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Mondo

 

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ISIS-DAESH, Guerra dal Nord Africa all'Afghanistan (2011 [inizio della Primavera Araba]-?)

 

Siria, Usa: “Iniziato il ritiro delle truppe”. Curdi: “E’ una coltellata nella schiena” Dubbi Pentagono: favore a Russia e Iran

Siria, Usa: “Iniziato il ritiro delle truppe”. Curdi: “E’ una coltellata nella schiena” Dubbi Pentagono: favore a Russia e Iran

 

L'annuncio della Casa Bianca: "Cinque anni fa, l’Isis era potente e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato". Il Dipartimento della difesa avrebbe cercato di convincere l'amministrazione che una mossa del genere sarebbe un tradimento degli alleati curdi, le cui truppe da anni operano a fianco di quelle statunitensi. Graham, senatore repubblicano: "Errore come quello di Obama".

Washington ha dato il via al ritiro delle truppe dalla Siria. “Abbiamo iniziato a riportare a casa i soldati degli Stati Uniti mentre passiamo alla fase successiva di questa campagna”, afferma la Casa Bianca in una nota. “Cinque anni fa, l’Is (Islamica state, lo Stato islamico, ndr) era una forza estremamente potente e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato” nella regione. Ma è scontro con il Pentagono: “La lotta all’Isis non è finita, anche se la coalizione ha liberato alcuni territori che erano in mano all’organizzazione”, afferma Diana White, portavoce del Dipartimento della Difesa, confermando come gli Usa “hanno iniziato il processo di rientro delle truppe e si avviano alla prossima fase della campagna”.

La notizia del rientro dei 2mila militari del contingente Usa era stata anticipata da diversi media statunitensi e da un tweet di Donald Trump: “Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica ragione di permanenza lì durante la presidenza Trump”, ha scritto il presidente degli Stati Uniti. Una decisione che, secondo il New York Times, troverebbe contrario il Pentagono: i vertici del Dipartimento della difesa avrebbero cercato di convincere la Casa Bianca che una mossa del genere sarebbe un tradimento degli alleati curdi le cui truppe da anni operano a fianco di quelle Usa in Siria e che rischierebbero di essere attaccate da un’offensiva della Turchia.

 

Secondo il Wall Street Journal il ritiro sarebbe stato deciso dallo stesso Trump a seguito di una conversazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che considera dei “terroristi” le Forze siriane democratiche, sostenute da Washington e che operano nell’est del Paese nel quadro della Coalizione internazionaleanti-Isis. Lunedì lo stesso Erdogan ha annunciato che la Turchia potrebbe avviare “da un momento all’altro” una nuova operazione militare contro i curdi in Siria, nell’area a est del fiume Eufrate. E dalle forze curde arriva il grido di allarme: la decisione “improvvisa” degli americani è una “pugnalata alla schiena“, afferma una fonte militare delle Forze siriane democratiche.

Non solo: in una serie di incontri e telefonate, il segretario alla Difesa James Mattis e altri funzionari hanno evidenziato i rischi legati ad un ritiro integrale: la decisione consentirebbe alla Russiae all’Iran di ampliare il proprio controllo sul Paese di Bashard.

“Queste vittorie sull’Is in Siria non segnano la fine della Global Coalition o della sua campagna – si legge ancora nel comunicato della Casa Bianca – Abbiamo iniziato a riportare a casa le truppe degli Stati Uniti mentre passiamo alla fase successiva di questa campagna. Gli Stati Uniti e i nostri alleati sono pronti a impegnarsi nuovamente a tutti i livelli per difendere gli interessi americani ogni volta che sarà necessario”, prosegue la Casa Bianca. “Continueremo a lavorare insieme”, si legge ancora. La lotta al terrorismo verrà condotta su tutti i fronti per contrastare l’espansione degli estremisti, bloccare “finanziamenti e supporto” e impedire “che si infiltrino attraverso i nostri confini”.

La decisione contraddice le precedenti affermazioni del Consigliere americano per la Sicurezza nazionale John Bolton, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero mantenuto la loro presenza militare nella regione fino a quando le forze iraniane non avessero lasciato la Siria.

Strasburgo, 3 morti. Killer in fuga: “Può essere su una Ford Fiesta”. Grave il giornalista italiano ferito. Cherif Chekatt, attentatore 29enne in fuga, forse è scappato in Germania. Ha anche ferito 16 persone, sei delle quali sono gravi. Tra loro anche un giovane giornalista italiano, che è in condizioni gravissime. Trovato del materiale esplosivo nell'abitazione dell'attentatore, che era già stato condannato 20 volte per reati comuni. 12 dicembre 2018. Caccia all’uomo nel cuore dell’Europa per trovare l’autore della strage di Strasburgo. Francia e Germania sono mobilitate per cercare Cherif Chekatt, il 29enne accusato di essere il killer, che intorno alle 20 di martedì sera ha fatto fuoco nel mercatino di Natale uccidendo 3 persone (e non due, come detto dalla prefettura martedì mattina) e ferendone altre 16, sei delle quali in modo grave. Tra queste c’è anche l’italiano Antonio Megalizzi. Il procuratore di Parigi, confermando che il killer ha urlato “Allah Akbar”, ha spiegato che ci sono “due morti e una terza persona in stato di morte cerebrale”. Si tratta di un turista thailandese di 45 anni, la cui moglie risulta tra i feriti, un uomo di origini afghane e un francese che viveva in città. Anche alle forze di polizia italiane è arrivata la nota di allerta diramata per le ricerche del terrorista: secondo l’Adnkronos, per gli investigatori Cherif potrebbe essere a bordo di una Ford Fiesta targata CX168FD.

Grave l’italiano ferito: “In coma. Non operabile” – Nella sparatoria è rimasto coinvolto anche il giornalista italiano Antonio Megalizzi, 28enne originario di Trento. “È in coma e non si può operare per la posizione gravissima del proiettile che è arrivato alla colonna alla base del cranio, vicino alla spina dorsale”, ha spiegato Danilo Moresco, padre di Luana, la sua fidanzata. “Ci hanno detto che Antonio è stato colpito alla testa da un proiettile sparato da quel delinquente. Le due ragazze che erano con lui (la trentina Caterina Moser e Clara Stevanato, veneta e residente a Parigi, ndr) ce l’hanno fatta a scappare, rifugiandosi poi in un locale pubblico. Hanno perso di vista Antonio, perché lui è rimasto a terra”.

La nota di allerta: “Killer a bordo di una Ford Fiesta” –Intanto sono stati fermati il padre, la madre e i due fratelli di Chekatt che, scrive la Bild, dopo essere scappato su un “taxi nero” pare sia fuggito in Germania. Lì pare che abbia dei riferimenti a cui appoggiarsi. Nel 2016 era stato infatti condannato dal tribunale di Singen a 2 anni e tre mesi. Aveva commesso un furto in uno studio dentistico e poi in una farmacia del Baden-Wuerttemberg, riferisce l’emittente tedesca N-tv. In un primo momento, secondo quanto emerso dalla riunione straordinaria del Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa) che si è tenuta al Viminale, si escludeva che l’attentatore avesse collegamenti con l’Italia. Poi l’agenzia Adkronos ha dato notizia della nota arrivata alle forze di polizia italiane:  “A seguito dei fatti terroristici accaduti a Strasburgo in data 11 dicembre 2018 al mercato di Natale si richiede di collaborare nelle ricerche di Chekatt Cherif, nato il 21 febbraio 1989 a Strasburgo, persona armata e pericolosa suscettibile di viaggiare a bordo di Ford Fiesta targata CX168FD”, si legge nel documento che comprende anche una foto di Cherif. Nell’immagine il 29enne, ricercato in tutta Europa per l’attentato di Strasburgo, appare con i capelli corti scuri e con la barba.

Situazione Libia: Il maglio francese e l'accordo Minniti per la drastica riduzione degli sbarchi in Italia.

Si è tenuto oggi al palazzo dell’Eliseo di Parigi un vertice fra le più importazioni fazioni in lotta in Libia. Sponsorizzato dal presidente Emmanuel Macron, l’incontro ha riunito delegati di altri 20 paesi e 4 organizzazioni internazionali, ufficialmente per creare le condizioni per uscire dalla crisi. Formula piuttosto vaga dietro la quale si celano profonde differenze fra i promotori.

La Francia, in particolare, è tacciata da diplomatici di altri paesi di voler accelerare a tutti i costi il processo elettorale, iniziativa che secondo i suoi critici mira a rafforzare il generale Haftar, attore con cui Parigi si è più volte schierata in questi anni. Il comunicato emesso alla fine del vertice effettivamente impegna le parti a cercare di realizzare al più presto le elezioni; ma non è stato firmato e – a differenza delle bozze precedenti – non contiene un calendario né la minaccia di sanzioni verso chi non rispettasse l’esito del voto.

Dopo un incontro simile lo scorso luglio, l’Esagono continua a voler perseguire una propria agenda in Libia. A danno dell’Italia, sponsor del premier al-Serraj, riconosciuto dall’Onu. Gli attriti nordafricani fra Roma e Parigi sono figli di un’asimmetria nelle percezioni reciproche e nelle rispettive capacità di esercitare influenza oltre i propri confini. (29 maggio 2018) Al di là dell’emergenza migranti sostenuta in un clima di costante campagna elettorale, gli sbarchi nelle coste italiane non erano così contenuti da anni. Da gennaio 2018 ad oggi il numero è di 5 volte inferiore rispetto all’anno passato. Una vittoria amara dato che l’arresto degli arrivi è in parte il risultato del tanto criticato memorandum d’intesa dell’allora governo Gentiloni con il primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, Fayez al Serraj.

Dall’est all’ovest. Nonostante le critiche contro le ripetute violazioni dei diritti umani del governo libico (ad oggi non firmatario della convenzione di Ginevra), la stretta sulle partenze c'è stata ed ha comportato lo spostamento parziale delle rotte migratorie. Il cambiamento dei porti di partenza ha così determinato una variazione della provenienza dei migranti. Così, a differenza degli anni passati, nei primi sei mesi del 2018 il maggior numero di migranti, sbarcati in Italia, ha dichiarato di esser di nazionalità tunisina. Tunisia. Nel 2017 la Tunisia era all’ottavo posto delle nazionalità arrivate in Italia. La maggior parte sono migranti economici alla ricerca di migliori condizioni lavorative. Il paese nordafricano, nonostante un’economia in crescita, ha ancora seri problemi di disoccupazione. Inoltre, le politiche di sviluppo attuate dal governo hanno portato a forti scontri, repressi anche con la forza, poiché hanno allargato il già notevole divario tra ricchi e poveri, aggravando la situazione nelle aree più vulnerabili. Oltre ai problemi economici, ci sono anche ancora leggi draconiane che colpiscono la comunità Lgbti, l’omosessualità è infatti punita con il carcere. Inoltre il governo, cavalcando l’onda di insicurezza e sotto il velo della lotta al terrorismo sta attuando azioni di contrasto che violano i diritti umani. Eritrea. Nei primi sei mesi del 2018 sono sbarcati in Italia 2.233 eritrei, la seconda nazionalità per numero. Le persone che fuggono dal paese, scappano da uno stato che impone il servizio militare a tempo indeterminato, limita la possibilità dei suoi cittadini di espatriare e usa questo escamotage per sfruttare gli arruolati in lavori pesanti. Il paese, da anni in tensione con i vicini, ha una delle economie più povere del mondo. Secondo i dati Unicef di giugno 2017, 22.700 mila bambini al di sotto dei 5 anni verserebbe in uno stato di malnutrizione acuta. Il paese non riconosce inoltre la libertà di culto, né quella di stampa. Sudan. Terzi nel 2018, noni nel 2017. Sono circa 1373 i migranti provenienti dal Sudan sbarcati in Italia. Un paese che in seguito alla scissione con il Sud Sudan, non ha mai trovato pace. Libertà d’espressione, di riunione e di stampa sono diritti costantemente calpestati dal governo d Khartoum. Gli arresti arbitrari hanno colpito anche esponenti del terzo settore e dell’opposizione politica. Inoltre il persistere dell’instabilità politica alimentata dagli scontri con i vicini del sud, ha alimentato le crescenti violazioni del diritto internazionale e di guerra anche con uccisioni sommarie di civili, stupri e saccheggi. Drammatica anche la situazione economica con aree come il Kordofan del Sud e Nilo Blu dove si stima che quasi il 40% della popolazione sia fortemente malnutrita. Nigeria. Nel 2017 è stata la nazionalità più diffusa tra i migranti, nel 2018 è la quarta. Ma questo non vuol dire che la situazione in Nigeria sia migliorata.  La minaccia di Boko Haram continua a flagellare parte del paese. Centinaia i morti nell’ultimo anno, con picchi di violenza che hanno portato allo sfollamento di intere comunità. Migliaia le persone costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Come se non bastasse, la reazione dello stato al terrorismo sta portando all’aumento di casi di violenze e violazioni contro civili da parte delle forze governative. Arresti arbitrari anche di donne e minorenni, uccisioni sommarie e il mancato impegno del governo nel perseguire i responsabili delle violazioni accertate. La Nigeria inoltre persegue la comunità Lgbti, le donne sono vittima di leggi e consuetudini arretrate e ha una limitatissima libertà di stampa

Migranti, Onu: “Il patto con la Libia è disumano
Si tollerano le torture per evitare gli sbarchi”
; a 6 anni dalla morte di Gheddafi, sorgono di nuovo i campi di concentramento e sterminio. Tutti gli autori di questo patto devono essere portati alla sbarra per crimini contro l'umanità ad incominciare dal Ministro dell'Interno Italiota Pezzo di Merda Minniti, 14 novembre 2017

 

Il patto dell’Europa con Tripoli “è disumano e la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Sono queste le parole durissime dell’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein che è intervenuto per parlare delle politiche migratorie dell’Unione europea e in particolare dell’accordo del governo italiano con le autorità libiche

 

Egitto, bombe e raffiche di mitra contro
i fedeli in moschea: “235 morti, 109 feriti”
, 24-11-17

 

Iraq, Baghdad: “Caduta ultima roccaforte Isis,Tal Afar”. Coalizione: “Il califfato è alla fine”

Iraq, Baghdad: “Caduta ultima roccaforte Isis”. Coalizione: “Il califfato è alla fine”

 
MONDO

Il comandante dell’operazione militare nella regione, generale Abdul Amir Yarallah, ha detto che le forze lealiste hanno cominciato ad avanzare nel territorio urbano. Brett McGurk, inviato degli Stati Uniti: "Dal 2014, l’Isis ha perso il 95% del territorio che controllava in Iraq e in Siria". Forza iraniane: "Anche in Siria la vittoria è vicina"

Karim, l'italiano che combatte in Siria, racconta la campagna per riconquistare Raqqa

La presa di Tabqa da parte delle Forze siriane democratiche è stata un passaggio cruciale per l'assedio di Raqqa, durato fino al 17 ottobre e conclusosi con la sconfitta dell'Isis e la cacciata dei miliziani da quella che era considerata la capitale siriana del Califfato. Karim Franceschi, di Senigallia, è stato il primo italiano ad andare in Siria per combattere contro l'Isis a Kobane. Era il gennaio del 2015. Ora guida uno dei battaglioni internazionali d'assalto, che fanno parte dello Ypg curdo.

“Così abbiamo liberato Raqqa”. Parla l’italiano per 7 mesi in prima linea a combattere contro l’Isis, Claudio Locatelli

 

 

 

L'Iraq dopo Kirkuk riprende anche Sinjar ai curdi. Trump: "Noi non siamo con nessuno"

L'Iraq dopo Kirkuk riprende anche Sinjar ai curdi. Trump: "Noi non siamo con nessuno"
Milizie sciite festeggiano la ripresa di Kirkuk (reuters)

 

L'avanzata dell'esercito federale e delle milizie nel Kurdistan. Ripresi anche i pozzi di petrolio: minata l'autonomia del governo regionale che ha promosso il referendum per l'indipendenza. L'esercito federale iracheno e le milizie sciite di Hashad al Shaabi (mobilitazione popolare) continuano l'avanzata nei territori del nord dell'Iraq che da mesi erano sotto controllo dei peshmerga curdi. All'alba le milizie curde si sono ritirate da Sinjar, la città yazida che era stata liberata dai curdi dopo mesi di occupazione da parte dello Stato Islamico. Masloum Shingali, il comandante di una milizia yazida locale, ha detto che i soldati curdi hanno lasciato la città prima dell'alba e che poche ore più tardi sono arrivate la milizie sciite che combattono per il governo di Bagdad.

Il sindaco della città, Mahma Khalil, dice che ormai Sinjar è sotto il controllo delle forze del governo federale, e che non ci sono stati combattimenti, quasi ci fosse stata un'intesa fra i Peshmerga e le forze di Bagdad. 

L'offensiva del governo federale iracheno è iniziata nella notte di sabato innanzitutto contro Kirkuk, la grande città a 250 chilometri a nord di Bagdad che era stata occupata dai curdi, ma non fa parte della regione amministrativa del Kurdistan con popolazione curda, ma è abitata soprattutto da arabi e turcomanni. Liberata Kirkuk, le milizie dell'esercito popolare e quelle di "mobilitazione popolare" sciite hanno occupato anche tutti i maggiori campi petroliferi della zona: la tv di Bagdad sostiene che sono stati ripresi i pozzi di Havana e Bai Hassan, ad ovest di Kirkuk, dopo avere conquistato lunedì quelli di Baba Gurgur, a est.

A questo punto il governo di Bagdad avrebbe il controllo di circa 400mila dei 600mila barili di petrolio al giorno estratti nella regione del Kurdistan. Significa che il Krg, il Kurdistan regional government (che ha promosso il referendum per l'indipendenza) di fatto non ha più le risorse per mantenere la sua autonomia, e che quindi a parte la perdita di un territorio importante come quello di Kirkuk, l'autonomia sarebbe stata di fatto ridimensionata economicamente.
 
Nella notte per la prima volta il presidente americano Donald Trump ha commentato l'offensiva di Bagdad in Kurdistan: "Gli Stati Uniti non prenderanno posizione a favore dell'uno o dell'altro. Da molti anni abbiamo una relazione molto buona con i curdi e siamo anche stati dalla parte dell'Iraq, pur se non avremmo mai dovuto essere lì", dice Trump, che in passato aveva criticato l'intervento militare americano in Iraq.

Una portavoce del Dipartimento di Stato dice che Washington "è molto preoccupata per le notizie della violenza intorno a Kirkuk: sosteniamo l'esercizio pacifico dell'amministrazione congiuntamente da parte del governo centrale e del governo regionale, coerentemente con la costituzione irachena, in tutte le aree contese".
 
Gli Usa temono che lo scontro possa destabilizzare la coalizione che sta combattendo contro lo Stato islamico. Ma alcuni elementi lasciano pensare che le operazioni in Kurdistan non dovrebbero interferire in maniera negativa con l'offensiva contro lo Stato Islamico: innanzitutto il fatto che le aree ancora occupate dai terroristi del Califfato si sono molto ridotte, e che lo sforzo militare terrestre iracheno potrà essere molto più concentrato. Fra l'altro l'esercito iracheno e le milizie sciite in questi ultimi mesi hanno avuto modo di consolidarsi e rafforzarsi dopo le operazioni iniziali avviate con il sostegno degli Stati Uniti e dell'Iran che a terra ha sostenuto e organizzato soprattutto Hashad al Shaabi.
 
 

La provincia di Kirkuk, il cui capoluogo omonimo è situato 250 chilometri a nord-est di Bagdad e conta circa un milione di abitanti, è stata al centro di influenze e interessi contrastanti da quando, nel 1927, i britannici vi scoprirono il petrolio. Durante l'era del deposto e defunto presidente iracheno Saddam Hussein l'area era stata sottoposta a un processo di 'arabizzazionè forzata, come molte altre aree miste dell'Iraq.
Ma nel 2014, quando l'esercito federale abbandonò il nord del Paese di fronte all'avanzata dei jihadisti dell'Isis, le forze della vicina regione autonoma del Kurdistan occuparono la città e i siti petroliferi più importanti.

Da allora Kirkuk è rimasta sotto il controllo dei Peshmerga, e le autorità del Kurdistan avevano avviato un lento processo di integrazione che ha comportato la diffusione della lingua curda e la nomina di rappresentanti di questa etnia in posti chiave dell'amministrazione, compresa la polizia.

A Kirkuk vivono 850 mila abitanti, di cui un terzo curdi e un venti per cento turcomanni; nella sua area vengono estratti ogni giorno 400.000 barili di petrolio, quasi il 70% dei 600.000 che Erbil invia fino al terminal turco sul Mediterraneo di Cehyan, sbocco dell'oleodotto che parte proprio da Kirkuk. La crisi è precipitata con il referendum del 25 settembre per l'indipendenza voluto dal presidente del Governo regionale del Kurdistan, Massoud Barzan

Raqqa, caduta la capitale dell’Isis: “Completamente strappata al Califfato”. 3.200 morti nella battaglia finale – FOTO

 
Civili nelle strade di Raqqa liberata dall’Isis
 

"L’operazione militare è terminata, ma adesso portiamo a termine un’operazione di pulizia per porre fine alle cellule dormienti di Daesh che ci sono ancora", ha spiegato al telefono con l'agenzia spagnola Efe il portavoce delle Fsd, Talal Salu. Nei giorni scorsi circa 3mila civili e 275 jihadisti e foreign fighters erano stati evacuati dalla città grazie a un accordo tra le Forze democratiche siriane a maggioranza curda e lo Stato islamico

 

Cade la capitale dello Stato Islamico. Le forze curdo-siriane alleate degli Stati Uniti che combattono l’Isis, infatti, hanno confermato di avere interamente strappato Raqqa al controllo del Califfato. L’annuncio è stato dato dalle stesse Forze democratiche siriane (Sdf), a predominanza curda, sostenute dalla Coalizione internazionale a guida americana.

“A Raqqa l’operazione militare è terminata, ma adesso portiamo a termine un’operazione di pulizia per porre fine alle cellule dormienti di Daesh (acronimo arabo per indicare l’Isis ndr) che ci sono ancora”, ha spiegato al telefono con l’agenzia spagnola Efe il portavoce delle Fsd, Talal Salu, anticipando che le Forze democratiche siriane pubblicheranno a breve un comunicato proclamando ufficialmente la liberazione di Raqqa dall’Isis.

Gli ultimi combattenti jihadisti si erano trincerati in un’area molto ristretta del centro della città. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani tra di loro c’erano molti foreign fighters, cioè combattenti stranieri arrivati da altri Paesi arabi ma anche da Usa ed Europa per combattere nelle file dell’Isis. È sempre l’Osservatorio a tracciare una prima stima delle vittime della battaglia finale per riconquistare la roccaforte Isis: almeno 3.200 morti da giugno ad oggi, tra cui non meno di 1.100 civili. Almeno 267 i bambini e 194 le donne decedute.

Intanto sullo stadio di Raqqa è stata issata la bandiera dell’Ypg, le Unità di protezione del popolo curdo, la più potente delle fazioni che compongono l’alleanza curdo araba. Rojda Felat, comandante delle operazioni delle Forze siriane democratiche a Raqqa, ha dichiarato che sono in corso le operazioni per mettere in sicurezza lo stadio, ripulendolo dalle mine disseminate dai jihadisti. L’impianto sportivo è l’ultimo grande obiettivo riconquistato dalle Forze democratiche, mentre prima erano stati riconquistati l’ospedale, altra zona di resistenza delle milizie jihadiste, e piazza al Naim, divenuta celebre perché teatro delle esecuzioni pubbliche dei boia dell’Isis. 

Già domenica, quando era cominciato l’assalto finale alla città, centinaia di miliziani di Daesh e migliaia di civili, tra cui le famiglie degli stessi estremisti, erano stati evacuati da Raqqa in base a un accordo raggiunto tra le Sdf e lo Stato islamico, con la mediazione di capi tribali locali. Anche ai foreign fighters era stato permesso di lasciare la città, nonostante l’opposizione soprattutto dei servizi segreti francesi, convinti che in città si nascondessero anche le menti degli attentati di Parigi. Secondo le Sdf sono stati evacuati nei giorni scorsi circa 3mila civili e 275 miliziani dell’Isis, mentre tra i 250 e i 300 jihadisti stranieri

La gioia per la liberazione della città, però, lascia presto il posto alla situazione di emergenza in cui si trovano i sopravvissuti. “I bambini che si trovano nei campi intorno a Raqqa hanno raccontato ai nostri operatori che sono stati costretti a essere testimoni di esecuzioni e decapitazioni – spiega Save the Children in un comunicato – Hanno detto di aver visto amici e familiari saltare in aria a causa delle mine presenti sulle strade e di aver assistito a bombardamenti che hanno ridotto in cenere le case. Ci potrebbero volere molti anni per curare i danni psicologici che hanno subìto”, continua l’ong, che ha denunciato anche le condizioni delle “circa 270mila persone fuggite dai combattimenti a Raqqa che hanno urgentemente bisogno di aiuti, mentre i campi di sfollati sono al limite del collasso“.

La battaglia per liberare Raqqa è iniziata a giugno. La città era controllata dall’Is dal 2014 e si ritiene che da qui i miliziani pianificassero gli attacchi all’estero. È a Raqqa, infatti, che si concentravano migliaia di foreign fighters. Sempre a Raqqa, poi, l’Isis aveva organizzato la sua amministrazione locale che prevedeva tasse, burocrazia e polizia. È l’ultima grande città persa dallo Stato Islamico mentre la scorsa estate l’esercito iracheno, sempre coadiuvato dagli Stati Uniti, aveva espugnato Mosul.

 hanno rifiutato l’accordo.


 

 

 

Mosul, ultimo atto:il 9 luglio 2017 cade la seconda capitale del Califfato, un milione di profughi, oltre centomila civili uccisi, città rasa al suolo

Siria, 4 zone cuscinetto e cessate il fuoco: Russia, Turchia e Iran trasformano le loro aree di influenza in entità politiche (4 maggio 2017)

"La Troika Russia–Iran–Turchia è lo strumento più efficace per risolvere la crisi siriana", disse il 20 dicembre il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, nel corso di un vertice a Mosca. Ora arrivano i primi risultati dell'accordo. Tensione nel nord del Paese tra Ankara e Washington: "Se veicoli Usa continuano a sostenere l'avanzata dell'Ypg verso la città di Raqqa, potrebbero essere colpiti accidentalmente"

Quattro zone cuscinetto e il cessate il fuoco dal 6 maggio. Sono questi i termini principali di un memorandum d’intesa siglato giovedì 4 maggio ad Astana, in Kazakistan, fra i tre paesi garanti della tregua in Siria: Iran, Russia e Turchia.

