale: saremo più poveri perché dobbiamo tirare la cinghia ulteriormente per ridurre il volume totale dei nostri debiti.

La prima domanda da porre ai lettori di questo giornale ed a tutti coloro che commentano quasi religiosamente i suoi articoli è la seguente: a chi dobbiamo restituire questi soldi? La risposta più semplice è la seguente: alla banche straniere che ce li hanno prestati. Ma dal 2011 in poi la percentuale delle banche straniere nostre creditrici è scesa ed oggi è inferiore al 40 per cento. Chi ha in portafoglio gran parte del nostro debito pubblico sono le banche italiane, tra le quale c’è anche il Monte dei Paschi, che deve allo Stato, e cioè a noi poveri debitori, 4 miliardi di euro.

Creditori e debitori sono le stesse persone, direte voi, perché fanno tutti parte dello Stato, della collettività. Ma questa spiegazione non è del tutto corretta perché né lo Stato dei contribuenti né le banche nazionali controllano la massa monetaria, detto in parole povere, non stampano moneta. Entrambi la ricevono dalla banca centrale attraverso il debito. Assurdo? Succede in quasi tutto il mondo a pare qualche eccezione, come la Svezia e la Cina dove la banca centrale è di proprietà dello Stato, quindi si potrebbe dire che la collettività si indebita con se stessa.

La Banca Centrale Europea è l’unico organismo che ha il diritto di stampare moneta, lo dovrebbe fare secondo parametri fissi ma data la crisi Draghi è riuscito ad aggirarli ed è lui alla fine che stabilisce quanta moneta cartacea si stampa. Da notare che nessuno di noi europei lo ha eletto. La Bce è una banca privata, di proprietà degli azionisti delle banche centrali dell’Eu, tutti enti ed organismi non statali, tra costoro ci sono anche alcune delle nostre banche.

Come funziona il meccanismo? La Bce crea dal nulla euro, nel gergo comune trasforma carta straccia in banconote, questi soldi vengono dati in prestito, oggi a tassi vicini allo zero, alle banche di Eurolandia. Con questi soldi le banche acquistano i buoni del Tesoro dello Stato con i quali i governi nostrani ripagano ogni anno solo gli interessi sul debito pubblico, di più infatti non si riesce a fare. Idealmente questi soldi dovrebbero alimentare l’economia e farla crescere: prestiti all’industria, per l’innovazione o per le opere pubbliche ecc. La crescita economica dovrebbe far aumentare il gettito fiscale con il quale ripagare il prestito. Ma non è così nel nostro caso, e questo lo sanno tutti ormai, l’austerità taglia le gambe alla crescita quindi il circolo virtuale appena descritto diventa un circolo vizioso di impoverimento.

Il punto cruciale su cui i lettori di questo giornale dovrebbero riflette è il seguente: perché la Bce e non lo Stato o l’Ue ha il diritto di produrre dal nulla il bene denaro? E perché i contribuenti in crisi di Eurolandia devono ripagare questo bene creato dal nulla, in un momento in cui per farlo si rischia di finire nella depressione economica, alla Bce – tutti i soldi alla fine lì infatti finiscono dato che la banca centrale, ed i sui azionisti privati, sono il solo creditore dell’intero sistema? Dato che dietro gli euro, come dietro qualsiasi moneta cartacea non c’è nulla, ma solo la fiducia di chi queste banconote le continua ad usare indebitandosi, cioè noi, e dato che il diritto a stampare moneta dal nulla alla Bce glielo abbiamo dato noi, cittadini di sistemi democratici, attraverso la delega ai nostri governanti, perché non azzerare questo debito e ripartire da zero? In passato ciò è avvenuto con le guerre, oggi si potrebbe farlo per evitarle.

 

Fed, Bce e il controllo democratico delle banche centrali. Si può disturbare il conducente?

Il dibattito pubblico su euro, Europa e Bce si fa sempre più petulante e ripetitivo: da un lato, ci sono quelli “che la BCE non stampa moneta perché è in mano ai tedeschi”, dall’altro quelli “che senza l’euro siamo tutti morti”. La classica discussione all’italiana tra sordi, insomma.

Si dovrebbe parlare d’altro.
Potremmo ad esempio discutere di quali debbano essere le forme di controllo democratico sull’operato della Banca Centrale Europea e, soprattutto, chiederci se sia giusto delegareall’opaca diplomazia europea la nomina dei suoi vertici.

Vediamo perché.

Dal 2007 al 2013 sia la BCE, sia la Fed (banca centrale americana, n.d.r.) hanno combattuto i devastanti effetti della crisi dei subprime con l’arma della politica monetaria: una produzione di nuovo denaro senza precedenti nella storia dell’economia occidentale, che ha cambiato decisamente il modo di intendere il governo della moneta. Per apprezzare meglio la dimensione del fenomeno, vi prego di dare un’occhiata al grafico qui sotto, che espone l’andamento di M2 (indicatore di riferimento per misurare l’offerta di moneta) tra il 2007 e il 2013:

politica-monetaria

Non facciamoci ingannare dalla derivata piuttosto simile delle due curve.

Pur essendo entrambe crescenti, le scale di valore raccontano due storie diverse: mentre l’offerta di moneta nell’area euro aumenta del 39%, negli Stati Uniti il progresso è del 57% e una bella parte dello scarto matura da fine 2011 in poi.

Il dato è ancora più interessante se riletto alla luce dell’andamento dell’economia reale dei due sistemi, illustrato da quest’altro grafico: 

politica-monetaria1

Come si può osservare facilmente, le due curve di evoluzione del Pil sono praticamente incollate l’una all’altra nella primissima fase della crisi e fino alla fine del 2011; in seguito i due trend si disallineano in maniera radicale, con gli Stati Uniti avviati a una ripresa economica stabile e l’Europa ancora in affanno.

Non ci vuole un esperto per capire che c’è una relazione tra l’andamento nettamente migliore dell’economia americana e la politica monetaria più coraggiosa della Fed.

Perché la BCE si è comportata così?

Normalmente i sostenitori del modello tedesco di banca centrale difendono l’atteggiamento della BCE sottolineando il rischio di inflazione e sventolando il vincolo di mandato che obbliga Mario Draghi a non superare la fatidica soglia del 2% di incremento dei prezzi. Eppure la realtà dei fatti dice che il rischio di un’inflazione eccessiva è piuttosto lontano. Anzi: alla fine del 2013, l’area Euro si trova davanti alla concreta prospettiva di deflazione, mentre gli Usa mostrano una dinamica dei prezzi decisamente più sana.

La realtà è che la BCE ha fatto (e continua a fare, ogni giorno) una precisa scelta politica: avere una moneta forte che favorisca le importazioni a buon mercato, tenere alta la pressione sui salari e ricercare la competitività internazionale attraverso la leva della produttività e rifiutando quella della svalutazione.

E allora torniamo all’interrogativo iniziale: è giusto che questa scelta politica (il cui prezzo è peraltro pagato in misura maggiore dalle economie deboli dell’Eurozona) non sia sottoposta ad alcun sindacato democratico? E’ giusto che la politica monetaria sia derubricata a questione meramente burocratica e delegata a funzionari che non rispondono a nessuno?

Io, francamente, lo trovo assurdo.

Come trovo assurdo l’intero impianto ideologico della BCE, frutto di una filosofia “ipertecnicista” secondo la quale le questioni monetarie vanno protette dalla perniciosa influenza della politica e dalle pressioni dell’elettorato.
Cosa deriva da questa impostazione? Prima di tutto ne deriva il mito “dell’indipendenza del banchiere centrale”: il banchiere centrale non è un mandatario del Governo o del popolo, ma agisce nel superiore interesse della stabilità dei prezzi.

Divertente vero? Ve la immaginate “la stabilità dei prezzi” che chiama al telefono Draghi e lo sgrida perché sta facendo male il suo mestiere? Ce la vedete “la stabilità dei prezzi” che si lagna del fatto che la Fed funziona meglio?No.

Succede invece che, per il principio dell’horror vacui, quella BCE che non risponde ai governi, ai Parlamenti e alle altre istituzioni democratiche, finisce per rispondere solo a sé stessa, esponendosi alla gravissima responsabilità di decidere senza alcuna legittimazione il futuro di milioni di cittadini.

Mi pare che questo sia esattamente ciò che è successo nell’ultimo quinquennio: andando per la maggiore il pensiero economico di matrice rigorista, la BCE ha perso una straordinaria occasione di intervento, non approfittando di questi anni di inflazione contenuta. La frigidità dei nostri banchieri centrali ci ha costretto, da un lato, a subire gli effetti negativi della concorrenza cinese (aziende che delocalizzano, disoccupazione) e, dall’altro a rinunciare a una politica monetaria molto più aggressiva che avrebbe favorito una crescita a inflazione bassa (proprio grazie alla pressione sui prezzi di quella stessa concorrenza cinese).

Ma, ribadisco, non mi preme tanto criticare la BCE: mi preme di più mettere in luce la gravissimacarenza di legittimazione democratica di chi ha fatto quelle scelte (sbagliate). Queste persone non rispondono a nessuno, non possono essere sfiduciate, non si ripresenteranno alle prossime elezioni.

E’ giusto?

Gli americani, ad esempio, non la pensano così.

E, a tal proposito, concludo raccontandovi un esemplare episodio accaduto dall’altra parte dell’Atlantico: a maggio 2013 Ben Bernanke (governatore della FED) annuncia a sorpresa che la banca centrale americana potrebbe a breve adottare una politica monetaria meno lassista. La dichiarazione determina un’improvvisa impennata dei rendimenti del debito pubblico e mette in difficoltàObama. Dopo circa un mese, quando si comincia a discutere del possibile rinnovo dell’incarico dello stesso Bernanke (in scadenza a gennaio 2014), Barack Obama dichiara:“Credo che Bernanke sia stato Governatore più a lungo di quanto volesse”.
Aplomb anglosassone, ma messaggio chiaro, che tradurrei così: “Caro Bernanke, la politica monetaria la decido io, poiché il popolo ha eletto me. Accomodati fuori, grazie”.
Risultato del dibattito? Il nuovo Governatore della Fed sarà Janet Yellen, signora di sinistra e notoriamente favorevole alla politica monetaria ultra-espansiva degli ultimi anni. 
Ben Bernanke, invece, tornerà a fare l’insegnante.

Irlanda, lo scudo anti-spread ora pare un bluff

L’Irlanda prova a rinascere e vuole farcela da sola, basta con la troika Ue-Bce-Fmi e niente sostegno dal Fondo salva Stati Esm. Per l’Italia non è una buona notizia. La Tigre celtica è stata travolta nel 2008 dalla crisi delle sue banche, salvate da uno Stato che ha visto il debito pubblicopassare dal 36 per cento del Pil nel 2007 all’86 per cento del 2012.

