S
<

Il senatore Azzollini, un presunto truffatore (ennesimo) salvato dalle sconce intese

Ci sono scelte che segnano una vita. Quelle prese da quei senatori del Pd che, martedì 7 ottobre, hanno detto no all’utilizzo processuale delle intercettazioni contro il loro collega Ncd Antonio Azzollini segnano invece la storia di un Paese.

Senza nemmeno avere il coraggio di spiegare pubblicamente in aula le ragioni della loro decisione, i magnifici sette componenti della giunta per le autorizzazioni di Palazzo Madama hanno votato contro la relazione di Felice Casson, esponente del loro stesso partito. Compatti hanno barattato il buon senso e il buon gusto con la volontà di fare un favore ad Azzollini, un potente indagato per associazione per delinquere, truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio, frode in pubbliche forniture, attentato alla sicurezza dei trasporti marittimi e reati ambientali.

Il politico di Molfetta, protagonista dello sperpero di 150 milioni di euro destinati alla costruzione di un porto inutile e mai terminato, è infatti una figura chiave della maggioranza: controlla in parlamento molti voti e sopratutto è presidente della Commissione bilancio, quella che tra qualche giorno dovrà esaminare la legge di stabilità.

Quando lo scandalo è scoppiato e Casson ha detto che il re è nudo (“Si continua a difendere la Casta”), i sette a mezza bocca, spesso chiedendo di non essere citati (per la vergogna?), hanno poi abbozzato una spiegazione: le intercettazioni di Azzollini vanno buttate perché non casuali. Se si mettono sotto inchiesta imprese e funzionari di un comune, sostengono i senatori Pd, i magistrati sanno benissimo che finiranno per intercettare il sindaco. E visto che a Molfetta il sindaco era il povero Azzollini è chiaro, secondo loro, che il presidente della commissione bilancio del Senato è stato incastrato. Il fumus persecutionis dunque c’è. Ed è pure molto spesso.

Questi pavidi luminari del diritto però non hanno fatto i conti con la matematica e gli atti processuali. Le telefonate di Azzollini intercettate – ovviamente non sulle sue utenze – sono state solo dieci nel giro di un anno e mezzo. Con il responsabile tecnico del progetto, per esempio, il senatore ha parlato due volte nel corso di due mesi, con un altro indagato tre volte nel giro di otto. Impossibile sostenere, pure a posteriori, che il presidente della Commissione bilancio avesse relazioni abituali con i protagonisti dello sporco affare del porto.

Ma tant’è. Azzollini doveva essere salvato, costi quel che costi. Doveva restare presidente (anzi presidente azzoppato, visto che ora la parola definitiva sul suo destino spetta all’Aula) per tentare di far passare senza strappi la fiducia sul jobs act e una manovra di bilancio piena di incertezze e buchi. Intanto in Parlamento quasi nessuno si turba se alla testa di una commissione fondamentale per controllare le leggi di spesa siede un un signore celebre per aver fatto auto-assegnare alla città di cui era primo cittadino prima 70 milioni di euro (grazie a una legge sul volontariato), poi saliti di anno in anno fino a 150, per la costruzione di un’opera faraonica e dannosa per l’ambiente. Un appalto talmente inquinato da venir definito persino dagli imprenditori protagonisti dello scandalo Expo “una roba esagerata”.

Perché Azzollini è l’uomo giusto al posto giusto. Sopratutto in un Paese che ha scelto di truccare ancora una volta conti e decenza.

La svolta c’è. Ma non è buona. Dimostra a tutta Europa che qui di nuovo qui ci sono solo le parole, che per il resto si va avanti come prima. Con larghe intese politiche e d’affari talmente forti da consigliare a qualsiasi investitore estero di girare al largo dai confini nazionali. Sì, perché di fumus persecutionis martedì sera, nella giunta del Senato, se ne è respirato molto. Ma non ai danni dell’uomo di Molfetta. La vittima era l’Italia. O quel che ancora ne resta.

