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Biden, sovranità sempre più limitata con la Camera in mano ai repubblicani. Usa spaccati in due

Il Midterm ha consegnato una situazione ancora più caotica: se da una parte Biden può contare su un certo numero di repubblicani per il sostegno all'Ucraina, dall'altra c'è una fortissima tensione verso l'attacco alla amministrazione sul fronte Covid, sul fronte interessi extra della famiglia Biden, sulla problematica Giustizia con le perquisizioni ad hoc volute contro Trump.Infine la questione Ucraina con la sempre maggiore riottosità a votare pacchetti di aiuti da 40 miliardi di euro a botta, soprattutto perchè molto probabilmente la Casa Bianca dovrà RICHIEDERE L'ENNESIMO INNALZAMENTO DEL DEBITO, e quì i repubblicani SONO SUL PIEDE DI GUERRA FEROCEMENTE.

Tensione Italia-Francia: Parigi accoglie la Viking ma blocca l’arrivo di 3.500 rifugiati da Roma. E invita altri Paesi a fare lo stesso. Piantedosi: “Incomprensibile”

A seguito dell’accoglienza della nave Ocean Viking in Francia dopo il rifiuto italiano “è chiaro che ci saranno conseguenze estremamente gravi per le nostre relazioni bilaterali“. Lo ha affermato il ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin, dopo aver annunciato che la nave ong con a bordo 231 migranti arriverà domani di Tolone.La Ocean Viking verrà accolta in Francia, nel porto militare di Tolone, dove arriverà venerdì alle otto del mattino. Ad annunciarlo, mettendo fine a un braccio di ferro diversi giorni, è stato il ministro dell’Interno di Parigi Gérald Darmanin. Che però allo stesso tempo ha aperto a tutti gli effetti una crisi diplomatica con il governo di Giorgia Meloni, attaccando in modo frontale l’Italia per la “scelta incomprensibile di non rispondere alle diverse richieste di assistenza rivolte dalla nave, nonostante si trovasse senza alcuna contestazione possibile nella zona di ricerca e soccorso italiana”. Il ministro puntualizza che la decisione francese è stata presa solo “a titolo eccezionale“, per “ovviare al comportamento inaccettabile del governo italiano, contrario al diritto internazionale, alla solidarietà e agli impegni del governo italiano precedente”. E avverte: “È chiaro che ci saranno conseguenze estremamente gravi per le relazioni bilaterali ed europee“. 

 

La visita di Scholtz a Pechino e la forte irritazione USA.

La Cina sta sostituendo la Russia come principale dipendenza geoeconomica della Germania. Questo il senso della discussa visita di Olaf Scholz a Pechino, primo leader occidentale a incontrare Xi Jinping fresco di terzo mandato. Se la guerra d’Ucraina ha interrotto il legame russo-tedesco inaugurato cinquant’anni fa con i gasdotti, Berlino è determinata non solo a proteggere ma a intensificare il legame sino-tedesco.

Dalla Ostpolitik alla Fernostpolitik (Fernost è tedesco per Estremo Oriente).

Per la Germania l’accesso al mercato cinese è questione esistenziale. Non può essere altrimenti per un paese che fonda quasi metà del suo benessere sulle esportazioni. Saltato il nesso del gas, se saltassero anche i rapporti con la Cina nella Repubblica Federale andrebbero contemporaneamente in fumo la manifattura, la principale fonte di sostentamento e il collante sociale.

È così che Scholz prova a giustificarsi con gli Stati Uniti, furibondi perché sanno che i cinesi dai tedeschi non vogliono soltanto tecnologie preziose (vedi l’appello di Xi a un’alleanza per l’intelligenza artificiale).

Al di là delle rassicurazioni, se la posta in gioco non fosse così esistenziale, Scholz non avrebbe commesso il madornale errore di recarsi a Pechino da solo, senza nemmeno il presidente francese Emmanuel Macron, che pure implorava una gita a due nonostante tutte le altre difficoltà sull’asse renano. Così facendo, i tedeschi hanno concesso a tante altre cancellerie europee di fare i bravi allievi di Washington criticando la mossa che molti di loro avrebbero voluto compiere. Ciò suggerisce che Berlino vuole negoziare con urgenza accordi economici prima di un’ulteriore stretta della guerra economica americana alla Repubblica Popolare.

Per esempio, Berlino vuole proteggere l’industria automobilistica dalla rivoluzione dell’elettrico, che minaccia di stravolgere il mercato del lavoro europeo. La presenza di Volkswagen nella delegazione pechinese di Scholz dimostra questa preoccupazione.

04-10-2022

 UCRAINI A 40 KM DA KERSON. IL PRIMO BASTIONE A DIFESA DELLA CRIMEA A FORTISSIMO RISCHIO CADUTA. Incredibilmente si apprende dell'incredibile inferiorità dell'Armata Russa che non ha uomini per tenere intere sezioni di fronte.

 

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 IN QUESTO MOMENTO SOLO Il ritorno della rasputitsa, o il “generale fango”, questa volta causata non dal disgelo primaverile ma dalle precipitazioni, potrebbe pertanto bloccare qualsiasi iniziativa terrestre su ampia scala, facendo diventare il conflitto una guerra di posizione con piccoli cambiamenti della linea del fronte E SOLO QUESTO SALVEREBBE MOSCA DA UNA SPAVENTOSA RITIRATA DALLE REGIONI APPENA ANNESSE IN ATTESA DELL'ARRIVO DEI RISERVISTI E DELLO SCOMPARSO DEL TERZO CORPO D'ARMATA RUSSO in assemblamento a Mosca.

Il Ministero della Difesa russo (MoD) ha riconosciuto che le forze ucraine sono penetrate nelle difese russe in direzione di Zolota Balka (circa 82 km a nord-est di Nova Kakhovka) e le truppe russe si sono ritirate in posizioni difensive preparate.[23] Il filmato sui social media pubblicato il 1° ottobre mostrava anche le forze ucraine che operavano nella parte settentrionale dell'autostrada T0403. [24] I blogger russi hanno affermato che i russi si sono ritirati per la prima volta in posizioni difensive a Mykhailivka (circa 8 km a sud di Zolota Balka) il 1 ottobre, ma probabilmente sono caduti più indietro a Dudchany (circa 24 km a sud di Zolota Balka) il 2 ottobre.[25] Le forze ucraine hanno continuato ad avanzare a sud in direzione di Nova Kakhovka e filmati geolocalizzati hanno mostrato che hanno liberato Mykhailivka, Havrylivka e Novooleksandrivka lungo la T0403.[26] I filmati dei social media e il discorso dei milblogger russi hanno anche indicato che le forze ucraine hanno fatto progressi a ovest dell'autostrada T0403. ] Il Ministero della Difesa russo ha anche affermato che le forze ucraine sono entrate nelle posizioni russe a Oleksandrivka (circa 35 km a ovest della città di Kherson), ma ha affermato che le forze russe stanno continuando a sparare con l'artiglieria contro le forze ucraine in avanzamento.[31]

 

 

Le forze ucraine hanno continuato a ottenere guadagni nell'oblast di Kharkiv orientale in direzione del confine con l'oblast di Luhansk il 2 e 3 ottobre. Il ministero della Difesa russo (MoD) ha inavvertitamente confermato che le truppe ucraine sono avanzate a est di Kupyansk il 2 ottobre e ha affermato che le forze russe hanno colpito Posizioni ucraine a Petropavlivka (8 km a est di Kupyansk) e Synkivka (10 km a nord-est di Kupyansk).[11] Un blogger russo ha riferito il 2 ottobre che le forze ucraine si stanno preparando per ulteriori avanzamenti verso est dall'area di Kupyansk-Petropavlivka e ha affermato il 3 ottobre che le truppe ucraine hanno condotto una ricognizione in forza vicino a Zahorukivka, 16 km a est di Kupyansk.[12]

Le forze ucraine hanno inoltre ottenuto guadagni vicino al confine tra Kharkiv e Luhansk Oblast a ovest di Svatove il 3 ottobre. Il filmato geolocalizzato mostra le truppe ucraine a Borova e Shyikivka, entrambe entro 35 km a ovest di Svatove, cosa che è stata successivamente confermata dal Consiglio comunale di Borova e da vari blogger russi. [13] Fonti ucraine hanno inoltre riferito che le truppe ucraine hanno ripreso Izyumske e Druzhelyubivka, a circa 25 km a sud-ovest di Svatove.[14]

Le truppe ucraine hanno continuato a consolidare le conquiste intorno a Lyman il 2 e 3 ottobre e probabilmente hanno ottenuto guadagni in direzione del confine con l'Oblast di Luhansk. Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato che le truppe russe hanno colpito le posizioni ucraine a Yampolivka il 2 ottobre, confermando che le truppe ucraine controllano il territorio a circa 15 km a nord-est di Lyman e entro 10 km a ovest del confine con l'Oblast di Luhansk.[15] Fonti russe hanno anche affermato che le truppe ucraine hanno preso il controllo di Terny e Torske, rispettivamente 15 km a nord-est e 13 km a est di Lyman.[16] Secondo quanto riferito, le truppe ucraine sono avanzate verso un segmento di autostrada vicino a Chervonopopivka e Pishchane, che si trovano entrambe lungo la strada Svatove-Kreminna entro 5 km a nord di Kreminna. [17] Fonti russe hanno discusso con grande preoccupazione di questi progressi ucraini a est di Lyman e hanno suggerito che le truppe ucraine si sposteranno probabilmente verso il confine dell'oblast di Luhansk e attaccheranno Kreminna, 30 km a est di Lyman.[18] Le truppe russe, inclusi elementi del distaccamento BARS-13 e della 20a armata di armi combinate, si sono ritirate dall'area di Lyman prima del 2 ottobre e si sono ristabilite a Creminna, dove fonti russe affermano che si trova la nuova linea del fronte.[19]

Il rappresentante della milizia della Repubblica popolare di Luhansk (LNR) Andrei Marochko ha confermato che le truppe ucraine hanno attraversato il confine dell'oblast di Luhansk in un'area non specificata il 3 ottobre e hanno preso piede da qualche parte in direzione di Lysychansk.[20] Marochko ha affermato che le forze russe hanno distrutto la colonna ucraina che ha attraversato il confine amministrativo.[21] Fonti russe sono apparentemente sempre più preoccupate per il fatto che le truppe ucraine continueranno a spingersi verso est per attaccare gli insediamenti vulnerabili nell'oblast di Luhansk.

 

  FRONTE DI BAKHMUT

il 2 e 3 ottobre che le forze ucraine hanno respinto gli assalti di terra russi a Bakhmut, a nord-est di Bakhmut vicino a Bakhmutske (10 km a nord-est di Bakhmut) , e a sud di Bakhmut vicino a Zaitseve (8 km a sud-est di Bakhmut), Odradivka (9 km a sud di Bakhmut), Mayorsk (20 km a sud di Bakhmut) e Vesela Dolyna (6 km a sud-est di Bakhmut).[38] Diverse fonti russe hanno affermato che le truppe ucraine si sono ritirate dalle loro posizioni vicino a Bakhmut e che i combattenti del gruppo Wagner si sono trincerati alla periferia della città, sebbene l'ISW non possa confermare le affermazioni del ritiro ucraino. [39] Lo stato maggiore ucraino ha anche notato che le forze ucraine hanno respinto gli assalti di terra russi a sud-ovest di Avdiivka vicino a Pervomaiske (13 km a sud-ovest di Avdiivka), Nevelske (15 km a sud-ovest di Avdiivka) e Pobieda (30 km a sud-ovest di Avdiivka) il 2 e 3 ottobre. [40] Un blogger russo ha affermato che le forze ucraine hanno tentato senza successo di sfondare le posizioni russe tra Optyne e l'aeroporto di Donetsk nella notte tra l'1 e il 2 ottobre.[41] 

LE ANNESSIONI DI PUTIN SOLO COME GRIMALDELLO LEGISLATIVO PER INDIRE LA MOBILITAZIONE PARZIALE E SPEDIRE ALMENO 300.000 UOMINI PER TAMPONARE LA FALLA: BRUTTISSIMA SITUAZIONE DELL'ARMATA RUSSA SUL FRONTE NORD DONETZ-LUHANSK E A NORD-EST DI KERSON. IVI GLI UCRAINI HANNO SFONDATO LE LINEE RUSSE.

Le località di Kherson riprese da Kiev erano già da considerarsi, secondo la visione di Mosca, come parte integrante del territorio russo. Quella che per il Cremlino era una linea rossa da non valicare, a nord di Nova Kakhovka invece gli ucraini l’hanno già violata. E probabilmente a breve accadrà la stessa cosa est di Lyman, quando le truppe agli ordini di Zelensky arriveranno nel territorio di Lugansk. Gli ucraini del resto stanno cercando di massimizzare i vantaggi dati dall’inferiorità numerica dei russi nei fronti attaccati, non facilmente colmabile a breve con la mobilitazione parziale annunciata da Putin, così come la totale mancanza di azione da parte dell’aviazione di Mosca.

I combattimenti starebbero adesso andando avanti nelle zone limitrofe. L’arretramento russo in quest’area ha permesso l’allontanamento del fronte dall’importante città di Kryvyj Rih, ma soprattutto l’avvicinamento degli ucraini lungo le sponde del Dnepr. Fonti di Kiev hanno parlato su Twitter di un’avanzata giunta a circa 40 km da Nova Kakhovka, ossia la prima importante località conquistata dai russi nel primo giorno di guerra, il 24 febbraio scorso. Difesa a nord dal fiume Dnepr, riprenderla per gli ucraini non dovrebbe essere affatto semplice, ma darebbe loro importanti effetti strategici: la città di Kherson sarebbe infatti così aggirabile da est. Probabile quindi che la prossima battaglia venga svolta all’interno di questo quadrante.

Russi in difficoltà a est del fiume Oskil

Ma le novità nelle ultime ore sono arrivate anche dal fronte più sotto i riflettori nell’ultimo mese, quello cioè dove la controffensiva ucraina ha sortito i suoi principali effetti. A sud di Kharkiv infatti si sta continuando a combattere. Dopo la presa di Lyman, avvenuta lo scorso sabato, i soldati di Kiev sembrano voler spingere oltre il proprio contrattacco. Si è avuta notizia infatti della conquista della località di Torske, a est di Lyman. Il fronte si sta avvicinando a Kreminna, cittadina all’interno dell’oblast di Lugansk e a pochi chilometri dalla periferia di Severodonetsk.

Cosa potrebbe accadere adesso

Nonostante dopo la controffensiva di settembre per i russi difendere Lyman è apparso un vero miraggio, Mosca ha deciso di non ritirare le sue truppe. I soldati agli ordini di Putin, affiancati da separatisti e membri della Wagner, hanno resistito fino alla fine. La ritirata si è avuta soltanto la scorsa notte. Il perché di questa mossa è data proprio dall’importanza strategica di Lyman. I russi hanno voluto prendere tempo per riorganizzarsi a nord e a est della cittadina.

Senza infatti adeguate linee difensive, con la presa di Lyman gli ucraini potrebbero spingersi fino alla periferia di Lysychansk e Severodonetsk. Due città cioè conquistate dopo mesi di sacrifici e di uomini persi sul campo dai russi. Non essendoci più grossi ostacoli naturali, le truppe di Kiev potrebbero adesso dilagare in territori considerati da ieri parte integrante della federazione russa. Dunque nei prossimi giorni si capirà meglio il valore della conquista di Lyman. E se quindi, in particolare, i russi siano riusciti a organizzare adeguate difense oppure se gli ucraini si sono guadagnati la possibilità di continuare con la controffensiva.