Nel 2010 Dublino ha chiesto il salvataggio europeo tramite il fondo salva Stati Efsf: 85 miliardi per un Paese che non poteva finanziarsi al tasso da strozzinaggio chiesto dal mercato, il 7 per cento. In tre anni di sacrifici l’Irlanda ha rimesso in discussione tutto tranne la tassazione agevolata che le permette di fare dumping fiscale attirando la sede delle grandi multinazionali, che così sottraggono gettito ai Paesi in cui operano (tipo l’Italia). Oggi la ex-Tigre celtica è l’allieva prediletta delle istituzioni europee: nel 2013 il suo deficit è al 7,4 per cento, il prossimo anno sarà il 5 e quello dopo l’agognato 3 fissato da Maastricht, la crescita è ripartita (piano), +0,5 quest’anno, +1,7 e +2,5 in quelli successivi. Sui mercati lo Stato si finanzia alla metà del tasso di cinque anni fa, un comodo 3,5 per cento. Per Bruxelles il fatto che il tasso di disoccupazione resti molto alto, nel 2015 sarà ancora l’11,7, è un dettaglio secondario.

Il premier Enda Kenny ha annunciato che, quando a dicembre 2015 l’Irlanda uscirà dal programma di aggiustamento, non chiederà la “linea di credito precauzionale” dal fondo salva Stati Esm. Cioè quello strumento che in Italia abbiamo sempre chiamato“scudo anti-spread”, un intervento di sostegno dal fondo salva Stati con acquisti di titoli di debito sul mercato secondario (o direttamente alle aste) come premio ai Paesi che hanno fatto le riforme, senza sottoporsi alle richieste umilianti e terribili della troika. L’intesa al Consiglio europeo di giugno 2012 e poi le operazioni OMT annunciate dalla Bce di Mario Draghi prevedevano la possibilità anche per i Paesi virtuosi, ma con conti difficili (l’Italia), di beneficiare di un sostegno europeo presentandolo ai mercati come unpremio, invece che un salvataggio. Alla Bce non sarebbe dispiaciuto chel’Irlanda chiedesse la linea di credito: tutta l’architettura di difesa dell’euro di Draghi ne sarebbe uscita rafforzata. Invece niente. Lo “scudo” è soltanto quello che si temeva: non quadro di premi e punizioni, ma un piano di emergenza che, in caso di utilizzo vero potrebbe rivelare le sue fragilità.

Un bluff che è meglio non andare a vedere. La mossa dell’Irlanda lascia quindi l’Italia più scoperta, la fragile corazza che ci eravamo illusi di avere attorno è carta velina. Per fortuna i mercati, distratti dalla liquidità immessa dalle Banche centrali, sembrano non essersene accorti.

LA NECESSITA' IMPROROGABILE DI RIDISCUTERE I PATTI

I dati ormai parlano chiaro e solo una disastrosissima classe dirigente italiota,che il popolo non riesce e non vuole scrostarsi di dosso,si ostina a rifiutare millantando fantasie senza senso.

I dati sul PIL appena usciti, la crisi annunciata dell’INPS (dopo Alitalia Telecom Finmeccanica ecc.), il nuovo record della disoccupazione e del debito pubblico, la forte deflazione dei prezzi alla produzione, descrivono uno scenario di graduale asfissia economica. La crisi dell’Eurozona sta portando alla disperazione decine di milioni di Europei: tra questi, sei milioni di italiani che vorrebbero lavorare ma non trovano lavoro. Si tratta di una crisi strutturale: perciò a politiche vigenti essa è destinata a trascinarsi a indefinitamente. Gli effetti di isteresi sull’offerta aggregata consolideranno definitivamente, nei prossimi anni, il crollo di civiltà in atto nei paesi Mediterranei. 

L’Euro venne varato senza che vi fossero le condizioni perché i paesi aderenti potessero condividere una moneta unica. I padri dell’Euro speravano che in corso d’opera opportune riforme istituzionali avrebbero creato tali condizioni. Ma tali riforme (ammesso che siano sufficienti) non sono mai state fatte. Anche dopo l’esplosione della crisi, l’Europa si è limitata ad adottare:

  • provvedimenti tampone;

  • misure minime, al limite della violazione dei Trattati Europei, strettamente necessarie per evitare il crollo dell’Euro, senza correggere i Trattati;

  • modifiche ai Trattati inadeguate e controproducenti.

Insomma, i progressi istituzionali sono stati deludenti.Ad oggi chi ne ha beneficiato è la Germania e l'Europa del Nord: i secondi mantenendo una socialdemocrazia ad ogni costo con la compressione estrema della dinamica salariale a fronte di uno stato sociale finanziato per oltre il 50% dell'imponibile, contrazione adottata dai tedeschi sotto il cancellierato Schroeder, che ereditava i costi ingenti dell'Unificazione tedesca del 1990. Ancorando poi l'euro ad una valuta forte come il marco, il risultato è stato che la Germania sola ha beneficiato di una valuta pesantissima che grazie alla compressione interna ha finito per generare un SURPLUS COMMERCIALE AD OGGI DI QUASI 1800 MILIARDI DI EURO !! Uno "sterminio" economico che ha finito per massacrare tutte le economie tipiche d'esportazione di paesi che non hanno alcuna materia prima interna, come Italia,Spagna,Portogallo,Grecia,Irlanda fino ad allora scudate da monete nazionali deboli. Se in PIIGSF la crescita della produttività accelerasse, non è detto che ciò determinerebbe un recupero di competitività sulla Germania. Perché nel frattempo la produttività tedesca non si ferma. Dunque non può essere questo il meccanismo di riequilibrio: non esiste al mondo. Anche perché trasformerebbe l’Eurozona in una micidiale macchina per sopprimere i diritti dei lavoratori. (Guarda caso…). In ogni caso, in Germania l’aritmetica è… un’opinione?! Non tutti i paesi possono avere simultaneamente un avanzo commerciale. E per recuperare competitività la Germania nel 2000-08 beneficiò di un’inflazione al 3-4% in PIIGSF, mentre oggi l’inflazione tedesca è all’1,4% e non ci lascia margini. In ogni caso, il surplus commerciale tedesco è illegittimo (accordi G20), devastante perciò immorale. La Germania potrebbe crescere come tutti i paesi del mondo avvalendosi della domanda interna. Ai tedeschi è riuscito con il sorriso e lo spread ciò che è sprofondato con le panzer divisioni di Hitler. Il dominio economico tedesco ha un pesante riflesso politico con i Trattati europei d'acciaio non modellabile. Peggio ancora, a peggiorare l’assetto normativo dell’Eurozona grazie alla preminenza finanziaria acquisita: essa rende gli altri paesi vulnerabili e perciò sensibili a minacce ed incentivi, dunque all’influenza politica dei paesi in surplus. Perciò l’alleanza fra Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, e Francia non è mai nata. Lideologia macro-liberista è molto forte in Europa: e porta a negare le analisi e le evidenze empiriche che smentiscono la bontà delle politiche, degli assetti istituzionali, e della filosofia di cui l’Eurozona è impregnata.

Non che la crisi sia stata provocata: ma non deve essere risolta se non facendo funzionare il meccanismo di flessibilizzazione dei prezzi (quindi dei salari) e di riduzione della spesa pubblica: sono questi i Valori Prioritari, rispetto ai quali la disoccupazione e il PIL diventano non solo secondari, ma strumentali.

La crisi in atto è dunque fondamentalmente politica. La Storia ci insegna come finiscono crisi di questo genere. Negli anni “30, un’intera classe dirigente di politici, banchieri centrali, diplomatici, funzionari, economisti, ecc., aveva legato il proprio cuore e il proprio destino al gold standard. Ma fu proprio l’abbandono del gold standard a consentire la fine della crisi. Eppure, l’establishment fino alla fine lottò per conservare il sistema aureo. L’Inghilterra fu espulsa (per sua fortuna) dai mercati, a causa dell’assenza di un lender of last resort internazionale; ma la BCE è stata costretta ad accettare, più o meno, questo ruolo nel Luglio 2012, il che ha escluso tale evenienza. In altri casi, fu necessaria la grande vittoria politica di un leader nuovo (Roosevelt, Hitler), determinato a mettere fine alla crisi, a costo di ‘provarle tutte’, anche sconvolgere gli equilibri esistenti. Tali vittorie politiche richiedono: disoccupazione di massa; e una democrazia che lasci qualche possibilità agli outsiders. L’establishment europeo sta cercando di impedire l’insorgere di tali condizioni: applicando un po’ di flessibilità al paradigma dominante; costituzionalizzandolo; e prevedendo penalità per chi dovesse abbandonare l’Eurozona (l’uscita dall’Euro è vietata).Ora la Commissione, vista l’aria che tira, fa la voce grossa con la Germania. Ma si tratta sempre di un’ammoina: il limite per il surplus dei conti con l’estero è stato fissato a uno stratosferico 6% del PIL. La Germania viaggia fra il 6 e il 7% da alcuni anni. Ma un surplus tedesco al 5,9% non cambierà granché. Ora la BCE spiega che ha tutti gli strumenti a disposizione per evitare la deflazione: se necessario, interverrà.Dunque la BCE dice che è perfettamente in grado di attenuare la depressione, ma non muoverà un dito a meno che l’inflazione non diventi negativa. Com’è possibile accettare una Banca Centrale i cui obiettivi politici sono così contrastanti con quelli della società?

COLLABORAZIONISMO E CESSIONE DI SOVRANITA' POLITICA,ECONOMICA E MONETARIA:dal Cavaliere di Arcor al Quisling Letta