 

De Magistris è innocente ma deve dimettersi

Dopo la condanna in primo grado per abuso d’ufficio a 1 anno e 3 mesi, Luigi De Magistris deve lasciare la carica di sindaco di Napoli. Perché è giusto così e perché la legge Severino stabilisce la sospensione senza possibilità di scappatoie (che sarebbe anche poco decoroso imboccare, magari in attesa che il prefetto lo iberni fino all’eventuale assoluzione d’appello). Sono decine i consiglieri regionali, provinciali e comunali sospesi o rimossi per una condanna in primo grado o per una misura cautelare. E la legge è uguale per tutti, come De Magistris ben sa, avendo fatto della Costituzione il faro della sua vita professionale, prima da pm e poi da sindaco.

Ciò premesso, parliamo del processo che ha originato la sentenza dell’altro ieri, di cui siamo ansiosi come non mai di leggere le motivazioni. Chi conosce i fatti alla base del processo a De Magistris e al suo consulente tecnico Gioacchino Genchi ai tempi dell’inchiesta “Why Not” a Catanzaro, poi scippata da una manovra di palazzo, non può che meravigliarsi per la condanna dei due imputati e pensare a un tragicomico errore. Purtroppo, come sempre, i fatti li conoscono in pochi, men che meno chi ne scrive. Sui giornali si leggono ricostruzioni fantascientifiche: La Stampa vaneggia addirittura di “intercettazioni illegali”, “a strascico” e di un “elenco sterminato” di galantuomini spiati da Genchi con un “metodo” che sarebbe stato bocciato dalla sentenza. Balle. Il processo non riguardava l’”archivio Genchi” (perfettamente lecito: il consulente riceveva tabulati e intercettazioni da decine di procure e tribunali per “incrociarli”, dare un senso ai legami che ne emergevano e smascherare autori di stragi, omicidi e altri gravissimi delitti), né fantomatiche “intercettazioni”.

Ma soltanto tabulati telefonici: cioè elenchi di numeri di utenze a contatto – in entrata e in uscita – con i telefoni degli indagati. Nemmeno una parola sul contenuto (che si ricava dalle intercettazioni). Nel 2007, su mandato del pm De Magistris, Genchi acquisì dalle compagnie telefoniche i dati su centinaia di tabulati, incappando – ma questo lo si scoprì solo alla fine – anche in quelli di cellulari in uso, secondo l’accusa, a 8 parlamentari (Prodi, Mastella, Rutelli, Pisanu, Gozi, Minniti, Gentile, Pittelli). Di qui l’accusa di averli acquisiti senz’avere prima chiesto al Parlamento il permesso di usarli, violando la legge Boato e l’immunità dei suddetti. Un ingenuo domanderà: come fai a sapere che quel numero telefonico è di un onorevole? Prima acquisisci i dati dalla compagnia poi, se scopri che l’intestatario è un eletto, chiedi alle Camere il permesso di usarlo. I giudici di Roma però sono medium, o guidati dallo Spirito Santo: appena leggono un numero, intuiscono subito che è di un parlamentare. Ergo non si spiegano perché De Magistris e Genchi chiedessero a Tim e Vodafone di chi fosse questo o quel numero: dovevano saperlo prima, per scienza.

Purtroppo De Magistris e Genchi sono sprovvisti di virtù paranormali. E rispondono di abuso d’ufficio. Questo fra l’altro non è più reato dal ’97, salvo che produca un “danno ingiusto” o un “ingiusto vantaggio patrimoniale”. E quale sarebbe il danno patito dagli 8 politici? La “conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”. Cioè: c’era la possibilità che si sapesse con chi telefonavano. Come se le frequentazioni con personaggi poco limpidi fossero colpa non di chi le intrattiene, ma degli inquirenti che scoprono, peraltro in un’indagine segreta. C’è pure un problema di competenza, visto che sui reati dei pm di Catanzaro è competente la Procura di Salerno, non di Roma. Però decise di occuparsene lo stesso il pm Achille Toro, già in contatto con personaggi emersi in Why Not e poi costretto a lasciare la toga perché coinvolto nello scandalo Cricca. Pazienza se, dall’accusa di abuso d’ufficio per i tabulati di Mastella, De Magistris e Genchi erano già stati inquisiti e archiviati a Salerno. Li hanno riprocessati a Roma per lo stesso reato. Ultima perla: fra le vittime del presunto abuso c’era pure Pisanu, il quale però ha detto a verbale che i tabulati che lo riguardano non sono suoi, ma della moglie. Era vittima, ma a sua insaputa.