 

 NEL GIORNO DELLA PROCLAMAZIONE DELL'ANNESSIONE RUSSA DEI QUATTRO OBLAST UCRAINI, 30-09-2022, CADE LYMAN,LA PORTA D'INGRESSO DEL LUHANSK. L'ARMATA RUSSA IN INFERIORITA' CONTINUA A RITIRARSI. PROSSIMO ASSEDIO E' SYVERSKYDONEC, DISINTEGRATA NELLE BATTAGLIE DI GIUGNO IN ATTESA DEI RINFORZI DEI RISERVISTI E DELLE PIOGGE.

Le parole di Putin

Quello che più conta, nella cerimonia odierna, è quel “non vogliamo un ritorno all’Urss” con ennesimo riferimento malevolo all’operato di Gorbaciov, ma soprattutto quel “Kiev rispetti la volontà popolare, cessi il fuoco e torni al tavolo del negoziato, noi siamo pronti“. “Noi siamo pronti” è una frase importante, che non era mai apparsa nella retorica putiniana nella quale torna il discorso sui negoziati. Un ritorno al dialogo in cui però l’aggredito dovrebbe arrendersi per primo: quello che la logica e il diritto internazionale non comprendono e accettano, deve essere però valutato nell’ottica di Putin. E per il comandante in capo di questa “operazione militare speciale”, anche solo aver pronunciato quelle parole è segno di una rivoluzione copernicana nella conduzione della guerra, che segna uno spartiacque da qui in poi.

Putin ha vinto o perso?

Putin ha vinto? In parte. Ha coronato il sogno del Donbass e di creare un abbondante cuscinetto territoriale infarcito di pretesti etnici, linguistici e-nella sua logica-storici. Sta creando le premesse affinché, pur avendo sottratto queste aree in barba al diritto internazionale, nessuno in Occidente possa sognarsi di contrattaccare nelle zone annesse, pena l’aggressione nucleare. Sta creando i presupposti affinché Zelensky sia spinto ad abdicare a questi territori e possibilmente subire l’onta di dichiarare il cessate-il-fuoco per primo.

Putin ha perso? Anche. Pensare che l’aggressione iniziata nel febbraio scorso fosse volta a sparare 100 per avere 10 (cioè il Donbass) sarebbe da ingenui. Nei piani di Mosca prendere l’Ucraina e rovesciarne il regime era un obiettivo reale e primario. Non è riuscito, inaspettatamente: a questo hanno concorso la resistenza interna, il sostegno militare indiretto della Nato, i problemi del sistema militare russo. Adesso, però, securizzata l’area realmente conquistata, Putin e il suo cerchio magico sanno bene che oltre non si potrà andare. Prendere Kiev è impensabile con un esercito allo sbaraglio e i mobilitati in fuga. Riprovarci nell’immediato futuro? Sarebbe la Terza Guerra Mondiale. E forse prende piede l’ipotesi, paventata da molti giorni fa, che la mobilitazione parziale realmente serva a creare il cordone di sicurezza attorno agli (e negli) oblast conquistati. E Odessa? Difficile immaginarlo. Un obiettivo strategico, che si allontana, e che rappresenterebbe l’estremo pericolo del contatto reale e diretto tra Nato e Russia.

Le difficoltà di Mosca

Putin forse teme più la Russia stessa che la Nato. Come a tutti noi, le immagini di un Paese diviso giungono anche al Cremlino. Così come le pressioni dei falchi della guerra, scontenti dell’andamento del conflitto e, forse, anche di questo “magro risultato” che ha persino suscitato una lavata di testa da parte di uno come Kadyrov.

Vladimir Putin ha ufficialmente proclamato l’annessione alla Russia delle repubbliche di Donetsk e Lugansk, in Donbass, e dei territori occupati di Kherson e Zaporizhzhia a seguito dei referendum a senso unico tenutisi sotto l’occhio vigile delle truppe russe tra il 23 e il 27 settembre. Anche dopo la controffensiva ucraina e le schermaglie politiche con l’Occidente, Mosca ha accelerato nel formalizzare l’annessione.

Ma dal 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, c’è chi lavora attivamente e con costanza per plasmare a immagine e somiglianza di Mosca le regioni che sono entrate sotto il controllo delle forze armate russe: Sergej Kirienko. 60anni, con alle spalle un lungo curriculum che per pochi mesi, nel complicatissimo 1998, lo ha portato a diventare il più giovane premier della storia russa da marzo a agosto, salvo poi essere travolto dal default del Paese, Kirienko si è da tempo ricostruito un ruolo nello Stato profondo russo.

L’ex tecnocrate liberale e economista ha ottenuto in questi mesi una notevole centralità politica partendo da un ruolo strategicamente valorizzatosi mano a mano che Vladimir Putin ha accentrato sul Cremlino il processo decisionale. Dopo undici anni alla guida del colosso del nucleare, Rosatom (2005-2016), sei anni fa è stato nominato da Putin primo vice-capo di gabinetto del presidente, ma ha assunto con la guerra in Ucraina maggiore influenza del titolare della carica, Anton Vajno.

Kirienko dall’inizio del conflitto ha avuto il compito di supervisionare e consigliare le autoproclamate Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk nell’omologazione graduale delle leggi e deglii ordinamenti ai dettami dell’amministrazione presidenziale. Da sempre figura moderata, Kirienko si sta scrollando di dosso un’immagine a lungo coltivata di un tecnocrate d’apparato senza ambizioni politiche. Il rapporto diretto con Putin gli ha dato il potere di essere nominato, di fatto, suo proconsole in Ucraina.

Senza dubbio, la guerra lo ha aiutato a diventare il frontman più visibile e di alto rango del “partito della guerra“. E in primavera è stata formalizzata la sua scelta come commissario dei territori occupatiMeduza.io ha svelato i retroscena della sua nomina: “è stata il risultato di un incontro personale tra Kirienko e Putin, durante il quale Kirienko ha presentato la sua visione per “l’operazione militare speciale” (lo pseudonimo del Cremlino per la sua invasione su vasta scala dell’Ucraina) – e ha lanciato idee su come le autorità russe dovrebbero gestire i territori appena occupati”. Per Kirienko “i loro residenti dovranno vedere che la Russia non è venuta temporaneamente e resterà”. Da qui la corsa alla russificazione accelerata, con l’introduzione del rublo e la spinta referendaria, immaginante da Kirienko.

La legge sulla cittadinanza, altra emanazione della sua influenza, ha teso a consolidare la russificazione. Il legame con le forze di sicurezza dato dal controllo sull’amministrazione civile ha fatto il resto. Nel frattempo, sul fronte interno, Kirienko sta anche lavorando a stretto contatto con gli interessi degli uomini forti (siloviki) della burocrazia statale per consolidare l’annessione.

L’amministrazione presidenziale vuole costruire una rete di potere nei ministeri, dipartimenti, società statali e grandi imprese statali russe integrando rapidamente i cittadini delle neoannesse terre ucraine per fondere lo Stato con le sue nuove propaggini. Lavoratore instancabile e fedelissimo, Kirienko, un tempo vicino ai moderati della cerchia di Elvira Nabiullina, governatrice della Banca centrale, per necessità o per ambizione ha speso ogni sua fiche puntando sul “partito della guerra” ed è la figura in maggiore ascesa nel sistema di potere russo. 

Una centrale lungo la linea del fronte

É nota come centrale di Zaporizhzhia, ma in realtà l’impianto si trova nella località di Enerhodar, circa 30 km più a sud della città capoluogo dell’omonima regione. In tempo di pace ha fatto poca differenza distinguere tra Zaporizhzhia ed Enerhodar. Del resto, che si tratti di un impianto industriale o di un’opera infrastrutturale, spesso il nome è dato in base alla grande città più vicina e non alla vera località di periferia in cui una determinata struttura è situata. Ma oggi, in pieno tempo di guerra, questa distinzione è più che mai necessaria.

Questo perché fino a Zaporizhzhia il territorio è controllato dagli ucraini. Oltre invece ci sono i russi. Anche a Enerhodar si è tenuto il referendum che, secondo quanto riconosciuto dal Cremlino, ha sancito l’annessione della zona alla federazione. Di conseguenza, la centrale nucleare è situata esattamente sulla linea di contatto dove converge il fronte di Zaporizhzhia. Da un lato ci sono i soldati fedeli a Kiev, dall’altro quello fedeli al Cremlino. In mezzo, ci sono i tecnici della centrale che stanno continuando a lavorare, anche se ora rispondono a Mosca.

Il braccio di ferro tra Kiev e Mosca

La centrale è contesa e non solo dal punto di vista militare. L’impianto produce circa la metà dell’intera energia nucleare usata annualmente dall’Ucraina, corrispondente a un quinto dell’intero fabbisogno energetico ucraino. Controllare l’impianto vuol dire avere in mano un’immensa risorsa. Per Kiev lo spettro è rappresentato dal fatto che i russi possano provare a scollegare definitivamente l’impianto dalla rete nazionale. Spegnendo di fatto intere città e aggravando ulteriormente una situazione economica già in stallo per via del conflitto e per i danni prodotti dalla guerra ad altre importanti infrastrutture. Per Mosca invece, vorrebbe dire avere un’arma in più contro il governo ucraino. Non solo, ma i tecnici russi potrebbero usare in futuro l’energia per alimentare i territori occupati e la Crimea.

Entrambe le parti in causa quindi vogliono il controllo della centrale. Il problema, da adesso in poi, è che sia ucraini che russi ritegnono l’impianto all’interno del proprio territorio nazionale. Lo è per Kiev, il cui obiettivo è quello di riprendere in mano il controllo dei territori occupati. Lo è per Mosca, il cui governo dopo i referendum dei giorni scorsi ha annesso le aree in questione.

I timori per la sicurezza

Il rischio molto forte è che il braccio di ferro per la centrale si trasformi in una battaglia a tutto campo. I reattori, già oggi non al sicuro in quanto situati a pochi metri dalla linea del fronte, potrebbero rappresentare l’inquietante palcoscenico di un conflitto in campo aperto.

 

La cittadina in questione è tra le più strategiche dell’area. Situata a nord degli argini del Siversky Donetsk, fiume le cui acque delimitano parte del Donbass, conquistarla vuol dire avere le chiavi dell’intera area circostante. Non a caso i russi hanno impiegato molti mezzi e uomini per prenderla a maggio. Per Mosca mettere gli scarponi a Lyman ha significato solidificare la propria presenza a nord del Siversky Donetsk e puntare decisamente su Slovjansk e Kramatorsk, le due grandi città del Donbass in mano ucraina.

Mercoledì mattina un gruppo di soldati su Twitter ha mostrato le bandiere ucraine issate nuovamente nel municipio di Novoselivka, a nord di Lyman. Una conquista in grado di rappresentare una sorta di preludio ad ulteriori avanzate.

L’impressione è che dalla capitale ucraina, anche su indicazione dei servizi di intelligence alleati, sia arrivato l’ordine di avanzare il prima possibile. Kiev infatti adesso può sfruttare due fattori a sua favore: la superiorità numerica e le strade non ancora investite dal fango. Vantaggi che a breve potrebbe non avere vista la mobilitazione parziale ordinata da Mosca e l’arrivo imminente della stagione delle piogge.

Dopo la presa di Lyman e il consolidamento del fronte di Kupyansk, si potrebbe assistere quindi ad ulteriori avanzate ucraine e ad ulteriori indietreggiamenti da parte dei russi. Più località conquista Kiev in questa fase, più il governo ucraino potrà in seguito rivendicare il diritto di riprendere in mano per intero il proprio territorio.

Le cellule pro Kiev avranno un ruolo in una futura controffensiva?

Anche perché se da un lato a Mosca si parla di annessione, a Kiev invece la parola d’ordine è “controffensiva“. Per le autorità ucraine è più che mai vitale tenere vive le cellule presenti nelle province in cui la Russia è pronta ad issare la propria bandiera. Dopo il successo del contrattacco a Kharkiv e la riconquista di località importanti quali Izyum, gli ucraini vorrebbero accelerare anche a sud e in particolare a Kherson. Anche perché dopo le riconquiste nel nord est del Paese, le reti di informatori e sabotatori nelle regioni occupate sono ancora più in fibrillazione.

Il ruolo dei gruppi ucraini potrebbe essere, in primo luogo, quello di indebolire e mettere in difficoltà le forze russe presenti. Questo in prospettiva soprattutto dell’arrivo dei riservisti richiamati da Mosca nell’ambito della mobilitazione parziale. Le azioni di sabotaggio potrebbero riguardare la logistica, con la distruzione, come in parte avvenuto nei mesi scorsi nella zona di Melitopol, delle ferrovie e delle vie di comunicazione usate dai russi. Così come potrebbero prendere di mira altri personaggi delle nuove amministrazioni comunali e regionali. Ulteriori azioni invece potrebbero avere come principale bersaglio le basi militari russe e i depositi di munizioni. Aiutati dall’intelligence occidentale, i sabotatori ucraini sarebbero pronti quindi a ritagliarsi un ruolo importante nelle future possibili controffensive di Kiev.

Usa ed Europa stanno esaurendo le scorte di munizioni

Il primo a lanciare l’allarme è stato Josep Borrell, alto rappresentate dell’Ue per gli affari esteri, quando a inizio settembre ha affermato che “le scorte militari della maggior parte degli Stati membri sono state, non direi esaurite, ma impoverite in proporzione elevata, perché abbiamo fornito molto agli ucraini”. Successivamente gli ha fatto eco lo stesso segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, che martedì 27 ha ha tenuto una riunione speciale dei direttori degli uffici armamenti dell’Alleanza per discutere le modalità di riempimento dei magazzini di armi dei Paesi membri. Anche negli Stati Uniti la situazione non è diversa: Dave Des Roches, professore e membro militare senior presso la National Defense University si è detto “molto preoccupato” per il rapido esaurimento delle scorte, a meno che non cominci “una nuova produzione, che richiede mesi per andare a regime”, quindi è possibile che in breve tempo non ci sarà più la capacità di rifornire gli ucraini.

I limiti dell’industria bellica

L’industria degli armamenti Usa è in grado di produrre, in tempo di pace, 30mila proiettili di artiglieria per obici da 155 millimetri: l’esercito ucraino impiega poco meno di due settimane per esaurire quella quantità di munizioni.

Esiste quindi un problema di fondo, che abbiamo già avuto modo di evidenziare nei mesi scorsi: l’attuale capacità industriale bellica delle nazioni occidentali non è sufficiente per garantire il regolare afflusso di munizionamento in grado di sostenere un conflitto d’attrito, o ad alta intensità, soffrendo anche – ma non solo come vedremo – la decisione di ridurre la produzione di massa e di fabbricare armi solo se necessario. Una decisione dettata dal contesto storico: la fine della Guerra Fredda ha fatto crollare la produzione di armi e munizioni. Inoltre alcune linee di produzione sono state chiuse una volta terminato il contratto di acquisto, pertanto alcuni armamenti che stanno esaurendosi non vengono più prodotti, e per ricominciare sarebbe necessaria manodopera ed esperienza altamente qualificate, cose che da anni scarseggiano nel settore manifatturiero statunitense.