 

 

 

 

Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi,la capitale del gigantesco ovest irakeno: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe(1-5-16)

 

Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe
(ap)

 

Da sempre considerato ribelle e difficile da governare, il capoluogo sunnita della provincia di al Anbar è stato dominato dagli uomini di abu Musab al Zarkawi, il capo del ramo iracheno dell'organizzazione fondata da Bin Laden. E' stato lui a gettare le basi del Califfato. C'è voluto un anno per riconquistarla. Ma gli effetti della pioggia di raid aerei e degli ordigni eplosivi disseminati dai miliziani dell'Is prima di fuggire hanno trasformato la città. La reazione del governatore davanti ai giornalisti arrivati per un'intervista: "Andate subito via, restare è un suicidio". Ramadi è situata a 50 chilometri ad ovest di Bagdad, sulla medesima direttrice di Falluja, la città completamente annientata dagli statunitensi tra l'aprile ed il dicembre del 2004. Non solo annientata, ma fosforizzata e riempita di uranio impoverito, facendone una delle aree più contaminate di radiazioni ed agenti tossici dell'intero pianeta.

I marines assediarono e bombardarono Falluja nell’aprile di 6 anni fa, dopo che 4 dipendenti della compagnia di sicurezza Blackwater furono uccisi e i loro corpi bruciati e portati per la città. Dopo 8 mesi di stallo nelle operazioni, i Marines decisero di usare l’artiglieria e i bombardamenti aerei per piegare la resistenza. Utilizzando armi legali, fu detto. Prima che si scoprisse dell’uso del fosforo bianco, in grado di bruciare, a contatto con l’aria, pelle e carne su cui si deposita: un’arma illegale, in campi di guerra densamente popolati come una città. E ora il dubbio è “che siano state usate anche armi contenenti uranio, in qualche forma”, dice il dottor Busby.

I militari britannici, che affiancarono gli americani durante l’assalto, rimsaero esterrefatti notando il volume di fuoco impiegato per l’operazione. Falluja venne considerata una zona sulla quale poter sparare liberamente: “In una sola notte vennero lanciati 40 colpi di artiglieria pesante su un singolo settore della città”, ricorda il brigadiere Nigel Aylwin-Foster. Il comandante che ordinò quell’uso devastante di munizioni non lo considerò rilevante, tanto da non menzionarlo nemmeno nel rapporto al comandante delle truppe Usa.

 

 

 

 

Kabul, il mullah Omar è morto due anni fa,nel 2013

Lo hanno confermato i servizi segreti afgani, anche se gli integralisti insistono nel negare la morte del loro capo supremo, che sarebbe avvenuta nell'aprile 2013. Mistero sulle cause del decesso (29-07-15)

 

 

 

FRONTE DEL MEDITERRANEO

 

Migranti, ad aprile 2016 più sbarchi in Italia
che in Grecia: molti arrivati dall’Egitto
Brennero, “Austria: “Per ora no muro”
. Egitto, "400 migranti dispersi in un naufragio"


Intervista Il medico di Fuocoammare: "Andiamo a salvarli"

Gommone in avarìa nel Canale di Sicilia: 6 morti, 108 in salvo foto 

migranti-pp-990x192 (IL PICCOLO ALIAN, SIRIANO,6 ANNI, PER NON DIMENTICARE MAI COSA PURTROPPO E' CAPACE DI FARE L'UOMO SULL'UOMO A 70 ANNI DALLA CARNEFICINA DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE.....NON ABBIAMO IMPARATO NIENTE...)

Migranti, “700 bambini morti nel 2015
Raddoppiato numero totale vittime”
Appello Unicef: “Fermare l’ecatombe”

Traffico migranti, 7 arresti in tutta Italia

Egitto, "400 migranti dispersi in un naufragio"

Il gommone soccorso nel Canale di Sicilia (foto dalla nave Aquarius dell'Ong Sos Méditerranée)
Migranti, già superato record di sbarchi
"A fine anno saranno più di 100mila"
Lega: "Colpa di Renzi". Il Pd: "Sciacalli"

Migranti, già superato record di sbarchi "A fine anno saranno più di 100mila" Lega: "Colpa di Renzi". Il Pd: "Sciacalli"
 

Inchiesta sulla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013
Dossier / foto / video / Il viaggio di papa Francesco
Ieri nuova tragedia: 30 morti per asfissia


 

 

 


ECONOMIA ITALIOTA

 

 

 
 
 

Fatture, no alla banca dati: la Privacy ferma il Fisco

Decreto fiscale in vigore da oggi. Che cosa c’è: da rottamazione ter a definizione agevolata delle liti con le Entrate

Debito pubblico, l’Italia non guarirà tornando alla lira. Basta saperne un po’ di economia

Questo post spiega a chi non si interessa molto di economia alcuni punti chiave per capire il marasma in cui si trova l’Italia e le ricette che vengono proposte per rimediarvi.

Partiamo da una semplice considerazione: le banconote e le monete emesse dalla banca centrale di un Paese sono una passività del settore pubblico. In altre parole sono considerate un debito del governo. Quindi, specularmente, per chi le ha in tasca costituiscono un credito verso il governo. Una banconota, in altre parole, è una cambiale con cui il governo paga i suoi dipendenti, i suoi debitori, i pensionati eccetera. Questa cambiale ha due caratteristiche: non paga interessi e non ha una scadenza. Ma una persona accetta quei pezzetti di carta colorata perché milioni di individui l’accetteranno in cambio di beni (pane, vino, cicoria ecc.) o servizi (visite mediche, biglietti dell’autobus, taglio di capelli ecc.).

Ai bei tempi andati del gold standard (fino al 1971) a garanzia di questo debito del governo nel bilancio della banca centrale c’erano le riserve auree. Oggi che le banche centrali non pongono a garanzia della moneta un bene fisico come l’oro, il corrispettivo di questa passività dello Stato è un asset immateriale: la fiducia nel governo e nelle istituzioni pubbliche, economiche, politiche, militari, giudiziarie ecc. Infatti si definisce moneta fiduciaria.

Il fatto che questo questo asset sia immateriale è fonte di infinita confusione per chi non ha acquisito almeno i rudimenti di economia. La confusione deriva da un semplice fatto: la fiducia nelle istituzioni non è misurabile. Quindi a fronte di un elemento concreto, tangibile, di uso quotidiano come banconote e monete, con un valore preciso stampigliato sopra, vi è un elemento impalpabile. Questa dissonanza cognitiva sull’insostenibile leggerezza della fiducia pone un problema politico, perché l’elettore è bombardato da una propaganda ossessiva sulle virtù taumaturgiche della moneta e non riesce a raccapezzarsi. Viene indotto a pensare che più si aumenta la quantità di moneta in circolazione, più sale il reddito reale degli individui. Invece non è così. Altrimenti la banca centrale avrebbe inventato la bacchetta magica con cui creare ricchezza senza limiti.

L’impalpabile fiducia sui cui si regge il valore della moneta è essenzialmente la fiducia che le banconote mantengano nel tempo il loro valore per l’acquisto di beni reali. Se oggi con dieci euro si compra una pizza, ma per mancanza di fiducia nelle istituzioni la gente si convince che domani quella pizza costerà venti euro, nessuno terrà una banconota in tasca o nel portafogli. Si precipiterà a spenderla. Per rendersi conto di cosa succede in concreto basta digitare su Google “inflazione Venezuela”.

Inoltre nel bilancio dello Stato esiste un’altra passività: il debito pubblico, cioè la somma di Bot, Btp e altre obbligazioni emesse dal governo. A differenza della moneta, questi titoli pagano un interesse e hanno una scadenza. I risparmiatori li comprano perché nutrono fiducia che il governo alla scadenza ripaghi con gli interessi questi titoli di credito. Quindi anche in questo caso il valore dei titoli dipende dalla fiducia nelle istituzioni. E lo ripeto per chi fosse confuso: è la stessa identica impalpabile fiducia nelle istituzioni che spinge ad accettare in pagamento le banconote.

Da alcuni anni vengono diffuse sul web tutta una serie di farneticazioni da varie bande di mestatori, che si presentano sotto varie etichette, ma che appartengono allo stesso ceppo (o alla stessa ceppa per dirla alla Di Maio): Mmt, noeuro, minkioliristi, sovranisti, fascio-comunisti, patacchisti eccetera. Le farneticazioni poggiano su un banale, semplicistico e puerile pilastro: il governo, tramite la banca centrale, deve stampare moneta per acquistare le obbligazioni pubbliche. In questo modo risolve tutti i problemi economici, azzera il debito dello Stato e anzi può creare dal nulla, per incanto, le risorse con cui pagare pensioni, sussidi, reddito di cittadinanza, opere pubbliche e ogni ben di Dio senza che nessuno lavori e produca. Insomma la stampante “magggica” vagheggiata nel piano B del Savona in versione descamisado tardo-peronista.

I peron-sovranisti essenzialmente propugnano una partita di giro tra passività: ai titoli pubblici si sostituisce moneta. Tradotto: a una passività del governo con interessi e con scadenza definita si sostituisce una passività senza interessi e senza scadenza. Ma come abbiamo visto, entrambe le passività si reggono sulle stesse fondamenta: la fiducia. Quindi cosa si ottiene in pratica da questa partita di giro?

Prendiamo un caso reale che ci riguarda tutti da vicino. L’ultima asta del Btp Italia è stata un fiasco clamoroso come non se ne registravano da anni. Detto in soldoni, la gente si fida poco del governo italiano e delle sue istituzioni. Qual è la ricetta che propongono i peron-sovranisti di lotta e di sgoverno? Tornare alla lira in modo da ricomprare il debito pubblico italiano con minkiolire fresche di stampa. In parole povere un governo screditato (cioè che non gode di alcuna fiducia) risolverebbe magicamente i problemi costringendo la gente a scambiare carta straccia con altra carta straccia. Se tra i lettori qualcuno ritiene che questa sia una strategia vincente, io ne sono immensamente felice. Vendesi stupenda fontana monumentale rinascimentale nel cuore di Romain puro marmo di Carrara a prezzo sensazionale, di assoluto realizzo.

Magneti Marelli, Fca la vende alla Calsonic Kansei per 6,2 miliardi di euro

 

L'accordo con il fornitore giapponese di componentistica si perfezionerà nel 2019, e darà vita a un colosso da 15,2 miliardi di fatturato. La sede resterà in Italia, a Corbetta, per almeno cinque anni e verranno tutelati i livelli occupazionali. Soddisfatti i sindacati, che tuttavia restano vigili.

Alla fine, la prima decisione “pesante” dell’era Manley è arrivata: Magneti Marelli è stata ceduta da FCA ai giapponesi della Calsonic Kansei per 6,2 miliardi di euro, e le sue attività verranno effettuate sotto il nome di Magneti Marelli CK Holdings. La Calsonic Kalsei, di proprietà del fondo Usa Kkr, è uno dei principali supplier di componentistica giapponesi, che insieme all’azienda italiana formerà un colosso da top ten dei fornitori mondiali, dal fatturato di 15,2 miliardi di euro e dalla forza lavoro di ben 65 mila persone distribuite in quasi 200 impianti e centri di ricerca e sviluppo in Europa, Giappone, America e Asia-Pacifico.

“Questa è una giornata di trasformazione sia per Magneti Marelli che per Calsonic Kansei, che creano così un business globale con una gamma eccezionale, presenza geografica, competenza e prospettive future: una combinazione ideale”, ha dichiarato il numero uno di Fca Mike Manley, al quale ha fatto eco l’ad di CK Beda Bolzenius: “Insieme beneficeremo di una presenzageografica e di linee di prodotti complementari, mentre i nostri rispettivi clienti beneficeranno di un maggiore investimento in persone, processi e prodotti innovativi”.

 

 

Le trattative per la cessione iniziarono quando sul ponte di comando di Fca c’era ancora Sergio Marchionne, che più che altro in mente aveva lo scorporo di Magneti Marelli: un modo per far entrare denaro fresco da distribuire agli azionisti. Lui stesso, tuttavia, aveva affermato di poter riconsiderare l’ipotesi della vendita, in cambio di un “big check”: insomma, di fronte a un’offerta irrinunciabile l’affare si poteva andare in porto.

Quell’offerta, nondimeno, tardava ad arrivare. Prima di stringere coi giapponesi Fca aveva parlato anche con altri, tra cui Apollo Global Management e Bain Capital, come riporta il sito specializzato Autonews.com. Una volta focalizzata la trattativa con Calsonic Kalsei, c’era da trovare il punto d’incontro tra domanda e offerta: Marchionne aveva fatto sapere che il suddetto “big check” era una cifra non inferiore ai sei miliardi di euro. Dopo l’estate ballava ancora circa un miliardo, differenza poi colmata con l’ultima offerta appunto da 6,2 miliardi di euro. A quel punto è arrivata la mossa Pietro Gorlier, l’ex amministratore delegato “riassorbito” dandogli la poltrona di responsabile Fca per l’area Emea lasciata libera dopo le dimissioni di Alfredo Altavilla.Infine, c’è il capitolo lavoratori. Sia Fca che CK hanno fatto sapere con una nota ufficiale di voler tutelare i livelli occupazionali e le operazioni in Italia, anche per questo il quartier generaleresterà a Corbetta (vicino Milano), almeno per i prossimi cinque anni. Anche perché Magneti Marelli continuerà ad essere il fornitore di Fca, che manterrà nel suo perimetro la divisioneplastica. Soddisfatti i sindacati, che restano comunque guardinghi: “La cessione di Magneti Marelli non provocherà effetti diretti e immediati sui rapporti di lavoro, poiché avverrà tramite passaggio azionario e fusione con la società acquirente”, ha dichiarato il segretario generale della Uilm Rocco Palombella, “e il fatto che la giapponese Calsonic sia concentrata in Asia (e che magneti Marelli non sia presente in Giappone, ndr) dovrebbe escludere pericolose sovrapposizioni, mentre la prosecuzione dei rapporti di fornitura con Fca dovrebbe assicurare piena continuitàproduttiva. Ma la nostra attenzione come sindacato sarà massima”. Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario generale Fim Cisl Marco Bentivogli: “L’accordo prevede la salvaguardiaintegrale della forza lavoro, su cui vigileremo affinché l’operazione sia una grande occasione di crescita“. “E’ fondamentale avviare sin da subito un confronto sul futuro del gruppo”, commenta infine la segretaria generale della Fiom-Cgil Francesca Re David, “sia dal punto di vista occupazionale sia produttivo e della ricerca e sviluppo su cui chiederemo un ruolo attivo del Governo“. A metà mattinata, spinto dalla cessione di Magneti Marelli, il titolo Fcaguadagnava il 4,26% a Piazza Affari.

 

Le sigle sindacali hanno proclamato l'astensione dal lavoro anche per i lavoratori saltuari che si aggiungono nei periodi di grandi consegne, come Black Friday e Natale (24-11-17)

‘Ecco come Amazon ci spreme fino allo sfinimento’

 

Piombino, “basta prese in giro, ora azioni legali”
Tre anni dopo il governo scopre il piano-bluff

 

 

Tre anni dopo i tweet di giubilo di Matteo Renzi, la situazione delle acciaierie di Piombino precipita definitivamente. Il rilancio dell’ex Lucchini per mano dell’algerino Issad Rebrab non avverrà. È stata un presa in giro, come la definisce il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Tanto che il sindaco Massimo Giuliani, che in questi anni di passione è arrivato a ospitare gli operai all’interno del Comune, lo dice senza giri di parole: “Evidentemente il ministro Calenda ha preso atto che non ci sono ulteriori fatti o documenti che facciano ritenere il piano industriale di Aferpi  attendibile, verosimile e fattibile

Redditi, Ocse: “Negli ultimi 30 anni quelli degli over 60 cresciuti del 25% in più rispetto a quelli dei 30enni”

Tra i ruderi dell'industria italiana

 

 

 

IL CROLLO ECONOMICO DI UNA NAZIONE TRA IL 2014 ED IL 2015

 

 

 

POLITICA ITALIOTA

 

 

 
 
 
 
 
 

Salvini viene dai centri sociali. E dal comunismo al nazionalismo il passo non è stato breve

Finale d'anno da "che mangino brioche" nelle zone dell'opposizione. Lanci di volumettigilet azzurri, e inni alla Costituzione calpestata, fuori tempo massimo. Manifestazioni di maniera, indecisione, cautela nelle scelte. Non un alito di vita vera sale dalle sue fila: dalla sinistra non è arrivata in tutti questi mesi nessuna iniziativa che abbia avuto impatto sulla vicenda politica nazionale.

 

Il leader della Lega Matteo Salvini – nonché vicepremier e ministro dell’Interno – da qualche tempo indossa quasi sempre un giubbotto da poliziotto, con galloni e mostrine. Dopo avere raschiato il barile delle felpe e avere provato anche a vestirsi da vigile del fuoco, si è immedesimato nella parodia del comandante in capo della Ps, tanto più che si fa chiamare “capitano” dai suoi adepti. Scelta inedita per la nostra Repubblica, indegna di un ministro e pure illecita, perché la legge vieta di indossare abusivamente divise o distintivi delle forze dell’ordine. Ma a lui “che je frega”, come dicono a Roma. Questa recita, che ricorda i tempi infausti in cui un leader (fascista) sfoggiava look militareschi, gli è stata consigliata da chi cura la sua immagine trucida, per continuare a ramazzare voti.

Ovviamente gli hanno pure detto che “uomo d’ordine/terrore dei migranti/nemico dei comunisti” (comunisti in Italia e altrove ormai estinti) è la ricetta perfetta per fare un po’ di comodo nazionalpopulismo, sventolato davanti allo smartphone o alle tv. Non a caso, una delle sue celebri battute, da ministro fresco di nomina, risale al giugno scorso quando, durante un comizio a Pisa, aveva detto a un ragazzo: “Sei l’unico che ha la maglietta rossa in tutta la piazza, di rosso di buono c’è solo il vino”. E pensare che c’è stata un’epoca in cui Matteo Salvini è stato… comunista!

Un esempio? La mattina del 10 settembre 1994 nel centro di Milano ci furono alcuni scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Pochi giorni prima era stato sgomberato per l’ennesima volta il Leoncavallo, “storico” centro sociale. La protesta si concluse con sassaiole e manganellate. L’avversario del centro sociale era il sindaco leghista Marco Formentini. Fatto sta che dopo, in Consiglio comunale, qualcuno si alzò per difendere il Leoncavallo. “Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i 15mila giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati”. A parlare, di fronte a sindaco e giunta, era stato un consigliere comunale leghista di 21 anni: Matteo Salvini, quando vestiva colori rosso/verdi.

In effetti Salvini fa parte della Lega Nord dal 1990, ma aveva una formazione “originale” rispetto alla linea del partito. Nel 1997 infatti entrò nel Movimento dei comunisti padani. “Chi non ha mai frequentato un centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”, spiegava. Non contento, dopo fece una scelta ulteriore: “Io ero stato eletto al Parlamento padano coi comunisti padani nel ‘97. In Lega ero accusato di avere l’orecchino e la barba e di essere un po’ strano”. Lo ha “rivelato” nel 2014 durante la trasmissione Bersaglio mobile, su La7.

È vero che in quel periodo Umberto Bossi cercò di riprodurre ogni partito politico in versione leghista, per far credere che il sedicente Parlamento padano, e quindi la Lega Nord, fossero già rappresentativi di ogni ideologia. È pure vero che i due ex segretari della Lega sono stati comunisti vecchio stile: lo stesso fondatore Bossi, tra 1974 e 1975, è stato iscritto alla sezione del Pci di Verghero, frazione di Samarate (lui ammette solo qualche frequentazione, ma la tessera è stata trovata) e prima ancora avrebbe frequentato il partito di Unità proletaria per il comunismoRoberto Maroni è stato fino al 1979 comunista di Democrazia proletaria. Però il giovane Matteo era e resta una novità: veniva dai centri sociali. Immemore di quei trascorsi e (più o meno consapevolmente) di molto altro, oggi Matteo Salvini – 25 anni e 25 chili dopo – cavalca la bolla elettorale che premia, in quest’epoca di scelte politiche effimere, il suo nuovo partito. Oggi vorrebbe (fare) manganellare, anzi “ruspare”, quelli che oggi frequentano i suoi vecchi ambienti: dice cose tipo “centri sociali conigli” e “forse campano con la camorra”.

Spiegano Alessandro Franzi e Alessandro Madron nel libro Matteo Salvini #ilMilitante, a proposito del vicepremier in stile anni Novanta: “Era rapido nell’organizzare la protesta e facile bersaglio di accuse di opportunismo da parte degli avversari”, anche dentro la Lega. Insomma, il Salvini trasformista di ieri, alleato di Berlusconi, era già il Salvini trasformista di oggi, alleato del solito Berlusconi dove gli conviene e dei pentastellati nel governo. Dal “comunismo” leghista al populismo nazionalista il passo per lui non è stato breve; né gli è stato facile far dimenticare ai meridionali che nel 2009 a Pontida cantava “Senti che puzza, arrivano i napoletani”, oppure fare scordare ai padani doc che è svanito il sogno della Padania indipendente. Certo, di questi tempi una felpa con la scritta giusta o un giubbotto abusivo della Polizia di Stato bastano per consolidare un’“ideologia” che con le idee ha poco a che fare; semmai marcia a forza di non-idee, cioè di pregiudizi. Per il momento una porzione consistente dell’elettorato superstite gli sta dando ragione. In caso di emergenza elettorale avrà già pronta qualche felpa con un nuovo slogan, d’altra parte è un campione delle virate. Ammesso e non concesso che il giochino del trasformista possa durare all’infinito: il tempo delle chiacchiere potrebbe essere finito anche per lui.

 

 
 IL MAGMA

Il regime non riuscì a creare una propria classe politica e fallì sul terreno di quei ceti borghesi che avrebbero dovuto essere il punto di forza... Non solo non fu capace di crearla, ma era esso stesso la causa, principale e quindi ineliminabile di questa incapacità. Da qui il dramma del regime e la sua più intima condanna all’autodistruzione, a prescindere da quelle che furono poi le cause “esterne” della sua fine».

È il giudizio sintetico sulla parabola del ventennio fascista, formulato qualche decennio fa dal suo storico più illustre, Renzo De Felice. Mi è tornato in mente in questi giorni di polemiche furiose su borghesi, borghesucci, madamine e su altre parole che non sto qui a ripetere. Torna la borghesia nelle polemiche di questi giorni, a proposito della manifestazione di Torino Sì-Tav, a sorpresa, perché si tratta di un attore in gran parte assente nella vicenda italiana. Da noi, a differenza che in altri Stati europei, c’è la debolezza, l’assenza, l’incapacità della borghesia di caratterizzarsi come portatrice dell’interesse generale del Paese, il suo essere attratta da interessi piccoli, particolari, mediocri. Un enorme e indistinto ceto medio che non è mai riuscito a diventare borghesia, l’ha definito Giuseppe De Rita (Repubblica, 14 novembre), «un magma sociale che sobbolle proprio perché non riesce a fare quel salto».

Dopo il voto del 4 marzo e la vittoria del Movimento 5 Stelle, arrivato a percentuali superiori al trenta per cento e paragonabili a quelle dei grandi partiti rappresentanti di quel corpaccione centrale dell’elettorato italiano come la Democrazia cristiana, in tanti si sono chiesti, con speranza o con timore, se da quel magma politico sarebbe emerso l’embrione di una classe dirigente o se sarebbe rimasto un network di umori, un megafono di rancori, un insieme di frustrazioni impossibile da riportare all’interesse generale, nonostante l’identificazione con una piattaforma che prende il nome di Rousseau.

Oggi, dopo cinque mesi di governo, si può dire che quella scommessa stia fallendo, o meglio, che stia prendendo una piega molto conosciuta, in sintonia con la tradizione italiana.Il Movimento 5 Stelle, nato come l’alfiere del cambiamento e della rivoluzione, si propone sempre di più come l’ennesima versione del trasformismo, l’adeguamento ai vizi nazionali, un mosaico di rivendicazioni apparentemente irrisolvibili, più Alberto Sordi che Beppe Grillo (posto che come attore Sordi Grillo se lo sarebbe mangiato). Ci sono partiti che riuscendo a mediare tra interessi e spinte contrapposte sono rimasti al governo per decenni. Ma la Dc ha potuto farlo nella stagione della Prima Repubblica in virtù dell’intelligenza di una leadership plurale, di un radicamento territoriale e della presenza della Chiesa che consentiva di assorbire tutto. In più, c’era un sistema politico coerente e stabile e un quadro internazionale che manteneva l’equilibrio. Mentre per M5S non esiste nessuna di queste condizioni. Il sistema politico è disastrato e i riferimenti istituzionali vacillano, presidenza della Repubblica a parte: il Parlamento è vuoto, il governo è rappresentato da un presidente del Consiglio inconsistente e da ministri tanto inutili quanto arroganti, la burocrazia gira a vuoto in assenza di input e la ricostruzione del ponte Morandi a Genova sta già diventando lo specchio di un’impasse collettiva. E in M5S non si vedono leader né intelligenze, non si sa chi potrebbe tenere insieme le varie anime se dovessero cominciare ad andare in direzione opposta. M5S è il partito del condono, della promessa mancata, del fasullo elevato a cultura politica. Era già chiaro nelle premesse: il Vaffa per gli altri che deresponsabilizza, che scarica le colpe su altri, la Casta, il Potere, per non fare mai i conti con se stessi. Nella prova di governo tutto questo si è accentuato, fino a proporre un dilemma nuovo e forse inatteso: cosa fare se, in tempi rapidi, il Movimento dovesse implodere?

Nel Palazzo non si parla d’altro e la prospettiva alletta o atterrisce. Nessuno pensa, naturalmente, che un partito in grado di raccogliere il 32 per cento dei voti possa sparire da un momento all’altro. La precedente legislatura, poi, ha dimostrato che M5S è invulnerabile rispetto alle conseguenze di espulsioni, dimissioni, micro-scissioni. Nessuno dei fuoriusciti o degli espulsi tra i parlamentari è riuscito a farsi rieleggere, fuori da Roma solo il sindaco di Parma Federico Pizzarotti è riuscito a farsi rieleggere nella sua città fuori e contro M5S. La novità, però, è che lo scontro tra le diverse anime o, se si preferisce, tra i dirigenti e i peones avviene non sui dogmi di Grillo ma sulle politiche di governo, com’è successo al Senato sull’emendamento sul condono edilizio a Ischia, bocciato grazie al voto in dissenso di Gregorio De Falco e di Paola Nugnes.

Si parla di ortodossi e governativi, come in tutti i partiti nati da una posizione estrema, il solito dilemma. Quello che manca al Movimento per chiudere rapidamente la crepa è una cultura politica di base, quello che tiene tutti insieme, una leadership forte e riconosciuta, una serie di risultati da poter vantare. Resta il Movimento, un’entità metafisica e astratta, restano la piattaforma Rousseau e la Casaleggio associati con il suo carico di conflitto di interessi, di rapporti con le aziende pubbliche, ovviamente in crescita, e resta il potere conquistato che diventa la condizione esistenziale di M5S: il cambiamento c’è perché M5S è al governo e dunque restare o resistere al governo diventa un fine in sé, non è un mezzo per realizzare il contratto, il programma o alcunché.