 

 

 

Processo Ruby: avevamo ragione noi

Il 18 luglio, quando la II Corte d’appello di Milano assolse B. nel processo Ruby perché la concussione “non sussiste” e la prostituzione minorile “non costituisce reato”, la disinformatija all’italiana diede il meglio di sé raccontando che dunque la Procura s’era inventata decine di prostitute, minorenni e non, nelle varie dimore del premier; e s’era sognata le sue telefonate notturne dal vertice internazionale di Parigi per buttare giù dal letto il capo di gabinetto della Questura, Pietro Ostuni, e far rilasciare la minorenne fermata per furto Karima El Mahroug (spacciata per nipote di Mubarak) nelle mani di Nicole Minetti e della collega Michelle Conceiçao contro il parere del pm minorile Annamaria Fiorillo

Nessuno, a parte il Fatto e l’avvocato Coppi, osò ricordare che il 6 novembre 2012 Pd e Pdl avevano approvato la legge Severino, detta comicamente “anticorruzione”, che spacchettava la vecchia concussione (per costrizione o per induzione, non faceva differenza) in due diversi reati: concussione (nel solo caso della costrizione) e l’induzione indebita a dare o promettere utilità (nei casi più lievi), proprio mentre ne erano imputati B. e Penati. Il Fatto spiegò, prim’ancora che uscisse la sentenza, in un pezzo di Marco Lillo, che fino al 2012 bastava che un pubblico ufficiale ottenesse soldi o favori da qualcuno, costringendolo con violenze o minacce o inducendolo con lusinghe o timori riverenziali , profittando della sua posizione, per far scattare il reato di concussione. Dal 2012 non più: nel caso di induzione, come stabilito dalle sezioni unite della Cassazione, bisogna anche dimostrare che l’indotto (non più vittima, ma complice dell’inducente) ha ricavato un “indebito vantaggio” dal suo cedimento. Cioè, nel caso Ruby, perché B. rispondesse di induzione, va provato che Ostuni abbia ceduto alle sue richieste in cambio di vantaggi indebiti. E, siccome Ostuni non ne ha avuti, la nuova legge salva B.Il Tribunale aveva tagliato la testa al toro, condannandolo a 6 anni (più uno per la prostituzione minorile) per concussione per costrizione. Mossa azzardata, visto che le telefonate di B. da Parigi non contengono violenze o minacce: è il tipico caso dell’induzione, come ha ritenuto la Corte d’appello, che però non ha potuto condannarlo per il nuovo reato per mancanza di vantaggi ingiusti per Ostuni. Il 18 luglio, in un dibattito su La7, tentai di spiegarlo a Giuliano Ferrara, che gabellava l’assoluzione per un colpo di spugna su tutti i fatti dimostrati dal processo (e, già che c’era, anche da tutti i processi degli ultimi 22 anni, da Tangentopoli in poi). Lui, per tutta risposta, si mise a sbraitare, si alzò e se ne andò. L’indomani i giornali fecero a gara nel distrarre l’attenzione dal vero nodo della sentenza: che era strettamente giuridico per la nuova legge, e non inficiava minimamente i fatti ampiamente assodati.