Occorre quindi reinvestire nella base industriale del settore degli armamenti, come affermato dallo stesso Stoltenberg, ma si tratta di un processo lungo e difficoltoso, pertanto il regolare afflusso di armamenti all’Ucraina potrebbe essere messo a rischio qualora il conflitto dovesse protrarsi per anni.

I limiti imposti dal Pentagono

A fronte dell’esaurimento delle scorte e della necessità di non privarsi di armamenti utilizzati dalle proprie forze armate – il Pentagono ha detto un secco “no” alla possibilità di privare l’esercito Usa di quelle armi che servono alle operazioni statunitensi – risulterà difficile per Washington mantenere la promessa fatta a Kiev di sostentamento dell’esercito ucraino “per tutto il tempo necessario” per sconfiggere la Russia, dato che si prevede che il conflitto potrebbe durare anche tre anni (o forse più).

Gli Stati Uniti sono stati il più grande fornitore di aiuti militari all’Ucraina – se escludiamo quelli abbandonati dai russi e incamerati dall’esercito ucraino – , fornendo fino ad oggi 15,2 miliardi di dollari in pacchetti di armamenti da quando è cominciata l’invasione russa alla fine di febbraio. Molte delle armi di fabbricazione americana sono state decisive per gli ucraini: in particolare gli obici da 155 millimetri, gli Himars, gli Atgm (Anti Tank Ground MissileJavelin e i missili antiradiazioni Agm-88 Harm.

Sostenere Kiev “sino alla vittoria” significa, materialmente, fornire molte più armi e munizioni, e l’esercito ucraino sta letteralmente fagocitando le scorte di queste ultime. Parlando di Atgm, ad esempio, il rateo di produzione dei missili Javelin della Lockheed-Martin è di 2100 pezzi l’anno (ma sembra che si potrebbe arrivare a 4mila) e l’Ucraina ha affermato di utilizzarne 500 al giorno. In sostanza basterebbero 14 giorni di uso intensivo per esaurire le scorte ucraine, e la produzione statunitense non basterebbe a rimpiazzarli. Anche gli obici M-777 sono diventati merce rara: gli Stati Uniti ne hanno sostanzialmente esaurito il surplus, e per inviarne altri dovrebbe attingere alle proprie scorte riservate alle unità militari statunitensi, qualcosa che non è possibile perché il Pentagono ha bisogno di mantenere scorte per sostenere i propri piani di guerra nella possibilità di un conflitto con la Cina per Taiwan o per il Mar Cinese Meridionale, oppure per un’improvvisa escalation per la Corea del Nord o anche nella stessa Europa.

La carta degli armamenti più obsoleti

Pertanto, al momento, l’unica soluzione è quella di attingere ai depositi di armamenti più obsoleti, che dopo essere adeguatamente messi in condizione di poter operare, verrebbero inviati in Ucraina, ma questo azzererebbe il vantaggio tecnologico rispetto alle forze armate russe. In questo senso si vedono già alcuni segnali: i carri armati forniti all’Ucraina da alcuni Paesi della Nato sono di vecchio tipo – se pur modernizzati – e negli Stati Uniti si pensa di fornire Mbt (Main Battle Tank) tipo M1 Abrams delle prime serie.

Anche se la produzione industriale statunitense ed europea passassero a un regime “di guerra” – e non c’è nessuna indicazione in tal senso sulle due sponde dell’Atlantico a differenza di quanto sta accadendo in Russia – comunque il tempo necessario per attivare le linee sarebbe lungo, e nel frattempo l’esercito di Kiev si troverebbe a corto di munizioni e armamenti.

Il vero problema, però, non è come continuare a rifornire l’esercito ucraino – che potrebbe affidarsi ad altri fornitori come la Corea del Sud – bensì un altro: l’esaurimento rapido delle scorte dimostra quanto sia fondamentale riprendere la produzione di munizionamento e armamenti per riempire nuovamente i depositi e i magazzini delle forze armate. Essenzialmente, ci duole ricordarlo, si tratta di un’annosa questione: il conflitto in Libia, quello in Iraq contro lo Stato Islamico, e lo stesso Afghanistan, avevano già fatto emergere la stessa problematica – in campo aeronautico. Ora si è preso coscienza che, col ritorno delle minacce simmetriche di tipo convenzionale, l’approvvigionamento di munizioni è fondamentale, ma, come già affermato, ci si deve muovere ora per riavviarne la produzione, e non (solo) per sostenere l’Ucraina.

 

 GERMANIA; DOPO I 100 MILIARDI DI EURO PER IL RIARMO, 200 MILIARDI DI EURO PER L'ABBATTIMENTO DEI COSTI ENERGETICI

La svolta della Germania

Compatta, anche se con distinguo sulle priorità, la maggioranza. Robert Habeck, vicecancelliere e Ministro dell’Economia in rappresentanza dei Verdi ha parlato di necessità di reagire alla “guerra energetica” della Russia. Ma la svolta più importante è quella di Christian Lindner, “falco” rigorista dei Liberali che, da Ministro delle Finanze, solo pochi giorni fa proponeva in Europa il ritorno al Patto di Stabilità e ora ha corretto le sue posizioni preparandosi, sul fronte interno, a dare il via libera alle spese massicce del governo ma mantenendo, a parole, il sostegno alla necessità di tornare nel 2023 alla disciplina di bilancio.

“In passato”, nota La Stampa, “durante la pandemia, il governo sospese la regola del “freno al debito” per ridare fiato all’economia. Si tratta di una costituzionale che permette di derogare al pareggio di bilancio per lo 0,35% del Pil annuale e che può essere sospesa in caso di situazioni di eccezione e di catastrofi naturale”. La guerra in Ucraina è lo stato d’eccezione dopo la catastrofe pandemica che in questo caso può, anche negli anni a venire, giustificare comunque eventuali prese di posizione in controtendenza con questo auspicio. E Lindner nel frattempo mira a mettere in campo aiuti attraverso il Fondo di stabilizzazione economica introdotto durante la pandemia.

Il maxi-fondo su cui puntano Scholz e Lindner

Lo scopo del Fondo di stabilizzazione economica (Fse) era quello di stabilizzare l’economia in risposta alla pandemia di Covid. L’Fse è stato creato con l’obbiettivo di fornire sostegno sotto forma di misure di stabilizzazione per aiutare le imprese di tutti i settori a rafforzare la loro base di capitale e ad affrontare le carenze di liquidità. Si rivolge alle imprese dell’economia reale la cui scomparsa avrebbe un impatto significativo sul mercato del lavoro tedesco o sull’attrattiva della Germania come sede di attività. L’Fse agisce per mezzo di due strumenti di stabilizzazione (che possono essere applicati in combinazione) da un lato, promuove garanzie federali sui prestiti, comprese le linee di credito, e sui prodotti del mercato dei capitali; dall’altro, promuove misure di ricapitalizzazione come mezzo diretto per rafforzare il patrimonio netto delle imprese in difficoltà.

Fse ha fino ad oggi promosso operazioni di ricapitalizzazione per 9 miliardi di euro e si prevede il suo utilizzo anche per operazioni come quella di Uniper che raddoppierà tale cifra. Può inoltre promuovere manovre di sostegno alla banca pubblica KfW, la Cassa Depositi e Prestiti tedesca, a cui fino ad ora ha concesso 30 miliardi di euro. Dunque, il Fse creato nel 2020 è di fatto ben al di là dal raggiungere le quote di risorse stanziate: di fatto esso è stato “armato” con 600 miliardi di euro di risorse, corrette a 250 miliardi nel 2022. Una somma che Lindner spera di poter orientare per coprire le spese per la crisi energetica. Ma occultare una spesa pari al 5% del Pil in un fondo che copre la metà dei 1.300 miliardi messi in campo da Angela Merkel e da Scholz, ai tempi Ministro delle Finanze, è complesso.

La “Cdp” tedesca

Così come è complesso operare con KfW. Negli anni la KfW è diventata la più grande banca pubblica per lo sviluppo al mondo e gestisce asset per 500 miliardi di euro. Durante la pandemia le risorse sono state orientate per fare in grande ciò che in Italia è stato affidato a Sace con il programma Garanzia Italia: aprire alla concessione di prestiti alle imprese in crisi mediate dalla garanzia pubblica.

Due settimane fa il governo federale ha chiesto che KfW si rafforzi, in modo che le società energetiche possano esser sostenute con ancora più garanzie e supporto alla liquidità. Si tratta di autorizzazioni di credito per un importo di circa 67 miliardi di euro, che ricadranno alla fine nel piano del Fse.

Il nuovo debito inevitabile

Sulla carta Berlino avrebbe i numeri per coprire dunque i 200 miliardi con fondi già stanziati. Ma il diavolo è nei dettagli e riporta alla considerazione che per la Germania sarà necessario fare deficit. In virtù del nuovo regolamento Ue sugli aiuti di Stato, infatti, la Germania ha promosso misure di sostegno alle imprese tramite Fse e KfW, ma non può mettere in campo con il loro ausilio i piani che Scholz ha in mente per abbattere il prezzo del gas nella loro interezza. Scholz ha intenzione di sterilizzare diverse imposte, calmierare i prezzi del gas, finanziare gli importatori, accelerare sugli investimenti in transizione per superare la dipendenza dall’oro blu. Tutte misure per cui un ricorso alla leva della spesa pubblica è necessaria, in quanto politiche omnicomprensive e non mirate su un singolo obiettivo come un’operazione di salvataggio aziendale.

Quando Lindner è subentrato all’inizio di dicembre, si è trovato a lavorare con un progetto di bilancio per il 2022 scritto dal suo predecessore (ora cancelliere) Olaf Scholz prima dello scoppio dell’ondata di omicron della pandemia di coronavirus. Tale progetto includeva circa 100 miliardi di euro di nuovo debito. E dopo aver assunto nuovi debiti per quasi 140 miliardi di euro quest’anno, il bilancio nazionale della Germania per il 2023 prevede solo 17 miliardi di euro di nuovo debito. Ipotesi irrealistica, in virtù dell’adesione al freno costituzionale, di fronte a tale onerose necessità. Semplicemente, il gioco delle tre carte potrebbe essere l’assunzione di una forte quota di nuovo debito negli ultimi mesi dell’anno per poi tornare alla disciplina sulla carta l’anno prossimo. Anche se restano “elefanti nella stanza” come il fondo per il riarmo da 100 miliardi di euro annunciato da Scholz a febbraio e ancora da strutturare operativamente, che sicuramente convoglierà risorse pubbliche in un Paese che viaggia verso una dura recessione.

E sulla necessità di fare debito si è espressa criticamente anche la prestigiosa Frankfurter Allgemeine Zeitung, che in un articolo ha puntualizzato: “La Costituzione consente di aggirare il tetto all’indebitamento solo se lo Stato non ha avuto alcuna influenza sulla causa. Per questo Olaf Scholz e Christian Lindner hanno parlato di guerra energetica che la Russia sta conducendo contro la Germania”, osserva la Faz, che attacca: “In effetti, la Germania non può fare nulla per questa guerra, anche se deve essere considerato criminalmente negligente che questo Stato non abbia corretto la sua dipendenza unilaterale da una Russia che da anni si comporta in modo più aggressivo, ma, al contrario, l’ha smaccatamente perseguita”.

Più probabile che si arrivi a un regime ibrido, ma se anche la metà delle risorse fosse utilizzata per compensare il caro-bollette, finanziare tagli fiscali e aumentare le reti di protezione sociale Berlino è in grado di arrivare a 240 miliardi di nuovo debito nel 2022, una quota pari al 6% del Pil. Alla faccia di ogni prospettato ritorno all’austerità. Dal 58,9% del 2019 la quota debito/Pil è salita al 68,3% nel 2021; ora l’indebitamento netto lo potrebbe portare, come minimo, al 70,9% a fine anno con prospettive di peggioramento connesse alla prossima recessione. Per Berlino si fa dura e giustamente Scholz mette in campo tutte le carte superando ogni possibile tentazione austeritaria di ritorno. 

Mentre in Italia si tentenna nel varare un intervento da una decina di miliardi, il governo tedesco si è accordato sull’introduzione di un tetto al prezzo del gas pagato da famiglie e imprese. La differenza sarà a carico dello stato nell’ambito di un intervento dal valore compreso tra i 150 e i 200 miliardi di euro. Il governo attingerà al Fondo di stabilizzazione economica, che non fa parte del normale bilancio federale. Un gruppo di esperti elaborerà i dettagli del limite di prezzo. “Il prezzo del gas deve andare giù”, ha detto il cancelliere tedesco Olaf Scholz, annunciando il provvedimento. Alla luce di quel che è accaduto ai gasdotti Nord Stream è chiaro che “presto il gas non sarà più rifornito dalla Russia. Questo significa anche che scomparirà la prevista “Gasumlage”, il supplemento gas in bolletta che doveva aiutare le aziende energetiche in difficoltà. La misura doveva entrare in vigore il 1 ottobre, ma sarà annullata perché “non serve più”, come ha detto oggi il ministro tedesco dell’Economia, Robert Habeck. Il governo vuole ora aiutare direttamente le aziende. Il colosso Uniper, maggior importatore tedesco di gas russo, è del resto già in corso la nazionalizzazione.La Germania è però ben preparata al cambiamento della situazione” ha aggiunto il cancelliere tedesco. “Ci troviamo in una guerra dell’energia“, ha detto il ministro delle finanze tedesco, Christian Lindner. “Con l’attacco ai gasdotti la situazione si è decisamente inasprita”, ha aggiunto. Putin vuole “distruggere molto di quello che le persone per decenni hanno costruito” in Germania. “Noi non possiamo accettarlo e ci difenderemo“, ha scandito Lindner. Il freno al prezzo del gas deciso oggi “è una chiara risposta a Putin, ma anche una chiara segnalazione al Paese. Noi siamo economicamente forti, e questa forza economica la mobilitiamo, quando serve, come adesso”.Secondo l’Agenzia tedesca delle reti, nell’ultima settimana il consumo di gas di famiglie e piccole imprese è stato significativamente superiore al consumo nello stesso periodo dello scorso anno. La settimana è stata anche più fredda. I dati sono “molto preoccupanti”, perché “senza un considerevole risparmio, anche nel settore privato, sarà difficile evitare una carenza di gas in inverno”, ha affermato il presidente dell’Agenzia, Klaus Mueller. Secondo Mueller, grazie ai serbatoi gas ben riempiti (al 92%, ndr), si potrà superare l’inverno senza danni, ma, appunto, sarà necessario risparmiare e “questo dipenderà da ogni singolo individuo”.Il fronte europeo – La mossa tedesca spiazza gli altri paesi europei. Domani è in programma il vertice straordinario dei ministri dell’Energia dell’Ue in cui dovrebbero essere decisi provvedimenti da adottare congiuntamente ma Berlino ha deciso di muoversi da sola. Le trattative erano già prima complicate. “La proposta di un price cap allo stesso livello per tutto l’import del gas è una misura radicale che comporta rischi significativi legati alla sicurezza di forniture di energia”, hanno sottolineato fonti Ue spiegando il testo presentato ieri sera dalla Commissione sugli interventi sul mercato dell’energia. “E’ una valutazione di bilanciamenti, vantaggi e rischi. Non credo che stiamo dicendo ‘no a 15 Paesi membri, diciamo che è meglio mettere un price cap al gas russo e negoziare” con i singoli fornitori i prezzi dell’energia, aggiungono le stesse fonti.Diversi paesi membri” tra quelli che da settimane chiedono una proposta Ue sul price cap su tutte le importazioni di gas, “stanno diventando sempre più nervosi per la mancata reazione della Commissione europea, è un dato di fatto”, afferma un alto funzionario europeo alla vigilia della riunione straordinaria dei ministri dell’Energia. La richiesta di un price cap generalizato contenuta in una lettera indirizzata all’esecutivo Ue firmata da 15 stati, tra cui l’Italia, è stata avanzata “per esercitare pressioni sulla Commissione”, tuttavia – sottolinea la stessa fonte – “al tavolo” dei Paesi membri “non c’è una voce univoca”.