L'italia così come la conosciamo fuoriusciva dopo due anni di occupazione del Centro -Nord da parte della Germania nazista e del Sud da parte degli Alleati. Sconfitta nel fascismo con la defenestrazione del Duce del 20 luglio 1943,ad opera dei suoi stessi accoliti in camicia nera coadiuvati dal re d'Italia - che poi prese a scappare a Brindisi una volta firmato l'armistizio il 2 settembre 1943, responsabile di aver trascinato un paese fragilissimo in una guerra di massa,la penisola cercò il riscatto nella guerra partigiana di retrovia che non sortì tuttavia l'effetto di indurre una sollevazione di massa contro l'occupante nazista prima della vittoria Alleata finale contro la Germania. Anzi:l'Italia, in relazione alla ferocissima campagna di bombardamento alleato del territorio del  Reich, divenne una preziosa leva produttiva per i nazisti che pareggiavano gli ammanchi in patria con il lavoro delle fabbriche italiane. Per espressa volontà americana, l'Italia,all'indomani dello sbarco ad Anzio, che aggirava la noce di Cassino,divenne fronte secondario,col risultato di trascinare la guerra per altri due anni volendo sfondare il Reich da ovest e da est piuttosto che da sud. Il 2 maggio 1945 i plenipotenziari tedeschi firmavano la resa incondizionata delle truppe tedesche sul territorio italiano e da quel momento le potenze vincitrici, ad eccezione dell'URSS,stabilirono la propria sfera di influenza.  Sostanzialmente l'Italia, pur essendosi sganciata due anni prima dal crollo del nazismo e pur avendo combattuto una guerra di retrovia,all'interno degli Accordi di Jalta,veniva trattata come una semplice colonia e da colonia aderì, dopo l'espulsione dei comunisti dalla compagine governativa ed all'indomani della vittoria della DC alle elezioni democratiche del 1948, al Patto Atlantico che entro la cornice della difesa contro l'espansionismo sovietico, stabiliva il controllo statunitense dell'intera politica italiana soprattutto in relazione all'esistenza del più grosso partito comunista occidentale.La disintegrazione dell'URSS e del Patto di Varsavia non liquidò affatto l'Alleanza Atlantica che anzi prese ad espandersi proprio in Europa Orientale dando modo agli USA di aumentare il potere di controllo politico dell'area in relazione alla globalizzazione dei mercati che ponevano all'orizzonte nuovi "nemici" come le Tigri Asiatiche (Cina,Vietnam,Singapore,Malesia,Indocina) ed i paesi ricchi di petrolio che contrastavano l'ingerenza statunitense(Iran,Iraq,Siria,Libia). Il disastro delle Torri gemelle di New york,con parziale danneggiamento del Pentagono a Waschington, del settembre 2001 diede il via alla strategia dell'attacco preventivo statunitense contro i così detti "stati canaglia":prima l'Afghanistan e poi l'Iraq nel giro di due anni furono investiti dalla potenza di fuoco nord americana, il tutto affiancata dal codicillo di colonie del Patto Atlantico secondo quelli che sono i precetti dello stesso in quanto gli USA vengono considerati potenza attaccata senza alcuna dichiarazione di guerra da parte di alcuna nazione !!! La guerra planetaria ed il controllo portarono ben presto gli USA sull'orlo del tracollo economico che non tardò a palesarsi col crollo del colosso bancario Lemhan Brother, punta di un gigantesco Iceberg costituito da centinaia di miliardi di dollari di debiti basati sulla così detta cartolarizzazione dei mutui immobiliari.La crescita abnorme dei contratti derivati da mutui insolventi generò uno spaventoso effetto domino su tutta l'economia mondiale che improvvisamente si contrasse a tal punto da portare il governo nord americano ad un soffio dalla bancarotta con ben due occupazioni da finanziare. L'onda lunga della crisi non tardò ad investire anche l'Italia che con i governi propagandistici finto imprenditoriali non adotto' alcuna misura di contrasto e difesa dal crollo finanziario. Il paese, già infiacchito nei debiti da una unione monetaria che impose un pesantissimo cambio 1 a 2000 contro il marco tedesco trasformatosi in euro,venne pesantemente travolto nelle finanze nell'estate del 2011 ed il 5 agosto dello stesso anno la Banca Centrale Europea spedì al governicchio Berlusconi una Lettera d'intenti ovvero di obblighi del governo da attuare CHE SANCIVA LA CESSIONE DI SOVRANITA' ECONOMICO-FINANZIARIA DELL'INTERA NAZIONE ALL'EUROPA in cambio del mantenimento in vita artificiale. Saccomanni, qualche tempo fa, si lasciò sfuggire una frase "Bisogna dire la verità agli italiani". Si riferiva allo sfascio economico. Poi è rimasto in silenzio, in attesa di essere cacciato dal governo. Da allora ogni giorno è in bilico. Nel frattempoCapitan Findus Letta racconta le sue menzogne agli italiani. Sposta sempre la linea della ripresa più in là, mentre il Paese sprofonda con bollettini quotidiani di guerra vera, di deserto delle aziende, degli investimenti. Questo doppio registro, l'Italia che viene distrutta dalla mancanza di una politica economica e le falsità di Letta propagandate dai giornali e dalle televisioni ha assunto ormai una dimensione grottesca, fumettistica. Letta interpreta una nuova parte della Commedia dell'Arte, il Mentitor Cortese. Ogni sua dichiarazione si è dimostrata falsa come un soldo bucato, ma lui, imperterrito, continua con le sue fandonie. Ora vede la luce nel 2013, ora un po' più in là, alla fine del 2014. Questa rappresentazione stucchevole di un ometto graziato dalla sorte e politico a carico dei contribuenti dalla nascita (non ha mai fatto altro nella vita, eoni fa, nel 1998 è stato ministro per le politiche comunitarie del governo D'Alema) ha però un suo significato, quello di garantire gli interessi dei nostri creditori internazionali, in primis la Germania. Non sarà sfuggito che Capitan Findus ha quasi speso più tempo all'estero dalla sua elezione che in Italia a farsi accreditare dalle segreterie internazionali. Come Rigor Montis prima di lui, Letta rappresenta l'assicurazione che l'Italia onorerà i debiti contratti dalle nostre banche attraverso la BCE e i rimborsi dei titoli pubblici e degli interessi. E' il novello Quisling italiano, il collaborazionista norvegese al servizio dei nazisti durante l'ultima guerra mondiale. Il suo è un governo fantoccio che rappresenta gli interessi di Stati stranieri e non dell'Italia. La cassa integrazione in deroga è al collasso,350mila lavoratori sono senza sussidio da nove mesi. Le partite Iva sono crollate dal 2008 al giugno del 2013 di 400mila unità. Disoccupazione fuori controllo, debito pubblico esplosivo, chiusure di negozi e piccole e media imprese come se piovesse. Il disastro Italia assomiglia a un bombardamento quotidiano dove a una cattiva notizia ne succede una pessima. Quisling Letta non ha fatto nulla per risollevare il Paese. Gli ordini li prende dall'estero. E' un procuratore fallimentare che deve garantire i creditori. Quanto potremo andare avanti così? A venderci persino le spiagge? Due misure sono improrogabili. Vanno tagliati gli sprechi, le spese inutili che ammontano a circa 100 miliardi. Queste voragini nel bilancio dello Stato non possono però essere eliminate da chi ne gode i benefici, dai partiti e dai Letta, che appunto per questo vanno mandati a casa. Vanno rinegoziati con la UE il tetto del 3% che ci strangola, che va superato da subito per gli investimenti in attività produttive, ristrutturato il nostro debito, cancellati gli impegni impossibili assunti con il Fiscal Compact con nuove tasse per 50 miliardi all'anno per vent'anni, una pazzia. Primum vivere, prima gli interessi nazionali.Ma non finisce quì: oltre agli sprechi dovuti ad una classe politica sconfinata nei numeri e nei costi, esistono montagne di miliardi dirottati in opere infrastrutturali senza senso come il TAV Torino-Lione. Questa linea ferroviaria inutile rappresenta il PRIMO CASO EUROPEO DI CESSIONE INFRASTRUTTURALE DI SOVRANITA' A LATERE DI QUELLA POLITICA-ECONOMICA-FINANZIARIA TRATTEGGIATA FINO AD ORA. "Quando si tratta di TAV il Governo è un treno: il 20 novembre c'è l'incontro con la Francia e occorre convincere i francesi a proseguire un'opera sulla quale hanno espressoconcrete perplessità. In Italia s'ha da fare, per i soliti oscuri interessi, e quindi ci si dispone a tutto pur di forzare la mano alla Francia. Anche a cedere la nostra sovranità ai cugini d'oltralpe: sulla tratta italiana vigerà la legge francese. Un treno extraterritoriale! E ciò torna assai comodo alle imprese italiche, perché i francesi non chiedono certificati antimafia. Si sta seguendo una prassi pazzesca per simulare di corsa l'approvazione del Trattato: se ne ratifica mezzo. Cioè si vota alla Camera, e si presenta poi ai francesi senza che sia passato al Senato. Una cosa inaudita e del tutto anticostituzionale. Nessuna Commissione parlamentare se ne è mai occupata: il Ministro Lupi ha accentrato su di sé ogni decisione. Chissà di quali interessi è garante. Il M5S ha presentato ben 1082 emendamenti all'obbrobrioso impiccio chiamato "Trattato". Glielo faremo sudare."

IL MODELLO CIPRO ESTESO A TUTTA EUROPA AD USO E CONSUMO DELLA MERDOSA GERMANIA

Il futuro dell’Unione Bancaria europea si decide in questi giorni tra Bruxelles e Francoforte. Un altro pezzo di sovranità nazionale ci abbandona senza il parere degli italiani ALL'INDOMANI DELLA FAMOSA E MISCONOSCIUTA LETTERA DELLA BCE DEL 5 AGOSTO 2011. Cosa contano ormai gli italiani?
L’Euro ci ha sottratto sovranità monetaria, l’Unione Bancaria
 ci sottrarrà sovranità bancaria, la funzione primaria della banca, la tutela del risparmio. E si tratta di un diritto sacrosanto scolpito nell’articolo 47 della nostra Costituzione: "La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l'esercizio del credito"... Ma cosa conta ormai la Costituzione?
La nostra economia è strozzata dalla scarsa liquidità erogata da un sistema bancario che, a sua volta, è strozzato da 140 miliardi di euro di sofferenze e da una BCE sempre più minacciosa con lo "stress test" del 2014, sui bilanci bancari nei quali per la prima volta verrà inserito il rischio di titoli di Stato. Un esame che, per essere superato, costringerà le banche italiane a rastrellare miliardi di euro di nuova liquidità sul mercato.
L'Unione Bancaria aveva all'inizio due obiettivi positivi, ha fatto l'opposto. L'Unione doveva sia ricapitalizzare le banche in difficoltà per evitarne il fallimento che spezzare il legame perverso tra banche e Stati dovuto al debito pubblico nei bilanci bancari con la condivisione del rischio a livello UE. E, per inciso, le banche italiane traboccano di oltre 400 miliardi di nostri titoli.
Dopo due anni di dibattiti la vincitrice è sempre la Germania. La Merkel vuole infatti solo mettere tempo e ostacoli tra il fallimento di una banca in Europa ed il rischio che i tedeschi debbano pagarne il prezzo, ECCEZION FATTA PER IL FALLIMENTO DELLE SUE MERDOSISSIME BANCHE FEDERALI, LE BANKLANDEN, RIFOCILLATE IMMEDIATAMENTE DA BERLINO CON 100 MILIARDI DI EURO PRELEVATI DALLE BANCHE LOCALI TEDESCHE ESCLUSE MOTU PROPRIO DAL CONTROLLO INTEGRATO BANCARIO. La lista delle vittorie tedesche sancita nel summit della scorsa settimana a Bruxelles è lunga.
Ci sarà un fondo europeo comune per la ricapitalizzazione delle banche in crisi che verrà costituito con contributi delle banche stesse. Però... Tale contributo inizierà solo nel 2016 e sarà completato nel 2026. Alla fine di questo periodo il salvadanaio che le banche avranno costituito per tutelare loro stesse sarà di appena 55 miliardi di euro. Meno di 1% del totale dei bilanci delle banche coinvolte. Per capire l’esiguità della cifra si pensi che dall’inizio della crisi i cittadini europei, attraverso gli Stati, hanno sostenuto salvataggi bancari per circa 550 miliardi.
Cosa succederà se da qui al 2026 una banca dovesse trovarsi in difficoltà? In caso di fallimento saranno coinvolti i gli obbligazionisti (bail-in) e i depositi superiori a 100mila euro. Dopo aver applicato il bail-in minimo dell’8%, gli Stati potranno fare ricorso a fondi pubblici, ma solo dietro autorizzazione di Bruxelles.Rischiamo di non avere neppure il diritto di nazionalizzare MPS, o altre banche prossime al fallimento, ed essere costretti a venderle allo straniero per un piatto di lenticchie,cosi' come e' gia' stato fatto per la banca d'italia nel silenzio assoluto.("Le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari. Attraverso il decreto sulla rivalutazione delle quote della banca di Italia, per avere 900 milioni di Euro senza sforare il tre per cento del deficit. Ne regaleremo 450 all’anno agli azionisti della Banca di Italia, che come sapete sono privati.Il mostro in passato è stato in qualche modo limitato, perché? Perché la ripartizione degli utili prodotti dalla Banca di Italia è sempre stata riservata in minima parte ai suoi azionisti privati, non più dello 0,5 per cento delle riserve, che ammontano più o meno a 22 miliardi di Euro. Per cui anni buoni e anni cattivi non hanno consentito agli azionisti di prendere più di 50 - 70 milioni di Euro all’anno dal capitale della Banca di Italia. Nel 2005 il governo Berlusconi fa per miracolo una legge giusta e stabilisce che le quote nel capitale della Banca di Italia, detenute da soggetti non pubblici debbano passare entro tre anni allo Stato. 
Sono passati otto anni e quella legge è rimasta inattuata. 
Il 27 novembre notte tempo, mentre il Parlamento dichiara la decadenza di Berlusconi e tutti i cittadini sono distratti,
 