Libero titolava: “La puttanata è il processo. Chi paga ora per le intercettazioni, i costi, le ragazze alla sbarra, la caduta del governo?”. E tal Borgonovo ridacchiava dei “manettari” e “rosiconi”, “da Lerner a Travaglio”, che hanno “già emesso la sentenza per ideologia e invocano la gogna per Silvio”. Il Giornale dell’imputato chiedeva che qualcuno “pagasse” per il presunto errore giudiziario e addirittura “chiedesse scusa” al padrone puttaniere. Sallusti ringraziava l’amico Renzi per “aver tenuto aperta la porta al condannato” e scatenò i suoi segugi a caccia dei “mandanti ed esecutori” del “colpo di Stato”. Zurlo sfotteva Merkel e Sarkozy che “ridevano sulle nostre disgrazie”: come se ridessero per il bungabunga. La Stampa dava un annuncio trionfale: “È finita la guerra dei vent’anni”. Persino Repubblica titolava sulla “rivincita di Berlusconi”, relegando in poche righe la chiave del verdetto: la modifica del reato, frutto dell’oscena legge Severino. Sul Corriere il solito giurista per caso Pigi Battista attaccava chi “ha mischiato vicende giudiziarie e vicende politiche” e “fatto il tifo per una sentenza che liquidasse l’avversario”, ignaro del fatto che la Severino l’aveva votata il Pd assieme a B.

E concludeva: “Finalmente il dibattito politico si libera dal peso di un incubo giudiziario: il percorso delle riforme istituzionali può procedere speditamente” perché “questa sentenza può contribuire a sancire la definitiva separazione tra la storia politica e quella giudiziaria in un Paese che nella guerra totale tra politica e magistratura ha conosciuto la sua maledizione”. Anche i veri giuristi, come Carlo Federico Grosso, si affrettavano a difendere la povera collega Severino ingiustamente calunniata, sostenendo che la sua legge non c’entrava: altrimenti la Corte avrebbe assolto B. “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato” (in realtà è ancora previsto, ma è impossibile punirlo grazie al trucchetto del vantaggio indebito per l’indotto).

Chissà come la mettono questi signori dinanzi alle motivazioni della sentenza che confermano tutti i fatti – eticamente e politicamente gravissimi – già accertati dai pm. C’è la “prova certa dell’esercizio di attività prostitutiva ad Arcore in occasione delle serate in cui partecipò Karima El Mahroug” che si “fermò a dormire almeno due volte” a Villa San Martino, con l’“effettivo svolgimento di atti di natura sessuale retribuiti” (anche se non c’è prova sufficiente che B. sapesse che Ruby era minorenne ai tempi delle “cene eleganti”, mentre lo sapeva quando chiamò la Questura).

È certo che B. “aveva un personale e concreto interesse” a ottenere che Ruby venisse affidata alla Minetti perché “preoccupato” che facesse “rivelazioni compromettenti”. Dunque “indusse” Ostuni&C. ad aggirare gli ordini del pm Fiorillo, che insisteva per l’affidamento in una comunità. E Ostuni, in preda a “timore riverenziale”, cedette a quell’abuso di potere (“è sicuramente accertato che l’imputato, la notte del 27-28 maggio 2010, abusò della sua qualità di presidente del Consiglio”). Che fino al 2012 era concussione per induzione. Ma ora non più. Non è più concussione (“l’abuso della qualità e condizione necessaria, ma non sufficiente a integrare il reato , richiedendo la norma incriminatrice che esso si traduca in vera e propria costrizione… mediante minaccia”).

E non è neppure induzione, perché “manca nella fattispecie in esame un requisito essenziale dell’abuso induttivo: l’indebito vantaggio dell’extraneus” , cioè di Ostuni, in quanto “il nuovo reato” “richiede necessariamente il concorso di due soggetti: il pubblico ufficiale inducente (B., ndr)e l’extraneus (Ostuni, ndr) opportunisticamente complice del primo”. Il primo c’è, il secondo no. Dunque il primo è salvo: “mancando la condizioni per una riqualificazione dei fatti in una diversa ipotesi di reato”, alla Corte d’appello non resta che “assolvere l’imputato dal delitto ascrittogli perché il fatto non sussiste”. Cioè sussisteva quando fu commesso, ma poi l’imputato e i suoi presunti avversari l’hanno reso impunibile. E ora chi paga e chiede scusa per tutte le balle che ha raccontato?