La Commissione Ue proporrà “entro metà ottobre”, dopo aver raccolto i pareri dei governi, un aggiornamento del quadro temporaneo di crisi degli aiuti di Stato per continuare a sostenere l’industria e le aziende. Lo scrive la Commissione europea nel documento presentato ai paesi membri. “La Commissione garantirà” che le attuali disposizioni in vigore “rimangano adeguate alla luce della situazione di mercato altamente instabile e continuino a consentire agli Stati membri di fornire il sostegno necessario e proporzionato alla loro economia, anche mediante garanzie statali”. “Siamo in modalità di crisi e quindi contiamo che con l’aiuto degli operatori potremo costruire un indice complementare dei prezzi del gas in tempi ragionevoli“. Lo affermano fonti della Commissione europea circa i piani per diminuire i prezzi del gas, che prevedono anche un intervento per ridurre l’influenza del Ttf olandese sulla formazione delle quotazioni del combustibile in Europa. Nelle proposte che saranno illustrate domani ai ministri dell’energia, la Commissione proporrà di costruire un nuovo indice basato sulle transazioni di Gnl, che dovrebbe essere disponibile agli operatori prima dell’inverno.

 

LA GUERRA D'UCRAINA DAL 1 LUGLIO 2022 AL 27 SETTEMBRE 2022: dallo stallo al tentativo di Putin di smuovere la linea inglobando nella Russia i territori conquistati con un Referendum dichiarando lo "stato di mobilitazione parziale" a difesa dei nuovi territori russi. Una volta annessi quei territori, la profondità a lungo reclamata dall'Ucraina potrebbe avere come conseguenza una risposta atomica.

Il 12 maggio 2022, Vi relazionavamo sulla grave situazione dell'esercito Russo in Ucraina, sull'allarme dato dai vertici della Wagner che parlavano dell'incombente necessità di reclutar più uomini, almeno un milione, per andare a mettere una toppa in un gorgo nero ucraino. A furia di cannonate e grazie alla capacità russa di ovviare all'inferiorità numerica concentrando il fuoco su una linea abbastanza vicina e corta, il 1 luglio 2022, l'Armata Russa conquistava tutto il Donbass, eccezion fatta per la parte centro meridionale del Donetsk. Tuttavia a quel punto, come le linee incominciarono ad allungarsi, la catena dei rifornimenti russi iniziò immediatamente a mostrare sfilacciamento e farraginosità, subito sfruttate dagli ucraini che attraverso l'invio di cospique armi da parte degli Usa e della Gran Bretagna, attraverso l'analisi di intelligence occidentale, riusciva immediatamente ad interrompere l'avanzata ed a contrattaccare in due punti: il sud ovvero Kerson, allo scopo di spostare ivi parte dell'Armata da parte dei russi, in modo da scatenare a nord, a Kharkhiv, una fulminea offensiva che costrinse i russi, dal 6 al 16 settembre, a sgomberare l'intero Oblast e ripiegare sul fiume Oskil nel Luhansk, allo scopo di non essere insaccati. La ritirata non si è trasformata in rotta perchè ora sono gli ucraini che soffrono degli stessi difetti dei russi: le linee si sono allungate ed è difficile mantenerle sotto il fuoco a ripetizione dei russi.

La Russia probabilmente ha rafforzato il Vovchansk-Kupyansk-Izyum-Lyman con elementi del 20° esercito di armi combinate (CAA). Fonti russe hanno riferito che elementi non specificati della 20a CAA russa e "sottounità individuali di altre formazioni" stanno conducendo la difesa a Lyman e che elementi della 144a divisione di fucili a motore (della 20a CAA) stanno difendendo il fiume Oskil e Svatove, nell'oblast di Luhansk, contro gli attacchi ucraini.[32] Le precedenti descrizioni russe delle forze russe che difendevano Lyman menzionavano i distaccamenti della BARS dalla riserva dell'esercito di combattimento speciale russo e in particolare non menzionavano elementi della 20a armata combinata. L'attuale forza e composizione di questi elementi della 20a armata di armi combinate non sono chiare.

Fonti russe hanno affermato che le forze ucraine continuano a condurre attacchi a nord di Kupyansk attraverso il fiume Oskil. Fonti russe hanno riferito che le forze ucraine hanno iniziato ad avanzare da Horobivka e Dvorichna in direzione di Tavil'zhanka (18 km a nord-est di Kupyansk) il 25 settembre e sono riuscite a stabilire un punto d'appoggio non specificato vicino ai binari della ferrovia vicino a Tavil'zhanka.[33]

Le forze ucraine hanno mantenuto la loro campagna di interdizione, prendendo di mira le linee di comunicazione di terra russe (GLOC) e le posizioni chiave. Funzionari militari ucraini hanno riferito che le forze ucraine hanno continuato a prendere di mira ponti e attraversamenti alternativi emergenti sul fiume Dnipro.[35] Le forze ucraine hanno continuato a prendere di mira le posizioni russe nella città di Kherson e, secondo quanto riferito, hanno colpito un obiettivo non specificato di Rosgvardia all'interno della città.[36] Fonti ucraine e russe hanno anche riferito che un attacco ucraino in un hotel nella città di Kherson ha ucciso un collaboratore ucraino, Oleksiy Zhuravko.[37] Funzionari ucraini e rapporti sui social media hanno notato che le forze ucraine hanno colpito un convoglio militare, abbattuto un aereo d'attacco Su-25 e distrutto un magazzino di munizioni e un posto di comando a Beryslav Raion.

Fonti ucraine e russe hanno identificato tre aree di attività cinetica: a sud del confine tra Kherson e Dnipropetrovsk Oblast, vicino alla testa di ponte ucraina sul fiume Inhulets e ad est della città di Mykolaiv. Le forze ucraine e russe si sono scambiate dichiarazioni di tentativi di ricognizione falliti nell'area di Arkhanhelske, a sud del confine tra Kherson e Dnipropetrovsk Oblast e lungo il fiume Inhulets.[40] Lo stato maggiore ucraino ha anche osservato che le forze russe hanno colpito posizioni ucraine a Potomkyne e Osokorkivka, mentre il ministero della Difesa russo ha anche affermato di aver colpito un posto di comando ucraino a Vysokopillya e posizioni a Osokorkivka. [41] Il ministero della Difesa russo ha affermato di aver preso di mira con successo le forze ucraine a Bezimenne (circa 13 km a sud-est della testa di ponte) e di aver distrutto gli UAV ucraini su Davydiv Brid sull'autostrada T2207.[42] Tuttavia, filmati geolocalizzati mostravano le forze ucraine che lanciavano esplosivi sull'equipaggiamento militare russo a Davydiv Brid.[43] Un blogger russo ha affermato che le forze russe stanno continuando a prendere di mira le posizioni ucraine a est della città di Mykolaiv.[44]

 Zelensky e gli Alleati Occidentali non si aspettavano la mossa di Putin.

Putin si rese conto del pericolo che incombeva, perchè la sua linea del fronte faceva fatica a stabilizzarsi a causa del panico crescente che faceva sbandare i reparti. Così il 21 settembre indiceva il REFERENDUM sui 4 OBLAST OCCUPATI, allo scopo di inglobarli nella Russia, a prescindere dalle condanne occidentali, rendendoli quindi parte attiva e partecipa della NUOVA DOTTRINA RUSSA DI DIFESA, che prevede l'USO DI ARMI NUCLEARI TATTICHE, ovvero con una potenza distruttiva leggermente inferiore ALL'ARMA STRATEGICA. Ora gli Occidentali rimangono in attesa di vedere quale saranno le vere dimensioni del RICHIAMO ALLE ARMI PARZIALI voluto per difendere i nuovi territori. ALLO STESSO MODO ATTENDONO I RUSSI, i quali vogliono vedere quali saranno le gittate dei cannoni ucraini , PER AVERE L'AGOGNATO PRESTESTO DELL'UTILIZZO DELL'ARMA ATOMICA DI RISPOSTA. "

Ciò significa, considerando la dottrina d’impiego russa delle armi atomiche recentemente aggiornata dal Cremlino, che in caso di “minaccia vitale” all’integrità della Federazione, Mosca potrebbe ricorrere a un primo attacco nucleare tattico come ultima ratio, che, possiamo dirlo con elevata certezza, sarebbe un singolo colpo per avere parimenti eguale effetto dimostrativo e operativo.

Andando a leggere il nuovo documento russo che regola l’uso di armamenti atomici, è interessante ai nostri fini ricordare l’articolo 17 comma D, che sostiene la possibilità di utilizzare ordigni atomici qualora avvenga un’aggressione alla Federazione Russa con l’uso di armi convenzionali quando l’esistenza stessa dello Stato è minacciata. Questo passaggio risulta alquanto aleatorio, in quanto non è possibile definire con esattezza il grado di minaccia per l’esistenza dello Stato: la perdita del Donbass o della Crimea sarebbe vista come minaccia esistenziale? Probabilmente sì, ma non ne abbiamo la certezza in quanto si tratta di meccanismi non automatici soggetti all’interpretazione della politica di governo. "

Se infatti Mosca dovesse decidere per un primo uso di un ordigno atomico tattico, la Nato si troverebbe davanti a un dilemma non indifferente: rispondere con una reazione “uguale e contraria” oppure limitarsi all’azione nel campo della diplomazia internazionale con l’aggiunta di maggior sostegno militare a Kiev?

Premesso che la Russia alzando l’asticella dello scontro sino al livello nucleare ne verrebbe ritenuta unica responsabile agli occhi del mondo e quindi quasi istantaneamente otterrebbe il risultato di essere ancora più isolata in ambito internazionale, possibilmente mettendo a dura prova anche l’amicizia con la Cina – che più volte ha dimostrato di mal sopportare il conflitto in Ucraina – o il partenariato commerciale con l’India, ora più che mai vitale, il rischio per la Nato (e quindi nella fattispecie gli Stati Uniti) è insito nel dare una risposta che da altri attori internazionali verrebbe letta come debole, quindi sdoganando l’uso di armi nucleari.Vogliamo essere molto chiari: stiamo dipingendo il peggiore tra tutti i possibili scenari, ma è qualcosa che in analisi e predizione/previsione del rischio si deve tenere in considerazione. Del resto c’è stato almeno un precedente, se pur di ordine di grandezza molto inferiore: il frettoloso ritiro statunitense dall’Afghanistan ha sollevato molti dubbi, in Estremo Oriente, sulla reale intenzione di Washington di ergersi a difesa di Taiwan oppure dello stesso Giappone. Senza considerare che lo stesso meccanismo si è visto anche più di recente e proprio nell’intorno russo: il rifiuto di Mosca di intervenire per porre fine ai recenti attacchi azeri in Nagorno Karabakh come richiesto dall’Armenia secondo i principi del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto) ha portato con sé la definitiva decisione del Kazakistan di uscire dallo stesso a partire dal 2023.

LA risposta statunitense è l'invio dei carri Abrams e dei T-55 sloveni modificati con la solita triangolazione occulta tedesca....

Le considerazioni riguardanti l’invio di possibili armi offensive – come potrebbero essere gli Mbt – a un Paese belligerante che avevano caratterizzato il dibattito politico europei nei primi mesi di guerra sembra però che siano state accantonate: sappiamo infatti che la Slovenia ha annunciato di essere pronta a consegnare all’esercito ucraino circa 28 M-55S (la versione modernizzata dei vecchi T-55) in cambio del trasferimento dalla Germania di 40 nuovi veicoli militari da trasporto.

Sebbene il T-55 non sia sconosciuto al personale ucraino, la sua modernizzazione ha comportato l’adozione di nuovi sistemi di bordo, che quindi richiedono adeguata formazione del personale per il loro utilizzo al meglio. La notizia diffusa dal governo sloveno nella giornata del 19 settembre, fa quindi ritenere che, in realtà, l’addestramento degli equipaggi ucraini sia stato già ultimato o stia per esserlo. Gli M-55S, modernizzati negli anni ’90, hanno ricevuto un cannone da 105 millimetri standard Nato al posto degli originali D-10T da 100 millimetri e hanno sistemi di controllo del fuoco e ottiche nuove, oltre alla possibilità di essere equipaggiati con corazzatura reattiva.

Se a prima vista può sembrare folle inviare in Ucraina la versione migliorata di un T-55 per affrontare i T-72 e i (pochi) T-80 e 90 russi, bisogna ricordare che anche l’esercito di Mosca ha schierato in combattimento i vecchi T-62 prelevandoli dai depositi di seconda e terza linea, e dalle immagini che ci sono giunte da osservatori occasionali, si può notare come buona parte di essi non abbia subito lavori di modernizzazione.

La mobilitazione parziale ha scaraventato la Russia ufficialmente in guerra a 34 anni dall'Afghanistan.

Con l’entrata ufficiale dell’intero paese in guerra, contro l’Ucraina e il suo sponsor – il blocco occidentale –, giungono al capolinea la farsa dell’operazione militare speciale e la Pax putiniana che, per ventidue anni, aveva permesso ai russi di vivere da free rider. Beneficiari in termini economici e di sicurezza dell’assertiva politica estera del Cremlino, alla quale però non partecipavano e che osservavano, anzi, con un certo distacco.

La Pax putiniana, il contratto sociale post-eltsiniano siglato tra Vladimir Putin e la società nel 2000, è venuta meno con l’annuncio della mobilitazione parziale. Che implicherà una trasfigurazione del sistema economico a supporto dello sforzo bellico e, soprattutto, l’ingresso della guerra nelle case dei russi. Non più come un sentito dire nei talk show, ma come lettera di richiamo al servizio. Una differenza di sostanza, oltre che di forma, che alza la posta in palio del conflitto – sottoponendo l’Ucraina (e l’Occidente) a maggiori pressioni – e che, allo stesso tempo, rischia di aggravare le tensioni sociali in lungo e in largo la Federazione.

Le letture catastrofistiche e disfattistiche lasciano il tempo che trovano, che è un tempo privo di memoria e astruso, perché la storia insegna che piazze in agitazione e fughe all’estero sono fenomeni tipici di ogni paese che entra in guerra. Oggi è il turno della Russia, come ieri lo è stato dell’Ucraina – testimone di una (dimenticata) emorragia umana all’indomani della proclamazione della mobilitazione generale – e l’altroieri lo è stato degli Stati Uniti – casa di proteste partecipate da milioni di persone durante le guerre in Vietnam e in Iraq. Fisiologia della guerra, non per forza produttrice di effetti politicamente rilevanti.

Non sopravvalutare. Perché dalla Russia, numeri alla mano, sta principalmente emigrando via aereo l’élite del ceto medio-alto e di estr

azione liberal-borghese – i cui facoltosi membri possono permettersi di pagare fino a 10000 dollari per un biglietto di sola andata verso Doha o Dubai – e, secondariamente e via terra, una piccola marea di cervelli, giovani e famiglie ordinarie.