L’immobilismo si addice al Movimento, lo si è capito da tempo, se M5S sceglie muore oppure svela la sua vera natura, di conservazione dell’esistente. Se Luigi Di Maio per sopravvivere è costretto a mantenere tutto bloccato all’anno zero, in un eterno attimo di partenza, la Lega di Matteo Salvini ha l’interesse opposto: mettere tutto in movimento, portare a compimento la campagna di conquista del centrodestra cominciata dopo il voto del 4 marzo, quando il capo leghista ha deciso di separare i suoi destini da quello di Silvio Berlusconi. Restare al governo per Salvini è un mezzo, a differenza di Di Maio, per cui è un fine. Un mezzo per accrescere consenso, potere, autorevolezza. Internazionale, un trampolino per passare all’assalto dell’Europa. In questi percorsi paralleli le due strade sono destinate a separarsi, perché è difficile per Salvini immaginare di restare a lungo al governo con i Toninelli o con il partito di Virginia Raggi senza pagare a sua volta un prezzo elettorale o la delusione del pragmatico elettorato del Nord che non ama i no di M5S e una visione non soltanto sovranista ma autarchica.

Bisogna trovare il momento giusto per scendere dall’alleanza, prima che la delusione per il Movimento 5 Stelle si estenda anche in direzione Lega.

A questo servono i nemici esterni: a giustificare ritardi, contraddizioni, frenate, marce indietro, e anche rotture. L’Europa è il nemico perfetto, con la sua burocrazia sclerotizzata, con l’impossibilità di prendere posizione anche nel caso della procedura di infrazione nei confronti del governo italiano, degna di Bisanzio più che di Bruxelles. I giornalisti sono l’altro nemico perfetto di questo movimento che si abbevera di visibilità e prospera nelle polemiche mediatiche, ma che al tempo stesso vorrebbe mutilare il giornalismo del suo ruolo più essenziale: le inchieste, le critiche, le domande, la possibilità di dare all’opinione pubblica strumenti per giudicare più flessibili e meno definitivi di quelli di cui gode la magistratura, ma altrettanto importanti per il controllo del potere. La democrazia è quel sistema in cui la stampa controlla e critica il potere, in regimi di altro tipo succede l’opposto, il potere controlla la stampa e condiziona i giornalisti. Qui da noi, nell’Italia 2018, tutto questo avviene con la partecipazione e la complicità di altri giornalisti, i più anti, naturalmente. E si perpetua così un altro classico della tradizione italiana: fare opposizione dai vertici del potere, perché - naturalmente - il vero potere è sempre altrove: tra i centri finanziari, tra gli editori, sui giornali, in tv.

L’attacco ai giornalisti scatenato dai capi dei Cinque Stelle è il segno più fragoroso di una difficoltà, di un rischio implosione più vicino di quello che si pensi. Tutto questo dovrebbe spingere l’opposizione ad accelerare, a tenersi pronta per elezioni che potrebbero rivelarsi più vicine del previsto. Fino a poche ore prima della comunicazione della sua decisione, Marco Minniti è stato molto incerto se candidarsi o no alla segreteria del Pd. In queste settimane l’ex ministro dell’Interno ha spiegato ai suoi interlocutori di avere tutto da perdere e di aver valutato la possibilità di entrare nella corsa perché estremamente preoccupato per le sorti della democrazia italiana.

Una scena pesantemente condizionata da attori internazionali che si muovono da padroni in Italia, a partire da quel Vladimir Putin che è stato il vero protagonista nascosto della conferenza di pace sulla Libia di Palermo e che spesso dà l’impressione di muovere a suo piacimento i partiti del governo italiano sulla scacchiera continentale: uno sprazzo del potere di condizionamento che l’ex blocco sovietico esercita in Italia e nel resto d’Europa ce lo danno  le inchieste  di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Stefano Vergine e Francesca Sironi. In questa situazione, l’Italia rischia di scivolare verso lande sconosciute, uno di quei paesi in cui l’opposizione politica non esiste o è affidata ad alcuni giornalisti e intellettuali coraggiosi e quasi sempre avversati dai governanti. Che un’analisi così cupa sia in gran parte condivisa da un uomo che ha gestito negli ultimi anni gli apparati di sicurezza e i servizi di intelligence è un motivo di preoccupazione in più.

Ora la scelta di Minniti è compiuta, così come quella di Nicola Zingaretti e di Maurizio Martina, e il congresso finalmente comincia. Resta l’esigenza di avere in tempi rapidi un leader riconosciuto per il principale partito di opposizione che avverte il pericolo della dissoluzione, con il suo ex leader Matteo Renzi che ormai visibilmente sta con un piede dentro e uno fuori. Ed è l’unico elemento che per paradosso avvicina M5S e Pd: il principale partito di governo e il principale partito di opposizione condividono la stessa situazione di possibile implosione. In un sistema impazzito.

 

 

Def, dal reddito di cittadinanza alle pensioni al condono: ecco cosa ci sarà nella manovra

 

Lega e 5 Stelle: deficit al 2,4% per tre anni. Secondo i calcoli sale dagli iniziali 33 a 40 miliardi, per finanziare l'avvio della flat tax, il reddito e la pensione di cittadinanza e il superamento della legge Fornero. Condono fino a 100mila euro, ma Garavaglia rilancia: "Sarà a 500mila"

 

IL MASSACRO DI RENZI, L'ANNIENTAMENTO STORICO DELLA SINISTRA IN ITALIA E LA NASCITA DEL GOVERNO GIALLO_VERDE, PRIMO DELLA STORIA D'ITALIA AL DI LA' DEL POSIZIONAMENTO IDEOLOGICO. Dalle ideologie al Sovranismo economico-Finanziario. Scompaiono le idee a fronte degli accelleratori di pagamento informatici.

CON RENZI DALL'ISONZO AL SESIA, e DAL SESIA ALL'arno IMMENSA AREA NO LEFT!!!Psicodramma Pd, Zingaretti: ‘Un ciclo è chiuso’
Ma i renziani: ‘Visto? Si perde anche senza di lui’
PD verso lo sfascio totale, non si sogna di espellere il Giglio di Merda che ha disintegrato una intera epoca storica di lotte e sacrifici massimi.

 

 

Pisa, Massa e Siena, addio alla Toscana rossa (leggi)Risultati – Terni alla Lega, Avellino e Imola a M5s
Matteo Orfini: “Su migranti e antipolitica abbiamo inseguito il racconto della destra” (video di M. Lanaro). Le amministrative comunali certificano l'annientamento di un partito liquefattosi all'indomani del fallimento del Referendum Costituzionale, 24 giugno 2018. L’elettorato di centrosinistra, invece, riesce a tenere serrati i ranghi quando il proprio candidato è al ballottaggio, mentre quando non c’è (come nel caso di Terni) si divide tra astensione (prevalente) e M5s. Anche in questi tempi di grandissima volatilità elettorale, insomma, si conferma solida la barriera fra centrodestra e centrosinistra. Per quanto riguarda il comportamento complessivo degli elettori, si nota “l’involontario mutamento che sta attraversando il il Pd, non più dominante al Nord”. Ma soprattutto: il centrodestra “sta mettendo solide radici nelle zone centrali del Paese”. Quindi il consenso per la Lega non è “episodico”. Diversa invece la situazione per i 5 stelle: da una parte si confermano i principali catalizzatori delle “seconde preferenze degli elettori” (hanno vinto 5 ballottaggi su 7), ma la “perdurante disorganizzazione a livello territoriale lo rende un partito d’opinione su scala nazionale” che “produce tensioni e incertezze nell’intero sistema politico, lacerato tra un faticoso tripolarismo nazionale e un più o meno imperfetto bipolarismo municipale”.

Grazie, Oettinger

Dobbiamo essere grati al tedesco Gunther Oettinger (CDU) per aver detto apertamente una spiacevole verità: “I mercati… insegneranno agli italiani a non votare per i partiti populisti”. I veri amici sono quelli che ti mettono di fronte la realtà. La verità ci farà liberi. Angela Merkel aveva ricordato il giorno prima: “Anche con la Grecia di Tsipras all’inizio fu difficile, poi ci accordammo”. Poi… dopo che gli spread avevano piegato i greci ribelli, e consegnato al Consiglio Europeo un Primo Ministro greco in ginocchio. Piangendo implorò pietà per il suo popolo, e salvò il posto, ma dovette ingoiare condizioni durissime. Una scena che ricorda quando Marco Aurelio (179) o Costanzo II (369) ricevevano i capi germani sconfitti.

Il significato delle parole di Oettinger è questo. “Gli italiani non sono un popolo liberosono in una gabbia; e quanto più si lanciano contro le sbarre, tanto più si fanno male; i colpi che si infliggono sono il migliore modo per indurli a non riprovarci più”. Rimuovere questa semplice realtà per noi è disastroso. Tutti i politici italiani hanno protestato, ma con motivazioni diverse. Per il Pd (e alcuni eurocrati): “Sono dichiarazioni soprattutto stupide”. Ovvero: “molto meglio evitare, oltre il danno, anche le beffe”, per non aizzare gli italiani, complicando il lavoro ai secondini.  

 

 

Mai più, si chiude una delle legislature più di merda della storia repubblicana del cazzo

 

 

 

L’incontro a casa Boschi tra i vertici di Etruria e Veneto Banca ci fu. E tra i presenti c’era anche Maria Elena Boschi, ministra del governo Renzi. A confermare lo scoop del Fatto (leggi) è uno dei protagonisti, Vincenzo Consoli. “Il ministro partecipò a un incontro nella casa di famiglia nella Pasqua del 2014, per un quarto d’ora, nel quale non proferì parola”, ha detto l’ex ad di Veneto Banca davanti alla Commissione. Non solo, l’ex numero uno della banca veneta ha portato documenti e testimoni per suffragare la tesi delle ingerenze di via Nazionale (articolo di P. Fior) nel tentativo di imporre il matrimonio con Pop Vicenza

 di F. Q.

SIMONA GRANATI - CORBIS VIA GETTY IMAGES
 

Il cerchio si stringe attorno a Maria Elena Boschi e alla sua fragile difesa, audizione dopo audizione. Dice il ministro del Tesoro Padoan: "Io non ho autorizzato nessuno e nessuno mi ha chiesto un'autorizzazione, la responsabilità del settore bancario è in capo al ministro delle Finanze che ne parla col presidente del Consiglio". Traducendo in maniera un po' grossier dal linguaggio formale, significa: la Boschi non agiva nel mio conto. Concetto reso ancora più esplicito quando il senatore Augello, in commissione" chiede a Padoan: ma almeno l'allora ministro delle Riforme riferiva degli incontri con Consob, Bankitalia e l'ad di Unicredit Ghizzoni? Risposta: "Ho appreso di specifici incontri dalla stampa".

 

Etruria, il capo della Consob sconfessa la Boschi
Si è occupata da ministro della

Significa che Maria Elena Boschi non porta il risultato di cotanto attivismo e interessamenti né in colloqui informali col ministro competente né nella sede formale del cdm. Un ministro, giova ricordare, giura sulla Costituzione di "esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". E dunque, si ripropone la domanda: a che titolo la Boschi si occupava del dossier banche, la cui responsabilità è "in capo al ministro delle Finanze che ne parla col presidente del Consiglio?". O meglio: si occupava di banche nell'interesse del paese e dunque avrebbe dovuto riferire a Padoan degli incontri, o della banca di cui è vicepresidente il padre, animata da una preoccupazione privata?

 

Ricapitolando. Di quella banca parlò con il presidente di una autorità indipendente come la Consob Giuseppe Vegas, in più occasioni. In una per informarlo che il padre sarebbe diventato vicepresidente di Etruria; in un'altra per esprimergli, non si sa a che titolo dopo le parole di Padoan, "preoccupazione per il futuro del settore orafo perché a suo avviso c'era la possibilità che Etruria venisse incorporata dalla banca di Vicenza". La preoccupazione per il settore dell'oro, argomento degno di un confronto collegiale in cdm però non viene portato all'attenzione del ministro del Tesoro.

banca del padre(14-12-17)

 

Maria Elena Boschi si è occupata eccome dei problemi di Banca Etruria. Contrariamente a quanto affermò in Parlamento il 18 dicembre 2015. Giuseppe Vegas, ex parlamentare di Forza Italia oggi presidente (uscente) della Consob da un paio d’anni in rotta di collisione con il renzismo, gioca nella sua deposizione sui coni d’ombra temporali e lo dice senza mezzi termini: su Banca Etruria “ho avuto modo di parlare della questione con l’allora ministro Boschi”, che espresse “un quadro di preoccupazione perché a suo avviso c’era la possibilità che Etruria venisse incorporata dalla Popolare di Vicenza”

 di F. Q.

Quando i gufi erano Renzi, Confindustria e Fitch
Il disastro dopo la vittoria del No? Non si è visto

 

Per dirla con Matteo Renzi, hanno perso i “gufi” e i “profeti di sventura”. Ma stavolta il gufo è lui. Insieme ai suoi fedelissimi e a centri studi, agenzie di rating e banche d’affari che, prima del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale, avevano evocato scenari di caos politico e apocalisse economica in caso di vittoria del No. Un anno dopo, con il pil a +1,5%, l’Italia resta in coda alla classifica Ue ma ben lontano dal -0,7% paventato nel luglio 2016 da Confindustria. Ed è lo stesso Renzi a rivendicarlo. Negli ultimi 12 mesi, poi, non si sono registrate fughe di capitali né la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro

 di Chiara Brusini

Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri condannati a 12 anni. Di Matteo: “Ex senatore cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e Berlusconi”

Ai vertici del Ros inflitta la stessa pena del fondatore di Forza Italia. Otto anni a De Donno, ventotto a Bagarella, dodici a Cinà: sono stati tutti riconosciuti colpevoli di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Prescritto Brusca, assolto Mancino per falsa testimonianza. Otto anni a Ciancimino per calunnia a De Gennaro. Il pm: "Mentre i giudici saltavano in aria qualcuno nelle Istituzioni aiutava i boss a ottenere i risultati chiesti da Riina"

 

Sette minuti e cinquanta secondi. Tanto ci ha impiegato il giudice Alfredo Montalto per dire che non solo la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma che ad averla fatta sono stati i boss mafiosi, tre alti ufficiali dei carabinieri e il fondatore di Forza Italia. Mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi. Che alla fine hanno ottenuto un riconoscimento grazie a Marcello Dell’Utri, uomo cerniera di Cosa nostra quando s’insedia il primo governo di Silvio Berlusconi.

È una sentenza che riscrive la storia della fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda quella emessa dalla Corte di Assise di Palermo. E che il sostituto procuratore Nino Di Matteo, unico pm titolare dell’inchiesta sin dall’inizio, spiega così: “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. E il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico“. Parole per le quali Forza Italia annuncia di querelare il magistrato della Direzione nazionale antimafia. 

 

 

Condannati boss, carabinieri e Dell’Utri – Il commento del pm, però, è legato allo storico dispositivo appena letto dai giudici che hanno condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio TeresiRoberto Tartaglia e Francesco Del Beneche invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni. Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.

La minaccia allo Stato – Sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. L’assoluzione di Mancino – Assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola MancinoMassimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. Il figlio di don Vito, uno dei testimoni fondamentali del processo, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile. Riscritta la storia della Seconda Repubblica – La parte lesa del processo sulla Trattativa è infatti il governo, intimidito dall’escalation di terrore intrapresa dai corleonesi dopo che diventano definitivi gli ergastoli del Maxi processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia di Riina, capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca titolare di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare in provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto ad Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scrive su La Stampa Falcone, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. 

Carabinieri e Forza Italia: il nuovo patto – Nel frattempo i carabinieri del Ros hanno già tentato di aprire un dialogo con la Cupola, agganciando Massimo Ciancimino e usando il padre Vito comeinterlocutore: per questo motivo Mori, De Donno e Subranni sono stati condannati per i fatti commessi fino al 1993. Con la loro condotta hanno cioè veicolato la minaccia di Cosa nostra fino al cuore dello Stato. La stessa cosa che ha fatto Dell’Utri, riconosciuto colpevole per i fatti commessi nel 1994. Come dire: la Trattativa tra mafia e Stato la aprirono i carabinieri, ma la portò avanti e la chiuse il fondatore di Forza Italia.

Di Matteo: “Sentenza storica” – “Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica“, è commento del pm Di Matteo, che ha abbracciato il collega Tartaglia mentre i giudici leggevano il dispositivo. “La sentenza – ha aggiunto il pm – dice che Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. La corte ritiene provato questo. Ritiene provato che il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico”. “Il verdetto – ha detto invece Tartaglia  – dimostra che questo era un processo che doveva necessariamente essere celebrato. La procura ha lavorato bene, svolgendo con serietà e professionalità il proprio lavoro. Le polemiche e le critiche sono state esagerate: ma le abbiamo superate”.

Totò Riina morto, dalla scalata a Cosa nostra alle stragi: tutti i misteri del capo dei capi che dichiarò guerra allo Stato(17-11-17)

Totò Riina morto, dalla scalata a Cosa nostra alle stragi: tutti i misteri del capo dei capi che dichiarò guerra allo Stato

MAFIE

Dalla conquista della piovra, al biennio al tritolo, fino alla mancata perquisizione del covo. Tutte le domande senza risposta che il boss mafioso si è portato nella tomba dopo avere terrificato un intero Paese all'apice di un'escalation di violenza senza precedenti. Nato poverissimo in una famiglia di contadini, viddano sanguinario e analfabeta è rimasto irredibimibile fino alla fine. Stava scontanto 26 ergastoli per circa 200 omicidi

 

 

 

Partito di Renzi TRAVOLTO ALLE REGIONALI SICILIANE E NEL MUNICIPIO DI OSTIA sciolto per mafia, 06-11-17

POLITICA | Di F. Q.Pd. Ancora una Waterloo fragorosa per il Diversamente Statista Renzi, che dal 2014 non ne indovina una e se giocasse a ramino da solo perderebbe pure lì. D’Alema e Veltroni si dimisero per molto meno. Patetico il suo non averci voluto mettere la faccia. Micari, nonostante i discorsi dal pulpito, è riuscito a farsi votare meno del Poro Asciugamano. Come sempre ridicoli gli scaricabarile post-voto. Cerasa, non per nulla stimatissimo da Renzi, ha dato la colpa a Crocetta e Faraone a Grasso: una prece. Nel frattempo, il Pd muore per sua stessa mano. Ma vedrete che da domani torneranno a dirvi che “Renzi è un vincente”.Siciliani. Si dice che gli elettori abbiano sempre ragione. Ne prendo nuovamente atto. Anche se, più che un voto, quello di ieri mi è parso da parte loro un desiderio – più o meno consapevole – di eutanasia.Ventitré. Dopo 23 anni, questo paese vota ancora Berlusconi e derivati. C’è bisogno di aggiungere altro? C’mon meteorite.

 

 

Grasso, addio al veleno: ‘Pd senza futuro
mina le istituzioni, deriva imbarazzante’
La freddezza dei vertici: ‘E’ giusto così’

 

IL MERDELLUM ( dopo il crollo del Merdalicum nella disfatta referendaria, dopo l'affondamento della consulta del Porcatum, ecco un'altra Merdata....)

Approfittando dello sfinimento generale, il Merdellum pudicamente ribattezzato Rosatellum-bis avanza a passo di carica in commissione Affari costituzionali della Camera. Tg e giornaloni tengono fermi gli elettori, distraendoli col solito teatrino dei pupi (Pisapia attacca D’Alema, Vendola attacca Pisapia, Salvini attacca il telefono a Berlusconi, la Meloni attacca il telefono a Salvini, Delrio si attacca al tram sullo Ius soli e fa lo sciopero della fame contro il suo stesso governo, la Boldrini si attacca alla dieta Delrio, cose così). Intanto, nell’indifferenza-ignoranza dei più, il Quartetto Casta – Renzi, B., Salvini e Alfano – ci scippa ogni giorno un pezzo di sovranità. Per fermarli, il Fatto ha raccolto oltre 60 mila firme in cinque giorni all’appello dei costituzionalisti. Vi chiediamo di passare parola sui social: se qualcuno vi chiede perché, spiegategli come funziona – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 07 ottobre 2017, dal titolo “Il Merdellum-bis”.

2 nominati su 3.

Per 10 anni abbiamo avuto una legge elettorale che faceva nominare i parlamentari dai capi-partito su liste bloccate anziché farli eleggere dai cittadini con la preferenza (proporzionale) o nei collegi (uninominale). Siccome per la Consulta il Porcellum era incostituzionale, il Quartetto Casta ne ha escogitato un altro che prevede due terzi di nominati e un terzo di eletti. Due parlamentari su tre usciranno da circoscrizioni proporzionali, dove ogni partito presenta un listino bloccato da 2 a 4 candidati, scelti dai capi e dunque nominati perché non c’è preferenza e conta l’ordine di apparizione in lista. Uno su tre invece è scelto col maggioritario in collegi uninominali dove vince chi arriva primo, dunque conviene coalizzarsi col maggior numero di liste (vere o “civetta”) per raccattare almeno un voto più degli altri.

I supernominati.

Il primo Merdellum prevedeva 75-77 circoscrizioni proporzionali (8-9 eletti in media per ciascuna: totale 600, cioè 2/3 del Parlamento) e tanti collegi uninominali quanti sono i seggi assegnati con quel sistema (330, 1/3). Ma il Quartetto Casta s’è fatto due conti e ha scoperto che le circoscrizioni sono troppo piccole e numerose per garantire l’elezione ai candidati nei listini. Ecco dunque un emendamento per allargarle riducendone il numero: così più nominati avranno la poltrona assicurata.

I supermeganominati.

Due problemi. 1) I partiti, a parte il capo supremo, hanno poche facce spendibili sul territorio. 2) I vecchi politici sono così sputtanati che rischiano di non essere eletti nemmeno se si fanno nominare in un listino bloccato. Soluzione prêt-à-porter: ogni candidato può correre in un collegio e in 5 circoscrizioni.
Poi, se viene eletto in più posti, deve optare per il collegio uninominale; e, se è stato trombato in quello ma eletto in più circoscrizioni proporzionali, passa in quella dove la sua lista ha avuto più voti (nelle altre scatta il primo dei non eletti). Così è ancor più facile far passare chi vuole il capo, all’insaputa degli elettori.

Voto forzato.

Nei sistemi misti proporzional-maggioritari, tipo il tedesco a cui finge di ispirarsi il Rosatellum, c’è il voto disgiunto: voto il candidato che preferisco nel maggioritario e, nel proporzionale, posso scegliere un’altra lista che mi soddisfa di più. Col Rosatellum no: se voto un candidato uninominale, devo scegliere una delle liste che lo sostengono, e non altre.

Sbarramento col trucco.

Per evitare la dispersione dei partitini, c’è lo sbarramento del 3%: chi non lo raggiunge sta fuori dal Parlamento e i suoi voti se li dividono quelli che ci entrano. Ma Renzi e B. vogliono inventare liste civetta per fare massa nei collegi. Ed ecco il trucco: le liste coalizzate nei collegi che superano l’1% possono regalare i loro voti agli alleati, anziché disperderli. Così i cacicchi e capibastone, forti nel loro territorio ma deboli o sconosciuti nel resto d’Italia (Mastella nel Beneventano, De Luca nel Salernitano, Crocetta in Sicilia ecc.) potranno fondare una miriade di liste civiche per portare acqua in cambio di posti sicuri con gli alleati.

Sbarramento con truffa.

Gli alfaniani di Ap hanno due grane. 1) Il 3% se lo scordano, ma i loro ministri e parlamentari sono affezionatissimi alla cadrega, dunque non si accontentano di portare voti agli alleati col trucchetto dell’1%. 2) Sono divisi fra gli alfaniani filo-Pd e i lupiani (da Maurizio Lupi, con rispetto parlando) filo-FI. Detto, fatto. Un emendamento consente di eleggere senatori anche alle liste che non arrivano al 3% nazionale, purché lo superino almeno in tre Regioni (secondo i sondaggi l’Ap, con le sue clientele, è sopra il 3% in Sicilia, Calabria e Puglia). Così gli alfaniani potrebbero correre da soli e tornare in Parlamento con una pattuglia di senatori che poi si danno al miglior offerente: Renzi, B. o meglio Renzusconi.

Coalizioni finte.

Nel proporzionale i partiti corrono da soli. Nell’uninominale invece si coalizzano (volendo e potendo), ma per finta. Il Pd fa un Ulivetto bonsai con Pisapia e altri àscari; FI va con Lega, FdI, Rivoluzione Italiana (la bad company di B.) e un centrino (Fitto, Costa, Parisi, Verdini, Quagliariello…). Ma già sanno che non avranno il 50% per governare, quindi le alleanze serviranno solo per sbaragliare nell’uninominale i partiti solitari (M5S e Mdp), anche se valgono più di loro (M5S). Poi, la sera delle elezioni, Renzi e B. saluteranno i rispettivi alleati allergici all’inciucio (Salvini, Meloni e forse Pisapia, ma non è detto) e tenteranno di abbracciarsi in un bel governissimo. La prova? FdI presenta un emendamento per dare il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40%. Ma Pd e FI lo bocciano: segno che non vogliono vincere per governare coi propri alleati, ma scaricarli subito dopo il voto e mettersi insieme alle spalle degli elettori. Firmiamo per fermarli.

Legge elettorale, un obbrobrio chiamato Rosatellum

Il Rosatellum-2 è peggio dell’Italicum, che era peggio del Porcellum

 

 

Tracollo PD ed M5S alle amministrative 2017

5 Stelle, le regole del suicidio perfetto

Diciamolo: l’impresa di restare fuori da tutti i ballottaggi che contano(tranne Carrara, ma nessuno è perfetto e qualcosa sfugge sempre) non era facile. Ma i 5Stelle – tutti, da Grillo in giù – ce l’hanno messa tutta e hanno centrato l’obiettivo. Litigare dappertutto, polverizzarsi in scissioni e sottoscissioni, infilare un autogol dopo l’altro fino a scomparire da tutte le grandi e medie città al voto e, non contenti, persino resuscitare il ripugnante bipolarismo centrodestra-centrosinistra, con particolare riguardo per il duoBerlusconi (vedi alla voce Graviano) – Salvini (vedi alla voce Le Pen). Questa è roba da professionisti. Chapeau.

Grillo se lo sentiva e infatti nel comizio semideserto a Genova se ne vantava, con una voluttà alla sconfitta quasi poetica, come se la disfatta fosse uno schema lungamente provato in allenamento: “Resteremo fuori da tutto, così nessuno verrà sotto casa a rompermi i coglioni perché il nostro sindaco non piace”. Di questo passo passerà alla storia, mutatis mutandis, come l’erede inconsapevole di quell’altro grande sconfittista che era Riccardo Lombardi, nel ritratto di Indro Montanelli: “Più che il potere, amava la catastrofe, per la quale sembrava che madre natura lo avesse confezionato… con un volto che il Carducci avrebbe definito ‘piovorno’, e di cui nessun pittore sarebbe riuscito a riprodurre le notturne fattezze senza ritrarlo su uno sfondo di cielo livido, solcato da voli di corvi e stormi di procellarie: questo era Lombardi, e così sempre mi apparve. In cosa consistesse il suo alto pensiero politico, non so. Ma non credo che sia la cosa, di lui, più importante”.