Il Fatto Quotidiano, 17 ottobre 2014

Tranfa: "Sono andato a Lourdes e lì ho deciso di lasciare. io voglio vivere in pace con me stesso"

Il magistrato dimissionario non smentisce che il suo gesto sia stato provocato dalla sentenza che ha assolto il Cavaliere. "Ho dato le dimissioni, punto. Ognuno può pensare ciò che vuole. E comunque non ho agito d'impulso"

MILANO - Un viaggio a Lourdes, prima delle dimissioni da magistrato. Un viaggio per cercare, attraverso la fede e la preghiera, il se stesso più profondo e "aiutarsi" a scegliere di fare, come dice lui alle persone che gli sono state più vicine, "la cosa giusta". Giusta: da quale punto di vista?
Non dal punto di vista dei propri vantaggi o svantaggi, questo pare evidente in chi conosce questo giudice tutto d'un pezzo che, quindici mesi prima della pensione, decide di lasciare la toga e di andarsene in pensione. E lo fa appena dopo il deposito delle motivazioni sul perché Silvio Berlusconi sia stato assolto dai reati di concussione e prostituzione minorile.

"La mia - confida Tranfa ai colleghi che conosce - è stata una decisione solitaria, maturata a lungo, meditata, che solo io potevo prendere, e senza chiedere consigli a nessuno. So che c'è chi mi avrebbe detto: "Stai attento alle conseguenze" e chi mi avrebbe chiesto: "Sei proprio sicuro?". Chi avrebbe approvato e chi no. Ma nessuno è indispensabile e non ho bisogno di sentire gli altri quando devo sentirmi in pace con me stesso".

Questo "essere in pace con se stesso", nel cuore di un giudice di 69 anni, entrato in carriera nel 1975, e di un credente che stava nell'Azione cattolica, non può essere banalizzato o sottovalutato. Ieri, appena la notizia data dal Corriere della Sera s'è diffusa nel palazzo di giustizia, tra i magistrati c'era chi si chiedeva: "Ma se era contrario, perché non ha inchiodato i due in camera di consiglio per giorni e giorni? Era il presidente, poteva dire: "Convincetemi"". E chi storceva il viso: "Andarsene senza spiegare non è istituzionale". Eppure, è quel "in pace con me stesso" che, senza spiegare nulla, si spiegano molte cose: "Non volevo e non voglio fare polemiche, non cercavo e non cerco popolarità. Anzi, vorrei proprio scomparire. Ho dato le dimissioni, punto. Ognuno pensi ciò che vuole. E comunque non intendo dire nulla, se non che non ho agito d'impulso", ripete agli amici.

Le dimissioni sono un gesto secco e netto in contrasto - Tranfa non l'ha smentito - con le motivazioni della sentenza. Il contrasto era nato durante le udienze e forse non era un caso che il procuratore generale Piero De Petris, quando parlava a braccio e chiedeva la conferma nel processo d'appello dei sette anni di carcere per Silvio Berlusconi, osservasse i giudici, uno per uno, esortandoli a "guardare tutti i tasselli" della vicenda. Forse non era un caso che Tranfa, alla fine della requisitoria, apparisse provato e "tirato" in volto: per uno come lui, era molto significativo il comportamento dei poliziotti, comportamento corretto che cambia dopo la telefonata di Silvio Berlusconi. E da uomo di famiglia, trovava (e trova) sconcertante che una minorenne - "Qui si dimentica che abbiamo a che fare con una minorenne", ripeteva Tranfa - fosse andata a finire proprio là dove un magistrato, Anna Maria Fiorillo, aveva ordinato che non andasse, e cioè nel bilocale ammezzato in periferia di una prostituta brasiliana.

"Non ci vuole una zingara per capire com'è andata quella notte in questura", sono le parole Tranfa ai suoi amici. Ma non l'hanno pensata come lui Concetta Lo Curto, giudice estensore della sentenza, e Alberto Puccinelli, consigliere.