Non sottovalutare. Il fenomeno di resistenza alla mobilitazione è ai primordi e, per quanto caratteristico di ogni paese ed epoca storica, potrebbe avere dei riverberi politicalmente rilevanti nel prossimo futuro. Un po’ perché la Pax putiniana è venuta meno, e ciò obbligherà la società a riflettere sul proprio ruolo e sui propri desideri – passivo adattamento o richiesta di cambiamento –, e un po’ perché, a differenza del passato, la reticenza è trasversale, accomunando slavi e minoranze, giovani e adulti. La stabilità sociale della Russia appesa a un filo chiamato guerra in Ucraina.

Il Macellaio di Mariupol a capo della logistica russa

In una fase di mobilitazione delle truppe con la guerra sostanzialmente paralizzata, modificare l’assetto della logistica, che è stata considerata per molto tempo il vero tallone d’Achille dell’avanzata russa, è un segnale da non sottovalutare. La Russia ha mostrato enormi lacune nel campo della logistica, dei rifornimenti e dell’organizzazione dei convogli sin dalle prime settimane di invasione, quando si sono palesati problemi anche nella catena che collegava il territorio russo alla linea del fronte. La scelta di sostituire Bulgakov conferma la necessità di un cambio di passo che corre in parallelo alla volontà di Putin di imprimere una svolta netta al conflitto.

Infine, è interessante anche il fatto che sia stato promosso un uomo, Mizintsev, che ha guidato una delle più importanti vittorie dell’esercito russo (appunto l’assedio alla città martire di Mariupol), che ha coordinato un altro assedio a Severodonetsk e che a suo tempo si era già reso noto per la conduzione delle operazioni ad Aleppo, in Siria. Mizintsev può essere considerato, a oggi, uno dei pochi comandanti ad avere ottenuto risultati che per Putin possono essere visti non solo come tangibili ma anche realmente utili alla sua “operazione militare speciale”. 

La seconda risposta statunitense: i missili anti radar

Ora siamo venuti a sapere che ci sono voluti solo un “paio di mesi” agli appaltatori della Difesa Usa per equipaggiare i caccia MiG-29 “Fulcrum” e Su-27 “Flanker” ucraini con gli Agm-88, grazie alle dichiarazioni rilasciate il 19 settembre dal capo delle forze aeree statunitensi in Europa. “È stato un vero sforzo”, ha detto il generale James Hecker durante una conferenza dell’Air Force Association. “Ci sono alcuni dei primi appaltatori che sono stati in grado di renderlo possibile. Ora [il missile n.d.r.] è integrato come su un F-16? Ovviamente no. Quindi non ha tutte le capacità che avrebbe come su un F-16”.

La questione può sembrare del tutto marginale nel più ampio contesto del conflitto ucraino, ma così non è. Innanzitutto le caratteristiche del missile lo rendono un’arma particolarmente temibile sul campo di battaglia: l’Agm-88 è un vettore ad alta velocità aria-superficie (ma Israele ha effettuato sperimentazioni per il lancio da piattaforme terrestri mobili) progettato per cercare e distruggere i sistemi di difesa aerea dotati di radar. L’Harm può rilevare, attaccare e distruggere un bersaglio con il minimo input da parte dell’equipaggio: il sistema di guida si concentra sulle emissioni radar del nemico utilizzando un’antenna fissa e una testa di ricerca nel muso del missile. Attualmente l’F-16C è l’unico aereo nell’inventario dell’U.S Air Force ad utilizzare il missile, che però viene usato anche dall’Aeronautica Militare Italiana e dalla Luftwaffe tedesca sui Tornado ECR e presto lo vedremo a bordo anche degli F-35A.

In combattimento, l’unica misura efficace per evitare di essere colpiti dal missile (eccezion fatta l’abbattimento prima del lancio dei caccia che lo trasportano) è lo spegnimento dei radar da difesa aerea: questa tattica però può avvantaggiare comunque l’aeronautica ucraina, in quanto, come detto dal generale Hecker, “anche se non ottieni l’eliminazione cinetica, puoi ottenere la superiorità aerea locale per un periodo di tempo in cui puoi fare ciò che devi fare”. Sempre che, ovviamente, i MiG-29 o Su-27 di Kiev non vengano intercettati dai caccia russi.

La vera notizia di settembre è passata inosservata

Negli stessi momenti in cui Putin, il 21.9.22, annunciava in un messaggio alla nazione la fine del camuffamento dell’operazione militare speciale, decretando l’avvio dell’attesa mobilitazione parziale, nel cuore mackinderiano dell’Asia profonda avveniva qualcosa di geoeconomicamente significativo: l’inaugurazione di una nuova rotta commerciale, di tipo multimodale, unente i mercati del rinato Impero celeste e di ben tre –stan.

Della rotta Cina-Kirghizistan-Uzbekistan-Afghanistan si discuteva da tempo, trattative e preparativi avevano costellato il 2021, ma è stato soltanto con lo scoppio della guerra in Ucraina che le parti hanno sveltito i lavori al banco negoziale, benedicendo la partenza sperimentale del primo carico di merci alla vigilia del vertice di Samarcanda. Partenza in sordina, curiosamente, di cui i giornali hanno cominciato a parlare soltanto a partire dal 21 settembre.

La tratta, la cui efficienza nella riduzione dei tempi e dei costi di trasporto verrà testata nel corso di un periodo di prova della durata di tre mesi, è stata costruita su richiesta esplicita di Biškek e Taškent, desiderose di ridurre la loro dipendenza commerciale e infrastrutturale da Mosca, e dovrebbe consentire il transito annuale di circa quattromila container.

La rotta – al momento stradale – potrebbe essere affiancata, qualora il comitato di giudici le desse pieni voti, da una serie di linee ferroviarie confluenti, in grado di unire lo Xinjiang al Pakistan via Kirghizistan, Uzbekistan e Afghanistan, permeando l’intera regione dell’olezzo della Belt and Road Initiative. Terrorismo, pressioni di rivali e dispute territoriali, si intende, permettendo.

L’impantamento russo fa gola a molti

La guerra in Ucraina, a meno di radicali inversioni di tendenza, potrebbe rivelarsi il rischio calcolato male di Putin. E non è soltanto per il lancio di nuove rotte commerciali sino-centriche in Asia centrale, ma per l’insieme degli eventi provocati e/o catalizzati. La definitiva ascesa di Pechino quale leader incontrastato dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai, palesata in occasione del vertice di Samarcanda – protagonizzato da Xi Jinping per quantità e qualità di accordi siglati e per spirito di iniziativa. Il divenire del Caucaso meridionale un condominio turco-russo sempre più esposto alle manovre destabilizzatrici di Ankara e Washington. L’addormentamento dell’autonomia strategica europea, unica speranza per Mosca (e Bruxelles) di impedire la trasformazione dell’Unione Europea in un 51esimo stato sito nell’estremità occidentale dell’Asia. Le tensioni crescenti con gli –stan, in particolare con l’indispensabile Astana.

 

 

 

 

 

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 LA GUERRA D'UCRAINA DAL 1 LUGLIO 2022 AL 27 SETTEMBRE 2022

Il 12 maggio 2022, Vi relazionavamo sulla grave situazione dell'esercito Russo in Ucraina, sull'allarme dato dai vertici della Wagner che parlavano dell'incombente necessità di reclutar più uomini, almeno un milione, per andare a mettere una toppa in un gorgo nero ucraino. A furia di cannonate e grazie alla capacità russa di ovviare all'inferiorità numerica concentrando il fuoco su una linea abbastanza vicina e corta, il 1 luglio 2022, l'Armata Russa conquistava tutto il Donbass, eccezion fatta per la parte centro meridionale del Donetsk. Tuttavia a quel punto, come le linee incominciarono ad allungarsi, la catena dei rifornimenti russi iniziò immediatamente a mostrare sfilacciamento e farraginosità, subito sfruttate dagli ucraini che attraverso l'invio di cospique armi da parte degli Usa e della Gran Bretagna, attraverso l'analisi di intelligence occidentale, riusciva immediatamente ad interrompere l'avanzata ed a contrattaccare in due punti: il sud ovvero Kerson, allo scopo di spostare ivi parte dell'Armata da parte dei russi, in modo da scatenare a nord, a Kharkhiv, una fulminea offensiva che costrinse i russi, dal 6 al 16 settembre, a sgomberare l'intero Oblast e ripiegare sul fiume Oskil nel Luhansk, allo scopo di non essere insaccati. La ritirata non si è trasformata in rotta perchè ora sono gli ucraini che soffrono degli stessi difetti dei russi: le linee si sono allungate ed è difficile mantenerle sotto il fuoco a ripetizione dei russi.

 

 

L’Inter ci ha messo tanto ad arrivare fino a qui, a tornare grande, rivincere lo scudetto. Lo deve soprattutto ad Antonio Conte. E ai bistrattati cinesi, perché sono loro ad aver ricostruito il club dalla macerie. Dopo la gioia per lo scudetto, però, rimane un’angoscia di fondo: i nerazzurri hanno tutto per continuare a vincere, ma resta lo spauracchio di un addio del tecnico e di una smobilitazione.

 

Undici, lunghissimi anni. Tre proprietà diverse, da Moratti a Suning, passando per Thohir. Addirittura 15 allenatori, calciatori neanche a contarli, svariate rifondazioni, delusioni in serie, a volte proprio figuracce, brevi illusioni di rinascita (come le cavalcate iniziali di Stramaccioni e Mancini) e rovinose cadute, sofferte riconquiste (il ritorno in Champions con Spalletti) e ancora sconfitte (la finale di Europa League dell’anno scorso). Alla fine, la gioia. L’Inter ci ha messo tanto ad arrivare fino a qui, a tornare grande, rivincere lo scudetto. Lo deve soprattutto ad Antonio Conte. E ai bistrattati cinesi, perché sono loro ad aver ricostruito l’Inter dalla macerie. Adesso che però il titolo è in bacheca, il dominio della Juventus sulla Serie A è spezzato, l’incubo finito, rimane un’angoscia di fondo, una serie di domande assillanti a rovinare la festa nerazzurra: Conte resterà o se ne andrà? La rosa verrà rinforzata o smantellata? Suning venderà e a chi? Insomma, questo scudetto sarà il primo di una lunga serie, l’inizio di un nuovo ciclo, o solo il canto del cigno, prima di un altro declino?I tifosi oggi dovrebbero solo gioire. L’Inter ha vinto. E avrebbe tutto per continuare a farlo. Innanzitutto è la squadra nettamente più forte, come dimostra il distacco sulle rivali. Poi è una squadra giovane: l’età media di 28,1 anni per l’undici titolare, la terza più vecchia di tutto il campionato, inganna. La alzano sensibilmente Handanovic, e poi i vari Young, Vidal, Kolarov, l’usato sicuro preteso da Conte per dare esperienza, ma in realtà l’ossatura, che è quella che conta, non supera i 25 anni: da Skriniar a Bastoni, passando per Barella e Hakimi, e poi Lukaku-Lautaro, coppia del presente e del futuro, c’è un telaio già pronto e buono per almeno 5 anni a venire, che va solo potenziato. Persino dal punto di vista contabile l’Inter non sarebbe messa troppo male: al netto degli imbarazzi societari dei cinesi, può contare su un ricco parco calciatori, non ha grossi riscatti da onorare e prima delle perdite dovute al Covid cominciava a mostrare un trend in miglioramento.Tutto questo in un panorama generale in cui le rivali annaspano: la Juventus dovrà affrontare una rivoluzione tecnica e forse anche societaria, il Milan se manca ancora l’ingresso il Champions si ridimensiona nuovamente, l’Atalanta è una realtà meravigliosa ma di una dimensione oggettivamente inferiore, Roma e Napoli hanno progetti interessanti ma sono le incognite di sempre. Non serve molto per proseguire il cammino. Certo, i vari Psg, City, Bayern viaggiano su un altro pianeta, dove si fanno investimenti impensabili in questo momento. Ma per puntare a vincere ancora in Italia ed essere competitivi in Europa basterebbe puntellare e allungare la rosa, 3-4 giocatori, uno per reparto, magari un innesto davvero di qualità come fu Hakimi l’estate scorsa.Poi però c’è quello che succede fuori dal campo. C’è una proprietà distante, inaccessibile, legata a doppio filo al governo cinese che ha deciso di smobilitare gli investimenti sul pallone. C’è la prospettiva di un mercato a saldo zero, che vuol dire nessun rinforzo, o peggio ancora cessioni pesanti per finanziare gli acquisti. C’è lo spauracchio dell’addio di Conte (uno che non si è mai fatto problemi ad andarsene sbattendo la porta, se non ha ciò che vuole) e persino di Marotta. Il sogno che finisce proprio quando inizia, dopo tutta la fatica fatta per arrivare fino a qui. Nel suo discorso di festeggiamento, alla domanda sul futuro il presidente Zhang ha parlato della missione dell’Inter di portare “energia positiva” alle persone. Sarebbe stato meglio dare una semplice garanzia sull’intenzione di non smantellare la squadra. L’ultima volta che l’Inter ha vinto, fu la conclusione di un ciclo, quello del Triplete di Mourinho, straordinario e irripetibile, che infatti non si è ripetuto. Adesso ci sono le condizioni per aprirne un altro. O per ripetere la stessa storia.

 

Ceferin su Agnelli:"UNA FACCIA DI MERDA!!"Cairo su Marotta:"Uno schifoso traditore asservito agli interessi della Cina comunista!!"

 

 
 

 


 

L'Inter e quelle lacrime sulla sconfitta col Cagliari del 1974

Il tifo per Mazzola, la fotografia firmata da Boninsegna e quel calcio sognato aspettando Novantesimo Minuto

“A Milano, Cagliari batte Inter uno a zero…”. Era il tardo pomeriggio di lunedì 21 gennaio dell’anno 1974. Era un lunedì e non so dire perché si fosse giocato il campionato proprio quel giorno. Era ben lontano nel futuro il tempo del calcio spezzatino televisivo, ma tant’è, Paolo Valenti elencando i risultati del campionato di Serie A in apertura di “Novantesimo minuto” mi aveva appena rovesciato addosso la più inaspettata débâcle casalinga della mia Inter. Non avevo ancora compiuto 10 anni, ignoravo del tutto l’esistenza delle radiocronache. Così, ogni santa domenica con qualche rara eccezione, come quell’infausto lunedì, ripetevo il masochistico rito di aspettare trepidante davanti alla tv “Novantesimo”  per apprendere cosa avesse fatto la mia squadra del cuore. Da bravo bambino, la mattina andavo anche al catechismo e subito dopo a messa, onestamente più per dovere che per autentico credo. Qualcosa di simile alla fede, allora, era racchiuso solo in quei due colori, il nero e l’azzurro.