Saccomanni fa una clamorosa marcia indietro, con un decreto legge stabilisce che la Banca di Italia non sarà più destinata a diventare un istituto di diritto pubblico detenuto dallo Stato, ma una public company, ovvero una società a azionariato diffuso con azionisti tutti privati.Inoltre, il capitale della Banca di Italia passerà dagli attuali 156 mila Euro a 7,5 miliardi di Euro, con un forte vantaggio patrimoniale per tutti partecipanti,la cosa più importante è che fino a oggi la Banca di Italia non poteva distribuire un utile superiore al 10% dell’attuale capitale sociale, di 156 mila Euro, più una quota delle riserve, che per prassi non superava mai lo 0,5 per cento all’anno. 
Nel progetto del governo Letta questo limite viene alzato al 6% del nuovo capitale sociale di 7,5 miliardi di Euro,
 
vale a dire ben 450 milioni di utili distribuibili all’anno. 
La fine è peggio dell’inizio, perché un’altra incredibile novità di questo magnifico progetto è che le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari. )
Insomma, viviamo già oggi in un Paese che conta poco nel sistema europeo delle banche centrali, immaginate quanto potrà contare se la sua banca centrale sarà di proprietà degli stranieri!"
E' il modello del salvataggio di Cipro scritto ora nero su bianco. Oltretutto, l’Italia è il Paese che maggiormente in Europa colloca le sue obbligazioni bancarie presso le famiglie. Coinvolgerle nella ricapitalizzazione vuol dire condividere con loro (e non con la Germania...) il rischio di perdite. Alla fine vuol dire sottrarre risparmio alle famiglie per tappare i buchi delle banche.
I Paesi in difficoltà, i cosiddetti Pigs, hanno provato ad alzare la voce. Addirittura "Gelatina" Saccomanni ha trovato il coraggio di scrivere una lettera di Natale a Bruxelles per chiedere che gli Stati in difficoltà con le banche nazionali possano attingere ai 700 miliardi di euro del fondo salva-Stati (ESM) a cui l’Italia peraltro contribuisce con 117 miliardi, metà dei quali già versati grazie nuove emissioni di titoli pubblici su cui paghiamo profumati interessi. La Germania non solo ha risposto picche. Ha anche detto che sarà possibile solo se un Paese accetterà di sottomettersi ad un piano di aiuti della Troika.
Non è cambiato quindi nulla e restiamo nello scenario del disastro greco. Hai bisogno di aiuto? Io Europa (quindi io Germania) ti presto i soldi, ma solo se mi lasci governare il tuo Paese a botte di austerità e recessione. Martin Schulz, l'amico fraterno del pdexmenoelle, presidente dell’Europarlamento, ha annunciato che Bruxelles sarà durissima su questo punto, la cui supervisione sarà affidata alla BCE con il compito di vigilare su 130 banche europee (di cui15 italiane). La vigilanza unica della BCE si applicherà solo a banche al di sopra di 30 miliardi di euro di attività su richiesta della Germania per tutelare sotto la vigilanza domestica le sue Landesbanken e Sparkasse, quasi metà del sistema bancario tedesco, quello spesso definito "zombie" per l'incapacità di reggersi in piedi senza il sostegno pubblico e proprio per questo sottratto alla vigilanza di Draghi.
Non si spiega quindi cosa celebrino i tromboni di regime nello sventolare l’accordo sull’Unione Bancaria come un successo. Saremo, peggio di prima, costretti a risolverci i problemi a casa nostra con i nostri risparmi. Perché dovremmo allora privarci del diritto di regolare e agevolare il sistema bancario nazionale senza ricevere nulla in cambio?
La morale di tutto questo è che con 400miliardi di euro di BTP nella pancia delle nostre banche se lo spread dovesse ripartire, e ci sono tutte le premesse, questa Unione Bancaria non farà nulla per evitare che la crisi si abbatta sulle nostre banche con potenziali perdite e fallimenti che dovremo comunque ricoprire attingendo alle tasse ed al risparmio nazionale. 

 

LE DISASTROSE

 

 TRAPPOLE DEI

 

 FONDI

 

 PENSIONE

La trappola dei fondi integrativi si è estesa ai dipendenti pubblici, da circa un anno sono attivi i fondi Sirio e Perseorivolti ai dipendenti pubblici, che si aggiungono a Espero. Tre trappoline per i dipendenti della Scuola, della Sanità, dei Ministeri. 
Poi soprattutto è ripresa da alcuni mesi una forte campagna a favore della previdenza integrativa dei fondi pensione con articoli abbastanza indecenti su “Il Sole 24 ore”, su Il Corriere della sera, etc.. Gli articoli che appaiono su questi giornali, anche su un supplemento del lunedì del Corriere della Sera che leggeranno ben pochi, non sono rivolti ai lettori, gli articoli sulla previdenza, come quelli sui fondi comuni, servono per essere fotocopiati e usati come supporto per le vendite, questo è il fine di questi articoli! L’Italia ha una stampa economica, e in particolare nel settore della previdenza, che non è cattiva, ma pessima La regola è gonfiare i vantaggi parziali, tacendo tutti i difetti e in compenso per quanto riguarda il TFR (Trattamento di Fine Rapporto) tacere tutti i vantaggi. 
Vorrei smontare alcune cose regolarmente scritte nei giornali, pronunciate dai vari economisti di regime intervistati, spinte in tutte le maniere dalla propaganda. Il vero rischio non è la pubblicità, si sa che è di parte, ma gli articoli dei giornali, dei cosiddetti esperti e a volte anche dei miei, sciaguratamente colleghi, docenti universitari. Chiariamo alcune cose. Non è vero che la previdenza integrativa è indispensabile per integrare la propria pensione. Totalmente falso, la propria pensione si può integrare risparmiando, mettendo da parte i soldi, investendoli in qualche maniera e usando quelli. Non è vero che il TFR della pensione, deve essere messo nei fondi pensione, assolutamente no, menzogna spudorata, uno si tiene il TFR, se è un dipendente pubblico il TFS (Trattamento di Fine Servizio) e quando lo incasserà se vuole lo utilizzerà per una rendita integrativa, tenendosi però la sicurezza del TFR e del TFS fino a quell’età e non dandola agli sfasciacarrozze del risparmio gestito che gestiscono i fondi pensione. 
Vantaggi fiscali? E’ falso come viene detto da giornalisti, sindacalisti, banche, assicuratori che la previdenza integrativa ha forti vantaggi fiscali. Non è vero, soprattutto per un giovane. Facendo i conti giusti che sa fare chiunque conosce questa materia il famoso vantaggio di pagare al 15 o al 9% di imposta su quanto accantonato, all’inizio della pensione, per un giovane significa un vantaggio di rendimento in termini annui nell’ordine dello 0,5%. Una miseria. Il vantaggio fiscale è divorato dai costi, è irrilevante. 
Aggiungiamo il fatto che non è sicuro perché nell’arco di 30/40 anni le leggi cambiano, quelle tributarie tantissime volte. Nell’ultima legge di stabilità hanno tolto un’agevolazione sulla previdenza integrativa che riguardava le polizze vita, cosiddette previdenziali, quindi questi vantaggi fiscali sono incerti e comunque già adesso insufficienti, al massimo potrebbero andare bene per chi ha un reddito sui 300 mila Euro l’anno e a 5 anni dalla pensione, non è esattamente la categoria di persone a cui sembra rivolgersi la previdenza integrativa, quindi buttiamo via il discorso dei vantaggi fiscali. È falso anche quello che che per un lavoratore di un’azienda dove c’è un fondo di categoria, c’è un grande vantaggio che rende conveniente aderire ai fondi pensione, che è il contributo datoriale, bruttissima parola, cioè del datore di lavoro, non è vero che questo sia determinante. Si può vedere con qualche semplice simulazione che bastano un po’ di anni negativi e viene divorato; non è affatto garantito, ma il contributo del datore di lavoro ci sarà soltanto finché dura il contratto collettivo di lavoro, 4/5 anni. E' un’ingiustizia pagare di più alcuni lavoratori rispetto a altri. Di più quelli che aderiscono al fondo pensione, di meno gli altri, questo è buttare a mare una conquista sindacale nell’arco di più di un secolo: stesso lavoro, stessa retribuzione. Invece no: stesso lavoro ma chi aderisce al fondo pensione viene pagato di più. Altra cosa falsa che Il confronto tra fondi pensione e TFR è sempre vantaggioso per il fondo pensione se si considera il periodo positivo, ma se si prende un altro periodo storico, senza risalire all’impero romano, semplicemente a dal '62 al '82 con un fondo pensione un lavoratore avrebbe perso circa l’80% in potere di acquisto, 81% nel caso delle azioni, quindi avrebbe perso i 4/5. In quello stesso periodo con il TFR avrebbe perso soltanto il 18% che è già molto meglio che perdere l’80 %. Quindi falsità una dopo l’altra. 
Oltre alla falsità vi sono cose che non vengono dette. Per i fondi pensione aperti, chiusi, i piani previdenziali e tutta l’altra congerie di prodottacci per portare via soldi ai lavoratori non c’è quasi nessuna trasparenza, solo qualche dato generico e soprattutto regola ferrea del risparmio gestito e della previdenza integrativa. L’interessato che ha messo i suoi soldi non ha diritto di sapere che titolo viene comprato, quando, a che prezzo, che titolo viene venduto. A questo punto è facile dire che nel torbido si pesca bene, e altre battute per dire che lasciare la possibilità al gestore di fare quello che vuole, lo spingerà logicamente a fare porcherie varie, porcherie che peraltro vengono fuori. Dare i propri soldi a un fondo pensione a un piano individuale previdenziale, soprattutto un fondo pensione, vuole dire rischiare con i mercati finanziari , perché vuol dire avere il risultato legato all’andamento ai titoli azionari, obbligazionari. Non è opportuno giocarsi la pensione alla roulette dei mercati finanziari. 
Nessun prodotto della previdenza integrativa, nessun fondo pensione chiuso, aperto, socchiuso che sia, nessun piano individuale previdenziale o pensionistico, nessuna polizza vita garantisce in potere d’acquisto i soldi messi dal lavoratore- La garanzia in potere di acquisto c’è al massimo per un periodo breve, mentre il TFR dà una base garantita in potere d’acquisto per tutta la sua durata quanto essa.. 
Questo è fondamentale perché nell’arco del ‘900, per tre volte i risparmi previdenziali o non previdenziali degli italiani vennero decimatidall’inflazione, a cavallo della Prima Guerra Mondiale, a cavallo della Seconda Guerra mondiale e al tempo petrolifero dal '73 all’84/85. Non c’è nessun lavoratore nell’arco del ‘900 che abbia vissuto senza incontrare un momento in cui i risparmi risparmi mobiliari venivano distrutti dall’inflazione. La garanzia nei confronti dell’inflazione i fondi pensione la danno per un periodo brevissimo! Questo è il vero rischio di tutta la previdenza integrativa, vedere il fondo che non fallisce, formalmente non fallisce, "i fondi pensione non falliscono, ma in potere di acquisto possono perdere il 90%". 
Mi rendo conto di essere la voce di colui che grida nel deserto, quasi nessun altro lo dice, perché la torta della previdenza integrativa è una torta ricca, succosa, gustosa. Perché a differenza dei fondi comuni, se uno mette i soldi nella previdenza integrativa non può riscattarli, deve aspettare l’età della pensione, quindi fino a 65/67/70 non può riscattarli e per giunta la trasparenza è ancora minore che nei fondi comuni dove già è bassissima. Questi prodotti interessano alle banche alle assicurazioni, ai gestori e alle società di gestione, ai sindacati che ci mettono i loro amici, sono centinaia di poltrone strapagate di parassiti che non fanno nulla perché, e questo è veramente buffo, gli amministratori dei fondi pensione, non gestiscono il fondo pensione, subappaltano a un altro la gestione, come spesso è stato subappaltato ad altri l’amministrazione della raccolta delle quote. Poltrone fatte per dare soldi, prese metà dai sindacati e metà degli amici di Confindustria, Confcommercio, dalle associazioni patronali.
Conclusione: evitare tutti i prodotti previdenziali: fondi comuni, aperti, chiusi, piani individuali pensionistici, polizze vita. Tutti da evitare, se uno li ha sottoscritti, interrompere i versamenti, tenersi il TFR. Non affidare i propri soldi a nessuna gestione, non solo alla previdenza integrativa, ma neanche affidarla ai fondi comuni, alle gestioni né italiane né estere, sono uguali, sono scatole nere dove i gestori mangiano, non dico mangiare tutto, ma possono raschiare tanti soldi, con 2,5 di commissioni annue di gestione, è uno sproposito!