Ora che il capolavoro, almeno per questa tornata amministrativa, è compiuto, è bene riepilogarne le tappe, in quello che già si annuncia come un prezioso manuale di istruzioni per la Caporetto perfetta.

Mossa n. 1. Hai un sindaco, Federico Pizzarotti, che 5 anni fa ti ha fatto conquistare il primo capoluogo: Parma. Non ruba, governa benino, fa quel che può e annuncia solo quel poco che fa, sottovoce. È anche un gran rompicoglioni, refrattario agli ordini di scuderia. Tenerselo stretto e coprirlo di attenzioni, oltre a levargli ogni alibi per la fuga, sarebbe la migliore smentita ai detrattori che dipingono il Movimento come una caserma agli ordini di Grillo&Casaleggio. Ergo lo scaricano con una sospensione disciplinare di un anno, lo attaccano un giorno sì e l’altro pure, non lo chiamano mai, lo regalano agli avversari e candidano al suo posto un carneade che non mette in fila due parole in croce. Risultato: 3,18%.

Mossa n. 2. Genova è la città del fondatore, segnata dai disastri del Pd e poi della sinistra. Il luogo ideale per tentare il colpaccio. Che fare? Una bella rissa fra il capogruppo in Comune, Paolo Putti, e la capogruppo in Regione,Alice Salvatore. Il primo se ne va con tutti i consiglieri pentastellati e si associa alla sinistra. La seconda tenta di imporre il direttore d’orchestra Luca Pirondini. Che però alle Comunarie perde con tal Marika Cassimatis. Onde annientare le residue possibilità che questa ce la faccia, si annullano le Comunarie (spiegazione di Grillo: “Fidatevi di me”) per rifarle con un solo candidato: Pirondini. Che stavolta riesce a vincerle. Il Tribunale dà ragione alla Cassimatis e i 3 candidati di area si dividono i voti. Risultato: ballottaggio tra centrodestra e centrosinistra.

Mossa n. 3. Palermo è il capoluogo della prima Regione che potrebbe andare ai 5Stelle, ma il sindaco Leoluca Orlando pesca anche nel territorio di caccia grillino. I locali deputati pentastellati si mettono subito d’impegno e si fan beccare nello scandalo delle firme false: migliaia di nomi veri ricopiati in una notte per sanarne uno con la residenza sbagliata, il tutto nel 2012, quando il M5S non piazzò nemmeno un consigliere. I geni vengono indagati e interrogati dai pm, ma pensano bene di non rispondere. Grillo li sospende, quelli polemizzano pure. Le Comunarie le vince l’avvocato Ugo Forello, ex Addiopizzo, che si porta dietro una scia di sospetti sulle cause dei commercianti antiracket. Segue immancabile faida interna, con denunce in Procura e diffusione di un audio che spiega perché Forello non va bene. Risultato: Orlando sindaco per la quinta volta davanti a un suo ex fedelissimo passato a destra con la benedizione di Cuffaro.

Mossa n. 4. Taranto è l’ideale per i 5Stelle: il governo annuncia il “salvataggio” dell’Ilva che avvelena la città, con 6mila esuberi. Difficile mancare il ballottaggio. Ma si trova il modo: il vertice cittadino sostiene un candidato, ma altri Meetup si mettono di traverso con altri nomi (esattamente come a L’Aquila, a Piacenza, a Padova ecc.). Da Roma si pensa di non presentare il simbolo, magari appoggiando l’ex procuratore anti-Ilva Sebastio, sostenuto da liste civiche. Idea troppo brillante: si rischierebbe di vincere. Infatti subito accantonata. Le Comunarie last minute le vince con ben 107 voti l’avvocato Francesco Nevoli. Che inizia la campagna elettorale alla vigilia del voto. Risultato: solito ballottaggio destra-sinistra.

Mossa n. 5. Incassata la débâcle, si dà la colpa alle liste civiche coi partiti dietro; si vanta la “crescita lenta, ma inesorabile”; si esulta per i trionfi di Sarego e Parzanica; si fanno sparate anonime sui giornaloni contro i pochi volti noti e vincenti (Di Maio, Raggi, Appendino), in vista della grande, spettacolare, definitiva disfatta nazionale.

Prossima mossa. Vista la strepitosa riuscita del sistema di selezione a caso o a cazzo, si completa l’opera passando direttamente dall’“uno vale uno” al “l’uno vale l’altro”. Al posto delle Comunarie, sorteggio dei candidati dagli elenchi telefonici.

Pa, Madia: “Blocco turnover ingiusto ma la crisi pesa”. Pin per i servizi dal 2015

Il ministro spiega le linee guida del disegno di legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione: "Stop alle carriere automatiche: si andrà avanti solo per merito". Sul piano dei contenuti, un solo ufficio territoriale del governo per uscire "dall'idea della frammentazione"

Pa, Madia: “Blocco turnover ingiusto ma la crisi pesa”. Pin per i servizi dal 2015

 

 

 

 

Allarme demografico in Italia: nascite restano al minimo dall'Unit� d'Italia. Picco dei decessi dal dopoguerra

I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unit�. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656 mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese

DIARIO DELLA POLITICA ITALIANA DAL 2014 FINO AL 01 MARZO 2016

 

 

..Tutta la politca interna dalle amministrative regionali della primavera 2015, passando per le riforme delle banche popolari,al decreto milleproroghe, all'esplosione di forza italia,alla nuova responsabilita delle toghe,l'uscita di lupi,il veneto razzista, il reddito di cittadinanza finendo a pietro ingrao

 

Tutta la politica interna dall'uscita di cofferati dal pd al grillo leaks, dalla buona scuola a berlusconi che vuole le torri rai, salta il nazzareno, passa l'italicum, nasce la coalizione sociale(?) di landini,termina per sempre santoro, approvate stronzate come il voto di scambio e la riforma della pubblica amministrazione
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POLITICA ED ECONOMIA EUROPEA e Mondiale

 
 
 

Il franco Cfa è un cappio al collo
, ma non è la causa di tutti i mali d’Africa. 

 

Gilet gialli, a Parigi 4mila persone per l’8° sabato di proteste: manifestanti sfondano con una ruspa la porta di un ministero

 

Cina, crescita ai minimi dal 1990: più che la guerra dei dazi con Usa, è l’erosione dei consumi interni a preoccupare Pechino

 

Bolsonaro minaccia i popoli indigeni dell’Amazzonia. Si sta rischiando un genocidio

Bolsonaro minaccia i popoli indigeni dell’Amazzonia. Si sta rischiando un genocidio

 

Il capitalismo cinese compie 40 anni. Accettiamolo: l’economia Ue è condannata all’irrilevanza

Il capitalismo cinese compie 40 anni. Accettiamolo: l’economia Ue è condannata all’irrilevanza

Il fantasma di Karl Marx s’agita, rabbioso, per il mondo. Come poteva prevedere, il grande filosofo tedesco, che un ibrido e malefico connubio tra comunismo e capitalismo avrebbe avuto come conseguenza che tra gli indecentemente ricchi del pianeta, i miliardari veri, ben 338 oggi vivono in Cina? Già, la nuova superpotenza globale che come simbolo ha ancora “la falce e il martello”.

Non crediate sia retorica. La storica icona marxiana campeggiava martedì 18 dicembre nell’imponente Sala Grande del Popolo che s’affaccia a Pechino su Piazza Tiananmen, mentre Xi Jinping, il leader cinese più potente dopo Maoassicuratosi la carica a vita al vertice di un governo visionario ma dal pugno di ferro, pronunciava un discorso di 90 minuti per celebrare il 40esimo anniversario della politica di “riforma e apertura” varata da Deng Xiaoping nel 1978. La Cina, oggi seconda economia per Pil e ricchezza dopo gli Stati Uniti, in quattro decenni, da Deng a Xi, ha realizzato quel che nessuna nazione nella storia è riuscita a compiere: 800 milioni di persone hanno lasciato i disagi della povertà, in virtù proprio di una formula magica senza uguali né precedenti, quel mix tra comunismo e capitalismo applicato a centinaia di milioni di persone che noi europei facciamo fatica a digerire.

il percorso di sviluppo economico della Cina. Pechino quindi non ha nessuna voglia di farsi ghettizzare o irreggimentare dalla pericolosa guerra commerciale iniziata dal sovranista, isolazionista e nazionalista Donald Trump. Rivolgendosi ai membri del Pcc, il leader cinese ha promesso di portare avanti le riforme economiche, spiegando che Pechino non si discosterà dal suo sistema monopartitico e andrà per la sua strada senza seguire diktat di chicchessia. “La grande bandiera del socialismo ha sempre sventolato alta sulla nostra terra”, ha detto. Nessuna concessione, quindi, alle tattiche becere da capo-cantiere dell’inquilino alla Casa Bianca.

Quel 18 dicembre 1978, nel famoso discorso sulla politica di “apertura”, Deng Xiaoping segnò quindi la strada per la Cina: “riformare un sistema economico asfittico basato su industria pesante e ‘comuni’ nelle campagne, e aprire al mondo”, dice Marco Marazzi, coautore del libro Intervista sulla Cina (Gangemi editore). Già nel 1979 Pechino emanò la prima legge sulle joint venture sino-straniere, una trentina di articoli semplici ma all’avanguardia per un Paese che non aveva ancora un diritto societario. Poi il cambiamento delle leggi sulle comuni, le riforme agrarie con gli incentivi ai contadini a produrre di più svincolandosi dai prodotti statali, per arrivare alla separazione tra gestione e proprietà delle aziende di Stato. “Non tutto fu rose e fiori ovviamente”, spiega Marazzi, “con gli eventi di Piazza Tiananmen e la conseguente violenta repressione, il Partito Comunistariaffermò il controllo assoluto sul passo, la qualità e la profondità di tutte le riforme”. Eppure quel discorso di 40 anni fa dettò una linea che in seguito non ha mai smesso di essere applicata dai successori di Deng. Le riforme economiche, della struttura amministrativa dello Stato e l’apertura al mercato internazionale sono continuate senza interruzione, portando la Cina in otto lustri da un Pil di 150 miliardi agli attuali 12 trilioni di dollari, inferiore solo a quello Usa. Fino a 15 anni fa, quel che si decideva a Pechino aveva pochissima influenza sul resto del mondo. Oggi non più; e anche ignorando il piccolo esercito di 338 miliardari cinesi, il colosso asiatico con i suoi 1,4 miliardi di abitanti è l’altra potenza globale economica, politica e militare con cui confrontarsi (la Russia ha un Pil che è un terzo di quello italiano).

 

 

Francia, il sabato violento dei gilet gialli. Il governo: "Ora dialogo"

Francia, il sabato violento dei gilet gialli. Il governo: "Ora dialogo"
(afp)

 

Scontri in tutto il Paese, 1220 fermi: la protesta si è allargata anche a Bruxelles

Tra governo e Gilet gialli "è arrivato il momento del dialogo": lo ha detto il primo ministro francese Edouard Philippe dopo un altro sabato di tensione, con scontri in tutto il Paese e anche a Bruxelles e 1220 fermi. Un dialogo che, ha sottolineato Philippe, "è iniziato con incontri di politici e continuerà anche a Matignon dove voglio incontrare questi francesi che protestano". La prossima settimana si attende che si esprima il presidente Emmanuel Macron, che finora in pubblico ha mantenuto sull'ondata di proteste in corso ormai da quasi un mese.Il piano sicurezza approntato ha portato a 1220 fermi in tutta la Francia. Sono stati 125.000 i manifestanti nel Paese, di cui 8.000 nella sola Parigi. "C'è stata una violenza inaccettabile anche se tenuta sotto controllo grazie all'abnegazione delle forze dell'ordine", ha commentato il ministro dell'Interno, Christophe Castaner.


"Siamo stati in grado di spezzare lo slancio dei vandali", ha aggiunto, e ha ricorto che sono state trovate, ancor prima che iniziassero le manifestazioni, armi bianche e maschere anti gas. Segno, per Castaner, che "centinaia di gilet gialli erano arrivati a Parigi per provocare danni". La protesta si è allargata anche a Bruxelles: almeno 400 persone fermate e un poliziotto rimasto ferito nella capitale belga, dove era sceso in piazza un migliaio di manifestanti. L'agente, colpito al volto, non è in pericolo di vita. Alcuni 'gilet gialli' hanno lanciato oggetti contundenti, tra cui ciottoli, contro le forze dell'ordine schierate nel quartiere delle istituzioni europee, completamente chiuso a veicoli come a pedoni.A Parigi a contribuire a portare alle stelle la tensione, già altissima, c'erano le state le immagini degli agenti di polizia che giovedì hanno arrestato 151 studenti del liceo di Mantes-la-Jolie, nella periferia di Parigi, e li hanno tenuti ammanettati in ginocchio in un giardino dietro la loro scuola: diversi manifestanti hanno imitato il gesto.Il presidente americano Donald Trump ha in qualche modo messo il cappello sui gilet gialli, collegando la protesta contro il caro-carburante all'accordo di Parigi sul clima, da cui gli Usa si sono sfilati. "L'accordo di Parigi - ha twittato Trump - non sta funzionando così bene per Parigi. Proteste e rivolte in tutta la Francia. Le persone non vogliono pagare tanti soldi, molti ai Paesi del terzo mondo (che sono governati in maniera discutibile), forse per proteggere l'ambiente. Scandiscono 'vogliamo Trump', amo la Francia". E dalla Turchia, il presidente  Recep Tayyip Erdogan, ha messo l'accento sui diritti umani: "Guarda cosa sta facendo ora la polizia di quelli che hanno preso in giro la nostra polizia, quelli che hanno detto che la nostra polizia era repressiva", ha detto Erdogan, riferendosi alle critiche ricevute dall'Europa durante le grandi proteste in Turchia cinque anni fa. "Coloro che hanno usato il populismo politico contro i rifugiati e l'islamofobia sono caduti nel buco che loro stessi hanno scavato", ha concluso Erdogan.

Il Qatar annuncia l’uscita dall’Opec, il ministro dell’Energia: “Ci concentreremo sulla produzione di gas”

Secondo quanto scrive il Financial Times la decisione segue un peggioramento dei rapporti di Doha con i suoi vicini: quattro Stati arabi - Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto - hanno interrotto i rapporti commerciali con il Qatar l'anno scorso accusando l’emirato di appoggiare il terrorismo.

Il Qatar ha annunciato che a gennaio lascerà l’Opec. Il ministro dell’Energia Sherida Saad al-Kaabi ha precisato che il Paese ha deciso di concentrarsi sulla produzione di gas. Il Qatar è l’undicesimo produttore di petrolio dell’Opec ed è il più grande esportatore al mondo di gas naturale e fa parte dell’Opec. Secondo quanto scrive il Financial Times la decisione segue un peggioramento dei rapporti di Doha con i suoi vicini: quattro Stati arabi – Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrain ed Egitto – hanno interrotto i rapporti commerciali con il Qatar l’anno scorso accusando l’emirato di appoggiare il terrorismo.

Nel giugno del 2017 il Qatar aveva respinto la lista di 13 condizioni imposta da Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrain per l’abolizione delle sanzioni contro Doha definendola “irrealistica”. Tra le richieste avanzate dal fronte guidato da Ryad figuravano quella di chiudere la tv Al Jazeera, interrompere i rapporti con l’Iran e con la Fratellanza musulmana, rinunciare ad una base militare turca. Una lista che va ben oltre le accuse iniziali di sostenere il terrorismo e che impone di fatto all’emirato una limitazione della sua sovranità. Il Qatar si ritrova semi-isolato da quando, il 5 giugno 2017, i quattro Paesi arabi hanno interrotto le relazioni diplomatiche, i loro collegamenti marittimi e aerei con Doha e chiuso l’unica frontiera terrestre dell’emirato, con l’Arabia Saudita.

I quattro Paesi avevano motivato la loro decisione accusando il Qatar di sostenere gruppi “terroristici”, tra cui Al Qaeda e l’Isis, e di avere rapporti troppo stretti con Teheran, il grande rivale sciita dei sauditi nella regione. A Doha veniva chiesto in sostanza di rinunciare alla sua politica estera che negli ultimi anni l’ha portato ad intrattenere buoni rapporti su vari fronti, compreso appunto con l’Iran, Israele e allo stesso tempo gruppi legati alla Fratellanza musulmana, come Hamas, in passato abbondantemente finanziato anche dall’Iran.

Russia-Ucraina, marinaio di Kiev arrestato “confessa” davanti ai servizi segreti russi Mosca rifiuta mediazione internazionale

 

Lunedì le autorità russe hanno interrogato i marinai ucraini arrestati. Gli interrogatori sono stati condotti da uomini dell’Fsb, l’intelligence erede del Kgb, che ha anche diffuso un video della sessione. Tass: "Attaccati insediamenti a Lugansk". Le due versioni e il ruolo delle elezioni presidenziali in Ucraina

Dopo 48 ore dagli eventi attorno lo Stretto di Kerch la situazione appare precaria e di difficile risoluzione. Accuse reciproche di inadempienza ai trattati vengono scambiate fra Kiev e Mosca mentre Europa e Stati Uniti supportano apertamente la tesi ucraina. Il Parlamento di Kiev ha accetto la richiesta di Poroshenko e la legge marziale è stata imposta in alcune zone del paese, a soltanto pochi mesi dalle elezioni presidenziali.

Lunedì le autorità russe hanno interrogato i marinai ucraini arrestati. Gli interrogatori, riferisce la Tass, sono stati condotti da uomini dell’Fsb, l’intelligence erede del Kgb, che ha anche diffuso un video della sessione, in cui uno dei marinai confessa la natura provocatoria delle azioni della marina ucraina. “Le richieste radio (dalle guardie di frontiera russe, ndr) sono state deliberatamente ignorate, c’erano armi e mitragliatrici a bordo: ero consapevole che si trattava di una provocazione“, ha dichiarato davanti alle telecamere il comandante Vladimir Lesovoy.
L’Fsb ha interrogato anche Andrei Drach, un ufficiale del servizio di sicurezza ucraino (Usb), che si trovava a bordo della nave Nikolpol, e Sergei Tsybizov, marinaio dello stesso vascello.

 
 

 

Un tribunale della Crimea, annessa nel 2014 dalla Russia, ha deciso che tre marinai ucraini, tra gli oltre 20 catturati, saranno trattenuti in detenzione provvisoria per due mesi, accusati di aver superato illegalmente la frontiera russa. “Per ora tre persone sono state poste in detenzione provvisoria sino al 25 gennaio”, ha dichiarato la commissaria per i diritti umani della penisola, Lyudmila Lubina. I tre marinai sono stati identificati come Vladimir Varimez, Vladimir Bespaltchenko e Andreï Oprysko.

Sul piano diplomatico il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov ha rifiutato ogni mediazione internazionale, dopo un incontro a Parigi con il collega francese Jean-Yves Le Drian. “Non vedo la necessità di alcun tipo di mediatori”, ha detto Lavrov, dopo che il ministro tedesco Heiko Maas aveva suggerito che Germania e Francia potessero contribuire a trovare una soluzione tra Mosca e Kiev. Lavrov ha affermato che per scongiurare altri incidenti di questo tipo gli alleati occidentali dell’Ucraina dovrebbero inviare un “segnale forte” a Kiev a fermare ogni “provocazione”. Il ministro russo ha ribadito che sono stati gli ucraini a provocare lo scontro.

Due versioni contrastanti

Vi sono due narrazioni opposte degli eventi accaduti domenica 25 novembre nello Stretto di Kerch, lungo pochi chilometri di larghezza e unico accesso che dal Mar Nero consente agli scafi di inoltrarsi nel Mare di Azov. Da una parte Kiev lamenta la violazione del Trattato, stipulato nel 2003 con Mosca, il quale definisce lo Stretto e le acque circostanti come storicamente condivise da entrambi i paesi e ne stipula la libera navigazione per battelli civili e convogli militari.

Mosca ha da parte sua accusato le navi ucraine di aver manovrato in maniera pericolosa, entrando nelle acque territoriali russesenza aver ottenuto prima alcuna autorizzazione. Queste avrebbero poi cercato di forzare il blocco organizzato dalla Guardia costiera russa, costringendo le autorità a intervenire.

Di certo c’è che due vascelli si sono scontrati e che i militari russi in una fase successiva abbiano aperto il fuoco. Più di 20 marinai ucraini sono al momento detenuti (anche il loro numero è incerto, alcune fonti parlano di 23 mentre altre di 24 uomini) e almeno 3 di questi sarebbero stati curati in ospedali russi. L’intero convoglio ucraino sarebbe stato trainato nella notte fra domenica e lunedì nel porto russo di Kerch.

In una giravolta di telefonate, il presidente ucraino Petro Poroshenko ha raggiunto diversi leader europei. Angela Merkelha espresso preoccupazione per l’utilizzo di armamenti, impegnandosi con ogni mezzo per contribuire a fermare l’escalation. In una telefonata con il presidente polacco Andrzej Duda, Poroshenko avrebbe ottenuto il supporto della Polonia e un impegno a coordinare i futuri passi per contrastare la “minaccia russa”. Entrambi hanno richiesto all’Unione Europea di introdurre nuove sanzioni e di portare la materia all’attenzione del Consiglio Europeo. Sia Kiev che Varsavia si sono opposti alla costruzione del gasdotto Nord Stream 2 che collegherà Russia e Germania nel Mar Baltico. Da tempo diverse voci chiedono l’imposizione di penali per impedirne la realizzazione.

Prima della crisi Poroshenko pareva all’angolo e destinato a perdere qualsiasi sfida elettorale a causa della crisi economica che colpisce il paese. Gli ultimi sondaggi a disposizione proiettavano infatti al secondo turno una sfida fra l’ex primo ministro Yulia Tymoshenko, alla guida del partito “Patria” e Vladimir Zelenskiy. La prima, 57enne, ha una lunga carriera politica alle spalle e un’ambigua posizione nei confronti di Mosca. Durante una riunione dello stesso Consiglio di Sicurezza Nazionale nel febbraio del 2014 la Tymoshenko avrebbe insistito perché l’Ucraina accettasse l’annessione della Crimea da parte della Russia. Lo scorso ottobre la stessa avrebbe dichiarato che la popolazione ucraina avrebbe dovuto decidere riguardo l’ingresso del paese nella Nato attraverso un referendum popolare. Al contrario Zelensky, un 40enne uomo di spettacolo e attore, è completamente privo di esperienza politica e per questo attrae una consistente parte di elettorato, in questo momento alla ricerca di idee e volti nuovi.

Secondo le analisi di voto, separato soltanto da pochi decimali dall’attuale presidente, vi sarebbe anche Sviatoslav Vakarchuk, il frontman degli Okean Elzy, una delle più importanti band rock ucraine. La stessa può vantare un largo seguito anche in Russia. Vakarchuck è stata una figura largamente associata alle manifestazioni di piazza del 2014 che hanno portato alla fuga dell’ex presidente Viktor Yanukovych.

Mentre il paese si prepara alla campagna elettorale del 2019, la situazione in Ucraina appare paradossale. Le truppe dell’esercito regolare nel Donbass sono state messe in stato di allerta mentre, secondo quanto riporta l’agenzia russa Tass, l’artiglieria avrebbe attaccato diversi insediamenti dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk. Il tutto mentre Poroshenko dichiara pubblicamente di avere prove che la Russia starebbe pianificando un attacco su larga scala e le autorità russe dichiarano di aver arrestato alcuni ufficiali dei servizi di sicurezza ucraini a bordo delle navi dirette verso lo Stretto di Kerch.

In un perenne rimbalzo fra richiami al nazionalismo, improbabili cospirazioni e allusioni verso inaspettate aperture future, vi è la sola certezza che da oggi la questione del Mare di Azov fa parte della vasta sfida geopolitica tra Mosca e l’Occidente e che solamente l’elezione di un nuovo presidente in Ucraina non potrà di certo risolverla.

 

Standard&Poor’s salva il rating dell’Italia. Ma vede nero. l'Italia retrocedeva in B nel gennaio 2012, da allora ha mantenuto la "categoria" subendo tuttavia gli sbalzi dell'andamento del debito, 28 ottobre 2018

Conti pubblici italiani bocciati. Ma a metà. Come da pronostico Standard&Poor’s mantiene il rating dell’Italia a Bbb, ma taglia l’outlook da stabile a negativo. Dunque il debito non è ancora spazzatura ma i saldi strutturali di bilancio non sono quelli indicati dal governo. Sono peggiori.

Se non altro il declassamento almeno è stato evitato anche se adesso resta da capire la reazione dei mercati, lunedì. “A nostro avviso, il piano economico del governo rischia di indebolire la performance di crescita dell’Italia”, sostiene l’agenzia nel suo report, nel quale bolla la manovra come “un’inversione rispetto al precedente consolidamento di bilancio e in parte torna indietro sulla precedente riforma delle pensioni”. Le stime del Pil, scrive Standard & Poor’s “sono ottimistiche e non ci si aspetta più che il debito italiano rispetto al pil continui a calare”. Ma soprattutto il deficit a fine 2019 salirà al 2,7% e non al 2,4% come stimato dal governo.

La decisione arriva dopo che l’agenzia Moody’s ha declassato la scorsa settimana il nostro Paese a Baa3, mantenendo un outlook stabile sul debito pubblico italiano. A fine agosto, invece, Fitch aveva confermato il rating a Bbb, ma rivedendo l’outlook da stabile a negativo. Standard & Poor’s, quindi, era l’ultima agenzia  ad esprimersi nel 2018.

Le scale di valutazione di solito partono dalla tripla AAA, cioè la massima sicurezza del capitale, e terminano con la D, cioè il default, quando il capitale è dato praticamente per perso. In mezzo alla scala c’è una linea di confine, quella dell’investment grade, sotto cui l’investimento viene giudicato altamente speculativo, e dove per policy la maggior parte dei fondi non speculativi non può investire. In passato la affidabilità del giudizio delle agenzie è stato messo in passato in discussione, come quando a Lehman Brothers venne riconosciuta affidabilità fino a pochi giorni prima del suo fallimento.

L’Italia si mantiene comunque per adesso sopra il “non investment grade”, che sarebbe la soglia sotto la quale la situazione diventerebbe molto critica per il nostro Paese. Esistono infatti regolamenti che obbligano i fondi obbligazionari a disfarsi dei titoli sotto l’investment grade, perché giudicati speculativi. Se due agenzie portassero l’Italia sotto l’investment grade, Goldman Sachs ha calcolato che potrebbero scattare vendite di titoli pubblici italiani per 100 miliardi.

 

 

Donald Trump "dimezzato" dal voto di midterm. Maggioranza al Senato ma non alla Camera: ecco cosa comporta

Un presidente senza il supporto della Camera è 'esposto' all'impeachment, ma mantiene autonomia in politica estera.