Ora, per onore di verità, bisogna dire che il reato di concussione basato sulla telefonata ha spesso avuto visioni discordanti tra magistrati, avvocati, giornalisti. E se in primo grado è stata vista in pieno la "costrizione" subita dai poliziotti, in secondo grado ci può stare che possa esistere un'altra visione. Tranfa, però, appare granitico: "Ognuno può leggere le motivazioni e può trarre in ogni sede le sue conclusioni, quanto a me - ripete ai colleghi - ho deciso di essere in pace con me stesso".

Ieri si è tentato di parlare con gli altri due giudici, anche informalmente, ma erano non rintracciabili. Vengono descritti "basiti", "costernati". Che ci fossero stati i contrasti nella decisione di assolvere l'imputato Berlusconi lo sapevano bene. Che il presidente non avesse digerito il modo in cui tutta la responsabilità venisse scaricata su Pietro Ostuni e sul suo presunto "timore reverenziale" era loro noto. Così come che per il presidente il comportamento dei poliziotti, nell'interrogatorio da parte di Ilda Boccassini e Antonio Sangermano, rivelasse poca collaborazione: quei "non ricordo", le menzogne, le spiegazioni poco logiche andavano pesati con enorme attenzione. Ed per chiunque conosca l'esperienza e la bravura di alcuni ispettori delle volanti è davvero difficile immaginare che non sapessero quello che stavano facendo con Ruby: ci sarebbero potuti arrivare osservando - ebbene, è proprio così - solo le facce e gli atteggiamenti delle protagoniste della nottata. Tutto ciò bolliva dietro le quinte, in segreto, finché ieri è deflagrato con le inattese dimissioni.

Che Tranfa non ha comunicato a nessuno. Non alla presidente Livia Pomodoro. Non al procuratore capo Bruti Liberati. L'unico che lo sapeva, a tarda sera, era il presidente della corte d'appello, Giovanni Canzio. Tranfa voleva e vuole davvero "stare in pace" facendo "la cosa giusta".

Ruby, il pg chiede la conferma in appello
della condanna a 7 anni per Berlusconi
 
E Bari chiede processo per il caso escort

 

Ruby, il pg chiede la conferma in appello della condanna a 7 anni per Berlusconi  E Bari chiede processo per il caso escort
 
"Non ci sono ragioni per non confermare la condanna". Con queste parole il sostituto Pg di Milano Piero De Petris ha chiesto la conferma dei 7 anni di carcere per B. nel processo in appello. Coppi: "Bellissima difesa di una sentenza indifendibile" (video). Toti: "Solo teorie"

 

"Bossi e figli a processo" La richiesta della procura di Milano nell'inchiesta sui fondi del Carroccio

"Bossi e figli a processo"
La richiesta della procura
di Milano nell'inchiesta
sui fondi del Carroccio

"Archiviazione per Rosi Mauro"

 

Calcio e scontri, morto Ciro Esposito
"Ha riconosciuto in foto De Santis"

Lo zio: "Nessuna violenza in suo nome"
I funerali a Napoli. Dichiarato lutto cittadino
Benitez: "Ma dove stiamo andando?"

 

Decreti 'monstre', il Colle avverte Renzi
Poi Napolitano firma su Pa e corruzione

 
Decreti 'monstre', il Colle avverte Renzi Poi Napolitano firma su Pa e corruzione
 
Lettera riservata al premier dopo il caos su Pubblica amministrazione e anticorruzione (leggi). Il governo spacchetta e riscrive i provvedimenti, in serata l'ok del Quirinale (leggi)

Giovane suicida dopo
accuse di spaccio
3 poliziotti condannati

 

Giovane suicida dopo accuse di spaccio 3 poliziotti condannati
 
Anton Alberti era stato perquisito a Soresina (Cremona), ma era innocente. Agenti condannati per violazione di domicilio e falso ideologico

 

 

 

 
>

 
L
V