Accordo Ecofin, ecco chi pagherà per le crisi bancarie in Europa

Il ministro del Tesoro Fabrizio Saccomanni lo ha definito un accordo “storico”. L’accordo raggiunto nella notte di martedì a Bruxelles è il primo passo concreto verso l’unione bancaria. La materia è delicata ma cruciale. Il presidente della Bce Mario Draghi lo considera “un grande passo avanti”. Il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz parla di “un primo passo” e promette un esame “durissimo”.

1. Perché l’accordo europeo è così importante?
Stabilisce come funzionerà il fondo di risoluzione europeo, che dovrà intervenire quando una banca andrà in difficoltà e il nascente organismo di Supervisione unica (di fatto un’emanazione della Bce) dovrà decidere come gestire la crisi, pilotando verso il salvataggio o la bancarotta controllata. Operazioni costose, che qualcuno deve pagare: prima gli azionisti, poi i creditori, in parte anche i risparmiatori (è l’approccio bail-in). Quel che resta sarà coperto dal fondo.

2. Ogni Stato pagherà per le sue banche o la gestione sarà europea?
Questo era il punto delicato. Si è trovato un compromesso: il fondo nasce con contributi nazionali tenuti separati, a compartimenti stagni. Nel corso di dieci anni diventerà un fondo davvero europeo, così che i mercati sappiano che in caso di dissesto di una banca esiste uno strumento comunitario pronto a intervenire. Questo, assieme alla supervisione rafforzata da parte della Bce, dovrebbe rendere molto più credibile il sistema bancario europeo, agevolando quindi i finanziamenti a imprese e famiglie.

3. Quali sono le banche coinvolte?
In teoria tutte, anche i Paesi fuori dalla zona euro possono entrare in questo progetto di Unione bancaria. I 130 istituti principali saranno sottoposti alla supervisione diretta della Bce che vigilerà anche sugli altri ma per tramite delle autorità nazionali (nel nostro caso la Banca d’Italia).

4. Chi decide che una banca deve essere chiusa?
Il processo decisionale è complicato, c’è un board del Meccanismo unico di supervisione che è composto da un presidente, cinque membri della Bce e 18 delle autorità nazionali, poi trasmette la sua decisione al consiglio dei governatori della Bce, che poi rimanda la palla al Meccanismo unico di supervisione. Salvo che la Commissione o il Consiglio (cioè l’esecutivo europeo e gli esecutivi nazionali) non si oppongano, le decisioni del board del Meccanismo unico di supervisione diventanooperative in 24 ore. Sono previsti poteri che permettono di agire anche contro il volere di alcuni Stati o delle autorità di vigilanza nazionali (nessun governo o supervisore locale gradisce vedere esplodere una crisi bancaria in casa propria).

5. Da dove arriveranno i soldi?
Il fondo per la risoluzione sarà finanziato dai privati, cioè dalle singole banche nazionali, ma potrà attingere risorse anche dal fondo salva Stati Esm (i cui capitali per ora non vengono utilizzati) nella fase transitoria, cioè finché il fondo non sarà pienamente operativo.

6. Quando entrerà in vigore tutto questo?
Il meccanismo sarà pienamente operativo tra 10 anni e serve prima l’approvazione di un trattato intergovernativo, cioè devono ratificarlo i singoli Stati membri (o meglio, un numero sufficiente a garantire l’80 per cento delle risorse al fondo di risoluzione). Il processo partirà dal 2016, salvo sorprese.

7. Quali sono i buchi in questa rete di protezione?
I tempi sono lunghi, le incognite tante, i dettagli da chiarire decine. Il negoziato è appena all’inizio. Se è rassicurante che si sia imposta la logica che il “backstop”, cioè il fondo per il pronto intervento, sia europeo, per anni resterà frammentato su base nazionale. Riducendo così l’effetto rassicurante per gli investitori, che avranno ragioni per continuare a preoccuparsi soprattutto delle crisi bancarie che riguardano istituti operanti su diversi Paesi.

Il Pd schiavo delle lobby d'oro

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"A chi obbediscono i partiti? Ai loro elettori o ai lobbisti? La legge di Stabilità non è fatta per i cittadini ma per tutelare interessi e affari, caste e cordate. Vi sembra eccessivo? Sentite questa: il Pd, prima firma il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, presenta un emendamento alla stabilità per salvaguardare le casse dell’Inps. Viene previsto un tetto massimo di 150mila euro fra pensione e altri incarichi, pubblici e privati. Bene. Parte la discussione in commissione che si protrae per la notte. Le trattative fervono nei corridoi. Ma dopo una lunga gestazione, il Pd partorisce una riformulazione che azzera il contenuto della norma: il tetto sale fino a 294mila euro ed è applicabile solo a chi cumula pensione e incarico nella pubblica amministrazione salvando tutti i contratti in vigore. Come dire: “abbiamo scherzato, ci siamo sbagliati”. Cos’è accaduto nel mentre, fra il prima e il dopo? Quale manina è intervenuta? Per capirlo bisogna uscire dalla commissione, farsi un giro, entrare nella saletta fumatori nel cuore di Montecitorio e immergersi nella folla dei lobbisti che assedia il Parlamento. E ascoltare:
Tu non avresti potuto fare niente al di sopra dei 150 mila euro compresa la pensione – si sente dire a una persona che parla al telefono - ho dovuto scatenare mari e monti. È stata una battaglia durissima – spiega compiaciuto mentre tesse le sue stesse lodi - … ehhh, è questo il Parlamento oggi. Io lo potrei portare… scrivere in un manuale come caso di eccellenza di azione di lobby… ho dovuto smuovere tutto”. 
È tutto vero! Ma chi è che parla al telefono? La voce è quella di un vecchio “lupo” di Palazzo, consigliere parlamentare in pensione con un incarico alla Camera dei Deputati. A nome di chi parla lo rivela lui stesso: “Io sono stato questa settimana in full immersion, giorno e notte perché la commissione ha lavorato giorno e notte per fare cazzate dietro... dietro a queste faccende qua, perché avevo una marea di gente che mi chiamava in questa condizione, chi per il lavoro autonomo, chi perché c'hanno privilegi che fanno i Consiglieri di Stato, i professori universitari, ste cose qua, e quindi si sono salvati pure quelli”. 
Il "misterioso" lobbista ha fatto calare la testa al Pd per conto dei detentori di pensioni d’oro, accumulatori seriali di incarichi, professoroni in quiescenza mai andati (veramente) in pensione. Gente come Giuliano Amato e Lamberto Dini.
Ecco a chi obbedito il Pd di Renzi(e, ndr). Mentre le vittime sono i soliti noti. Noi." M5S Camera

Porcellum bocciato dalla Consulta, accolto il ricorso dei cittadini. ALTRO SILURO DEL POTERE GIUDIZIARIO ALLA POLITICA ITAGLIOTA. Solo una settimana prima era stato affondato il finanziamento pubblico ai partiti...

La Corte Costituzionale ha bocciato la norma ideata dal leghista Roberto Calderoli in tutti e due i punti sottoposti al vaglio di legittimità rispetto alla legge fondamentale dello Stato: ovvero il premio di maggioranza e la mancanza delle preferenze. Berlusconi: "Organo politico della sinistra"

Il Porcellum è incostituzionale. E’ quanto ha deciso la Consulta, che aveva respinto i quesiti referendari nel gennaio 2012 e che, dopo un ricorso presentato dai cittadini, era stata chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della norma con cui sono eletti gli ultimi tre parlamenti (2006, 2008 e 2013). Incostituzionali, secondo gli ermellini, sia il premio di maggioranza che la mancanza delle preferenze (cioè le liste bloccate), ovvero i punti sottoposti al vaglio della Corte. Tradotto: gli italiani non andranno più a votare con la ‘porcata’ (copyright del suo ideatore, il leghista Roberto Calderoli), o almeno non con le caratteristiche con cui era nata. A spiegarlo alcuni costituzionalisti. Tra questi Valerio Onida, secondo cui con la pronuncia di oggi sono ‘morti’ premio di maggioranza e liste bloccate, ma non il Porcellum. Onida (uno dei saggi di Napolitano), del resto, ha praticamente tradotto quanto fatto sapere dai giudici costituzionali, i quali dopo la sentenza avevano fatto sapere che “resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali”.