Il partito repubblicano nelle elezioni di metà mandato ha perso il controllo della Camera dei rappresentanti, ma ha mantenuto (anzi rafforzato) il controllo del Senato. Il presidente quindi non potrà più contare sul supporto del Congresso nel suo complesso, una situazione che avrà importanti ripercussioni sulla sua politica interna. E lo trasforma - seppur parzialmente - in "un'anatra zoppa".

Cosa succederà alla politica estera?

Il presidente manterrà autonomia e ampi poteri, come prevede la Costituzione americana, che assegna alla Casa Bianca le prerogative in politica estera. In quel campo l'influenza del Congresso è più modesta.

Cosa succederà alla politica interna?

Di fatto questo significa entrare in una fase di difficoltà della presidenza perché le sue proposte si possono arenare di fronte al veto parlamentare. Il sistema politico americano è infatti "meno presidenziale" di quanto appaia. Le leggi più importanti, nuove tasse o nuove spese, non possono passare senza il sì del Congresso.

È importante che Trump abbia mantenuto il Senato?

Sì, anche perché il Senato ha un potere aggiuntivo rispetto alla Camera, quello di confermare o bocciare le più importanti nomine del presidente: membri dell'esecutivo e giudici. Come si è visto nel caso del giudice della Corte Suprema Kavanaugh. La guerra dei repubblicani si estenderà anche alle nomine, quindi, privando il presidente di uno degli strumenti per cambiare gli equilibri di potere.

La Camera può proporre impeachment contro Trump?

Sì, il procedimento di messa sotto accusa del presidente è una prerogativa della House of Representative. Bisognerà capire come la maggioranza democratica vorrà usare questo potere o questa minaccia. Un'ala radicale del partito vorrebbe avviare subito dei procedimenti di impeachment sia contro il presidente sia contro il giudice Kavanaugh. Ma questo potrebbe trasformarsi anche in un autogol per i democratici, trasformando - per il suo elettorato - Trump in una vittima.

 

Spagna, procura chiede oltre 200 anni per leader catalani. Ora il governo è a rischio

 
 

A un anno dalla dichiarazione d'indipendenza di Barcellona le richieste dell'accusa: 12 condanne per ribellione e 7 per malversazione. L’avvocatura dello Stato contesta il più lieve reato di sedizione, ma per i partiti indipendentisti l’apertura dell'esecutivo è insignificante. Così la manovra “più a sinistra della storia” rischia di non avere i voti in Parlamento

Dodici condanne per ribellione, sette per malversazione di fondi pubblici e un totale di oltre 200 anni di carcere. Sono le pene chieste dalla procura generale spagnola per l’ex vicepresidente catalano Oriol Junqueras e altri cinque consiglieri del governo di Carles Puidgemont a un anno esatto dalla loro incarcerazione. Era il 2 novembre 2017 quando i leader indipendentisti venivano arrestati a seguito della dichiarazione unilaterale d’indipendenzadel Parlamento di Barcellona, forte del risultato del referendum del 1° ottobre. E le richieste hanno già avuto un effetto deflagrante nei rapporti tra il governo di Pedro Sánchez (appoggiato da Podemos) e i partiti autonomisti, i cui voti sono fondamentali per approvare la legge di bilancio (i Presupuestos generales del estado) e prolungare la vita dell’esecutivo. Le due forze catalane, i moderati del PdeCat (il partito di Puidgemont) e i progressisti dell’Erc (il partito di Junqueras) contano 17 membri al Congresso e 16 al Senato: senza il loro appoggio, l’alleanza Psoe-Podemos non ha i numeri sufficienti in nessuno dei due rami. A rischio c’è anche il sostegno degli 11 parlamentari del Pnv, il partito nazionalista basco, per natura sensibile alla causa indipendentista.

 

 

Il  alla legge di bilancio è sempre stato condizionato, da parte di Erc e PdeCat, a segnali concreti di distensione da parte del governo nei confronti dei politici sotto processo. Un obiettivo – inimmaginabile ai tempi di Mariano Rajoy – che sembrava in qualche modo raggiungibile con Sanchez, grazie anche alla mediazione del leader di Podemos, Pablo Iglesias. Se la manovra non sarà approvata entro marzo, il governo dovrà prorogare il bilancio del 2018 e sarebbe costretto di fatto alle dimissioni, con nuove elezioni da convocare nella stessa primavera del 2019 o più probabilmente in autunno.

Le dichiarazioni dei leader catalani, per ora, non lasciano immaginare alcuno sviluppo diverso da questo: il capogruppo dell’Erc, Sergi Sabrià, ha annunciato il “no forte e chiaro” dei suoi deputati ai Presupuestos, denunciando la “virulenza inaspettata” delle richieste della procura. Anche il presidente del PdeCat, David Bonvehì, è stato lapidario: “È evidente che non c’è nulla da negoziare. Ora se la devono sbrigare loro, con il loro bilancio e la loro politica spagnola”, ha dichiarato partecipando a un sit-in di solidarietà fronte al carcere di Lledoners, dove sono rinchiusi Junqueras e gli ex consiglieri della Generalitat Joaquim Forn, Raul Romeva, Jordi Turull e Josep Rull.

Per tutti loro, i magistrati hanno chiesto la condanna per ribellione e malversazione del denaro pubblico investito nel referendum: la richiesta per Junqueras, considerato il capo del movimento, è di 25 anni di carcere e interdizione dai pubblici uffici (il massimo previsto), quella per i quattro consiglieri è di 16 anni. Diciassette anni, invece, la pena sollecitata per Carme Forcadell, ex speaker dell’assemblea catalana, nonché per Jordi Sánchez e Jordi Cuixart, leader delle associazioni culturali indipendentiste Anc e Ómnium cultural, che hanno avuto un ruolo centrale nell’organizzazione delle urne.

Colpevole di ribellione, nell’ordinamento spagnolo, è chi insorge “violentemente e pubblicamente” per raggiungere una serie di obiettivi, tra cui “dichiarare l’indipendenza di una parte del territorio nazionale”. È necessario, quindi, che la sollevazione avvenga con atti violenti. Secondo l’accusa, la violenza è insita nella “forza intimidatrice” delle manifestazioni convocate dai leader indipendentisti contro il governo di Madrid: potendo contare, tra l’altro, sulla fedeltà della polizia catalana (i Mossos d’Esquadra), per il cui capo, Josep Lluis Trapero, l’accusa ha chiesto 11 anni di carcere in un procedimento separato. Per sostenere la propria tesi, la procura ha fatto riferimento anche ai fatti del 20 settembre 2017, quando la Guardia Civil fece irruzione negli edifici governativi di Barcellona per sequestrare il materiale relativo al referendum: centinaia di catalani tentarono di impedire il blitz, e in 14 vennero arrestati.

 

 

 

 
 
 
 
 

 

Cina, come convivere con la nuova superpotenza globale. L’alternativa è essere travolti

Cina, come convivere con la nuova superpotenza globale. L’alternativa è essere travolti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Brasile, come siamo arrivati al fascismo di Bolsonaro

Brasile, come siamo arrivati al fascismo di Bolsonaro

Prima domanda: che cos’è oggi, dopo il voto del 28 ottobre, la República Federativa do Brasil? Risposta: la República Federativa do Brasil è una democrazia con un fascista per presidente. Ed è per questo, inevitabilmente, una democrazia in pericolo, un potenziale (ed enorme) buco nero nel cuore d’un continente che, in un tristissimo autunno, sta vivendo l’agonia della lunga stagione democratica e progressista apertasi esattamente 35 anni fa, quando alla fine dell’ottobre 1983, la vittoria di Raúl Alfonsín annunciò la fine delle dittature militari che, in Argentina, in Brasile e nell’intero “cono sur” avevano, per oltre un decennio, insanguinato l’America latina.

Perché ci si può girare attorno, si può, fin che si vuole, spaccare il proverbiale capello in quattro in merito alle similitudini e alle differenze, si possono moltiplicare i distinguo e le distinzioni, ma la sostanza resta. A dispetto delle parole a mezza bocca pronunciate il giorno del suo trionfo – “difenderò la Costituzione e la democrazia” -, il nuovo presidente democraticamente eletto, Jair Messias Bolsonaro, possiede e senza ritegno mostra, nei gesti, nelle parole, nello stile di vita, nell’estetica tutto quella che del fascismo è da sempre la linfa vitale: il culto della violenza e della morte, la volgarità, il gusto sordido della sopraffazione dell’”altro”.

 

 

Il tutto condito da un dichiarato amore non solo per la dittaturache fu, ma di quelli che della dittatura furono gli aspetti più cruenti. Bolsonaro istintivamente adora tutto ciò che abbia l’odore del sangue o, in qualche modo, sappia di caserma, di giunta militare o di golpe. E questo al punto che, nel 1999, arrivò a entusiasticamente elogiare – definendolo “la speranza dell’America latina” – persino il tenente colonnello golpista Hugo Chávez, allora fresco presidente del Venezuela e oggi mostrato postumo alle folle come il più classico degli spaventapasseri anticomunisti.

Seconda domanda: come ha fatto, questo inequivocabile fascista, a conquistare, grazie al voto popolare, la presidenza del Brasile? Per capirlo, io credo occorra partire da una data e da una formula politica. La data – che, seppur cronologicamente prossima, appare oggi anni luce lontana – è il primo gennaio dell’anno del Signore 2011. E la formula politica è: “Il dilemma della governabilità”.

Non è possibile qui, per ragioni di spazio, raccontare in dettaglio un estremamente complesso intrecciarsi di eventi. Sicché rimando, per una più accurata analisi, a un più ampio articolo che scrissi mesi fa, il giorno dell’arresto di Lula. Ridotta tuttavia al suo nocciolo la storia è questa. Quando, all’alba del 2011, Lula da Silva passò la fascia presidenziale all’erede da lui prescelta, Dilma Rousseff, vantava indici di gradimento oltre l’80%, che facevano di lui (e di gran lunga) il più popolare presidente della storia del Brasile. Lula piaceva, in effetti, a tutti. Alla super-élite “globalista” di Davos e agli “alternativi” del Foro sociale mondiale, ai socialdemocratici, ai “rivoluzionari” e, persino, ai conservatori. Entrambi i presidenti Usa da lui conosciuti come “colleghi” – George W. Bush e Barack Obama – lo avevano corteggiato e incensato, in sintonia con pressoché tutti gli altri leader planetari. In un Brasile che sembrava diventato, infine, protagonista della sua storia e di quella del mondo, Lula era a tutti gli effetti diventato la proverbiale quadratura del cerchio, il punto d’incontro d’ogni diversità, l’oasi nella quale ogni conflitto s’acquietava.

Perché? Perché sotto la sua guida il Brasile aveva – grazie alla spinta del “vento di coda” del boom mondiale delle materie prime – conosciuto per sette anni indici di crescita (più 7,5% nel 2010) pressoché “cinesi”, producendo una ricchezza che, intelligentemente redistribuita, aveva portato dalla povertà al più dignitoso alveo della classe media ben 36 milioni di persone (di fatto, un Paese più grande di mezza Italia).

Tanto miracolo – prodotto non della “rivoluzione” che Lula e il suo Partido dos tabalhadores avevano a lungo promesso, bensì, all’opposto, della “continuità-discontinuità” che, alla vigilia delle elezioni del 2002, lo stesso Lula aveva illustrato nella sua molto tranquillizzante “lettera aperta al popolo brasiliano” – aveva tuttavia una premessa e un prezzo: quello che, per l’appunto, molti analisti hanno chiamato “il dilemma della governabilità”. Popolarissimo, ma privo d’una maggioranza parlamentare, Lula poteva – come ogni altro presidente brasiliano – governare il Paese solo attraverso unacoalizione. E “coalizzarsi” sostanzialmente significa, in Brasile, venire a patti con la vischiosa realtà di potentati economici, poteri locali e clientelari o, per meglio dire, con una corruzione sistemica che il Pt ha prima tentato di cambiare “da dentro”, poi tollerato e infine cooptato.

Occultato sotto il tappeto dei successi economici, il gioco è stato infine impietosamente scoperchiato, sul finire del 2014, da due concomitanti fattori: la più profonda e prolungata recessione della storia del Brasile – esaltata dalla fine del “commodity boom” e dalla fragilità d’una crescita basicamente fondata sull’aumento del consumo – e il travolgente effetto-domino di indagini giudiziarie che, partite da una marginale inchiesta in quel di Curitiba, hanno finito per demolire l’intero sistema politico.È in questo deserto che è nato il fenomeno Bolsonaro. E è in questo deserto che non solo la sinistra, ma tutto il tessuto democratico brasiliano non ha saputo cogliere la realtà d’un Paese esasperato dalla violenza, dalla corruzione e da una democrazia incapace di combattere la prima e corrosa dalla seconda. Condannato e incarcerato – poco importa qui stabilire se giustamente o ingiustamente – Lula ha commesso l’errore tragico di voler trasformare le ultime presidenziali non in una battaglia per la sopravvivenza della democrazia, ma in un referendum pro o contro se stesso. E lo ha perduto. Tutta la democrazia brasiliana lo ha perduto. E ora la domanda – una domanda angosciante e inedita – è: riuscirà, questa democrazia, a sopravvivere con un fascista alla sua guida?

 

Grecia, accordo all’Eurogruppo: uscita da piano di aiuti e alleggerimento del debito. Ma continua monitoraggio

Atene potrà posticipare di 10 anni, dal 2022 al 2032, il pagamento dei 110 miliardi di euro di prestiti ricevuti dal vecchio fondo salva-Stati Efsf. E si vede estendere di ulteriori 10 anni il 'periodo di grazia', quello in cui non scattano sanzioni se non si ripaga il prestito. Per accontentare Berlino, però, per i prossimi cinque anni rimarrà sotto stretta sorveglianza. Moscovici: "Crisi finisce stasera". Varoufakis: "Fanno il deserto e lo chiamano pace"

Bce, invece di fermare il QE dirottiamolo a sostegno di imprese e lavoro

L’annuncio – dato da Peter Praet, membro del comitato esecutivo dellaBanca centrale europea – che dal prossimo anno la Bce cesserà di acquistare titoli di Stato dei singoli Paesi membri ha subito messo in allarme molti governi dell’Unione a causa delle tensioni che questo provvedimento (peraltro inevitabile presto o tardi) creerà.

Il QE (Quantitative Easing) è una misura di sostegno monetario all’economia nazionale adottato per la prima volta in gran quantità dagliStati Uniti nel 2008 come difesa alla forte carenza di liquidità generata dalla Grande recessione iniziata nel 2007. Mediante la tecnica del QE laFederal Reserve americana acquistava (al ritmo di 50 miliardi di dollari al mese) titoli di Stato e obbligazioni industriali, togliendo quindi agli enti emittenti l’affanno di doverli collocare in un mercato che si trovava in quel periodo fortemente appesantito dalla crisi.

 

 

Il QE europeo si differenzia da quello americano soprattutto per il fatto che gli acquisti Bce riguardano solo titoli di Stato emessi dai paesi aderenti mentre la Fed acquistava anche titoli di imprese. In questo modo gli acquisti della Fed risultavano più efficaci in termini di liquidità diffusa sul territorio. La Fed poteva inoltre usare contemporaneamente anche la leva monetaria (svalutazione del dollaro) al fine di dare sostegno all’occupazione che è tra l’altro proprio una delle sue finalità costitutive, cosa che la Bce invece non ha.

Dato che in questo periodo si parla diffusamente della necessità di completare la costruzione di una Unione europea che non sia solo monetaria e dato che al tempo della nascita dell’euro non si è voluto né risolvere né scadenziare provvedimenti che andassero a risolvere questo gap iniziale, diventa necessario affrontare ora con coraggio e lungimiranza tutti i problemi sul tavolo tra i quali quello di dare alla Banca centrale completa operatività.

Tutti sanno bene l’ostacolo principale al raggiungimento di questo obbiettivo è stato fin dall’inizio l’elevato indebitamento che alcuni Stati avevano nel confronto con gli altri. Il requisito di “buona amministrazione” richiesto per far parte dell’Unione sarebbe certamente plausibile se fosse da parte di tutti accompagnato da ogni sforzo possibile per superare il gap. Invece non solo evidenzia a questo punto in molti casi la “spocchia” di chi vuol fare il primo della classe, ma nasconde addirittura una propensione a voler primeggiare in competizioni ad handicap impostate al contrario: cioè si fa partire avvantaggiati i più forti anziché i più deboli e si mantiene l’handicap per tutto il percorso. Un assurdo incredibile per chi volesse veramente costruire l’Unione profittando magari anche dei recenti cambiamenti politici e istituzionali in parte avvenuti, altri in corso di perfezionamento.

Gli ideali di una Unione dovevano essere quelli di chi, pur tra difficoltà consistenti, doveva tendere fin da subito a unire invece che mettere limiti, vincoli, paletti, per distinguere i “bravi” dai “cattivi”. Adesso sappiamo che non è possibile pretendere di fare unioni di questo genere ponendo pesantissimi vincoli che, oltre a essere molto difficoltosi da raggiungere per chi parte svantaggiato, si trova addirittura a competere con chi da quello svantaggio ne trova evidenti vantaggi. L’errore c’era già in partenza ed è ora di superarlo. Si può farlo in diversi modi. Uno (ottimo) è consigliato dal Nobel Joseph Stiglitz che consiglia un Europa con due euro (quello “sud” debole e quello nord “forte” per dare il tempo alle diverse economie di avvicinarsi), ma è ancora una Europa che vuole mantenere le distanze tra “ricchi” e “poveri”.

Bisogna trovare il coraggio di eliminare tutte queste divisioni e mettersi subito insieme, senza se e senza ma. Occorre recuperare l’entusiasmo e il coraggio per riunirsi ed eliminare gli “spigoli” più fastidiosi di questa Unione traballante. Proprio come hanno fatto Matteo Salvini e Luigi Di Maio per formare il governo d’Italia. Entrambi hanno rinunciato a molto, ma hanno raggiunto un traguardo che sembrava impossibile. Solo così, costruendo una vera Unione, si potranno eliminare gli egoismi dei forti e le invidie dei deboli. L’Europa non può più aspettare e non può dividersi più di quello che è già. Il mondo corre, noi (Europa) siamo quasi fermi da anni.

Per cominciare si potrebbe partire proprio dalla riforma della Banca Centrale consentendole di intervenire a sostegno delle imprese e contro ladisoccupazione con un QE mirato a questo scopo invece che a quello più generale di sostenere la liquidità monetaria, ora meno necessario ma di cui hanno beneficiato molto di più le banche che le aziende (e per niente i lavoratori). Si potrebbe fare agevolmente con emissioni speciali di titoli(cinquantennali?) degli Stati più colpiti dalla crisi dando così ampio tempo per recuperare. Non sto inventando niente, il Giappone già lo fa.

Disney acquista 21th Century Fox per 52,4 miliardi di dollari

Arriva l'ufficialità dell'accordo. Smembrato l'impero di Rupert Murdoch. Gli azionisti di 21st Century Fox riceveranno 0,2745 azioni Disney per ciascuna azione in loro possesso. Disney si assumerà anche 13,7 miliardi di debiti

Bitcoin, la miniera d’oro delle criptovalute nel deserto industriale bulgaro

Dove c’erano le industrie oggi si “fabbricano” criptovalute: scaffali pieni di computer e “minatori” davanti agli schermi. Si producono qui, vicino Sofia, perché l’energia costa un terzo

 

 

Qatar, l’isolamento diplomatico non minaccia l’impero del gas

Qatargas, la più importante società di gas naturale liquefatto del mondo, ha annunciato l’accordo a medio termine con Botaş Petroleum Pipeline Corporation (Botaş). Secondo le condizioni dell’accordo, Qatargas consegnerà 1,5 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto (Gnl) all’anno per tre anni. Saad Sherida Al-Kaabi, presidente e amministratore delegato di Qatar Petroleum e presidente del consiglio di amministrazione di Qatargas, ha dichiarato che questo nuovo accordo con Botaş rafforzerà ulteriormente il rapporto tra Qatar e Turchia.

Tutto ciò nonostante le misure diplomatiche e commerciali dei sauditi contro l’Emirato governato dalla famiglia Al-Thani. Il Qatar oggi è uno dei più importanti Paesi produttori ed esportatori di gas naturale e fornisce all’Italia ed a parte dell’Europa un prodotto che settimana dopo settimana arriva nei nostri porti e nei terminali di rigassificazione.

A causa dell’ dell’instabilità della Libia, di sicuro non più sinonimo di sicurezza, il Qatar oramai è il terzo fornitore di gas per il nostro Paese, avendo superato proprio oggi la Libia. Nel 2016, infatti, secondo i dati forniti dal Ministero dello Sviluppo Economico, Doha ha consegnato all’Italia 5,8 miliardi di metri cubi di gas, coprendo pressoché la totale fornitura di gas naturale liquefatto per il nostro Paese.

Il gas qatarino finisce al rigassificatore situato a Rovigo, denominato Adriatic Lng. Il rigassificatore di Rovigo, di cui Edison è azionista, è in grado di coprire circa il 10% della domanda nazionale di gas naturale, ovvero 8 miliardi di metri cubi di gas all’anno. L’impianto è gestito dalla società Adriatic LNG di cui Edison detiene una quota del 7,3%. Gli altri azionisti sono ExxonMobil Italiana Gas (70,7%) e Qatar Terminal Company Limited (22%). Il terminale Adriatic LNG è la prima struttura off-shore al mondo in cemento armato per la ricezione, lo stoccaggio e la rigassificazione di gas naturale liquefatto (Gnl).

Persino la Russia, regina dell’export si è dovuta inchinare dinanzi al Qatar. Infatti la capacità di liquefazione della Russia, nonostante le enormi riserve, è inferiore ai 30 milioni di tonnellate l’anno, contro i poco meno di 80 milioni del Qatar. A quanto pare il Qatar può godere del sostegno dell’Iran, due Paesi uniti proprio nel gas. Si tratta del South Pars/North Dome, considerato ad oggi il più grande giacimento di gas al mondo. Se la parte principale del giacimento si trova sotto la sovranità del Qatar, la parte rimanente appartiene invece all’Iran. Proprio quest’ultimo resta un produttore di alcune qualità di greggi impiegati a livello internazionale nella realizzazione di benzine e gasoli indispensabili ma che dopo la fine delle sanzioni non ha ancora raggiunto la fluidità commerciale tale da garantire la tranquillità contrattuale ed economica di prodotti e servizi con le aziende estere.

Pur di giocare ancora un ruolo geopoliticamente importante, gli iraniani hanno garantito a Doha una serie di rifornimenti fondamentali per la popolazione qatarina e soprattutto lo spazio aereo vitale alla sopravvivenza della stessa Qatar Airways all’indomani della clamorosa decisione del Bahrain, degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita e dell’Egitto nei confronti proprio del Qatar.

La partita energetica è appena iniziata e le draconiane posizioni dei sauditi sono relative ad un pericoloso asse Iran-Qatar. L’obiettivo è evitare il monopolio e una stabilizzazione dell’area tornando ad avere una fetta della torta equamente divisa anche se il Qatar ha ancora una carta da giocare, quel del gasdotto Dolphin, che con i suoi quasi 400 km trasporta il gas verso proprio gli Emirati Arabi e Oman.

 

Catalogna, le reazioni su Twitter dopo il discorso di Puigdemont: “Indipendenza durata 6 secondi. Se l’è fatta sotto”

 

 

 

Germania, negazionisti che sostengono Hitler ed ex collaboratori della Stasi: chi sono i nuovi deputati eletti da AfD( Alternative fur Deutschland)

La Brexit? Era uno scherzo

Muore Charles Manson, il neo nazi made in USA, autore nel 1969 della strage di Bel Air. Aveva 83 anni, 17-11-17

 

 

 

 IMPUNITA' GIUDIZIARIA

 

 

Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri condannati a 12 anni. Di Matteo: “Ex senatore cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e Berlusconi”

Ai vertici del Ros inflitta la stessa pena del fondatore di Forza Italia. Otto anni a De Donno, ventotto a Bagarella, dodici a Cinà: sono stati tutti riconosciuti colpevoli di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Prescritto Brusca, assolto Mancino per falsa testimonianza. Otto anni a Ciancimino per calunnia a De Gennaro. Il pm: "Mentre i giudici saltavano in aria qualcuno nelle Istituzioni aiutava i boss a ottenere i risultati chiesti da Riina"

 

Sette minuti e cinquanta secondi. Tanto ci ha impiegato il giudice Alfredo Montalto per dire che non solo la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma che ad averla fatta sono stati i boss mafiosi, tre alti ufficiali dei carabinieri e il fondatore di Forza Italia. Mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi. Che alla fine hanno ottenuto un riconoscimento grazie a Marcello Dell’Utri, uomo cerniera di Cosa nostra quando s’insedia il primo governo di Silvio Berlusconi.

È una sentenza che riscrive la storia della fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda quella emessa dalla Corte di Assise di Palermo. E che il sostituto procuratore Nino Di Matteo, unico pm titolare dell’inchiesta sin dall’inizio, spiega così: “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. E il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico“. Parole per le quali Forza Italia annuncia di querelare il magistrato della Direzione nazionale antimafia. 

 

 

Condannati boss, carabinieri e Dell’Utri – Il commento del pm, però, è legato allo storico dispositivo appena letto dai giudici che hanno condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio TeresiRoberto Tartaglia e Francesco Del Beneche invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni. Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.

La minaccia allo Stato – Sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. L’assoluzione di Mancino – Assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola MancinoMassimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. Il figlio di don Vito, uno dei testimoni fondamentali del processo, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile. Riscritta la storia della Seconda Repubblica – La parte lesa del processo sulla Trattativa è infatti il governo, intimidito dall’escalation di terrore intrapresa dai corleonesi dopo che diventano definitivi gli ergastoli del Maxi processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia di Riina, capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca titolare di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare in provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto ad Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scrive su La Stampa Falcone, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci. 

Carabinieri e Forza Italia: il nuovo patto – Nel frattempo i carabinieri del Ros hanno già tentato di aprire un dialogo con la Cupola, agganciando Massimo Ciancimino e usando il padre Vito comeinterlocutore: per questo motivo Mori, De Donno e Subranni sono stati condannati per i fatti commessi fino al 1993. Con la loro condotta hanno cioè veicolato la minaccia di Cosa nostra fino al cuore dello Stato. La stessa cosa che ha fatto Dell’Utri, riconosciuto colpevole per i fatti commessi nel 1994. Come dire: la Trattativa tra mafia e Stato la aprirono i carabinieri, ma la portò avanti e la chiuse il fondatore di Forza Italia.