Ebbene, quel lunedì di 45 anni fa la mia fede calcistica vacillò davvero, perché quel risultato, Inter-Cagliari 0-1, al ritorno a scuola il giorno dopo mi avrebbe esposto a qualcosa di molto simile alla gogna. Pur non essendone originario, stavo crescendo in un paesino del Sud, lontano da grandi centri urbani e squadre locali di autentico riferimento. I ragazzini erano automaticamente portati a innamorarsi dei grandi club del Nord, perché vincevano. E siccome a nessuno piace perdere, era chiaro perché quasi tutti i miei coetanei fossero juventini. La Juventus, anche allora, era garanzia di successo. Costante, prevedibile, certo. Anche Inter e Milan erano club di grandissimo prestigio, nel decennio precedente avevano dominato il calcio europeo e mondiale. Ma di quei trionfi, a chi era bambino nei primi anni Settanta, arrivava solo un’eco dal passato. Il presente di Inter e Milan era racchiuso in un’unica parola: decadenza, per l’inevitabile parabola discendente dei loro campioni e la lunga attesa per un ricambio generazionale all’altezza di chi era stato mito.

Perché non era prevalso anche in me l’istinto di sopravvivenza, in questo caso il puro calcolo delle probabilità di successo rispetto all’andare incontro a sofferenza certa? Ancora oggi non so darmi una risposta. L’Inter aveva vinto il suo ultimo scudetto nel 1970-71, quando ero ancora troppo piccolo per viverlo con consapevolezza. Forse il gusto estetico: per me la maglia dell’Inter è la più bella del mondo. O il fresco clamore dei Mondiali di Mexico 70 e il gran parlare del dualismo tra Mazzola e Rivera. Il “Baffo” mi sarà stato più simpatico. “Papà, in che squadra gioca?”. O forse un inconscio desiderio di contrapposizione con un ambiente di cui faticavo a comprendere anche la lingua, col risultato di fraintendimenti continui e tante scazzottate. Allora, petto in fuori e “io sono dell’Inter”.

“Petto in fuori”, per l’intero decennio dei 70 l’Inter aveva in serbo per me solo dolori. Con la Juve si perdeva quasi sempre, in casa e fuori. Col Milan ci si dividevano i derby, ma fu un colpo durissimo la sconfitta patita ad opera dei cugini nella partita in cui ci si giocava davvero qualcosa, la finale di Coppa Italia 1976-77: Rivera, all’ultimo confronto con un Mazzola al passo d’addio, pennellò un assist perfetto per Maldera, Braglia chiuse i conti con un fulminante contropiede nel finale di partita. Nel frattempo io mi avviavo a diventare un fuoriclasse nella giustificazione dei fallimenti, nella ricerca del rigore non concesso, dello sbaglio dell’arbitro, della sfortuna delle occasioni mancate. La verità era che la grande Inter non c’era più e io avevo scelto il tempo più sbagliato per diventarne tifoso.

Lunedì 21 gennaio del 1974 mi ero illuso di poter vivere una giornata calcistica tranquilla. Il Cagliari di Gigi Riva era ormai l’ombra della squadra che Manlio Scopigno aveva condotto a uno storico scudetto nel campionato 1969-70. Ora l’allenatore dei sardi era Beppe Chiappella, che più tardi avrebbe onorevolmente servito anche la causa nerazzurra. Riva era ancora in campo dopo le resurrezioni seguite a infortuni terribili, ma viveva il suo personale crepuscolo lottando con i compagni per evitare la retrocessione in B. A Milano invece era tornato in panchina nientemeno che Helenio Herrera, il “mago” dell’Inter che dieci anni prima diventava euromondiale mentre io venivo al mondo. Di quella squadra leggendaria, erano ancora titolari Mazzola, Facchetti e Burgnich.
Prima di Inter-Cagliari, l’illusione di un ritorno alla gloria del passato era ancora viva solo negli ottimisti a tutti i costi, come me. Dopo quei 90 minuti non se ne trovò più traccia. Il Cagliari aveva resistito all’assalto nerazzurro, le frecce spuntate dell’attacco interista, l’ex cagliaritano Roberto Boninsegna, Peppiniello Massa e Carlo Muraro, erano rimbalzate sui guanti di Enrico Albertosi. Finché, al 76mo minuto, proprio Gigi Riva aveva bucato quelli di Ivano Bordon con un tiro da fuori area, credo su calcio di punizione dal limite. Ed io, il fuoriclasse degli alibi quando si trattava di motivare la sconfitta contro Juventus o Milan, non ero preparato a una tale rovinosa caduta. Valenti a Novantesimo non aveva neanche terminato la lettura dei risultati che la mia mente era già proiettata al domani. Immaginai il ritorno a scuola e l’impietosa presa in giro per la quale, in quello stesso istante, tutti i miei compagni di scuola juventini e milanisti si stavano fregando le mani. Ebbi un crollo emotivo e piansi.

“Ma stai piangendo?”. Era la voce di mio padre. Fui assalito dal pudore, non ebbi il coraggio di rispondere, trattenni i singhiozzi e mi sforzai di ricompormi. Non riuscii a essere sincero con mio padre, non lo credevo in grado di comprendere la portata del dramma esistenziale in cui quell’Inter-Cagliari 0-1 mi aveva sprofondato. Perché mio padre era l’adulto più distaccato dal calcio che io conoscessi. Seguiva Novantesimo soltanto per verificare i risultati sulla schedina del Totocalcio. Lui non studiava le partite per indovinare il risultato. Nelle due colonne allineava sempre sempre la stessa sequenza di uno, due, ics ed era felice quando scopriva di aver puntato su esiti contrari alla logica. Se la dea bendata del pallone un giorno lo avesse assistito, avrebbe incassato la vincita milionaria che gli avrebbe cambiato la vita. Un agnostico del calcio, non poteva capire.

E invece no, la realtà era molto diversa. Mio padre era stato un bambino esattamente come me. Appassionato di calcio, tifoso della Roma e stregato dal Grande Torino. Scoprii anni dopo con quale cura avesse custodito una ingiallita copia del “Calcio Illustrato”, un numero monografico dedicato proprio al più grande undici della storia granata consegnato alla leggenda dal disastro aereo di Superga. Fu la vita a strappare via l’innocenza di mio padre, proprio quando aveva la mia età, dieci anni. Nel 1938 si trovò improvvisamente senza papà. Il nonno era morto nella catastrofe che devastò uno stabilimento chimico destinato in epoca fascista alla produzione di esplosivi. C’era stata una prima deflagrazione, lui fu tra i primi ad accorrere in soccorso degli operai rimasti intrappolati tra il fuoco e le macerie, fu investito da una seconda esplosione.

La tragedia familiare e la guerra cambiarono mio padre e il suo destino. Oltre a essersi preso la vita di mio nonno, quello stabilimento chimico fu obiettivo di martellanti bombardamenti. Con la comunità sfollata, papà percorse più volte chilometri di campagna disseminata di orrori per scambiare qualcosa con carne e uova al mercato nero. Nei suoi occhi di ragazzo rimasero impressi non solo cadaveri in divisa e mostrine, anche la meschinità e la disonestà di cui può essere capace l’essere umano in tempi difficili. Con questo fardello, terminato il conflitto e primo figlio maschio, prese la via dell’emigrazione. Dopo dieci anni di Brasile, tornò per rivedere sua madre e non ebbe la forza di lasciarla ancora. Ma non restò in paese. La sua storia di emigrazione continuò in Italia, finché un giorno, da marito e padre, non decise di fermarsi in quel paesino del Sud. Dove ogni sabato avrebbe giocato la stessa schedina, sperando nella vincita che avrebbe cambiato quella sua difficile vita.

Dunque, anche mio padre era stato un bambino, solo meno fortunato di me. E quel pomeriggio del 21 gennaio di 45 anni fa, aveva compreso le mie lacrime. Di fronte al mio chiudermi a riccio non aveva insistito. Ma non aveva lasciato cadere la cosa, come scoprii con grande sorpresa qualche mese dopo.

Era un assolato giorno di primavera, il dolore di Inter-Cagliari 0-1 era ormai metabolizzato e l’Inter, affidata alla guida di Enea Masiero dopo l’improvviso ricovero di Herrera, era protagonista di un finale di stagione scoppiettante, impreziosito da un derby vinto addirittura per cinque a uno. Quel giorno tornavo a casa dopo la scuola particolarmente soddisfatto. Avevo la tasca del grembiule piena di figurine: in una bustina avevo trovato quella, rarissima, di William Vecchi, proprio il portiere del Milan che aveva raccolto cinque palloni in fondo al sacco. Lo avevo scambiato senza esitazioni (mai completato un album in vita mia) e ne avevo ricavato un bel pacco di doppioni senza valore ma perfetti per giocare sui marciapiedi con gli amici.

Affamato, mi sedetti a tavola davanti a un piatto di minestra fumante. “Non ti sei accorto di nulla?” sentii dire a mio padre, illuminato da un sorrisetto furbo. Lo guardai perplesso. Lui mi fissò e con lo sguardo mi rivolse un chiaro invito a scrutare sotto il piatto. Toh, una busta da lettera arancione. “Che cos’è?”. “Apri e guarda”. Aprii e guardai. Dentro c’era una foto. La estrassi con delicatezza. Uno scatto in bianco e nero. Un calciatore dell’Inter fissava l’obiettivo finendo col guardarmi negli occhi, in una posa che simboleggiava il suo ruolo di bomber: le braccia infilate tra le maglie di una rete da calcio. Sulla foto l’autografo vergato con un pennarello blu: “Roberto Boninsegna”. Dietro, il timbro del fotografo ufficiale dell’Inter, Marco Ravezzani.

Non so quanto tempo restai a osservarla. Devono essere stati lunghi minuti di felicità, se quando distolsi lo sguardo dalla foto per rivolgerlo verso mio padre la minestra non fumava più e il colpaccio delle figurine nemmeno lo ricordavo. Quel pomeriggio del 21 gennaio, commosso dal mio pianto di piccolo tifoso innocente e impotente, il mio papà aveva preso carta e penna per scrivere una lettera che avrebbe spedito all’indirizzo “Inter, Milano”, raccontando l’accaduto. Credevo che il mio papà non mi capisse, invece sapeva tutto del mio tifo per l’Inter e del conto da pagare all’amore per una squadra di calcio. Sapeva persino chi fosse il giocatore che ammiravo di più, Boninsegna.

Centravanti piccolo e robusto, combattivo, il "Bonimba" era dotato di spiccate doti acrobatiche e grande elevazione, i suoi gol di testa erano sempre capolavori di tempismo, potenza e bellezza. Capocannoniere con l’Inter campione d’Italia 1970-71, Boninsegna resta nella storia dell'Inter e nell'epica del calcio europeo anche per la lattina che lo centrò alla testa negli ottavi di finale della Coppa Campioni 1971-72 in casa del Borussia Moenchengladbach. Il match si trasformò in una corrida e finì 7-1 per i tedeschi (prima di andare ko e abbandonare la sfida Boninsegna aveva segnato il gol del momentaneo pareggio). Grazie al fattaccio della lattina l'Inter ottenne la ripetizione, vinse a San Siro 4-2 (altro gol di Boninsegna) e passò il turno pareggiando 0-0 la replica dell'andata, giocata stavolta a Berlino. Il cammino europeo dell'Inter sarebbe proseguito quell'anno fino alla finale, persa per 2-0 contro l'Ajax a Rotterdam, il 31 maggio 1972. Ma Boninsegna fu anche l'uomo che servì a Rivera la palla del 4-3 alla Germania nella leggendaria semifinale dei Mondiali in Messico del 1970, oltre a segnare l'unico gol azzurro, l'illusorio pareggio, nella finale stravinta per 4-1 dal Brasile di Pelè.

Guerriero di mille gloriose battaglie, Boninsegna era entrato nel mio cuore e nella mia fantasia. E ora era lì, tra le mie dita, che mi fissava infilando le mani nella rete. Così Inter-Cagliari 0-1, una sconfitta, è diventata la mia “partita della vita”. Perché a lei è legato uno dei ricordi più belli e struggenti della mia infanzia. Perché dopo quella batosta qualcuno all’Inter lesse la lettera del mio papà e accontentò la sua richiesta di fare qualcosa per consolare il suo bambino. Se la mia fede nerazzurra aveva vacillato il 21 gennaio del 1974, quel gesto aveva reso “umana” e mi aveva fatto sentire vicina una squadra di calcio che fino a quel momento avevo vissuto solo attraverso una tv in bianco nero da un piccolo paese del Sud. Perché mi ha insegnato che nessun risultato è già scritto e il fallimento non è un destino ineluttabile. Che la tristezza accudisce il seme dell'allegria e i fiori sbocciano anche nel deserto, come un dono miracoloso. Soprattutto, capii che mio padre era il mio miglior amico e lo avrei avuto sempre accanto, nelle piccole e grandi cose della vita.

Nel 1973-74 la Lazio allenata da Tommaso Maestrelli vinse il suo primo campionato, il centravanti biancoceleste Giorgio Chinaglia incoronato capocannoniere con 24 gol, solo uno in più del mio Boninsegna. Anche grazie a quella insperata vittoria a San Siro, il Cagliari si salvò, ma la sua retrocessione era solo rimandata. Accadde al termine della stagione 1975-76, durante la quale Gigi Riva subì l'ennesimo grave infortunio e disse addio al calcio giocato. Nell’estate del 1974 l’Italia di Valcareggi affondò ai Mondiali in Germania e i reduci della finale di Mexico 70, che ancora costituivano l’ossatura della nazionale, compresero che il loro tempo volgeva al termine. Boninsegna avrebbe vinto ancora lo scudetto nel 1976-77, ma con la maglia della Juventus. Albertosi passò al Milan e con Rivera non avrebbe mollato prima di aver consegnato al Diavolo lo scudetto della stella, campionato 1978-79.

Proprio allo scadere del decennio, finalmente Inter. Guidati dall'allenatore Eugenio Bersellini, i nerazzurri risposero ai cugini rossoneri vincendo invece quello che le cronache sportive consegnarono agli annali come lo “scudetto dei giovani”. L'Inter 1979-80 era una squadra formata soprattutto da calciatori cresciuti nel settore giovanile nerazzurro: il portiere Ivano Bordon, i difensori Nazareno Canuti e Beppe Baresi, il libero e capitano Graziano Bini, il velocissimo attaccante Carlo Muraro e il "veterano" Lele Oriali a cui, all'età di 19 anni, era toccata la missione impossibile di marcare sua maestà Johan Cruijff nella finale di Coppa Campioni persa nel 1972. Nel giro di un paio di stagioni si erano perfettamente inseriti giovani talenti emersi dalla serie B, come il centravanti Alessandro “Spillo” Altobelli, il fantasista Evaristo Beccalossi e il tornante Giancarlo Pasinato. Ma il gol del dodicesimo scudetto interista, sigillo al definitivo 2-2 casalingo con la Roma il 27 aprile 1980, lo segnò un reduce: Roberto Mozzini, stopper del Torino campione d'Italia 1975-76.

Fu l’ultimo campionato senza stranieri e la prima vera gioia da interista per sempre. Non ho più pianto per il calcio, nella sconfitta come nella vittoria. Unica eccezione,  il 22 maggio 2010. La Champions e il Triplete, solo lacrime di gioia nella notte che 36 anni prima, disperato davanti alla tv per Inter-Cagliari 0-1, mai avrei immaginato di vivere. Papà era ancora con me. L’alzheimer ormai gli aveva sbriciolato i ricordi, ma nei suoi occhi credetti di scorgere il lampo di una luce che ero io ad aver dimenticato. Forse aveva capito tutto anche quella volta.

 

 

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Giustizia e Impunità

Crack Veneto Banca, cade in prescrizione l’accusa di aggiotaggio a carico dell’ad Consoli. Pm: “Fallimento dello Stato”.