I TEMPI DELLA SENTENZA E GLI EFFETTI NON IMMEDIATI
Sembrava che la legge,
 dopo il rinvio della discussione nel 
Senato, dovesse resistere ancora e invece di fatto i giudici impongono ai parlamentari quella riforma che è stata a lungo chiesta dal presidente Giorgio NapolitanoL’efficacia del verdetto, comunque, decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate. “Nelle prossime settimane” fa sapere la Consulta. E comunque, fino a nuova legge, non c’è un ritorno di fatto al Mattarellum. L’approdo in Consulta della legge elettorale ha alle spalle una vicenda giudiziaria di ricorsi e bocciature, alla cui base c’è la testardaggine di un avvocato 79enne, Aldo Bozzi. Nel novembre 2009, in qualità di cittadino elettore, il legale aveva citato in giudizio la Presidenza del Consiglio e il ministero dell’Interno davanti al Tribunale di Milano, sostenendo che nelle elezioni politiche svoltesi dopo l’entrata in vigore della legge 270/2005, il cosiddetto Porcellum, e nello specifico nelle elezioni del 2006 e del 2008, il suo diritto di voto era stato leso, perché non si era svolto secondo le modalità fissate allaCostituzione – ossia voto “personale ed eguale, libero e segreto (art. 48)” e “a suffragio universale e diretto”. Il tenace avvocato è riuscito ad arrivare fino in Cassazione. Che poi con un’ordinanza del 17 maggio scorso aveva rimesso la questione ai giudici costituzionalisti.

BERLUSCONI: “CONSULTA E’ DI SINISTRA”. BOZZI: “E’ TORNATO MATTARELLUM”
La Corte costituzionale “è un organismo politico della sinistra” ha detto
 
Silvio Berlusconi, secondo cui ”la nostra architettura istituzionale è fatta non per decidere, ma per vietare. Il presidente del Consiglio italiano ha solo il potere di stendere l’odg del Consiglio dei ministri. Non ho ancora un’informazione precisa, non posso fare commenti. Bisogna vedere cosa hanno dichiarato incostituzionale” ha aggiunto il Cavaliere. Entusiasta, invece, l’avvocato Aldo Bozzi: “Quattro anni di battaglie andate a buon fine – ha detto all’Adnkronos – E adesso bisogna sottolineare che non si crea nessun vuoto giuridico: a mio parere, con la pronuncia della Consulta, di fatto si torna alla legge elettorale precedente, il Mattarellum. Molto probabilmente torneremo a votare in estate. Ma intanto oggi ci godiamo la vittoria, da domani penseremo a riassumere la pronuncia in Cassazione, dove è pendente un altro procedimento”.

ONIDA: “NON C’E’ RITORNO AUTOMATICO AL MATTARELLUM”
Dopo la pronuncia della Consulta, i costituzionalisti sono sostanzialmente d’accordo nel ritenere che uno degli effetti sarebbe il ritorno al proporzionale, ma le valutazioni “politiche” sul pronunciamento della Corte sono diverse. “Non si torna alla legge precedente”, ossia ilMattarellum, “ma si ha una conferma del proporzionale senza premio di maggioranza. Questo sembrerebbe l’effetto della prima parte della sentenza” ha spiegato il presidente emerito della Consulta Valeria Onida, aggiungendo che “solo col deposito della sentenza si produrrà l’effetto di far cessare l’efficacia delle norme dichiarate incostituzionali. Quindi, per ora – ha precisato – formalmente non è ancora cambiato nulla”. Uno dei saggi di Napolitano, però, è andato anche oltre. “La Corte – ha continuato il costituzionalista – ha fatto venir meno la previsione del premio di maggioranza. Quindi, si dovrebbe immaginare che, se non intervenisse nessun altra misura legislativa, si applica il proporzionale senza premio di maggioranza. Per l’altro aspetto”, ossia leliste bloccate, “è stata dichiarata incostituzionale la parte in cui non consente di esprimere preferenze. Ma qui è più difficile capire l’effetto pratico se non ci fosse un intervento legislativo: si può immaginare non solo che l’elettore possa dare preferenze, ma che poi l’ordine di elezione sia determinato dalle preferenze e non dall’ordine di lista? Su questo punto credo dovremo attendere le motivazioni, per capirne bene la portata” della sentenza.

PELLEGRINO: “PARLAMENTO DELEGITTIMATO, 150 DEPUTATI DA SOSTITUIRE”
Più drastico il giurista
 
Gianluigi Pellegrino, secondo cui “dopo il pronunciamento della Consulta, il Parlamento è delegittimato; dal punto di vista istituzionale è una decisione clamorosa. Nelle motivazioni della sentenza, la Corte si sforzerà di dire il contrario. Ma l’effetto reale è quello di una potente delegittimazione delle Camere”. Non solo. A sentire Pellegrino le due camere andrebbero sciolte immediatamente. “Il Parlamento e il governo – ha osservato il giurista – non sono intervenuti con una riforma. Ora la sanzione costituzionale, priva le due Camere di ogni minima legittimazione costituzionale e politica. A questo punto vi è un dovere civico di procedere allo scioglimento, potendosi solo procedere come indica la Consulta ad una riforma elettorale che sia ampiamente condivisa, perché certo non si possono usare le maggioranze incostituzionali per approvare la legge elettorale”.

Per Pellegrino si pone, inoltre, un altro problema: quello dei parlamentari eletti con il premio senza soglia bocciato dalla Corte: “Sono stati eletti sulle base di una norma illegittima e ora devono essere sostituiti. Alla Camera, dove non si sono concluse le operazioni di convalida, la giunta deve espellere circa 150 deputati e sostituirli con altri: dovrebbero uscire esponenti Pd, ed entrare esponenti Pdl-Fi, Movimento 5 Stelle e Lista civica”. Proprio Pellegrino, all’indomani delle ultime elezioni, a nome di un’associazione di cittadini presentò ricorso alla giunta delle elezioni di Camera e Senato contestando l’elezione dei parlamentari entrati grazie al premio. “Ora presenteremo una nuova memoria alle giunte, che dovranno accogliere i nostri ricorsi” ha annunciato. “A mio parere – ha sostenuto il giurista -, il governo deve fare un decreto legge per introdurre un sistema per l’elezione di collegio al primo turno con premio su base nazionale al secondo turno. Il decreto deve essere convertito in 60 giorni: se lo sarà prima di eventuali elezioni, si voterà con questo sistema. Altrimenti con la legge di stampo proporzionale con sbarramento in entrata, che si configura dopo la sentenza della Consulta”.

Consulta e Porcellum, ritorno agli anni '80

Una manciata di righe. Non di più. La nota della Corte Costituzionale che ammette il ricorso anti-Porcellum è stringata, rimanda alle motivazioni della sentenza che verranno diffuse tra qualche settimana. Ma il testo è sufficiente per capire che oggi dalla Consulta è stata partorita quella che può ben definirsi una svolta storica per gli scenari politici e istituzionali presenti e futuri. Un colpo secco, tre risultati: la Suprema Corte ha 'asfaltato' il sistema maggioritario, affossato le pretese del futuro segretario del Pd Matteo Renzi e azzoppato la credibilità di questo Parlamento con tutti gli atti che ha prodotto, compresa l'elezione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Questo terzo punto non è vero, ma è già vero per i social network: il che è un fatto.

1. La Corte ha dichiarato incostituzionale il premio di maggioranza del Porcellum. Non solo. Incostituzionale è anche la mancanza delle preferenze, prevista dal sistema di liste bloccate. Che significa? Di fatto, la sentenza di oggi indica i binari lungo i quali il Parlamento potrà legiferare per approvare un nuovo sistema elettorale. Se non lo farà, se non riuscirà a trovare un accordo su una nuova formula, quando si tornerà alle urne, si voterà con quello che rimane del Porcellum al netto dell'intervento della Consulta. E cioè con un sistema proporzionale, cioè il Calderolum spogliato del premio di maggioranza. Quanto alle preferenze, per reinserirle sarà necessario un intervento legislativo, che però comunque è molto più semplice della reistituzione dei collegi, che andrebbero ridisegnati.

2. Se questa è la prospettiva, si riducono i margini di manovra di Matteo Renzi. Il sindaco avrebbe voluto un sistema maggioritario a doppio turno, che di fatto coronerebbe la sua leadership, premierebbe lo sforzo fatto per arrivare a fare il segretario del Pd, santificherebbe la sua visione politica bipolarista. Ora se lo può scordare. La sentenza della Consulta non porta buon vento per Renzi. Anzi. Di fatto, lo annulla. Annulla il suo potere contrattuale verso Angelino Alfano, interessato ad un impianto proporzionale e comunque assolutamente interessato a restare al governo il più a lungo possibile, ad allontanare lo spettro delle elezioni anticipate, per avere tempo di organizzare il suo neonato Ncd. Ora, nell'era del post Consulta, nell'era del post Porcellum, se Renzi non scende a compromessi con Alfano e la truppa governista sulla legge elettorale, finisce in minoranza e non ha nemmeno armi da agitare. La sentenza della Consulta lo ha infatti privato dell'arma più preziosa: quella del ritorno al voto. Ora non gli converrebbe più, visto che si voterebbe con quel che resta del Porcellum.

3. Però la sentenza della Consulta ha prodotto anche un terzo effetto. Uno di quegli effetti perniciosi che non corrispondono alla realtà ma diventano realtà sui media. Subito dopo la notizia sulla bocciatura del Porcellum, i social si sono riempiti di commenti arrabbiati sull'illegittimità di questo Parlamento, eletto a febbraio con una legge elettorale evidentemente incostituzionale. Non è vero, la Corte Costituzionale è chiara al proposito: gli effetti della sentenza di oggi riguarderanno le prossime elezioni e non quelle passate. Però, anche se non è vero, non ci si può nascondere che la riflessione sull'illegittimità di questo Parlamento contiene suggestioni che troveranno spazio nel clima attuale dell'anti-politica. Tant'è vero che Berlusconi e Forza Italia la stanno già cavalcando alla grande. Un pasticcio. Che rischia di riportarci al proporzionale anni '80. In nome della stabilità e delle larghe intese forever.

L'ULTIMA SVENDITA SILENZIOSA:LA BANCA D'ITALIA

Dal 1999 il governo impastato centro sinistrato presieduto dalla jattura storica Dalema ha iniziato una poderosa svendita del patrimonio pubblico italiano costruito faticosamente dalla crisi degli anni Trenta allo scopo di foraggiare IL CAPITALISMO FAMILISTICO DI RELAZIONE ITALIOTA A PESANTE DANNO DEL PATRIMONIO DI TUTTI che infatti proprio da quel momento storico ha iniziato ad erodersi fino ad arrivare alle ossa odierne. La prima disastrosa operazione fu lo smantellamento della rete telefonica nazionale, Telecom, che oggi è finita di proprietà degli spagnoli. Via via scomparirono industrie automobilistiche, Alfa Romeo-Innocenti-AutoBianchi-Lancia, industrie siderurgiche, Italsider-Ferriere,industrie chimiche,SNIA-Viscosa,come detto telecomunicazioni telefoniche e poi televisive con lo strapotere concesso a costo zero a Mister B che gode tutt'oggi di una Legge monopolistica, la Legge Gasparri, nonchè del pagamento concessionario dell'1% sul fatturato effettivo (a lui che è stato condannato PER FRODE FISCALE !!!),ISTITUTI DI CREDITO come il CREDITO ITALIANO, banche solide con bilanci floridi gettate nelle mani di delinquenti come Geronzi che fuse il Credito con Capitalia, piena zeppa di debiti, per dar vita ad Unicredit. Questa formalina CAPITALISTOIDE ha generato mostruosità come le ECO-MAFIE, la devastazione ambientale, la cementificazione scomposta, LE FONDAZIONI PARTITICHE BANCARIE che hanno assoggettato l'intero credito nazionale, LA DISINTEGRAZIONE DEL PATRIMONIO TECNICO ED INDUSTRIALE SACCHEGGIATO DALLE AVIDISSIME MANI STRANIERE. Tra le ultime SVENDITE, E' PASSATA NEL SILENZIO ASSOLUTO LA PRIVATIZZAZIONE DELLA BANCA D'ITALIA. All'interno della distrazione nazionale PER LA DECADENZA DI UN GERONTOCRATE PEDERASTA FRODATORE FISCALE PLURIMO, il governo DISASTROSISSMO LETTA ha firmato il decreto ultimo per lo smantellamento della Banca d'Italia.