Di Matteo: “Sentenza storica” – “Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica“, è commento del pm Di Matteo, che ha abbracciato il collega Tartaglia mentre i giudici leggevano il dispositivo. “La sentenza – ha aggiunto il pm – dice che Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. La corte ritiene provato questo. Ritiene provato che il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico”. “Il verdetto – ha detto invece Tartaglia  – dimostra che questo era un processo che doveva necessariamente essere celebrato. La procura ha lavorato bene, svolgendo con serietà e professionalità il proprio lavoro. Le polemiche e le critiche sono state esagerate: ma le abbiamo superate”.

Salvini, il ministro della curva Sud a braccetto con gli ultrà condannati

Il caso. Alla festa del tifo milanista il titolare del Viminale con Luca Lucci detto il Toro, condanne per droga e violenze. E dice: "Io indagato tra gli indagati".......

La "gente per bene" traffica e spaccia droga (anche allo stadio), estorce, picchia e tenta di uccidere. La "gente per bene", come la chiama il ministro dell'Interno, gira armata di pistole e coltelli, si scontra con le forze dell'ordine e con gli ultrà avversari: e per questo è pluri-daspata. La "gente per bene" ha rapporti con le famiglie di 'ndrangheta in Lombardia, tratta partite di droga coi narcos. Una vita spericolata il cui cuore...

Ripartiamo da qua, dall’abbraccio tra il vicepremier Matteo Salvini e Luca Lucci, detto il Toro, capo della Curva sud del Milan. Domenica pomeriggio, all’Arena Gianni Brera, si celebrano i 50 anni di una delle curve storiche del tifo italiano. Ci sono tutti, capi ed ex capi, semplici tifosi, c’è anche il ministro dell’Interno che senza problemi stringe e abbraccia Lucci, spacciatore di droga così come da condanna (patteggiamento) in primo grado. Ultima ma non unica. Alle spalle il Toro ha quattro anni per l’aggressione a un tifoso dell’Inter durante il derby del 2009. Aggressione non da poco. Virgilio Motta, all’epoca vera anima del gruppo nerazzurro Banda Bagaj, per quel pugno perderà l’uso dell’occhio sinistro. Tre anni dopo, era il 2012, si suiciderà.

Droga e violenza avrebbero dovuto consigliare al ministro di non stringere così tante mani domenica all’Arena. Ministro che non fa mistero della sua fede rossonera (e ci mancherebbe) e nemmeno di aver frequentato la Sud. In quel processo Lucci e gli altri cinque imputati furono condannati anche a risarcire Motta con 140 mila euro. Subito dopo la condanna in aula la moglie del Toro urlò: “I 140 mila euro te li devi spendere tutti in medicinali, maledetto infame”. Quei soldi, anche se in ritardo, arriveranno.

Il 15 febbraio 2009 allo stadio Giuseppe Meazza va in scena l’incredibile. Dalla Sud si srotola la coreografia d’ordinanza. Lo striscione è però troppo lungo, va a finire al primo anello blu impedendo la visuale ai tifosi nerazzurri. Qualcuno, non la Banda Bagaj che sta invece in basso verso il campo, strappa quel telo di plastica. È la miccia, gli ultras rossoneri decidono di risolvere la questione. Scenderanno in un bel gruppo, cinghie in mano, orologi usati come tira pugni, volti coperti. L’obiettivo è lo striscione della Banda. A dividerli nessuno, solo pochi impacciati steward. Il racconto di vittime e testimoni è tremendo. A parlare in aula è lo stesso Virgilio. In quel momento sta proteggendo lo striscione. Spiega: “Arrivano ancora una serie di pugni, finché compare una mano. Il tizio proprietario della mano non era davanti a me. Il pugno era anomalo, un dolore fortissimo. Dolore tremendo, tolgo la mano e guardo, trovo sangue, trovo molte lacrime, sostanza gelatinosa e una lenticchia gelatinosa”. Spiegherà il dottor Maurizio Buscemi: “La lesione all’occhio è tragica, l’occhio potrebbe cedere, riaprirsi laddove è stato suturato, e riportare conseguenze ancora più gravi”. Nei giorni successivi un altro regolamento di conti ai danni di un noto personaggio della curva dell’Inter fa vacillare la pax che dura da anni tra le due tifoserie. Questo accade nel 2009. Sia chiaro per quei fatti Lucci ha scontato la sua pena. Pochi mesi dopo il suicidio di Motta, il 23 ottobre 2012 su internet compare uno scritto dal titolo: “L’indimenticabile storia dimenticata di Virgilio Motta”.

Si riassume l’accaduto con passaggi critici anche nei confronti delle istituzioni. A commento un post firmato con nome e cognome della figlia di Motta. Che lo abbia scritto lei non è dato saperlo. Si legge: “Ho quasi 13 anni, e quando mio padre morì ne avevo 9. Ero ancora piccola per la verità, non che mia madre non me l’avesse raccontata, ma faticavo a capire davvero il senso di tutto ciò (…). Mio papà non se n’è andato invano, ma se n’è andato per dimostrare a tutti che questo paese può essere bello quanto volete ma quando ne hai davvero bisogno non è quasi mai presente. Ci sarò sempre per ricordarlo”. Secondo i giudici di Milano, non il suicidio, ma l’aggressione fu colpa esclusiva di Luca Lucci. Eppure Salvini tira dritto e liquida le critiche con questa frase: “Io indagato tra gli indagati”. Sarebbe stato meglio dire “tra i condannati”. E se domenica il ministro stringeva la mano dello spacciatore, ieri ha festeggiato l’arresto dei pusher davanti alle scuole.

E torniamo alla festa con ex campioni e tifosi vip. C’è Lucci che oltre all’episodio di Virgilio e dello spaccio altri precedenti non ha, se non un buon elenco di Daspo per fatti da stadio. La droga, dunque. L’inchiesta del commissariato Centro diretto dal dottor Ivo Morelli ricuce una bella rete di spaccio. Tra gli arrestati anche il Toro, che, si legge nelle carte, utilizza gli spazi del Clan (sede storica della Curva a Sesto San Giovanni) per chiudere i suoi affari criminali. Gli investigatori filmano tutto. Immortalano così anche la presenza di Daniele Cataldo (non indagato), altra anima nera della Curva, finito in galera perché trovato con armi pesanti e droga nel suo box sempre a Sesto San Giovanni. Compare alla festa, in prima fila sul palco, Giancarlo Lombardi, detto Sandokan, regista delle dinamiche curvaiole, già in contatto con Loris Grancini, capo dei Viking della Juve oggi in carcere con pena definitiva a 13 anni per tentato omicidio. Lombardi è il grande burattinaio che nel 2006, dopo lo scioglimento della Fossa dei leonisi è preso la Curva, il secondo anello e poi il primo, scalzando personaggi storici collegati ad ambienti criminali di peso. Con Lucci oggi condivide interessi extra stadio legati alla movida. Lombardi, già condannato per una tentata estorsione al Milan, finirà in un’inchiesta per riciclaggio collegata al clan siciliano di Fidanzati.

Storia lunga quella della Sud. Oggi poi si registra c’è un nuovo gruppo, i Black Devils (non presenti alla festa), tra i cui membri ci sono persone molto vicine alla ’ndrangheta lombarda. Insomma, un bel gruppo di “amici” per l’attuale capo del Viminale che sorride e riceve pacche sulle spalle.

 

FonSai, rinviati a giudizio Ligresti e l’ex presidente della vigilanza, Giannini

 

 

 

DISASTRO CLIMATICO E MORFOLOGICO ITALIOTA

 

Cambiamenti climatici, Istituto superiore di sanità: “Restano 20 anni per salvare il pianeta. Provocano 250mila morti l’anno”

 

I Campi Flegrei, il più pericoloso dei vulcani italiani, sono alla vigilia (in termini geologici) di una nuova, violentissima eruzione

Terremoti, una “finestra” sotto il mar Ionio spiega l’allontanamento della Sicilia dalla Calabria

Terremoti, una “finestra” sotto il mar Ionio spiega l’allontanamento della Sicilia dalla Calabria

 

La scoperta avrà importanti implicazioni per capire meglio come si formano le catene montuose e come questi processi siano legati ai forti terremoti storici registrati nelle due regioni

 

 

 

PERCHE' IL SEVESO ESONDA A MILANO?

 

 

LA STORIA, cultura, scienza, tecnica

 

 

 

 

 

'Oumuamua, il primo asteroide interstellare mai osservato

'Oumuamua, il primo asteroide interstellare mai osservato
Credit: ESO/M. Kornmesser 

 

Lungo, con una luminosità estremamente variabile e rossiccio. E' stato avvistato dal Canada-France-Hawaii Telescope e la sua traiettoria ha origine fuori dal nostro Sistema solare

 

 

 

DAI GALLI INSUBRI AI ROMANI. DALL'EPOCA REPUBBLICANA A QUELLA IMPERIALE

 

 

 

 

MEDIOLANUM CAPITALE DELL'IMPERO ROMANO (285 d.C. - 476 d.C.) DA MASSIMIANO A TEODOSIO IL GRANDE

Ormai la città era diventata influente ed importante e gli imperatori, al varo della Tetrarchia voluta da Diocleziano allo scopo di consolidare strutture e confini di un impero sempre più vasto,decisero di farne capitale . Il confine nord in quel momento storico era a 400 chilometri e l'esistenza di un centro vasto come Mediolanum rispondeva perfettamente alle esigenze di difesa contro le invasioni barbariche sempre più frequenti.

IL PODEROSO SVILUPPO URBANISTICO TARDO-IMPERIALE

 

 

 

In via Boffalora riceve le acque del Deviatore Olona. Sottopassa il Naviglio Pavese vicino a Chiesa Rossa (ricevendone anche parte di portata) e lascia la città in direzione Rozzano sempre a cielo aperto. Dopo aver attraversato il pavese sfocia nel Lambro a Sant’Angelo Lodigiano.

Il Lambro

Molti, per differenziarlo dal Colatore Lambro Meridionale, preferiscono indicarlo come Lambro Settentrionale. Ma il suo nome originale è Lambro. Nasce dai Monti del San Primo a Magreglio. Arriva da Monza attraverso Cologno Monzese e nella zona di Cascina Gobba sottopassa il Naviglio Martesana ricevendone le acque in eccesso. Entrato nel territorio comunale di Milano attraversa il parco Lambro, viale Forlanini, Cascina Monluè ed esce in zona Peschiera Borromeo. A Melegnano riceve le acque della Vettabbia e Cavo Redefossi, mentre a Sant’Angelo Lodigiano riceve il Colatore Lambro Meridionale. A Senna Lodigiana confluisce nel Po.

La situazione attuale:
Il Lambro risulta completamente scoperto come fiume nonostante la scarsa qualità delle sue acque. La sua posizione periferica l’ha preservato dalla tombinatura selvaggia che hanno subito i canali milanesi. Sicuramente la sua portata risulta aumentata in quanto nel corso dei secoli è diventato lo scolmatore delle acque di Milano. Tutto l’attuale sistema idrico di Milano scarica direttamente o indirettamente nel Lambro (Vettabbia, Redefossi e Lambro Meridionale). L’unica via di uscita “alternativa” delle acque da Milano è il Naviglio Pavese.

Cosa resta a Milano…
A Milano del suo passato fluviale, oltre il Naviglio Grande, la Darsena e il Naviglio Pavese resta veramente poco. Il mio auspicio personale è che presto vengano riattivati i percorsi storici, ovviamente non prima di una depurazione delle acque a monte della città, di una razionalizzazione dei percorsi dove riaprire i canali e una buona manutenzione negli anni a venire. Togliere definitivamente le auto dal centro, potenziando il trasporto pubblico (magari anche idrico!) e restituendo l’acqua sarebbe un gran bel sogno…per adesso accontentiamoci di ricordare la città com’era con i suoi canali attraverso le foto in bianco e nero!

A chi fosse interessato ad approfondire l’argomento consiglio la lettura del libro: “Viaggio nel sottosuolo di Milano tra acque e canali segreti” di M. Brown, A. Gentile e G. Spadoni – Editore Comune di Milano, non più disponibile in commercio ma a disposizione presso le biblioteche comunali rionali di Milano e il consorzio di biblioteche CSBNO, da cui sono state tratte la maggior parte delle immagini di questo articolo e con cui mi sono documentato per scriverlo.

 

http://vecchiamilano.wordpress.com/2011/07/28/i-canali-di-milano-2-parte/

 

Arminio

 

Germania Magna

 

Spedizione germanica di Germanico (14-16 d.C.)

 

Maroboduo alleato di Roma contro Arminio

 

Guerre marcomanniche (166-189 d.C.)

 

Invasioni barbariche del III secolo (212-305 d.C.)

 

Battaglia di Adrianopoli (378)

 

 
 
 
 
 
 La fine degli Unni (454 d.C - ??)

 

La massima estensione dei territori degli Unni, dalle steppe dell'Asia centrale alla Germania e dal mar Baltico al mar Nero

Provenivano dalla Siberia meridionale, come dimostra un documento cinese antico e la loro lingua era forse di ceppo turco. Lo storico romano del IV secolo, Ammiano, si limita a specificare che essi provenissero «al di là delle paludi meotiche», una zona di steppe molto vasta.[1]

un principato unno che comprendeva i territori delimitati dal Fiume Talas, dai Monti Altaj e dal Fiume Tarim arruolò come mercenari un gruppo di soldati capaci di combattere "uniti come le squame del pesce", in base a quanto scritto dalle cronache cinesi, nel 36 a.C., provenienti dalle regioni orientali di confine del Regno dei Parti: ci sono fondati indizi che tali mercenari furono legionari romani presi prigionieri dai Parti tra il 53 a.C. (disfatta di Crasso a Carre) ed il 36 a.C. (disfatta di Marco Antonio). Se effettivamente la situazione stesse in questi termini, legionari romani, in seguito catturati dai cinesi, avrebbero combattuto per gli avi di coloro che furono i protagonisti della caduta dell'Impero romano d'Occidente mezzo millennio più tardi [1]. Comunque, l'identificazione degli Unni (xiongren in mandarino moderno) con tale gruppo nomade è carente di prove. Si diceva che dove passassero gli Unni non crescesse più l'erba. Questo fa bene intendere quali fossero le devastazioni arrecate dalle loro scorrerie.

Da quando Joseph de Guignes nel XVIII secolo ha identificato gli Unni con gli Hsiung-nu, il dibattito sulla loro origine si è acceso. L'identificazione tra Unni e Hsiung-Nu, seppur affascinante, non è comprovata con prove certe, e tra l'altro, se vi sono delle analogie tra le due popolazioni, vi sono anche notevoli differenze:[1][2]

Recenti ricerche hanno mostrato che nessuna delle grandi confederazioni di guerrieri della steppa era etnicamente pura e, a rendere le cose più difficili, molti clan affermavano di essere Unni basandosi semplicemente sul prestigio del loro nome; o era attribuito da estranei che li descrivevano con comuni caratteristiche, presunti luoghi d'origine o reputazione. Sebbene sia molto difficile risalire ad un luogo di origine degli Unni, sembra che all'inizio il nome designasse un prestigioso gruppo di guerrieri della steppa la cui origine etnica è sconosciuta.[senza fonte]

Gli Unni non devono essere confusi con gli Aparni ("Unni Bianchi")[3] di Procopio, in quanto si tratta di un ramo culturale e fisico completamente diverso, né con i Chioniti (gli Unni rossi, probabilmente i Kian-yun dei cinesi)[4] che comparvero sulla scena in Transoxiana nel 320, guidati dal re Kidara.

Migrazioni degli Unni e impiego come mercenari[modifica | modifica wikitesto]

 

Massima espansione dell'impero unno (arancione chiaro), 451 circa

Gli Unni, originari dell'Asia centrale, arrivarono in Europa alla fine del IV secolo-inizi del V secolo, scacciati dalla Cina grazie alle armi e alle strutture di difesa avanzate sviluppate dai cinesi, come nuovi usi per gli esplosivi, catapulte più precise e la balestra in bronzo e l'arco. La calata delle orde nomadi degli Unni sulle pianure dell'Ucraina e della Bielorussia avvenne tra il 374 ed il 376 sotto il Re Octar e si concretizzò come il classico "Effetto domino": vennero travolti dapprima SarmatiAlaniOstrogotiSciriRugi(Battaglia del fiume Erac) e, quindi, VisigotiEruliGepidiBurgundiFranchiSveviVandali ed Alamanni, i quali tra il 378 ed il 406 si abbatterono in massa sull'Impero romano d'Occidente, disintegrandolo nel giro d'una settantina d'anni e creando, al suo posto, i regni romano-barbarici. Nel frattempo un gruppo di Unni misto ad Avari, a Turchi e a Bulgari, staccatosi dall'orda principale, aveva messo a ferro e fuoco l'Impero Sasanidedi Persia, stanziandosi nelle regioni comprese tra il Lago Balqaš ed il Fiume Indo, ed invadendo l'India stessa.

Fu intorno all'inizio del V secolo che presumibilmente avvenne la migrazione nella grande pianura ungherese: nel 412-413, anno in cui lo storico e ambasciatore Olimpiodoro di Tebe condusse un'ambasceria presso gli Unni, erano già stanziati lungo il corso medio del Danubio.[6] Probabilmente, secondo la teoria di Heather, fu lo spostamento degli Unni a spingere Radagaiso a invadere l'Italia, Vandali, Alani, Svevi e Burgundi a invadere le Gallie, e Uldino a invadere la Tracia durante la crisi del 405-408.[7] All'epoca dell'ambasceria di Olimpiodoro, gli Unni erano governati da molti re, ma nel giro di vent'anni, probabilmente attraverso lotte violente, il comando fu unificato sotto il comando di un unico re: Attila.[8]

Nel V secolo gli Unni costituirono un regno nell'Europa centrorientale, e come gli orientali Xiongnu, incorporarono gruppi di popolazioni tributarie, arrestando il flusso migratorio ai danni dell'Impero da essi stessi provocato, in quanto, volendo dei sudditi da sfruttare, impedirono ogni migrazione da parte delle popolazioni sottomesse. Nel caso europeo, AlaniGepidiSciriRugiSarmatiSlavi e specialmente le tribù gotiche, vennero tutti uniti sotto la supremazia militare della famiglia degli Unni. Guidati dai re RuaAttila e Bleda, gli Unni si rafforzarono molto. Attila (406-453) apparteneva alla famiglia reale. Nel 432 gli Unni avevano un tale potere che lo zio di Attila, il re Rua, riceveva un consistente tributo dall'impero. Ottennero la supremazia sui loro rivali, molti dei quali altamente civilizzati, grazie alla loro abilità militare, mobilità e ad armi come l'arco unno.

Negli anni 430 furono impiegati come mercenari dal magister militum Ezio per le sue campagne in Gallia, ottenendo, in cambio del loro appoggio, parte della Pannonia; grazie al sostegno degli Unni, Ezio riuscì a vincere nel 436 i Burgundi, massacrati dall'esercito romano-unno di Ezio, ridotti all'obbedienza e insediati come foederatiintorno al lago di Ginevra; gli Unni risultarono poi decisivi anche nella repressione della rivolta dei bagaudi in Armorica e nelle vittorie contro i Visigoti ad Arelate, e a Narbona,[9] grazie alle quali nel 439 i Visigoti accettarono la pace alle stesse condizioni del 418. La scelta di Ezio di impiegare gli Unni trovò però l'opposizione di taluni, come il vescovo di Marsiglia Salviano, autore del De gubernatione dei ("Il governo di Dio"),[10] secondo cui l'impiego dei pagani Unni contro i cristiani (seppur ariani) Visigoti non avrebbe fatto altro che provocare la perdita della protezione di Dio, perché i Romani «avevano avuto la presunzione di riporre la loro speranza negli Unni, essi invece che in Dio»

 

Gli Unni all'attacco.

La situazione cambiò drasticamente quando a capo degli Unni salì Attila nel 445, la cui ferocia è rimasta leggendaria. Questi, già nel 441-442, quando condivideva ancora il governo con il fratello Bleda, attaccò i territori dell'Impero romano d'Oriente approfittando dello sguarnimento del fronte danubiano dovuto all'invio di una potente flotta da parte dell'Impero d'Oriente nel tentativo di recuperare Cartagine ai Vandali. Gli Unni espugnarono rapidamente Vidimacium, Margus e Naissus, costringendo l'Impero d'Oriente a rinunciare alla guerra contro i Vandali, richiamando la flotta, e poco tempo dopo, a comprare la pace accettando di pagare un tributo di 1400 libbre d'oro all'anno.[12]Teodosio II, però, ritornata la flotta, smise di pagare il tributo agli Unni, nella speranza che con i Balcani non sguarniti di truppe e con il potenziamento delle difese, sarebbe riuscito a respingere gli attacchi unni. Quando gli arretrati raggiunsero le 6000 libbre d'oro, nel 447, Attila protestò, e al rifiuto dell'Imperatore di sborsare le 6000 libbre d'oro in questione, il re unno reagì con la guerra.[13]Nell'invasione del 447, Attila sconfisse più volte gli eserciti romano-orientali, non riuscendo ad espugnare Costantinopoli, ma devastando gli interi Balcani Orientali e costringendo l'Impero romano d'Oriente ad accettare una pace umiliante:

Forte di un esercito che si diceva potesse contare oltre 500.000 uomini, il più grande in Europa da duecento anni a quella parte, Attila attraversò la Gallia settentrionale provocando morte e distruzione. Conquistò molte delle grandi città europee, tra cui ReimsStrasburgoTreviriColonia, ma fu sconfitto contro le armate dei Visigoti, dei Franchi e dei Burgundi comandati dal generale Ezio nella Battaglia dei Campi Catalaunici.

 

Incontro tra Leone il Grande e Attila, Affresco, 1514, Stanza di Eliodoro, Palazzi Pontifici, Vaticano. L'affresco fu completato durante il pontificato di Leone X (papa dal 1513 al 1521). Secondo la leggenda, la miracolosa apparizione dei Santi Pietro e Paolo armati con spade durante l'incontro tra Papa Leone e Attila (452) avrebbe spinto il re degli Unni a ritirarsi, rinunciando al sacco di Roma.

Attila tornò in Italia nel 452 per reclamare nuovamente le sue nozze con Onoria. Gli Unni cinsero d'assedio per tre mesi Aquileia, e, secondo la leggenda, proprio mentre erano sul punto di ritirarsi, da una torre delle mura si levò in volo una cicogna bianca che abbandonò la città con il piccolo sul dorso; il superstizioso Attila a quella vista ordinò al suo esercito di rimanere: poco dopo crollò la parte delle mura dove si trovava la torre lasciata dalla cicogna. Attila conquistò poi Milano e si stabilì per qualche tempo nel palazzo reale. Famoso è rimasto il modo singolare con cui affermò la propria superiorità su Roma

 La fame e le malattie che accompagnavano la sua invasione (in Italia, infatti, stava infuriando un'epidemia di colera e di malaria e la Pianura padana non era in grado di dar sostentamento all'orda[15] barbarica) potrebbero aver ridotto la sua armata allo stremo, oppure le truppe che Marciano mandò oltre il Danubio potrebbero avergli dato ragione di retrocedere, o forse entrambe le cose sono concausali alla sua ritirata. La "favola che è stata rappresentata dalla matita di Raffaello e dallo scalpello di Algardi" (come l'ha chiamata Edward Gibbon) di Prospero d'Aquitania dice che il papa, aiutato da Pietro apostolo e Paolo di Tarso, lo convinse a girare al largo dalla città. Vari storici hanno supposto che l'ambasciata portasse un'ingente quantità d'oro al leader unno e che lo abbia persuaso ad abbandonare la sua campagna,[16] e questo sarebbe stato perfettamente in accordo con la linea politica generalmente seguita da Attila, cioè di chiedere un riscatto per evitare le incursioni unne nei territori minacciati.

Quali che fossero le sue ragioni, Attila lasciò l'Italia e ritornò al suo palazzo attraverso il Danubio. Da lì pianificò di attaccare nuovamente Costantinopoli e reclamare il tributo che Marciano aveva tagliato. Morì, invece, nei primi mesi del 453; la tradizione, secondo Prisco, dice che la notte dopo un banchetto che celebrava il suo ultimo matrimonio (con una principessa gota di nome Krimhilda, poi abbreviato con Ildikó), egli ebbe una copiosa epistassi e morì soffocato.

Collasso del suo impero[modifica | modifica wikitesto]

Le lotte per la successione, seguite alla morte di Attila, dissolsero la potenza degli Unni. Dopo il suo decesso, l'Impero unno si disgregò rapidamente: infatti i tre figli di Attila (DengizichEllac e Ernac) non riuscirono a sedare le rivolte per l'indipendenza dei sudditi degli Unni, portando alla rapida caduta dell'Impero unno. Il primo gruppo ad ottenere l'indipendenza fu quello dei Gepidi, guidati da re Ardarico, che sconfissero nel 453-454 l'esercito unno nella Battaglia del fiume Nedao (454), costringendo gli Unni a riconoscere loro l'indipendenza.[18] Negli anni successivi tutti gli altri gruppi (come Sciri, Rugi, Eruli, Longobardi, Ostrogoti) ottennero gradualmente l'indipendenza dagli Unni, e nel 468 gli Unni persero la propria indipendenza, finendo per essere arruolati come mercenari dall'Impero romano d'Oriente.

 

La tomba del bambino vampiro che svela i riti romani contro la malaria

La tomba del bambino vampiro che svela i riti romani contro la malaria
Il teschio del "bambino vampiro" con la pietra in bocca 

 

In Umbria, a Lugnano in Teverina, una villa del V secolo restituisce reperti straordinari: un ragazzino sepolto con una pietra in bocca per non farlo risorgere. Gli archeologi: "È la conferma della diffusione della malattia che fermò anche l'avanzata degli Unni di Attila"

Il "Cimitero dei bambini" di Lugnano in Teverina, in Umbria, continua a stupire gli archeologi. Nella villa romana abitata fino al V secolo, dove gli archeologi dell'Università di Stanford scavano ormai dal 1987, è stato rinvenuto lo scheletro di un bambino o bambina (ancora non è stato accertato il sesso) sepolto con una pietra in bocca. Il sasso serviva sia a non far diffondere la malattia, sia a zavorrare il corpo e non farlo risorgere come vampiro. È la prova ulteriore che nella villa erano stati sepolti in tutta fretta molti bambini ed eseguiti riti magici, per scongiurare il propagarsi di un'epidemia.

La tomba del bambino vampiro che svela i riti romani contro la malaria

Lo scavo della villa romana a Lugnano in Teverina


In realtà non di epidemia si trattava, ma di diffusione della malaria, capace di fermare anche l'avanzata degli Unni di Attila. Quando infatti nel 452 papa Leone I incontrò l'unno vicino a Verona, secondo quanto riporta lo scrittore latino Sidonio Apollinare Gaio Sollio, gli suggerì di non sottovalutare la forza dell'esercito romano, ma anche la pericolosità della zona che avrebbe dovuto attraversare, la valle del Tevere, dove imperversava una "pestilenza". La malaria, appunto.