“La prescrizione del reato di aggiotaggio è il fallimento dello Stato”. Il sostituto procuratore Massimo De Bortoli è il pubblico ministero nel processo in corso a Treviso per il crack di Veneto Banca, che ha mandato sul lastrico decine di migliaia di risparmiatori. Con queste parole amare commenta, in una pausa dell’udienza, il fatto che il 26 ottobre uno dei reati di uno dei procedimenti a carico dell’ex amministratore delegato Vincenzo Consoli venga cancellato dal troppo tempo trascorso. “Se avessimo avuto più risorse, il processo si poteva fare prima. Se io, per più di un anno, non avessi dovuto fare il procuratore facente funzioni, si poteva fare prima. Se avessimo avuto più personale amministrativo, più magistrati, si poteva fare prima. Ma se mancano le risorse è evidente che questi sono i tempi. Poi c’è stato il disguido del processo andato e tornato da Roma. È un fallimento dello Stato”.Se uno dei reati cade ora, per gli altri non si tratta che attendere il 25 dicembre e la prescrizione colpirà anche le accuse di ostacolo alla vigilanza e di falso in prospetto. Questi sono i tempi della prescrizione previsti dal Codice che dimostrano di valere come patente di impunità quando i casi sono complessi e le parti civili numerose. In questo caso, poi, gli incartamenti finirono a Roma, che però si dichiarò incompetente, rimandandoli in Veneto. Il magistrato ha spiegato: “A Treviso siamo dieci sostituti su 13 della pianta organica, non abbiamo il procuratore, abbiamo carenza di personale amministrativo e carenze di personale di polizia giudiziaria. Siamo un Tribunale piccolo, anche come giudici. I giudici penali sono troppo pochi e più di così non possono fare. Per poter svolgere questo processo, hanno rinviato udienze al 2023”. De Bortoli aveva lanciato un appello all’inizio dell’anno. “A febbraio avevo chiesto la copertura di due posti da sostituto, non ho avuto risposta. Dovevamo avere di diritto anche un procuratore aggiunto che invece, all’ultimo momento, il ministero ha dato a Venezia che adesso ne ha tre e noi nemmeno uno. Siamo stati bistrattati”.

Intanto il dibattimento continua. Consoli ha dichiarato: “Voglio farmi interrogare per poter replicare alle tante falsità che ho sentito”. L’avvocato Ermenegildo Costabile, che lo assiste, non considera la prescrizione una vittoria: “Tra i miei parametri non c’è l’asticella che dice quando si consuma un’accusa, ci sono altri parametri, ad esempio i testimoni da portare in aula”.

All’esterno del Tribunale ha manifestato un gruppetto di persone, con al collo cartelli con la scritta “Risparmiatore veneto” e “Giustizia negata”. “Dobbiamo commentare con amarezza le tante speranze tradite – dice l’avvocato Andrea Arman, presidente del Coordinamento Don Torta – Dispiace non riuscire a ricostruire la storia vera di questi crac”. E spiega che il Fir, il Fondo indennizzo risparmiatori, a fronte di 100mila pratiche ne ha evase solo 40mila.

Se l’esito di questo primo processo appare segnato, sono aperti altri due filoni. Quello per associazione per delinquere finalizzata alla truffa (da 100 milioni di euro) a carico di un gruppo di manager della banca aveva subìto rallentamenti in estate per l’incapacità dei server di caricare la mole imponente di documenti da notificare alle difese in vista della chiusura delle indagini. Il terzo filone, relativo alla bancarotta fraudolenta, ha teoricamente le maggiori possibilità di evitare la prescrizione, ma è al momento arenato in attesa che la Cassazione decida su un ricorso riguardante la dichiarazione di stato di insolvenza della banca.

 

Ruby-ter, l'assoluzione di Berlusconi chiude il primo troncone. Ecco gli altri processi aperti e le inchieste in corso

Giovedì 21 Ottobre 2021

Per Silvio Berlusconi la sentenza di assoluzione pronunciata questo pomeriggio dai giudici del Tribunale di Siena - con l'ampia formula che il fatto non sussiste in relazione all'accusa di corruzione in atti giudiziari - chiude il primo dei tre processi sul caso Ruby-ter, ossia su quei presunti versamenti a ragazze ospiti delle serate del «bunga-bunga» di Arcore e ad altri testimoni, come il pianista di Villa San Martino Danilo Mariani, anche lui assolto dall'accusa di corruzione in atti giudiziari e condannato nei mesi scorsi solo per falsa testimonianza.

Testi pagati - questa l'ipotesi d'accusa cancellata per ora a Siena - per portare la versione delle «cene eleganti» nei processi sul caso Ruby. Per l'ex premier, però, sono ancora in corso i dibattimenti di altri due filoni, quello principale a Milano e un altro a Roma. Altri guai giudiziari pendenti per il Cavaliere sono il processo a Bari per la vicenda 'escort-Tarantini' e l'inchiesta a Firenze per le stragi di mafia.

La tranche principale dell'inchiesta Ruby ter, chiusa nel 2015 e poi 'spacchettata' per competenza territoriale anche in altre sedi giudiziarie, ha portato al processo che si tiene a Milano davanti alla settima penale, dove vengono contestati al leader di FI pagamenti per circa 10 milioni di euro in totale. Nel dibattimento Berlusconi è imputato con altre 28 persone, tra cui molte 'olgettine', la stessa Karima El Mahroug, ma anche il giornalista Carlo Rossella e la senatrice Maria Rosaria Rossi. Nelle scorse settimane l'ex presidente del Consiglio con una lettera molto dura inviata ai giudici ha rinunciato alla perizia medico legale, disposta dopo l'ennesima istanza di impedimento per motivi di salute, contestando soprattutto gli accertamenti psichiatrici. È quasi conclusa la fase dei testi dell'accusa e il 3 novembre verrà stilato il calendario degli esami degli imputati. Tre giovani, Barbara Guerra, Alessandra Sorcinelli e Marysthell Polanco, si sono dette pronte a dire la «verità» in aula, dopo aver attaccato l'ex premier con dichiarazioni alla stampa.

Il Ruby-ter in corso a Roma

 

A fine maggio la seconda sezione penale del Tribunale di Roma ha stralciato per motivi di salute la posizione del Cavaliere, separandola da quella dell'altro imputato, il cantante e amico storico Mariano Apicella. Secondo l'accusa, Berlusconi avrebbe pagato anche il cantante per indurlo alla falsa testimonianza e la prima dazione di danaro sarebbe avvenuta a Roma. In totale, il musicista napoletano - che aveva partecipato ad alcune serate del 2010 finite al centro del caso Ruby, da cui Berlusconi è poi stato assolto - avrebbe percepito illecitamente 157mila euro per mentire.

Il processo "escort" a Bari

 

Intanto, il 5 ottobre scorso, quasi due anni e mezzo dopo la prima udienza e a oltre 12 anni dai fatti contestati, è ricominciato il processo barese nei confronti di Berlusconi, nel quale è imputato per induzione a mentire, con l'accusa di aver pagato le bugie dette dall'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini (di recente condannato in via definitiva a 2 anni e 10 mesi) nelle indagini sulle escort. Secondo l'accusa, Berlusconi avrebbe fornito a Tarantini avvocati, un lavoro e centinaia di migliaia di euro proprio perché mentisse ai pm baresi che indagavano sulle escort, portate nelle residenze estive dell'ex premier fra il 2008 e il 2009.

 

Le stragi di matrice mafiosa

 

Nei mesi scorsi si è saputo che nuovi accertamenti della Procura di Firenze sono in corso nell'indagine che coinvolge Berlusconi e Marcello Dell'Utri e con al centro le stragi di mafia del 1993 a FirenzeRoma e Milano. Si tratta di un'inchiesta aperta e chiusa più volte a partire dagli anni '90. Nuove verifiche sono state disposte dopo che Giuseppe Graviano, capo del mandamento di Brancaccio di Palermo, ha parlato davanti alla Corte di Assise di Reggio Calabria nel processo alla «'Ndrangheta stragista». Graviano ha accusato il leader di Forza Italia di aver fatto affari con suo nonno, che avrebbe consegnato a Berlusconi 20 miliari di lire per investirli nel campo immobiliare. 

 

Nicolino Grande Aracri si è pentito: da oltre un mese le rivelazioni del boss di ‘ndrangheta fanno tremare i colletti bianchi del Nord Italia,16-04-21

Ilva, maxi condanne al processo Ambiente svenduto: per i fratelli Riva 42 anni in totale, 21 per Archinà. All’ex governatore Nichi Vendola tre anni e sei mesi,31-05-21

 

Il tramonto di Berlusconi, il naufragio di Renzi e la sconfitta di Salvini alle Regionali: Verdini, da mister Wolf a “mister flop” dei leader politici

Dopo aver guidato il Pdl nell'ultima stagione dell'uomo di Arcore al potere, dopo aver inventato il Patto del Nazareno trasformandosi nell'alleato fondamentale dell'ex segretario del Pd (sconfitto subito poco al referendum del 2016), ora l'ex senatore toscano è diventato il consigliere del compagno di sua figlia. Che in 13 mesi è passato dal governo con la Lega data al 36%, all'opposizione e il Carroccio che ha perso 12 punti percentuali. Dicono i bene informati che quando Denis Verdini venne a sapere della relazione tra la figlia Francesca e Matteo Salvini non ne fu troppo felice. Troppo diverso lo stile del leader della Lega da quello suo, che in gioventù fu tagliatore di manzi appena macellati – è vero – ma poi pure banchiere, editore, pluri imputato e soprattutto gran tessitore di trame di potere. Nato socialista e cresciuto repubblicano, è passato da Silvio Berlusconi a Matteo Renzi, ma sempre con le bretelle rosse sotto la giacca. Quel milanese troppo spesso in felpa, invece, con i suoi slogan e le sparate anti migranti non sembrava adatto agli eleganti tavolini di Pastation, il ristorante aperto da Verdini junior col rampollo dei Gucci in piazza di Campo Marzio a Roma, due passi da Montecitorio.

È noto, però, che al cuore non si comanda: con qualche felpa in meno e un paio di giacche in più, Salvini a casa Verdini ha messo le tende. Di foto con la figlia di Denis sono pieni i rotocalchi scandalistici; i giornali politici, invece hanno messo in pagina le immagini del leader della Lega in mezzo ai fiori di zucca nella vigna del “suocero”. Erano i giorni successivi al mojito del Papeete, alla rottura con i 5 stelle e alla richiesta dei “pieni poteri”: in tanti oggi nella Lega considerano quell’azzardo l’errore più grosso commesso fino a oggi dal segretario. Sono gli stessi che dopo l’Europee hanno cominciato a pressarlo: volevano far cadere il governo e capitalizzare il 36% accreditato dai sondaggi al Carroccio. È andata diversamente.

All’epoca, però, si disse pure Salvini optò per quell’azzardato all-in perché fu consigliato anche da qualcun altro. Qualcuno molto più esperto nel gioco del poker rispetto ai peones leghisti. “Vuole tornare al voto per modificare la riforma della prescrizione. L’influenza di Denis Verdini, va detto, non gli fa bene“, sibilò Luigi Di Maio. Nessuno smentì: che il “genero” Salvini, astro nascente della politica italiana e vincitore indiscusso delle Europee del 2019, attingesse qualche consiglio dal “suocero” Verdini, tra le altre cose regista del patto del Nazareno, sembrava una cosa assolutamente normale. In fondo il Partito della Nazione, idea incomputa partorita dall’ex senatore di Forza Italia, non è poi così diverso dal partito nazionalista in cui da anni il leader della Lega tenta di trasformare il Carroccio.

 

Mafia, Graviano parla ancora di Berlusconi: "Volevo ricordargli il suo debito"

Al processo 'Ndrangheta stragista, il boss spiega perché nelle intercettazioni diceva di voler contattare "persone vicine" al Cavaliere: "Non aveva dato il 20 per cento dell'investimento di mio nonno. Ma di tanto in tanto arrivavano dei soldi". Lo accusa pure di avere tradito Dell'Utri. Sul figlio, nato mentre era in carcere, dice: "Non posso dire cosa è successo, ci fu un momento di distrazione degli agenti, però mia moglie non è entrata in carcere".

 

 

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Società , clima ed economia

Clima, 10 anni di escalation di eventi estremi. “L’Italia è l’unico Paese in Ue senza un piano”. E Cingolani come risponde? Attacca Greta....23-11-21

11 AGOSTO – Caldo record in Italia, a Siracusa toccati i 48,8 gradi: è la prima volta in Europa

14 NOVEMBRE – Pioggia e temporali in Sardegna e Sicilia: 80enne muore trascinato via dall’acqua,Catania inondata

 

Emergenza climatica, Biden: "E' il decennio decisivo, dobbiamo agire". Draghi: "Insieme vinceremo questa sfida" | Dossier 22-04-21

 

L'Onu: "Limitare il riscaldamento climatico non basta, bisogna adattarsi. Alcuni danni sono irreversibili"

La sesta edizione del "Rapporto 2021 sul gap di adattamento: la tempesta in arrivo", elaborato dall'Unep, getta sul tavolo della Cop26 una nuova sfida. Finanziamenti e progetti devono procedere velocemente in due direzioni: per contenere le emissioni e per adattarsi a una situazione ormai compromessa.

È un inseguimento: l'impatto del cambiamento climatico corre, i decisori politici che cercano di arginarlo varano misure che restano sempre indietro. La sesta edizione del Rapporto 2021 sul gap di adattamento: la tempesta in arrivo firmato dall'Agenzia per l'ambiente dell'Onu (Unep) sottolinea che quella corsa l'abbiamo già persa perché alcune conseguenze della crisi climatica in atto sono irreversibili: quindi, oltre a cercare di limitare il riscaldamento globale a 1,5 C°, sarà indispensabile adattarsi. Sono previsioni che prendono in considerazione anche gli ultimi impegni presi dalla comunità internazionale, ma spronano ad avere obiettivi ancora più ambiziosi, perché "sebbene una forte mitigazione sia la via verso impatti più bassi e costi più a lungo termine, aumentare l'ambizione nell'adattamento, in particolare per quanto riguarda il finanziamento e l'attuazione, è fondamentale per evitare che i divari esistenti si allarghino".

LA DIRETTA DELLA GIORNATA

Più soldi e più azioni pratiche, subito, perché seppure "i soldi ci sono", come ha detto tre giorni fa il presidente del Consiglio Mario Draghi proprio in apertura del vertice di Glasgow, i finanziamenti e l'attuazione sono molto indietro. Di fronte alla velocità impressionante con cui il clima cambia, è il messaggio che il Rapporto Unep lancia durante le trattative della Cop26, le nostre reazioni sono oltre che in ritardo anche diseguali, soprattutto nella capacità di risposta. A questo ritmo, alcuni Paesi che gli effetti devastanti della crisi climatica li stanno già subendo rischiano di restare sempre più indietro. Nello specifico, l'agenzia Onu scrive che ci sono prove che indicano come l'obiettivo di rimanere entro +1,5 gradi centigradi entro fine secolo sarà probabilmente mancato, ma anche se lo centriamo alcuni impatti del cambiamento climatico sono già irreversibili e ci accompagneranno per molti decenni.