"Le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari. 
Insomma, viviamo già oggi in un Paese che conta poco nel sistema europeo delle banche centrali, immaginate quanto potrà contare se la sua banca centrale sarà di proprietà degli stranieri!"
 Lucio Di Gaetano

 di Lucio di Gaetano, ex-dipendente Banca d'Italia

"Sono Lucio Di Gaetano, nella vita mi sono sempre occupato di banche, per cinque anni ho lavorato in Banca di Italia, per altri sette ho lavorato nel settore privato e ora faccio il consulente di azienda. 
Sono qui per parlarvi della fregatura che il governo Letta, di nascosto, mentre si dichiarava la decadenza di Berlusconi ha fatto a danno di tutti gli italiani, attraverso il decreto sulla rivalutazione delle quote della banca di Italia, per avere 900 milioni di Euro senza sforare il tre per cento del deficit.
 
Ne regaleremo 450 all’anno agli azionisti della Banca di Italia, che come sapete sono privati. 
Ma facciamo un passo indietro, perché la banca di Italia nella governance ha azionisti privati? Perché c’è questa situazione da mondo di Oz dove un istituto di diritto pubblico è partecipato da banche private che sono detenute da fondazioni controllate dai partiti?
 
La Banca di Italia nasce nel 1893 ed è completamente detenuta da azionisti privati, all’epoca si usava così. Nel '26 il governo fascista la pubblicizza e espropria i suoi azionisti. Successivamente le quote del capitale della Banca di Italia vengono cedute alle banche, nel frattempo pubblicizzate a causa della crisi degli anni '30. Nel '93, a seguito della crisi finanziaria il governo Amato concepisce
 
un mostro giuridico, la privatizzazione delle banche italiane mediante la'attribuzione delle loro quote di controllo alle fondazioni nominate dai partiti. 
Il grosso del capitale viene quotato in borsa e di conseguenza oggi ci troviamo nell’azionariato della Banca di Italia, banche che agiscono con logiche di soggetti privati.
 
Per fortuna il mostro in passato è stato in qualche modo limitato, perché? Perché la ripartizione degli utili prodotti dalla Banca di Italia è sempre stata riservata in minima parte ai suoi azionisti privati, non più dello 0,5 per cento delle riserve, che ammontano più o meno a 22 miliardi di Euro. Per cui anni buoni e anni cattivi non hanno consentito agli azionisti di prendere più di 50 - 70 milioni di Euro all’anno dal capitale della Banca di Italia, che non si è mosso dalla cifra originaria di 156 mila Euro con cui era stato valorizzato.
 
Nel 2005 il governo Berlusconi fa per miracolo una legge giusta e stabilisce che le quote nel capitale della Banca di Italia, detenute da soggetti non pubblici debbano passare entro tre anni allo Stato.
 
Sono passati otto anni e quella legge è rimasta inattuata. 
Il 27 novembre notte tempo, mentre il Parlamento dichiara la decadenza di Berlusconi e tutti i cittadini sono distratti,
 Saccomanni fa una clamorosa marcia indietro, con 
un decreto legge stabilisce che la Banca di Italia non sarà più destinata a diventare un istituto di diritto pubblico detenuto dallo Stato, ma unapublic company, ovvero una società a azionariato diffuso con azionisti tutti privati.
Inoltre,
 
il capitale della Banca di Italia passerà dagli attuali 156 mila Euro a 7,5 miliardi di Euro, con un forte vantaggio patrimoniale per tutti partecipanti, che saranno obbligati a pagare una imposta, per di più agevolata, del 12%, e avranno, poi, tutto il tempo per eseguire l’obbligo di vendita della quota eccedente il 5% eventualmente detenuta, con una fortissima plusvalenza. 
E torniamo alla fregatura di cui parlavamo all’inizio, la cosa più importante è che fino a oggi la Banca di Italia non poteva distribuire un utile superiore al 10% dell’attuale capitale sociale, di 156 mila Euro, più una quota delle riserve, che per prassi non superava mai lo 0,5 per cento all’anno.
 
Nel progetto del governo Letta questo limite viene alzato al 6% del nuovo capitale sociale di 7,5 miliardi di Euro,
 
vale a dire ben 450 milioni di utili distribuibili all’anno. 
Non è cosa di poco conto, perché se i grandi banchieri possono brindare a champagne i cittadini non hanno proprio nulla da festeggiare! Quei 450 milioni, se non fossero dati ai banchieri privati andrebbero dritti nelle casse dello Stato. Come è stato fino a oggi.
 
Ma non finisce qui, anzi la fine è peggio dell’inizio, perché un’altra incredibile novità di questo magnifico progetto è che le quote della Banca di Italia che dovevano passare allo Stato potranno essere vendute e potranno essere vendute a soggetti stranieri purché comunitari.
 
Insomma, viviamo già oggi in un Paese che conta poco nel sistema europeo delle banche centrali,
 
immaginate quanto potrà contare se la sua banca centrale sarà di proprietà degli stranieri! 
Interessa?

IL SENATORE DECADENTE COME IL SUO IMPERO,tra passaporti russi e armi segrete,troje,puttane,nani e ballerine

Una intercettazione e un accertamento fiscale sull'ex socio occulto Frank Agrama le carte che dovrebbero cambiare la storia del processo. Ma la nuova mossa potrebbe essere l'ennesima manovra dilatoria: fra due giorni il Senato deciderà per la sua decadenza. Già lo scorso settembre l'ex presidente del Consiglio aveva annunciato una svolta parlando di una sentenza svizzera risultata inesistente

Un accertamento fiscale negli Usa e una intercettazione. Silvio Berlusconi tenta la carta delle nuove prove per chiedere una revisione del processo Mediaset per cui è stato condannato in via definitiva a 4 anni per frode fiscale. Mentre il governo Letta pone la questione di fiducia sulla legge di Stabilità, di fatto fissando il voto sulla decadenza il 27 novembre, il leader di Forza Italia annuncia urbi et orbi che questi documenti cambieranno la storia del suo processo e fa sapere che si rivolgerà alla magistratura di Brescia. La nuova mossa potrebbe essere l’ennesima manovra dilatoria. Già lo scorso settembre l’ex presidente del Consiglio aveva annunciato una svolta parlando di una sentenza svizzera risultata poi inesistente. Il tutto mentre arriva in Italia l’amicoVladimir Putin che, secondo indiscrezioni di stampa, potrebbe avergli già consegnato unpassaporto diplomatico che gli permetterebbe di viaggiare all’estero indisturbato. Solo qualche giorno il Cavaliere aveva dichiarato che se avesse avuto i documenti se ne sarebbe andato ad Antigua. Ma c’è chi ha avanzato anche un’altra ipotesi: che l’ex premier possa essere nominato ambasciatore in Vaticano per la Russia.

Berlusconi: “Chiederò la revisione del processo a Brescia”. Le novità importanti, per quanto riguarda il processo Mediaset, sono che in Usa il fisco americano sta per procedere con una causa verso Frank Agrama e altre persone, ritenute responsabili di evasione fiscale importante, e da queste situazioni emergono testimonianze di importanti dirigenti del gruppo Agrama, che dimostrano come la vicenda che vede il gruppo Agrama protagonista sia una vicenda da cui Silvio Berlusconi è assolutamente, completamente estraneo, altri sono i protagonisti e sono dichiarati in modo chiaro, senza possibilità che si possa interporre alcun dubbio – spiega l’ex premier parlando in terza persona -. Probabilmente ne leggerò anche una parte, e darò la notizia che noi intendiamo presentare quanto prima una domanda di revisione del processo alla Corte competente, la Corte d’appello di Brescia, fidando sul fatto che questa domanda possa essere assolutamente accolta, per la chiarezza di queste notizie, che oltretutto sono anche confermate da molti testimoni, che i giudici di primo e secondo grado non hanno voluto nemmeno ascoltare. Abbiamo le deposizioni di tutti questi inascoltati testimoni, che fanno riferimento alla realtà, una realtà che mi vede completamento estraneo, che esclude assolutamente ogni mia partecipazione a qualsiasi fatto illegittimo”.

L’intercettazione tra Frank Agrama e Bruce Gordon. Ci sarebbe anche una intercettazione tra il produttore Frank Agrama, condannato in via definitiva a 3 anni dalla Cassazione come “socio occulto” del sistema di frodi ideato dal Cavaliere, e Bruce Gordon, presidente della distribuzione Paramount, tra le carte che dovrebbero cambiare la storia del processo. Una conversazione in cui i due direbbero: “Stiamo diventando veramente ricchi”.  Cosa questo significhi lo spiegherà Berlusconi alle 15.30 in conferenza stampa. Certo è ed è nelle motivazioni della sentenza che la testimonianza di Gordon è tra quelle considerate importanti dai giudici della Cassazione per il verdetto finale. Il 21 dicembre 1993 il top manager in una lettera al collega Lucas aveva confermato “la totale sovrapponibilità tra Agrama e Berlusconi, posto che non vi è distinzione né tra le società né tra le persone, né tra le cifre’. (…) A conferma del legame a doppio filo tra il produttore e il Cavaliere. Ora invece il Cavaliere vorrebbe far pensare che i due avrebbero tramato alle sue spalle per truffarlo. 

I testimoni inascoltati. Era il 26 settembre del 2011 quando il presidente del collegio di primo grado tagliò una decina di testi della difesa. Il giudice Edoardo D’Avossa in quell’occasione aveva parlato di prescrizione ritenendo stringere i tempi perché il dibattimento era iniziato nel 2006 e ancora non si riusciva a chiudere. I testimoni tagliati all’epoca era tutti residenti all’estero e nonostante le convocazioni da parte del Tribunale non si erano mai presentati in aula. Adesso a processo definito e fuori tempo massimo però dovrebbero dare il loro contributo. 

Come con la tangente a Bettino Craxi. In passato tante volte il Cavaliere in conferenza stampa ha tentato di sviare l’attenzione sulle indagini che lo hanno coinvolto. Quando i magistrati milanesi scoprirono la mazzetta a Bettino Craxi (processo prescritto grazie alle attenuanti generiche) il Cavaliere, era la fine del 1995, convocò una conferenza stampa e annunciò l’equivoco: quei soldi erano il pagamento “per la commercializzazione di diritti televisivi” all’imprenditore Tarak Ben Ammar (poi entrato nel consiglio di amministrazione di Mediaset nel 1996 ). Il Tg5 intervistò l’imprenditore franco tunisino che confermò la versione dell’allora premier. Ma quelle parole non entrarono mai in un verbale: convocato tre volte i magistrati milanesi non sono mai riusciti a interrogarlo. 