Da anni l'archeologo David Soren, responsabile dello scavo, pubblica resoconti sulla straordinarietà della villa di Poggio Gramignano, costruita alla fine del I secolo avanti Cristo e abbandonata in tutta fretta nel V, in un primo tempo studiata per i suoi mosaici e poi diventata presto la villa del "cimitero dei bambini", quando si scoprì una stanza in cui erano stati radunati decine di bambini e feti. Come sostiene Soren anche a proposito del "Bambino vampiro", "Non si è mai vista una cosa simile, il ritrovamento è inquietante e strano e capisco che lo si stia già chiamando 'il vampiro di Lugnano'".

In pubblicazioni precedenti Soren ha anche descritto il ritrovamento di scheletri di cuccioli di cani, alcuni decapitati. Secondo l'archeologo i sacrifici dei cani servivano a placare le divinità degli inferi e inoltre negli scritti di Plinio i "succhi dei corpi dei cuccioli" erano applicati per curare varie malattie, tra le quali l'ingrossamento della milza, tipico di chi è affetto da malaria. 
 


Anche lo scheletro del "bambino vampiro", per quanto non sia ancora stato eseguito l'esame del Dna che potrà rpovarlo senza dubbi, presenta segni di malaria. Nel cranio ci sono infatti segni di ascessi ai denti, considerati, anche questi, tipici della parassitosi malarica. Il direttore dello scavo, David Pickel, dell'università di Stanford, ha aggiunto che "il ritrovamento del 'bambino vampiro' potrà dire molto sulla devastante epidemia di malaria che colpì l'Umbria circa 1.500 anni fa e soprattutto sugli effetti che ebbe sulla comunità e sul modo con cui si cercò di combatterla". 

"L'età di questo bambino e la sua particolare sepoltura con la pietra posta nella bocca, rappresentano, al momento, un'anomalia all'interno di un cimitero già anormale", ha detto Pickel. "Questo sottolinea ulteriormente quanto sia unico il sito in cui stiamo scavando - Fino a oggi, infatti, erano stati trovati scheletri di bambini più piccoli, al massimo di 3 anni. Una bambina aveva delle pietre tra le mani, anche in questo caso probabilmente per tenerla ancorata alla sepoltura".

Lo scheletro ritrovato con la pietra in bocca è per ora unico a Lugnano, ma sepolture simili sono state documentate in altri luoghi, tra cui Venezia, dove nel 2009 fu ritrovato il corpo di una donna del XVI secolo, soprannominata "Vampiro di Venezia" perché aveva un mattone in bocca. Nel Northamptonshire, in Inghilterra, nel 2017, si trovò lo scheletro di un uomo, risalente al III o IV secolo, sepolto a faccia in giù con la lingua rimossa e sostituita con una pietra.

"Queste operazioni fatte sui morti si vedono in diverse culture - osserva un altro dei ricercatori americani, il bioarcheologo Jordan Wilson -  specialmente nel mondo romano indicavano che c'era il timore che questa persona potesse tornare dai morti e cercare di diffondere la malattia ai vivi".

Gli scavi sul sito di Lugnano sono per ora sospesi e riprenderanno la prossima estate. Intanto il sito della villa è in corso di musealizzazione grazie a finanziamenti ottenuti per la copertura dell'area, mentre i reperti provenienti dalla villa e la storia della città sono visibili nell'antiquarium nello splendido centro storico di Lugnano in Teverina, in provincia di Terni e a circa un'ora di auto da Roma.

Attraversamento del Reno (31 dicembre 406)

 

 

Odoacre Rex gens Germanicorum, Patrizio della diocesi d'Italia fino al 488

 

 d.C.

 

Teodorico Re ostrogoto e Patrizio d'Italia suddito dell'Impero d'Oriente (493-526 d.C.)

 

 

 

http://www.skuola.net/storia-arte/medioevo/storia-arte-medievale.html

 

 

 

IL DISASTRO DELLE INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO

 

 

 

Le mura aureliane, da Porta san Sebastiano a Porta Ardeatina.

Belisario entra a Roma

Il 9 dicembre (o il 10) del 536 Belisario entrò trionfante a Roma, nella antica capitale dell'impero romano, dove oramai i fausti di un tempo erano solo un lontano ricordo, Roma aveva solo 50.000 abitanti, Belisario non trovò resistenza da parte degli ostrogoti, per poter prendersi la città, ma subito saputa la notizia un esercito ostrogoto che si trovava nel nord Italia si mise in marcia per andar a riprendersi la città. Belisario quindi inviò un suo ufficiale che consegnò le chiavi di Roma all'Imperatore Giustiniano I, e che portò prigioniero a Costantinopoli il generale ostrogoto che aveva consegnato la città. Belisario si accorse subito che la situazione delle mura aureliane (le mura di Roma) era pessima, e quindi provvide subito a farle riparare, visto che era stato informato che gli ostrogoti si stavano avvicinando.

Nel febbraio del 537, trentamila ostrogoti si trovavano alle porte di Roma, pronti ad assediare la città, per fermare l'avanzata dei Bizantini capitanati dal generale Belisario, e prendere il possesso dell'ex capitale dell'impero.

Belisario si trovava svantaggiato, aveva solo cinquemila uomini, non sufficienti per la difesa della città, e le mura aureliane erano facilmente espugnabili dato il loro cattivo stato. Gli ostrogoti si posizionarono attorno alla città, costruendo sette accampamenti onde bloccare l'arrivo di rifornimenti e iniziarono i preparativi. Inoltre tagliarono i quattordici acquedotti della città per lasciare la popolazione senz'acqua.

Belisario, per fronteggiare la situazione, prese i seguenti provvedimenti:[1]

  1. per impedire ai Goti di penetrare nella città attraverso gli acquedotti (come aveva fatto Belisario stesso, tra l'altro, per espugnare Napoli pochi mesi prima), li fece ostruire con un solido muro.
  2. pose a custodia delle porte uomini fidati. In particolare Belisario decise di sorvegliare egli stesso la Salaria e la Pinciana, mentre affido a Costanziano la custodia della Flaminia. Una porta venne serrata con un cumulo di pietre per impedire a chicchessia di aprirla.
  3. infine decise, per provvedere ai bisogni della popolazione, di costruire dei rudimentali ma ingegnosi mulini ad acqua sfruttando le acque del Tevere. I Goti, avutene notizia da disertori, tentarono di sabotare l'invenzione gettando nelle acque del Tevere alberi e cadaveri. Belisario però riuscì a contrastare i loro tentativi di non far funzionare i mulini ad acqua con delle funi di ferro che andavano da una riva all'altra del Tevere e che impedivano agli oggetti gettati dai Goti nel fiume di proseguire oltre. In questo modo impediva inoltre ai Goti di entrare in città tramite il fiume Tevere.

All'alba del diciottesimo giorno d'assedio gli ostrogoti attaccarono, ma la loro disorganizzazione e l'inesperienza nell'uso delle macchine d'assedio permise ai bizantini di ottenere una facile vittoria, mietendo un gran numero di vittime tra le file nemiche.[4] L'assalto iniziò con i Goti che facevano avanzare le torri d'assedio verso le mura. Belisario ordinò allora agli arcieri di mirare di proposito ai buoi che trainavano le torri in modo da ucciderli e da impedire alle torri di essere trasportate fino alle mura; la strategia funzionò e i Goti si trovarono con un'arma inutilizzabile.[4]

Vitige decide quindi di cambiare strategia: ad una parte del suo esercito ordinò di tenere occupato Belisario nella difesa della Porta Salaria tramite il lancio di strali sopra i merli, mentre lui e un'altra parte dell'esercito avrebbero tentato l'attacco alla Porta Prenestina, più facile da espugnare per il debole stato delle mura.[4] Bessa e Peranio, i generali a difesa della porta e delle mura circostanti, chiesero allora aiuto a Belisario, il quale, affidata a un suo amico la difesa della Porta Salaria, andò subito a soccorrere la porta Prenestina.[5] Belisario, vedendo le mura in cattivo stato, ordinò ai suoi uomini di non respingere il nemico: lasciò pochi uomini a difesa dei merli mentre il fior dell'esercito venne collocato vicino alla Porta. I Goti, entrati da un foro nelle mura, vennero qui sconfitti e costretti alla fuga. Le loro macchine d'assedio vennero date alle fiamme.

Un'altra parte dell'esercito goto assalì nel frattempo la Porta Aurelia, difesa da Costantino. Quest'ultimo aveva con sé pochissimi uomini in quanto il Tevere, che scorreva vicino alla porta e al muro, sembrava proteggerlo abbastanza da un assalto goto e si preferì lasciare ben difesi parti di mura più importanti.[4] I Goti, valicato il Tevere, assaltarono la Porta e il Muro con ogni macchina d'assedio di sorta (soprattutto scale) e tirando frecce contro gli Imperiali. Gli Imperiali sembravano disperare: le baliste erano inutilizzabili in quanto erano a lunga gittata e quindi erano inservibili per colpire nemici molto vicini alle mura; i Goti erano in superiorità numerica; e stavano appoggiando le scale per valicare le mura.[4] I Bizantini però non si persero d'animo e, facendo a pezzi molte delle più grandi statue, le gettarono dalle mura contro i nemici.[4] La tattica ebbe successo e i nemici iniziarono a indietreggiare; allora gli Imperiali, rinvigoriti, attaccarono con maggior foga attaccando i Goti con frecce e pietre. I Goti, respinti, non attaccarono più, almeno per quel giorno, la porta Aurelia.[4]

I Goti provarono allora ad attaccare la Porta Trasteverina ma il generale bizantino Paolo riuscì a respingerli senza problemi.[5] Rinunciato all'attacco della Porta Flaminia, protetta da un suolo dirupato e dal generale bizantino Ursicino, i Goti attaccarono allora la Porta Salaria subendo gravi perdite.[5] Giunse infine la notte e la battaglia si concluse con la vittoria bizantina sui Goti. Curiosamente i Goti non attaccarono una parte delle mura non riparata da Belisario per la superstizione dei suoi uomini (essi dicevano che per via di una leggenda sarebbe stato San Pietro in persona a proteggerle dai Goti)[5]: se avessero deciso di attaccarle, forse la battaglia sarebbe finita in modo diverso per loro.

Ma la vittoria non servì a rompere l'assedio, e Belisario sapeva che il suo esercito era comunque di gran lunga inferiore a quello degli Ostrogoti, così decise di inviare un messaggero all'imperatore Giustiniano I per chiedere rinforzi:[6]

« Secondo i vostri ordini, sono entrato nei domini dei Goti, e ho ridotto alla vostra obbedienza l’Italia, la Campania, e la città di Roma. […] Fin qui abbiamo combattuto contro sciami di barbari, ma la loro moltitudine può alla fine prevalere. […] Permettetemi di parlarvi con libertà: se volete, che viviamo, mandateci viveri, se desiderate, che facciamo conquiste, mandateci armi, cavalli e uomini. […] Quanto a me la mia vita è consacrata al vostro servizio: a voi tocca a riflettere, se […] la mia morte contribuirà alla gloria e alla prosperità del vostro regno. »

Il giorno dopo la battaglia si vide costretto ad effettuare delle scelte drastiche per migliorare la difesa dell'Urbe come far uscire dalla città tutti coloro che non erano in grado di brandire un'arma (tra questi vi erano le donne e i bambini), che vennero trasferiti temporaneamente a Napoli.[7] La decisione di far uscire dalla città le persone non in grado di combattere era dovuta alla volontà di far durare il maggior tempo possibile le scorte di cibo utilizzandole solo per sfamare le persone in grado di combattere, mentre gli altri, trasferendosi a Napoli, venivano comunque sfamati.[7] Le persone trasferite a Napoli vi giunsero o per via mare o seguendo la Via Appia, senza venire attaccata dai Goti in quanto, essendo Roma una città di vastissima estensione, i Goti non erano riusciti a circondarla tutta quanta, quindi bastò uscire da una via distante dagli accampamenti goti.[7]

Proprio per questi motivi fu possibile introdurre a Roma scorte di cibo per parecchi giorni senza essere notati dai Goti. E, durante la notte, capitava di sovente che i Mauri, soldati foederati dell'Impero, facessero delle sortite contro gli accampamenti goti, uccidendone alcuni durante il sonno e spogliandoli.[7] Belisario nel frattempo notò la sproporzione tra l'estensione delle mura e il numero dei soldati che le dovevano sorvegliare e decise di risolvere il problema obbligando gli abitanti rimasti a diventare soldati e far ronda sulle mura aureliane.[7] Prese delle severe precauzioni per assicurarsi della fedeltà dei suoi uomini: cambiava due volte al mese gli ufficiali posti a custodia delle porte della città,[7] ed essi venivano sorvegliati da cani e altre guardie per prevenire un eventuale tradimento.

In quei giorni i Bizantini deposero Papa Silverio, accusato di parteggiare con i Goti, e lo spedirono in esilio in Grecia. Venne eletto al suo posto Virgilio, gradito dall'Imperatrice Teodora. Vennero espulsi, per lo stesso motivo, alcuni senatori.[7]

La conquista di Porto e i problemi arrecati ai Romani

Nel frattempo Vitige decise per rappresaglia di uccidere i senatori romani rifugiatisi a Ravenna all'inizio della guerra.[8] Inoltre, per tagliare i contatti degli assediati con l'esterno, impedendo così loro di ricevere scorte di cibo e acqua, decise di conquistare Porto, lontana circa 20 stadi, la distanza che separa Roma dal Mediterraneo.[8] Dunque, trovatala senza presidio, i Goti occuparono Porto, sterminando la popolazione locale e arrecando grossi problemi agli assediati in quanto a Porto giungevano principalmente le scorte di cibo necessarie per resistere all'assedio.[8] I Romani furono quindi costretti a recarsi ad Ostia per rifornirsi di cibarie, facendo tra l'altro molta fatica in quanto abbastanza lontana da Roma a piedi.[8]

Scontri sotto le mura

Venti giorni dopo la conquista ostrogota di Porto, arrivarono a Roma i primi rinforzi inviati da Giustiniano: i generali Valentiniano e Martino alla testa di mille e cinquecento cavalieri, per lo più Unni, ma comprendenti anche Sclaveni ed Anti, popolazioni alleate dell'Impero residenti oltre Danubio.[9] Belisario, confortato dall'arrivo di rinforzi, decise di adoperare una tattica di guerriglia, approfittando della superiorità degli arcieri bizantini per logorare le forze nemiche: ordinò ad una sua lancia, Traiano, di attaccare, alla testa di duecento pavesai, i Goti, impedendo ai suoi di combatterli da vicino con la spada o con l'asta, e permettendo loro di adoperare solo l'arco; quando le frecce sarebbero finite i soldati bizantini sarebbero riparati alle mura.[9] Traiano, ricevuto l'ordine, prese i 200 pavesai e uscì con essi dalla Porta Salaria, dirigendosi verso il campo nemico.[9] I barbari, sorpresi dall'arrivo dei 200 pavesai, si gettarono fuori degli steccati per assalire l'armata di Traiano, dispostosi sulla sommità di una collina per ordine di Belisario: i pavesai di Traiano cominciarono a colpire i nemici di frecce, uccidendone almeno mille, per poi ripararsi dentro le mura.[9] Visto che la tattica di guerriglia cominciava a dare i suoi frutti, infliggendo perdite all'armata nemica, Belisario, alcuni giorni dopo, inviò trecento pavesai alla testa di Mundila e Diogene, per attaccare allo stesso modo, adoperando l'arco, gli Ostrogoti, infliggendo così loro delle perdite persino peggiori rispetto al primo scontro; Belisario, incoraggiato, inviò altri trecento pavesai sotto il comando di Oila, i quali inflissero ulteriori perdite ai Goti; in tre scontri sotto le mura, gli arcieri di Belisario era riusciti a uccidere, secondo Procopio, ben 4.000 Goti.[9]

Vitige, allora, volendo adoperare la stessa tattica di Belisario, ordinò a cinquecento cavalieri di avvicinarsi alle mura, e di fare all'esercito di Belisario la stessa accoglienza che essi avevano ricevuto.[9] I cinquecento cavalieri goti, saliti su un'altura non distante da Roma, furono però attaccati da 1.000 arcieri scelti bizantini posti sotto il comando di Bessa, i quali, attaccando a suon di frecce i guerrieri goti, inflissero loro pesanti perdite, costringendo i pochi superstiti a fuggire negli accampamenti goti, dove furono pesantemente rimproverati per il loro fallimento da Vitige, il quale sperava che il giorno successivo, adoperando diversi combattenti e la stessa tattica, il successo avrebbe forse arriso ai Goti.[9] Due giorni dopo Vitige inviò altri cinquecento Goti, selezionati da tutti i suoi campi, contro il nemico; Belisario, accortosi del loro arrivo, inviò a combatterli Martino e Valeriano alla testa di mille e cinquecento cavalieri, i quali inflissero pesanti perdite agli Ostrogoti.[9]

Procopio spiega i motivi per cui la tattica di guerriglia di Belisario aveva successo: Belisario, infatti, si era accorto dei talloni di Achille dell'esercito ostrogoto, e stava provando a sfruttarli: infatti, mentre "quasi tutti i Romani, gli Unni ed i confederati loro sono valentissimi arcieri a cavallo", i cavalieri ostrogoti al contrario non sapevano combattere con l'arco, venendo addestrati a maneggiare le sole aste e spade; per questo motivo, negli scontri non in campo aperto, gli arcieri a cavallo bizantini, approfittando della loro abilità nell'arco, riuscivano ad infliggere pesanti perdite al nemico.[9]

 

 

LO SCONTRO IN CAMPO APERTO E LE PESANTI PERDITE SUBITE DAGLI IMPERIALI:RE VITIGE TUTTAVIA TOGLIE L'ASSEDIO PER PAURA DI ESSERE TAGLIATO FUORI DAL NORD D'ITALIA

 

 

L'ASSEDIO E LA DISTRUZIONE DI MILANO DEL 539 d.C.: I GOTI PORTANO LA GUERRA NEL NORD

La sempre più precaria situazione politica e militare causò però alla città diverse ferite e Milano conobbe, nel 539, la sua prima distruzione: l'imperatore romano d'Oriente Giustiniano I, deciso a riconquistare i territori imperiali d'occidente, attaccò il re goto Teodato inviando in Italia al comando delle sue truppe il generale Belisario, iniziando quella che diventerà la lunga Guerra gotica; durante l'assedio di Roma del 537-538, durante l'inverno del 537-538, Belisario ricevette a Roma il vescovo di Milano, Dazio, con alcuni tra i cittadini milanesi più illustri: questi chiesero al generalissimo di inviare nell'Italia nord-occidentale (provincia di Liguria) un piccolo esercito; se l'avesse fatto, loro avrebbero consegnato all'Impero non solo Milano, ma tutta la provincia romana di Liguria (grossomodo corrispondente all'Italia nord-occidentale).[4]

Belisario mantenne le promesse: mandò via mare un esercito 1.000 uomini per intraprendere la conquista della Liguria. L'esercito bizantino sbarcò a Genova e riuscì in breve tempo a occupare Milano, Bergamo, Como, Novara e a tutti gli altri centri della Liguria ad eccezione di Pavia. La reazione di Vitige, tuttavia, non si fece attendere: inviò Uraia con un consistente esercito per cingere d'assedio Milano, e sollecitò il re dei Franchi, Teodeberto I, a intervenire in suo sostegno. Teodeberto, però, avendo stretto dei trattati di alleanza con Giustiniano (che non aveva rispettato), decise prudentemente di non intervenire direttamente nel conflitto, inviando a dar manforte ai Goti non guerrieri franchi ma 10.000 guerrieri burgundi, sudditi dei Franchi.

Belisario decise di inviare soldati alla liberazione di Milano, ma la divisione in due fazioni dell'esercito bizantino in seguito all'arrivo in Italia del generale Narsete, fece sì che la parte dell'esercito dalla parte di Narsete disubbedì agli ordini di Belisario di accorrere alla liberazione di Milano se non l'avesse autorizzato prima esplicitamente Narsete. Quando arrivò l'autorizzazione di Narsete era troppo tardi: gli stenti subiti dai Milanesi assediati si aggravarono a tal punto «per la mancanza di cibo che molti non disdegnavano di mangiar cani, sorci ed altri animali abborriti prima per cibo dell’uomo»[5] e la guarnigione imperiale decise quindi di arrendersi. Milano fu distrutta:

« Milano quindi fu agguagliata al suolo, e massacrato ogni suo abitatore di sesso maschile, non risparmiandosi età comunque, e per lo meno aggiugnevane il numero a trecento mila; le femmine custodite in ischiavitù spedironsi poscia in dono ai Burgundioni, guiderdonandoli con esse del soccorso avutone in questa guerra. Oltre di che rinvenuto là entro Reparato prefetto del Pretorio lo fecero a pezzi e gittaronne le carni in cibo ai cani. Gerbentino, pur egli quivi di stanza, poté co’ suoi trasferirsi per la veneta regione e pe’confini delle vicine genti nella Dalmazia, e passato in seguito a visitare l’imperatore narrogli a suo bell’agio quell’immensa effusione di sangue. Quindi i Gotti, occupate per arrendimento tutte le altre città guernite dalle armi imperiali, dominarono l’intera Liguria. Martino ed Uliare coll’esercito si restituirono in Roma. »
(Procopio, La Guerra Gotica, II, 21.)

In realtà la cifra di Procopio di 300.000 milanesi maschi massacrati è esagerata e va perlomeno divisa per dieci (30.000).

Al termine della guerra gotica, che durò fino al 553/554, ma si protrasse in alcune zone dell'Italia settentrionale fino al 561/562, l'Italia fu conquistata dai Bizantini e Milano, secondo la Cronaca di Mario Aventicense, fu ricostruita per opera di Narsete:[6]

(LA)
« Hoc anno Narses ex praeposito et patricio post tantos prostratos tyrannos, ... Mediolanum vel reliquas civitates, quas Goti destruxerant, laudabiliter reparatas, de ipsa Italia a supra scripto Augusto remotus est.» »
(IT)
« In quest'anno [568] Narsete ex proposito e patrizio, dopo aver abbattuto tanti tiranni... e ricostruite lodevolmente Milano e le città rimaste, che i Goti avevano distrutto, fu destituito dal governo dell'Italia dal suddetto Augusto [Giustino II]. »
(Mario Aventicense, Chronica, Anno 568.)

Sembra che nel breve periodo bizantino potrebbe essere stata elevata a capitale della diocesi italiana (Italia del Nord), anche se ciò non è certo.[7] Infatti, intorno alla fine del VI secolo, Genova risulta essere la sede dei vicarii del prefetto del pretorio d'Italia, che potrebbero essersi trasferiti, insieme all'arcivescovo di Milano, a Genova dopo la conquista longobarda di Milano (3 settembre 569).

 

 

 

LA DECADENZA SOTTO IL PRIMO PERIODO LONGOBARDO E LA COSTRUZIONE DEL TICINELLO COME BARRIERA CONTRO LE INVASIONI DA PAVIA (568-590 d.C) DA ALBOINO ALL'ANARCHIA DEI DUCHI LONGOBARDI. IL RUOLO DI TEODOLINDA,REGINA DEI BAVARI

L'entrata in scena dei Longobardi arrivava all'improvviso. Popolo poco conosciuto alle cronache romane si contraddistingueva dagli altri popoli di lingua germanica per non aver subito alcun influsso romano contrariamente a Franchi,Visigoti,Ostrogoti che si erano divisi le spoglie dell'impero.

Nel periodo successivo alle Guerre marcomanniche la storia dei Longobardi è sostanzialmente sconosciuta. L'Origo riferisce di un'espansione nelle regioni di "Anthaib", "Bainaib" e "Burgundaib"[27], spazi compresi tra il medio corso dell'Elba e l'attuale Boemia settentrionale[28][29]. Si trattò di un movimento migratorio dilazionato nel corso di un lungo periodo, compreso tra il II e il IV secolo, e non costituì un processo unitario, quanto piuttosto una successione di piccole infiltrazioni in territori abitati contemporaneamente anche da altri popoli germanici[28][30][31].

Tra la fine del IV e l'inizio del V secolo, i Longobardi tornarono a darsi un re, Agilmondo[32], e dovettero confrontarsi con gli Unni, chiamati "Bulgari" da Paolo Diacono[33]. Sempre tra IV e V secolo ebbe avvio la trasformazione dell'organizzazione tribale longobarda verso un sistema guidato da un gruppo di duchi; questi comandavano proprie bande guerriere sotto un sovrano che, ben presto, si trasformò in un re vero e proprio. Il re, eletto come generalmente accadeva in tutti i popoli indoeuropei per acclamazione dal popolo in armi, aveva una funzione principalmente militare, ma godeva anche di un'aura sacrale (lo "heill", "carisma"); tuttavia, il controllo che esercitava sui duchi era generalmente debole[34].

Nel 488-493 i Longobardi, guidati da Godeoc e poi da Claffone, "ritornarono" alla storia e, attraversata la Boemia e la Moravia[35][36], si insediarono nella "Rugilandia", le terre a ridosso del medio Danubio lasciate libere dai Rugi a nord del Norico dove, grazie alla fertilità della terra, poterono rimanere per molti anni[36][37]; per la prima volta entrarono in un territorio marcato dalla civiltà romana[35]. Giunti presso il Norico, i Longobardi ebbero conflitti con i nuovi vicini, gli Eruli, e finirono per stabilirsi nel territorio detto "Feld" (forse la Piana della Morava, situata a oriente di Vienna[36][38]).

Un'alleanza con Bisanzio e i Franchi permise a re Vacone di mettere a frutto le convulsioni che scossero il regno ostrogoto dopo la morte del re Teodorico nel 526: sottomise così gli Suebi presenti nella regione[39] e occupò la Pannonia I e Valeria (l'attuale Ungheria a ovest e a sud del Danubio)[40][41]. Alla sua morte (540) il figlio Valtari era minorenne; quando, pochi anni dopo, morì, il suo reggente Audoino usurpò il trono[42] e modificò il quadro delle alleanze del predecessore, accordandosi (nel 547 o nel 548) con L'imperatore bizantino Giustiniano I[42] per occupare, in Pannonia, la provincia Savense (il territorio che si stende fra i fiumi Drava e Sava) e parte del Norico, in modo da schierarsi nuovamente contro i vecchi alleati Franchi e Gepidi e consentire a Giustiniano di disporre di rotte di comunicazione sicure con l'Italia[43][44].

Grazie anche al contributo militare di un modesto contingente bizantino e, soprattutto, dei cavalieri avari[12], i Longobardi affrontarono i Gepidi e li vinsero (551)[45], mettendo fine alla lotta per la supremazia nell'area norico-pannonica. In quella battaglia si distinse il figlio di Audoino, Alboino. Ma uno strapotere dei Longobardi in quella zona non serviva gli interessi di Giustiniano[46][47] e quest'ultimo, pur servendosi di contingenti longobardi anche molto consistenti contro Totila e perfino contro i Persiani[48], cominciò a favorire nuovamente i Gepidi[46][47]. Quando Audoino morì, il suo successore Alboino dovette stipulare un'alleanza con gli Avari, che però prevedeva in caso di vittoria sui Gepidi che tutto il territorio occupato dai Longobardi andasse agli Avari[47]. Nel 567 un doppio attacco ai Gepidi (i Longobardi da ovest, gli Avari da est) si concluse con due cruente battaglie, entrambe fatali ai Gepidi, che scomparivano così dalla storia; i pochi superstiti vennero assorbiti dagli stessi Longobardi[49][50]. Gli Avari si impossessavano di quasi tutto il loro territorio, salvo Sirmio e il litorale dalmata che tornarono ai Bizantini[50][51].