 

Le politiche di adattamento, indica ancora il Rapporto, devono prevedere interventi prioritari in vari settori, per prevenire e contenere i danni provocati dagli eventi meteo estremi causati dai cambiamenti climatici. Tra gli ambiti dove tali interventi sono più urgenti la gestione del territorio con attenzione alla biodiversità, la razionalizzazione e conservazione dei sistemi idrici, l'elaborazione di mappe di pericolosità e gli interventi per contrastare le ondate di calore, soprattutto in ambienti urbani. Insieme agli strumenti per adattarsi ai cambiamenti già in atto, servono poi  politiche di mitigazione per non accelerare ancor di più l'impatto e la priorità e ridurre l'emissione dei gas serra.

L'Unep ricorda che "il 2021 è stato l'anno in cui il cambiamento climatico si è manifestato chiaramente come una seria minaccia per l'umanità, non solo a lungo termine, ma nel qui e ora" e rileva che "gli impatti climatici colpiscono il mondo con una nuova ferocia". L'Agenzia per l'ambiente ricorda che, sempre quest'anno, il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici (Ipcc) ha avvertito che esiste una maggiore possibilità di un aumento della temperatura globale superiore a 1,5 gradi centigradi entro i prossimi due decenni. Gli attuali contributi determinati a livello nazionale (Ndc), cioè gli impegni di ciascuno Stato, come previsti dall'accordo di Parigi puntano al momento verso un riscaldamento globale di 2,7 gradi centigradi entro la fine del secolo. Quindi, "anche se il mondo cerca di intensificare gli sforzi per ridurre le emissioni di gas serra - sforzi che non sono ancora neanche lontanamente abbastanza incisivi - la crescita degli impatti climatici sta superando di gran lunga il nostro sforzo per adattarvisi" avverte l'Agenzia per l'Ambiente dell'Onu.

Il Rapporto fa poi un esempio concreto su come i "soldi che non sono un problema" non sono stati usati "in modo intelligente e velocemente", sempre per citare Draghi. "I pacchetti di stimolo alla ripresa dopo il Covid-19 presentano una finestra di opportunità per intervenire con misure verdi e resilienti, ma queste non vengono attualmente realizzate", rimarca l'Unep, precisando che 16.700 miliardi di dollari di stimolo fiscale sono stati distribuiti in tutto il mondo, ma solo una piccola parte di questi incentivi sono stati indirizzati all'adattamento, cioè a interventi per prevenire i danni degli eventi meteo estremi (come siccità, tempeste, incendi, alluvioni) favorendo quindi anche la crescita economica verde. Quindi "l'occasione è stata ampiamente persa", dice l'Unep.

Meno di un terzo dei 66 Paesi presi in esame fino a giugno 2021 hanno studiato misure per affrontare i rischi climatici, dice il rapporto. Circa il 79% dei Paesi ha adottato almeno uno strumento di pianificazione dell'adattamento a livello nazionale, come un piano, una strategia, una politica o una legge. Si tratta di un aumento del 7% dal 2020, calcola l'Unep, ancora troppo poco vista l'emergenza in atto. Il 9% dei Paesi che non dispongono di uno strumento di questo tipo ne sta sviluppando uno. Almeno il 65% dei Paesi, osserva il rapporto, dispone di uno o più piani settoriali e almeno il 26% dispone di uno o più strumenti di pianificazione subnazionale. Nel frattempo, l'attuazione delle azioni di adattamento continua a crescere lentamente. I dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), ricorda l'Unep, rivelano che i primi dieci donatori a livello globale hanno finanziato più di 2.600 progetti con un focus principale sull'adattamento tra il 2010 e il 2019. Anche i progetti stanno diventando più grandi, e molti attirano finanziamenti superiori a 10 milioni di dollari.

I costi stimati per l'adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi in via di sviluppo sono da cinque a dieci volte superiori agli attuali flussi finanziari pubblici (quasi 80 miliardi nel 2019) e i dati disponibili indicano che il divario finanziario per l'adattamento si sta ampliando. Secondo l'Adaptation Gap Report 2021 i nuovi costi - rispetto a quelli del rapporto del 2016 - solo per i Paesi in via di sviluppo si avvicinano alla parte più alta della forchetta 140-300 miliardi di dollari all'anno entro il 2030 e 280-500 miliardi di dollari all'anno entro il 2050.

Il nuovo rapporto dell'Ipcc, il comitato scientifico dell'Onu, registra gli effetti del global warming. "La grandezza di questi cambiamenti della criosfera è destinata ad aumentare"(agosto 2019)Tutti noi dipendiamo direttamente dagli oceani e oggi, mai come prima, la loro salute è estremamente danneggiata a causa delle nostre emissioni. Nei prossimi anni crescerà l'innalzamento dei livelli del mare portando a scenari catastrofici con milioni di persone sfollate. Gli eventi climatici estremi colpiranno almeno una volta l'anno entro il 2050. Gli oceani vedranno un aumento senza precedenti della temperature e della acidificazione, un calo dell'ossigeno, ondate di calore sempre più forti e frequenti, piogge e cicloni devastanti e una costante diminuzione degli animali marini e dei coralli che già sta avvenendo.

Gli esperti sostengono che l'innalzamento del livello del mare stia accelerando in maniera drammatica e senza riduzioni drastiche delle emissioni si innalzerà dieci volte più velocemente entro il 2100 rispetto al XX secolo. Potrebbe crescere anche di un metro entro il 2100.

Ghiacciai sciolti e mari più caldi

Ciò significa che i ghiacciai perderanno in media più di un terzo della loro massa e alcune catene montuose perderanno l'80% del ghiaccio entro il 2100. Altri ghiacciai scompariranno del tutto. Il permafrost rilascerà sempre più carbonio accelerando i processi del riscaldamento globale. La vita marina continuerà a diminuire. Già ora è stato registrato che le lastre di ghiaccio della Groenlandia e dell'Antartico si stanno sciogliendo rilasciando oltre 400 miliardi di tonnellate di acqua all'anno. L'area dell'Artico coperta di neve ogni estate si sta invece riducendo di oltre il 13% in un decennio.
L'intero oceano si sta trasformando: le ondate di calore marine sono diventate due volte più comuni, più calde e di più lunghe, mentre le acque stanno perdendo ossigeno e diventando più acide.

"La perdita di massa globale dei ghiacciai, la fusione del permafrost e il declino nella copertura nevosa e nell'estensione dei ghiacci artici è destinata a continuare nel periodo 2031-2050, a causa degli aumenti della temperatura di superficie, con conseguenze inevitabili per straripamenti di fiumi e rischi locali", si legge nel rapporto "Oceano e criosfera in un clima che cambia" (la criosfera è l'estensione dei ghiacci).

"L'oceano sta perdendo la sua capacità di sostenere se stesso e noi umani - commenta nel comunicato dell'Ipcc la ricercatrice Lisa Speer, della ong internazionale National Resources Defence Council -. Dobbiamo, con la massima urgenza, ridurre le emissioni di gas serra, e al tempo stesso proteggere larghe aree dell'oceano globale da attività umane dannose. Il 30% al 2030 sarebbe un buon inizio".

Il rapporto diffuso oggi dal Principato di Monaco, dove sono riuniti da giorni i ricercatori per la stesura finale va ad integrare quello uscito a maggio ("Cambiamento climatico e territorio") e quello su "Riscaldamento globale a 1,5°C" uscito nell'ottobre del 2018, e disegna scenari ben più cupi rispetto agli ultimi studi.

Senza mezzi termini gli scienziati scrivono che nel ventunesimo secolo saremo soggetti a "condizioni senza precedenti di aumento di temperature, maggiore stratificazione dei livelli superficiali, ulteriore acidificazione, declino dell'ossigeno e alterata produzione primaria netta (la produzione di pesci e alghe, ndr). Ondate di calore marine ed eventi estremi come El Nino sono destinati a diventare più frequenti. Eventi estremi di livello del mare che erano storicamente rari (uno al secolo nel passato) sono destinati ad avvenire più di frequente (almeno una volta all'anno) in molte zone al 2050, specialmente nelle regioni tropicali. L'aumento del livello del mare continuerà anche oltre il 2100".

Il declino della biodiversità

Ci avviamo verso "una diminuzione nella biomassa globale degli animali marini, nella loro produzione e nel potenziale di pesca, e un cambiamento nella composizione delle specie è previsto nel XXI secolo negli ecosistemi oceanici. I cambiamenti futuri nella criosfera sulla terraferma (i ghiacciai montani e le coperture polari) sono destinati a colpire le risorse idriche e i loro usi, come l'idroelettrico e l'agricoltura. Gli incendi si prevede che aumenteranno in modo significativo per il resto del secolo nella tundra e nelle regioni boreali, così come in alcune regioni montane".

Bisogna ricordare che quasi 2 miliardi di persone vivono sulle coste. Anche se il riscaldamento sarà limitato a soli 2° C, gli scienziati prevedono che l'impatto dell'innalzamento del livello del mare causerà danni per diversi miliardi di dollari all'anno e costringerà a spostarsi milioni di migranti

I ghiacci dell'Artico ridotti del 38%: il monitoraggio dal satellite dal 1979

Addio Venezia: come apparirebbe il mondo se si sciogliessero tutti i ghiacci

Se il mondo continuerà a bruciare combustibili fossili e a usare il carbone a tempo indeterminato, il cambiamento climatico potrebbe arrivare a sciogliere tutto il ghiaccio dei poli e quello sulle montagne, secondo il National Geographic.

Ci sono oltre 21 milioni di km cubi di ghiaccio sulla Terra. Secondo molti scienziati ci vorrebbero più di 5.000 anni per scioglierlo tutto. Ma nell’arco di vita della prossima generazione, alcune città potrebbero già cessare di esistere se il mondo non ridurrà drasticamente le emissioni di carbonio.

Questo farebbe salire il livello del mare di approssimativamente 66 metri, sommergendo città che si affacciano sul mare come Venezia, Buenos Aires e Il Cairo.

Business Insider ha creato una mappa animata che mostra come sarebbe il mondo se questo futuro apocalittico dovesse avverarsi.

Già alla fine di questo secolo, secondo gli scienziati, diverse parti della terra diventeranno inabitabili. I rischi che implica il cambiamento climatico includono carestie, siccità, vasti allagamenti, epidemie, avvelenamento degli oceani e ondate di calore record.

Lo scioglimento sempre più rapido delle calotte polari e dei ghiacciai sta facendo salire i livelli del mare e cambiando le coste nel mondo. Ecco cosa succederebbe alle coste del Nord America se tutto il ghiaccio del mondo si sciogliesse: Miami e tutta la Florida scomparirebbero e Washington diventerebbe una città di mare. L’Europa direbbe addio a Londra, Venezia e ai Paesi Bassi,In Asia, l’acqua inghiottirebbe l’intero Bangladesh, attualmente abitato da 160 milioni di persone, e Kolkata (Calcutta), con una popolazione di 4,6 milioni.L’Australia perderebbe gran parte della fascia costiera dove vivono circa l’80% dei suoi abitanti.In estremo oriente Shanghai finirebbe in mezzo al Mar Cinese Orientale, che arriverebbe a lambire Bejing (Pechino).In Sud America, il mae si impadronirebbe del bacino dell’Amazzonia e di quello del fiume Paraguay, distruggendo Buenos Aires e gran parte del Paraguay.L’Africa perderebbe meno terra rispetto ad altri continenti. Tuttavia, le ondate di calore insopportabili renderebbero inabitabile gran parte dell’area.

Clima, il Mar Caspio sta evaporando. ''A questo ritmo la parte Nord sparirà in 75 anni''

Clima, il Mar Caspio sta evaporando. ''A questo ritmo la parte Nord sparirà in 75 anni''

Non è la prima volta che il più grande lago del mondo perde acqua, ma ora lo sta facendo a un ritmo doppio rispetto al minimo degli anni '70, la scoperta si deve alle osservazioni satellitari. Secondo gli scienziati se non aumenterà l'apporto dei fiumi o delle piogge, tutta la sua parte meno profonda potrebbe andare perduta. ANCHE il Mar Caspio sta perdendo acqua, evapora a causa delle temperature sempre più alte: il suo livello è sceso di un metro e mezzo in circa 20 anni e continua ad abbassarsi. Il lago più grande del mondo soffre dunque l'eccessiva evaporazione e l'apporto da piogge e fiumi che è sempre più scarso. A questo ritmo tutta la sua parte settentrionale potrebbe sparire nel giro di tre quarti di secolo.

A preoccupare gli studiosi non è tanto il livello attuale delle acque, non è stato infatti ancora raggiunto il record negativo fatto registrare alla fine degli anni '70, quanto piuttosto il trend in picchiata, un calo di quasi sette centimetri all'anno, il doppio rispetto a 40 anni fa. La tendenza non sembra diminuire, anzi, dal 1995 al 2015 la curva è diventata sempre più ripida. Metà della colpa, secondo un team internazionale di ricercatori guidati dall'Università del Texas, autori dello studio pubblicato su Geophysical Research Letters, è da attribuire alle temperature, che sono cresciute in media di un grado centigrado tra i due periodi di riferimento (1979-1995 e 1995-2015). E che continueranno ad alzarsi, secondo gli scienziati, guidate dai cambiamenti climatici in atto. A influire però sono anche la riduzione delle precipitazioni e il contributo dei fiumi, il più grande dei quali è il Volga.

REPORTAGE Nel deserto dell'Aral, dove il lago è un ricordo

La scoperta che il mar Caspio si sta riducendo è avvenuta quasi per caso, calibrando gli strumenti dei satelliti Grace (Gravity recovery and climate experiment) della Nasa, sonde che misurano accuratamente il campo gravitazionale della Terra e che riescono a individuare e misurare la quantità di acqua presente, anche nel sottosuolo. Come una bilancia che riesce però a pesare mentre è in orbita, a quasi 500 chilometri di distanza.

LEGGI Marche, scomparso Pilato: il 'lago con gli occhiali'

Lo specchio d'acqua, di gran lunga il più grande del pianeta con una superficie pari a circa 371.000 chilometri quadrati (più della Germania), ha sperimentato molte fluttuazioni nella sua profondità media negli ultimi decenni. La più importante delle quali, appunto, si è conclusa alla fine degli anni 70.

Il Caspio è anche uno dei laghi più profondi, l'abisso arriva a oltre un chilometro nella sua parte meridionale, è salato e può essere considerato come un piccolo mare. Il rischio riguarda però soprattutto la parte settentrionale, quella meno profonda: "L'evaporazione - scrivono gli scienziati - avrà l'impatto più grande nella porzione nord del Mar Caspio, perché molta dell'acqua in quell'area è inferiore ai cinque metri di profondità". A questo ritmo, sette centimetri all'anno, tutta quella zona si prosciugherà in circa 75 anni, come è già successo con il lago d'Aral, con un danno economico e ambientale incalcolabile.

 2019

 

 

2108

 

2017: crisi bancarie,guerra Vivendi-Mediaset,fuga di Exxsor, fine del salotto buono,crollo industriale

 

LA DECRESCITA PERENNE di Bifo Berardi

"USAMI COME VUOI" 
("E PER IL TEMPO CHE TI SERVE")

La lettera-zerbino di Christine Lagarde

 a Nicolas Sarkozy che imbarazza

 il Fondo Monetario Internazionale 
BLOG Armeni: "Lagarde-Sarkozy, il

 bondage del potere" 

 


Concorso scuola, Giannini: E' passato chi era preparato su metodi di insegnamento

Concorso scuola, Giannini: "E' passato chi era preparato su metodi di insegnamento"