Intanto l’Europa, come riporta il Corriere della Sera, ha messo sotto accusa l’Irlanda per il ritardo accumulato, ben sette anni, nel rispondere alla richiesta di assistenza giudiziaria dell’Italia su due società: la Olympus trading Ltd e la Olympus trading Ireland Ltd per i processi Mediatrade e Mediaset. Un’altra rogatoria quella di Hong Kong sarebbe stata bloccata per anni grazie ai buoni uffici dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio. L'attaccante, apparso svogliato contro il Genoa, per la seconda volta in fila non rispetta l'orario del raduno. La squadra in vista della delicata sfida di Glasgow contro il Celtic è spronata dalla dirigente. Intanto Seedorf si fa sentire: "Voglio diventare il miglior allenatore del mondo"

Lega nord, verso il processo Bossi e figli. “Truffa allo Stato per 40 milioni di euro”

Chiuse le indagini sullo scandalo che ha travolto il Carroccio: in qualità di legale rappresentante al Senatur è contestato l'intero ammontare del finanziamento pubblico. Lui e i figli devono rispondere di appropriazione indebita per 500mila euro: 77mila per la laurea in Albania. Richiesta di archiviazione per Roberto Calderoli, Matteo Brigandì e Manuela Marrone

Quaranta milioni di finanziamento pubblico alla Lega. Cifra maggiore rispetto ai 18 milioni di euro venuti alla luce finora. La Procura di Milano contesta al fondatore della Lega Umberto Bossi – nuovamente in corsa per la segreteria del partito contro Matteo Salvini il prossimo 7 dicembre – la “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” ossia i rimborsi elettorali ricevuti dal Carroccio in base ai rendiconti al Parlamento del 2008 e 2009. Una truffa allo Statocommessa, secondo i pubblici ministeri, in concorso con Maurizio Balocchi, segretario amministrativo della Lega ormai deceduto, per quanto riguarda il rendiconto dell’esercizio 2008 e con Francesco Belsito, ex tesoriere leghista per il 2009 e 2010. Con tanto di inganno ai presidenti di Camera e Senato e ai revisori pubblici delle due assemblee che autorizzavano i rimborsi basandosi su rendiconti volontariamente falsati “in assenza di documenti giustificativi di spesa e in presenza di spese effettuate per finalità estranee agli interessi del partito politico”.

La Procura di Milano ha chiuso le indagini relative all’inchiesta “The family” in vista del prossimo passo: la richiesta di rinvio a giudizio per dieci persone, tra cui Umberto Bossi e i suoi due figliRiccardo e Renzo. Al centro, la gestione dei fondi della Lega, caso scoppiato nella primavera del 2012. Tra gli indagati, anche l’ex vicepresidente del Senato Rosi Maurol’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito e l’imprenditore veneto Stefano Bonet, l’uomo degli investimenti in Tanzania con i soldi del partito.

Chiuse le indagini anche nei confronti di Rosi Mauro, l’ex senatrice del Carroccio, che ora è accusata di una appropriazione indebita di 99.731,50 euro, denaro proveniente dalle casse del partito. Tra i soldi di cui l’ex esponente lumbard si è appropriata, secondo l’accusa, ci sono anche 77.131,50 euro “per acquisto titolo di laurea albanese (in sociologia) – si legge nel capo di imputazione – presso l’Università Kristal di Tirana a favore di Pierangelo Moscagiuro”, ex guardia del corpo della Mauro. Laurea presa il 29 giugno 2011 nella stessa università scelta da Renzo Bossi, detto ‘il Trota’, che consegue il titolo (in Gestione aziendale) il 29 settembre 2010 con un “corso di studi” durato un solo anno, senza tuttavia mettere mai piede in Albania.

Per la laurea del Trota a Tirana 77mila euro – A Renzo e Riccardo Bossi, i due figli del ‘Senatur’ Umberto, viene contestato di aver usato a fini personali circa 303mila euro di soldi pubblici ottenuti dalla Lega come rimborsi elettorali. Renzo detto ‘il Trota’, accusato come Riccardo di appropriazione indebita, avrebbe speso tra le altre cose oltre 77mila euro per l’“acquisto” dell’ ormai famosa laurea albanese “presso l’Università Kristal di Tirana”. Ma non solo. Il secondo figlio di Bossi, che, nel 2010, a 21 anni diventa il più giovane consigliere regionale mai eletto in Lombardia, pare avere una passione per le auto e per la velocità. Con la sua Audi A5 scorrazza per la Lombardia accumulando oltre 7mila euro di multe. Contestazioni che vengono pagate con i soldi del partito. E nonostante la cattiva condotta automobilistica, il Trota passa a una macchina più potente, un’Audi A6 pagata 48mila euro più 3mila di assicurazione. Ovviamente a spese dei contribuenti. Il 10 aprile 2012 Renzo è costretto alle dimissioni dalla sua carica in Regione. Lo scandalo dei soldi pubblici girati dall’ex tesoriere Francesco Belsito agli esponenti del Carroccio fa terminare l’incarico tre anni prima del previsto. Tuttavia, i due anni trascorsi al Pirellone gli fruttano, secondo la legge, 40mila euro di indennità

La passione per le auto di lusso di Riccardo Bossi - Il primo figlio del Senatur avuto nel 1979 dalla prima moglie Gigliola Guidali, i giudici contestano 52 pagamenti. Soprattutto multe – per oltre 2mila euro – ma non solo: con i soldi del partito Riccardo paga anche il mantenimento della moglie, l’affitto con tanto di bollette, il veterinario, l’abbonamento Sky, il garage e le spese di carrozzeria, nonché le rate per l’Università dell’Insubria. E poi debiti personali, bonificiassegni circolari. Infine, le auto: 20mila euro per il riscatto del contratto di leasing per la Bmw X5 e oltre 21mila per una Mercedes.

Per Belsito, oltre due milioni di appropriazione indebita – E’ di diverse pagine il dettaglio delle spese contestate all’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito tra cui, oltre a multevarie, risultano spese per bar, ristoranti, rosticcerie ed enoteche, nonché composizioni floreali, abiti, hotel, scontrini di rivenditori di elettronica e serramenti, 1.500 euro per acquisto di armi e munizioni, ricariche telefoniche, pagamenti di parcheggi, cartelle esattoriali, diversi prelievidalle casse del partito. E, per non farsi mancare nulla, anche un servizio di bonifica ambientale e telefonica per un valore di 8200 euro.

Richiesta di archiviazione per Calderoli e moglie di Bossi -  Richiesta di archiviazione perRoberto Calderoli, Matteo Brigandì e Manuela Marrone, moglie di Umberto Bossi. Una archiviazione parziale, solo per alcuni episodi, è stata richiesta inoltre per Francesco Belsito, Umberto Bossi e Rosy Mauro. “Pagare le spese di un’abitazione a Roma, luogo dove principalmente si svolge l’attività politica e parlamentare, a un esponente di punta del partito, può in definitiva a nostro giudizio essere una scelta di impegno finanziario legittima (salvo il dovere di darne conto in contabilità, qui non rispettato, non decisivo ai fini del reato di appropriazione indebita)”, scrivono i magistrati in riferimento alla posizione di Calderoli. Per quanto riguarda, invece, la posizione della Marrone, si ricorda come fin dalla prima relazione del procuratore generale, la moglie di Bossi sia stata inserita, insieme alla Mauro e ad altri famigliari del leader del Carroccio, all’interno del “cosiddetto ‘cerchio magico’ che sarebbe stato alimentato con favoritismi ed elargizioni a danno del patrimonio della Lega”. “Certo – scrivono i pm di Milano – non si può escludere che delle somme corrisposte per la scuola Bosina in denaro contante la Marrone possa aver profittato a titolo personale. Ma per tutti gli indagati, come in questo caso per la Marrone, è stata applicata una rigorosa regola probatoria”.

Salvini: “Mafiosi e assassini possono attendere…”. Bossi: “Sconcertato” – Il vicesegretario del Carroccio Matteo Salvini inneggia all’indipendenza e chiede “giudici eletti dal popolo” come unica via per sfuggire ai tribunali. Candidato insieme a Bossi alle primarie per la segreteria del partito in programma il 7 dicembre, scrive su Facebook: “Finito (forse) con Berlusconi e Ruby, adesso il Tribunale di Milano torna a ‘occuparsi’ di Bossi e della Lega. I processi a mafiosi e assassini possono attendere”. Bossi invece accusa i magistrati di “strano tempismo” rispetto alle primarie: “Questa cosa non mi aiuta certo…una cosa che esce proprio adesso e mi lascia sconcertato”.

Silvio Berlusconi, esce "Il Cavaliere nero" scritto da Paolo Biondani e Carlo Porcedda. Pubblichiamo il capitolo "I numeri della frode" 

I numeri della frode

Una condanna da 10 milioni

La sentenza definitiva del 1° agosto 2013 ha inflitto a Silvio Berlusconi quattro anni di reclusione, una condanna che però è soltanto teorica: tre anni sono cancellati dall’indulto del 2006 e il quarto potrà scontarlo da uomo libero, grazie al beneficio dell’«affidamento in prova ai servizi sociali». Sul piano economico, la condanna finale lo obbliga a risarcire il danno provocato dalla frode fiscale: l’imposta evasa, naturalmente, e un rimborso allo Stato, costretto a un’attività d’indagine resa «difficilissima e costosa», come spiega la sentenza, proprio dalla «particolare complessità dell’operazione di occultamento del reale risultato fiscale» delle sue aziende. I giudici però hanno dovuto commisurare il risarcimento a una piccola parte dell’evasione totale: soltanto quei 7,3 milioni che sono sopravvissuti alla prescrizione. Berlusconi è stato quindi condannato a rimborsare allo Stato, in totale, 10 milioni di euro. Meno di un trentaseiesimo dei profitti che ha potuto nascondere all’estero con il reato di cui è stato dichiarato colpevole.

I numeri del nero

La massa di denaro nero che, fin dai primi anni Ottanta, si è riversata sulle società offshore gestite e finanziate dalla Fininvest, ma che oggi risultano «di proprietà personale di Berlusconi», è, come scrivono i giudici, «colossale». Nel solo processo All Iberian, che riguardava il primo gruppo di offshore, attive nel periodo 1989-1994 (con ricadute fino al 1995), l’atto d’accusa finale ha ricostruito una lunga serie di operazioni riservate, per un valore totale di 1550 miliardi di lire: 775 milioni di euro. Il processo Mediaset interessa altre società anonime, con un nuovo sistema di conti bancari: ci sono le offshore più segrete del sistema Fininvest, a cui si aggiungono società di copertura intestate a intermediari di comodo e prestanome. Qui l’accusa ha come limite temporale il periodo successivo: dal 1994 al 1998.

All Iberian 1 (finanziamento illecito al PSI)