Invasione dell'Italia

Sconfitti i Gepidi, la situazione era cambiata assai poco per Alboino, che al loro posto aveva dovuto lasciar insediare i non meno pericolosi Avari; decise quindi di lanciarsi verso le pianure dell'Italia, appena devastate dalla sanguinosa Guerra gotica. Nel 568 i Longobardi invasero l'Italia attraversando l'Isonzo[52]. Insieme a loro c'erano contingenti di altri popoli[53]. Jörg Jarnut, e con lui la maggior parte degli autori, stima la consistenza numerica totale dei popoli in migrazione tra i cento e i centocinquantamila fra guerrieri, donne e non combattenti[52]; non esiste tuttavia pieno accordo tra gli storici a proposito del loro reale numero[54].

La resistenza bizantina fu debole; le ragioni della facilità con la quale i Longobardi sottomisero l'Italia sono tuttora oggetto di dibattito storico[55]. All'epoca la consistenza numerica della popolazione era al suo minimo storico, dopo le devastazioni seguite alla Guerra gotica[55]; inoltre i Bizantini, che dopo la resa di Teia, l'ultimo re degli Ostrogoti, avevano ritirato le migliori truppe e i migliori comandanti[55] dall'Italia perché impegnati contemporaneamente anche contro Avari e Persiani, si difesero solo nelle grandi città fortificate[52]. Gli Ostrogoti che erano rimasti in Italia verosimilmente non opposero strenua resistenza, vista la scelta fra cadere in mano ai Longobardi, dopotutto Germani come loro, o restare in quelle dei Bizantini.[55]

 

Nel 568 i Longobardi, condotti da Alboino, invasero l'Italia dalla Pannonia; dopo aver occupato le Venezie tranne alcune città costiere, Alboino invase la Lombardia e il 3 settembre della terza indizione (anno 569) entrò a Milano:

(LA)
« Alboin igitur Liguriam introiens, indictione ingrediente tertia, tertio nonas septembris, sub temporibus Honorati archiepiscopi Mediolanum ingressus est. Dehinc universas Liguriae civitates, praeter has quae in litore maris sunt positae, cepit. Honoratus vero archiepiscopus Mediolanum deserens, ad Genuensem urbem confugit. »
(IT)
« Alboino, invasa la Liguria, entrò a Milano nella terza indizione, il 3 settembre, ai tempi dell'arcivescovo Onorato. Successivamente conquistò tutte le città della Liguria, tranne quelle sul littoriale. Ma l'arcivescovo Onorato, abbandonando Milano, fuggì nella città di Genova. »
(Paolo Diacono, Historia Langobardorum, II, 25.)

 

  • LA FINE DELLA PREFETTURA D'ITALIA (584 d.C.):nasce l'Esarcato con capitale Ravenna ed i Ducati di Roma,Calabria,Amalfi
  • Il 13 agosto 554, con la promulgazione a Costantinopoli da parte di Giustiniano di una Pragmatica sanctio (pro petitione Vigilii) (Prammatica sanzione sulle richieste di papa Vigilio), l'Italia rientrava, sebbene non ancora del tutto pacificata, nel dominio romano.[2] Con essa Giustiniano estese la legislazione dell'Impero all'Italia, riconoscendo le concessioni attuate dai re goti fatta eccezione per l' "immondo" Totila, e promise fondi per ricostruire le opere pubbliche distrutte o danneggiate dalla guerra, garantendo inoltre che sarebbero stati corretti gli abusi nella riscossione delle tasse e sarebbero stati forniti fondi all'istruzione.[3] Narsete avviò inoltre la ricostruzione di un'Italia in forte crisi dopo un conflitto così lungo e devastante, riparando anche le mura di varie città ed edificando numerose chiese, e fonti propagandistiche parlano di un'Italia riportata all'antica felicità sotto il governo di Narsete.[4] Secondo la storiografia moderna tali fonti sono però esageratamente ottimistiche, in quanto, nella realtà dei fatti, Roma faticò, nonostante i fondi promessi, a riprendersi dalla guerra e l'unica opera pubblica riparata nella Città Eterna di cui si ha notizia è il ponte Salario, distrutto da Totila e ricostruito nel 565.[5] Nel 556 Papa Pelagio si lamentò in una lettera delle condizioni delle campagne, «così desolate che nessuno è in grado di recuperare.»[6] Anche il declino del senato romano non fu fermato, portando alla sua dissoluzione agli inizi del VII secolo.

    La prefettura del pretorio d'Italia, suddivisa in province.

    Narsete rimase ancora in Italia con poteri straordinari e riorganizzò anche l'apparato difensivo, amministrativo e fiscale. A difesa della penisola furono stanziati quattro comandi militari, uno a Forum Iulii (vicino al confine con Norico e Pannonia), uno a Trento, uno in Insubria ed infine uno presso le Alpi Cozie e Graie.[7] L'Italia fu organizzata in Prefettura e suddivisa in due diocesi, a loro volta suddivise in province:[7]

    1. Alpes Cotiæ (Piemonte e Liguria)
    2. Liguria (Lombardia e Piemonte orientale)
    3. Venetia et Histria (Veneto, Trentino, Friuli e Istria)
    4. Æmilia (Emilia)
    5. Flaminia (ex Ager Gallicus)
    6. Picenum
    7. Alpes Apenninæ (gli Appennini settentrionali)
    8. Tuscia (Toscana e Umbria)
    9. Valeria (Sabina)
    10. Campania (Lazio litoraneo e Campania litoranea)
    11. Samnium (Abruzzo e Irpinia)
    12. Apulia (Puglia)
    13. Calabria (Cilento, Basilicata e Calabria)

    Nel 568 l'imperatore Giustino II (565-578), in seguito alle proteste dei Romani[8], rimosse dall'incarico di governatore Narsete, sostituendolo con Longino. Il fatto che Longino sia indicato nelle fonti primarie[9] come prefetto indica che governasse l'Italia in qualità di prefetto del pretorio, anche se non si può escludere che fosse anche il generale supremo delle forze italo-bizantine.[10]

     

  •  

    Intorno al 580, stando alla Descriptio orbis romani di Giorgio Ciprio, Tiberio II divise in cinque province o eparchie l'Italia bizantina:

    • Urbicaria, comprendente i possedimenti bizantini in Liguria, Toscana, Sabina, Piceno, e Lazio litoraneo (tra cui Roma);
    • Annonaria, comprendente i possedimenti bizantini nella Venezia e Istria, in Æmilia, nell'Appennino settentrionale e nella Flaminia;
    • Æmilia, comprendente i possedimenti bizantini nella parte centrale dell'Æmilia, a cui si aggiungono l'estremità sud-occidentale della Venezia (Cremona e zone limitrofe) e l'estremità sud-orientale della Liguria (con Lodi Vecchio);
    • Campania, comprendente i possedimenti bizantini nella Campania litoranea, nel Sannio e nel Nord dell'Apulia;
    • Calabria, comprendente i possedimenti bizantini nel Cilento, in Lucania e nel resto dell'Apulia.

    Tale riforma amministrativa dell'Italia sembra motivata dall'adattare l'amministrazione dell'Italia alle necessità militari del momento, visto che gran parte della penisola era soggetta alle devastazioni dei Longobardi e ogni tentativo (compresa la spedizione di Baduario) per debellarli era fallito. Prendendo dunque atto delle conquiste effettuate dai Longobardi, fu introdotto con la riforma il sistema dei «tratti limitanei», anticipando la riforma dell'Esarcato, che fu realizzata alcuni anni dopo.[15]

    Fine della prefettura: l'istituzione dell'esarcato (584 ca)

    Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Esarcato d'Italia.

    Per arginare l'invasione longobarda, l'imperatore Maurizio (582-602) prese nuovi provvedimenti nell'Italia bizantina, decidendo di sopprimere la Prefettura del pretorio d'Italia, sostituendola con l'Esarcato d'Italia, governato dall'esarca, la massima autorità civile e militare della nuova istituzione. La carica di prefetto d'Italia non venne abolita fino ad almeno a metà del VII secolo, anche se divenne subordinata all'esarca.[16] I confini dell'Esarcato d'Italia non furono mai definiti, dato l'incessante stato di guerra tra bizantini e longobardi.

    Il primo riferimento nelle fonti dell'epoca all'esarcato e all'esarca si ebbe nel 584: in una lettera, Papa Pelagio II menziona per la prima volta un esarca (forse il patrizio Decio citato nella stessa missiva). Secondo alcuni storici moderni, l'esarcato, all'epoca della lettera (584), doveva essere stato istituito da poco tempo.[16]

  • ^ Porena, Pierfrancesco: Le origini della prefettura del pretorio tardoantica, pp. 450-459.
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 63.
  • ^ Ravegnani, op. cit., pp. 63-64
  • ^ CIL VI, 1199; Liber Pontificalis, p. 305 («Erat tota Italia gaudiens»); Auct Haun. 2, p. 337 («(Narses) Italiam romano imperio reddidit urbes dirutas restauravit totiusque Italiae populos expulsis Gothis ad pristinum reducit gaudium»)
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 65.
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 66.
  • ^ a b Ravegnani, op. cit., p. 62.
  • ^ I Romani chiesero all'Imperatore di rimuovere Narsete dal governo dell'Italia in quanto si stava meglio sotto i Goti che sotto il suo governo, minacciando di consegnare l'Italia e Roma ai barbari. V. P. Diacono, Historia Langobardorum, II e Ravegnani, op. cit., p. 69.
  • ^ P. Diacono, II.
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 70.
  • ^ Paolo Diacono, II.
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 71.
  • ^ Ravegnani 2004, op. cit., p. 73.
  • ^ Ravegnani, op. cit., p. 77.
  • ^ Le duché byzantin de Rome. Origine, durée et extension géographique, pp. 49-50..
  • ^ a b Ravegnani, op. cit., p. 81.
  •  

     

     

     

     

     

    Agilulfo e Teodolinda garantirono i confini del regno attraverso trattati di pace con Franchi e Avari; le tregue con i Bizantini, invece, furono sistematicamente violate e il decennio fino al 603 fu segnato da una marcata ripresa dell'avanzata longobarda. Al nord Agilulfo occupò, tra le varie città, anche Parma, Piacenza, Padova, Monselice, Este, Cremona e Mantova, mentre anche a sud i duchi di Spoleto e Benevento ampliavano i domini longobardi[70].

    Il rafforzamento dei poteri regi avviato da Autari prima e Agilulfo poi segnò anche il passaggio a una nuova concezione territoriale basato sulla stabile divisione del regno in ducati. Ogni ducato era guidato da un duca, non più solo capo di una fara ma funzionario regio, depositario dei poteri pubblici e affiancato da funzionari minori (sculdasci e gastaldi). Con questa nuova organizzazione il Regno longobardo avviò la sua evoluzione da occupazione militare a Stato[69]. L'inclusione dei vinti Romanici era un passaggio inevitabile e Agilulfo compì alcune scelte simboliche volte ad accreditarlo presso la popolazione latina: per esempio, si definì Gratia Dei rex totius Italiae ("Per grazia di Dio, re dell'Italia intera") e non più soltanto Rex Langobardorum ("Re dei Longobardi")[71]. In questa direzione si inscrive anche la forte pressione - svolta soprattutto da Teodolinda, che era in rapporti epistolari con lo stesso papa Gregorio Magno[72] - verso la conversione al cattolicesimo dei Longobardi, fino a quel momento ancora in gran parte pagani o ariani, e la ricomposizione dello Scisma tricapitolino[70]. Paolo Diacono esalta la sicurezza finalmente raggiunta, dopo gli sconvolgimenti dell'invasione e del Periodo dei Duchi, sotto il regno di Autari e Teodolinda:

    (LA)
    « Erat hoc mirabile in regno Langobardorum: nulla erat violentia, nullae struebantur insidiae; nemo aliquem iniuste angariabat, nemo spoliabat; non erant furta, non latrocinia; unusquisque quo libebat securus sine timore pergebat. »
    (IT)
    « C'era questo di meraviglioso nel regno dei Longobardi: non c'erano violenze, non si tramavano insidie; nessuno opprimeva gli altri ingiustamente, nessuno depredava; non c'erano furti, non c'erano rapine; ognuno andava dove voleva, sicuro e senza alcun timore. 
    »

    (Paolo Diacono, Historia Langobardorum, III, 16)

     

  • ^ a b Jarnut, p.44.
  • ^ a b Jarnut, p. 42.
  • ^ Jarnut, p. 43.
  • ^ Paolo Diacono, IV, 9.
  •  

    DALLE LUNGHISSIME GUERRE LONGOBARDO-BIZANTINE ALLA STABILIZZAZIONE DEL REGNO

    L'iniziale incoerenza dell'occupazione longobarda,con duchi e fare che gestivano in proprio la dominazione del territorio,aveva ceduto via via alla creazione di un potere centrale stabile in grado di garantire la sicurezza sia all'interno che all'esterno. All'interno la stabilizzazione avvenne attraverso una lunghissima guerra contro i possedimenti bizantini che piano piano vennero incorporati nel regno longobardo.
     

    (il regno longobardo alla massima espansione, 770 d.c.)

     

    Russia, niente feste per i 100 anni della Rivoluzione: Putin non mette in discussione la stabilità prima del voto

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    MONDO

    Il Cremilino ha deciso da tempo: in vista delle presidenziali niente festeggiamenti ma spazio ad eventi culturali, mostre e dibattiti. La decisione non ha comunque fermato i preparativi del Partito Comunista: dal 1 all’8 novembre riunioni, serate di gala sia a San Pietroburgo che a Mosca

    Russia, a Mosca si rievoca la storica parata del 1941: l’Armata Rossa partiva in guerra contro la Germania nazista

     

     

     

    50 milioni di pasticche per combattere su tutti i fronti: la droga alla base della blitzkrieg

     

    Norman Ohler rivela quanta parte avesse la chimica nel mito del vigore nazista

    La droga di Hitler: oppiacei e metanfetamine ai soldati

     

    Un nuovo saggio rivela l'uso di stimolanti chimici per vincere la guerra. Momsen, uno dei massimi storici del nazismo: "Cambia il quadro generale"

     

    DER TOTALE RAUSCH – LE DROGHE NEL REICH, 1933-45

     

    Battaglia del Caucaso(luglio 1942 - ottobre 1943, il salvataggio del Gruppo d'armate A - i podromi dell'offensiva di Kursk)

     

     

    Indagine su Hitler: davvero morì nel bunker?

    Mancano prove della morte del dittatore. E gli ultimi dossier Fbi desecretati descrivono la sua fuga da Berlino. History Channel li ha fatti esaminare 
da un ex agente Cia e da uno dei cacciatori di Bin Laden. Scoprendo che la sua presenza fu segnalata in Argentina negli anni Cinquanta.
    Dal 26 ottobre al 14 dicembre, ogni lunedì alle 21.00 History Channel (canale 407 di Sky) presenta 'Hunting Hitler' il progetto documentaristico in otto puntate di un'ora sul mistero della morte del dittatore tedesco. Il corpo infatti non fu ritrovato nel bunker di Berlino. Il team di History Channel, che include la 'leggenda' della Cia Robert Baer, ha indagato sui file dell'Fbi sulla presenza di Hitler in Argentina negli anni Cinquanta

     

    Indagine su Hitler: davvero morì nel bunker?

     

     

     

    LINEA DEL FRONTE AL 23 MAGGIO 1945, ALL'ARRESTO DELL'ULTIMO GOVERNO NAZISTA A FLENSBURG.

     

    File segreto della Cia svela: Hitler vivo e fuggito in Argentina

    Un file segreto della Cia svela che Hitler sarebbe sopravvissuto alla guerra, fuggendo in Sudamerica

     
     
     I Sovietici bloccati sulla Vistola, agosto 1944

    Battaglia di Radzymin

    La battaglia di Radzymin fu un grande scontro di carri armati verificatosi nella prima settimana di agosto del 1944, durante la seconda guerra mondiale sul fronte orientale, alla periferia di Varsavia sulla riva destra della Vistola (a RadzyminWołomin e nel sobborgo di Praga), tra alcune agguerrite Panzer-Division tedesche del 39º Panzerkorps, e le unità meccanizzate della II Armata corazzata dell'Armata Rossa (1º Fronte Bielorusso del maresciallo Rokossovskij).

    L'aspra e combattuta battaglia, il più grande scontro di mezzi corazzati verificatosi in territorio polacco durante la guerra, avvenne alla fine della impetuosa avanzata generale sovietica conseguente al clamoroso successo dell'operazione Bagration che aveva provocato il catastrofico crollo dell'Heeresgruppe Mitte tedesco. Alla periferia della capitale polacca e in procinto di attraversare la Vistola, le unità corazzate sovietiche, vennero contrattaccate dalle Panzerdivision tedesche, freneticamente raccolte dal feldmaresciallo Model per impedire l'irruzione nemica in Polonia. La battaglia si concluse con un rilevante successo tedesco, con pesanti perdite di carri armati per i sovietici e con la momentanea ritirata delle unità di testa dell'Armata Rossa.

    Inoltre, contemporaneamente a questa furiosa battaglia di carri, era esplosa alle spalle del fronte tedesco la rivolta di Varsavia, che sarebbe drammaticamente proseguita per due mesi fino alla resa finale delle forze polacche dell'Armia Krajowa. Rimane oggetto di aspre discussioni se la inattesa sconfitta di Radzmin e Wolomin, subita dalle forze corazzate sovietiche contro i panzer tedeschi alle porte della capitale polacca, abbia realmente influito sulla decisione sovietica di non intervenire in aiuto dei rivoltosi sulla riva sinistra della Vistola[3].

    Un carro armato tedesco Panzer IV; Le esperte Panzer-Division tedesche ebbero un ruolo decisivo nell'arresto della impetuosa offensiva sovietica dell'estate 1944

    Data 1º agosto 1944 - 10 agosto 1944
    Luogo Radzymin e WołominPoloniaorientale
    Esito vittoria tedesca

    Nella seconda metà di luglio la situazione del feldmaresciallo Model, che comandava contemporaneamente i resti dell'Heeresgruppe Mitte e l'Heeresgruppe Nordukraine, schierato più a sud, appariva quasi disperata. Nonostante il progressivo afflusso di notevoli riserve corazzate provenienti dagli altri Gruppi d'armate o da altri fronti, la progressione sovietica sembrava inarrestabile[5].

    La minaccia più grande per i tedeschi, tuttavia, proveniva da sud, dove le armate del fianco sinistro del 1º Fronte Bielorusso del generale Rokossovskij (8ª Armata della Guardia del famoso generale Čuikov, 69ª Armata e 1ª Armata polacca) si avvicinavano alla Vistola, che raggiunsero il 25 luglio cercando subito di attraversarla, e soprattutto da sud-est dove i tre corpi corazzati della 2ª Armata corazzata sovietica (passata al comando del generale Radzievskij dopo il ferimento del generale Bogdanov), dopo aver liberato Lublino, il 28 luglio arrivarono a 40 km a sud-ovest di Varsavia, contrastate solo dalla 73. Divisione fanteria (che subì una grave sconfitta) e da elementi della Panzer-Division "Hermann Göring", trasferita dall'Italia[10].

     

    Mappa della battaglia di Radzymin-Wolomin.

    In realtà anche la posizione delle forze sovietiche era pericolosamente esposta: le punte corazzate della 2ª Armata corazzata avanzavano incessantemente dal 18 luglio e presentavano importanti problemi logistici e di rifornimento; inoltre, marciando in direzione nord-ovest, esponevano il loro fianco destro, non solidamente collegato con il raggruppamento sovietico impegnato in duri scontri contro le Waffen-SS a Siedlce[11].

    Nonostante queste difficoltà, le direttive dello Stavka del 28 luglio imponevano ottimisticamente di continuare l'avanzata su tutto il fronte e ordinavano al generale Radzievskij di marciare in direzione della capitale polacca, schierando il 16º Corpo corazzato sulla sinistra, verso la Vistola e in collegamento con la 8ª Armata della Guardia in azione più a sud (che aveva già conquistato una prima testa di ponte sul fiume a Magnuszew), mentre il 3º Corpo corazzato sarebbe avanzato al centro per puntare da Dęblin su WołominRadzymin e il sobborgo sulla riva destra di Praga, supportato sulla destra, attraverso Mińsk Mazowiecki, dall'8º Corpo corazzato della Guardia e da alcuni elementi di fanteria e cavalleria meccanizzata[12]. Si prevedeva in questo modo di aggirare Varsavia da nord e di costringere alla ritirata le forze tedesche; alla vigilia della battaglia i tre corpi corazzati della 2ª Armata corazzata contavano ancora oltre 600 carri armati, ma accusavano gravi carenze di carburante e rifornimenti[13].

    Contrattacco tedesco[modifica | modifica wikitesto]

     

    Carri Panther della Panzer-Division SS "Totenkopf" durante i combattimenti in Polonia.

    Il feldmaresciallo Model e l'Oberkommando des Heeres, nonostante la grave crisi provocata dall'attentato a Hitler e dal peggioramento della situazione sull'Invasionfront in Normandia (il 1º agosto le forze americane avrebbero sfondato le difese tedesche a Avranches[14]), non intendevano affatto rinunciare alla lotta e abbandonare Varsavia[15]. Al contrario, sfruttando le difficoltà logistiche sovietiche, alcuni vantaggi tattici temporanei e la possibilità di raggruppare alcune eccellenti Panzerdivision affluite dagli altri fronti, intendevano contrattaccare le punte sovietiche e stabilizzare finalmente la situazione, disimpegnando le cospicue forze ancora attardate a est della Vistola e sperando anche di schiacciare le pericolose teste di ponte sul fiume in via di costituzione sui fronti di Konev e Rokossovskij[16].

    Secondo questi piani, la 9ª Armata tedesca (generale von Vormann), che difendeva la linea della Vistola, avrebbe raggruppato una massa corazzata sui due fianchi della pericolosa puntata sovietica a est e sud-est di Varsavia, impegnando, sotto il comando del 39º Panzerkorps dell'esperto generale von Saucken, la 19. e la 4 Panzer-Division(ritirate dal fronte sul Narew e dirottate verso ovest), la Panzer-Division "Hermann Göring", già presente sul posto, e le divisioni corazzate SS "Wiking" e "Totenkopf", che si sarebbero disimpegnate dall'area di Siedlce e avrebbero attaccato da est verso ovest, sul fianco destro delle colonne meccanizzate sovietiche[17]. Circa 300 panzer avrebbero preso parte all'attacco[18].

    Fin dal 26 luglio, i primi segni della volontà tedesca di non abbandonare Varsavia e del concentramento di mezzi corazzati in corso di organizzazione, avevano sollevato grande nervosismo nel comando del 1º Fronte Bielorusso del generale Rokossvoskij; nonostante i segni di panico presenti nelle truppe di retrovia tedesche stanziate nella capitale polacca, la situazione rimaneva poco chiara e ordini vennero diramati per mantenere concentrati i corpi corazzati della 2ª Armata corazzata, ed anche per tenere pronta ad intervenire la 8ª Armata della Guardia del generale Čuikov[11].

    Il 30 luglio, avendo raggruppato la 19. Panzer-Division e la "Hermann Göring" sul fianco sinistro del 3º Corpo corazzato sovietico in avanzata su Okuniew, Wolomin e Radzymin, Model e Saucken sferrarono il contrattacco in forze, dando inizio ad una settimana di furiose battaglie di carri proprio alla periferia di Varsavia (in cui era in procinto di esplodere la tragica insurrezione dell'Armia Krajowa).

     

    Un Panzer IV di una Panzerdivision impegnata in Polonia nell'agosto 1944.

    I primi attacchi tedeschi furono lanciati dalla 19. Panzer-Division (maggior generale Hans Källner) e dalla Panzer-Division "Hermann Göring" (maggior generale Wilhelm Schmalz) contro il fianco sinistro del 3º Corpo corazzato sovietico (maggior generale N.D.Vedeneev) a nord di Wolomin; colta di sorpresa, la formazione sovietica respinse, tuttavia, i primi attacchi e per tre giorni, a partire dal 30 luglio, fece fronte ai ripetuti colpi dei panzer, pur subendo dure perdite[19]. Mentre il 16º Corpo corazzato sovietico (maggior generale I.Dubovoi) rimaneva a sud, lungo la Vistola, alla periferia sud-orientale di Varsavia, senza essere coinvolto in pieno dai contrattacchi tedeschi, l'8º Corpo corazzato della Guardia (tenente generale A.F.Popov), sul fianco destro della 2ª Armata corazzata, procedeva a nord di Minsk-Mazowiecki, arrivando fino a 20 km a est di Varsavia prima di essere attacco alle spalle dai primi elementi della Panzer-Division SS "Totenkopf" (maggior generale Hellmuth Becker) che si erano sganciati dall'area di Siedlce[20].

    Il momento decisivo del contrattacco tedesco si verificò il 2 agosto con l'intervento da nord-est e da est del grosso della 4. Panzer-Division (maggior generale Clemens Betzel), in avanzata lungo l'autostrada di Wyszków, e di una parte della Panzer-Division SS "Wiking" (maggior generale Rudolf Muhlenkamp), proveniente da Siedlce: il 3º Corpo corazzato sovietico venne preso a tenaglia dalla 4. Panzer-Division, che attaccava da nord, e dalla 19. Panzer-Division, ripartita all'offensiva sul fianco sinistro [21]. I reparti corazzati sovietici vennero respinti da Radzymin e Wolomin e praticamente distrutti, nonostante una coraggiosa resistenza, in tre giorni di battaglia[20].

    Le perdite di carri sovietici furono pesanti (quasi 300 mezzi corazzati, di cui almeno 113 carri distrutti definitivamente[22]) sotto il fuoco dei panzer tedeschi e colpiti anche da numerosi interventi della Luftwaffe che mantenne la superiorità aerea locale sul campo di battaglia (per mancanza di strutture logistiche adeguate l'aviazione sovietica perse in questa fase la schiacciante superiorità raggiunta in precedenza[23]). Anche l'8º Corpo corazzato della Guardia subì pesanti perdite, contro la "Hermann Göring", la SS "Totenkopf" ed elementi della SS "Wiking"[24], e dovette a sua volta ripiegare verso sud, abbandonando il terreno momentaneamente conquistato e rinunciando a ogni manovra per raggiungere Varsavia[20].

     

    Fanteria tedesca impegnata negli scontri alla periferia di Varsavia.

    Il 5 agosto la 2ª Armata corazzata, in grave difficoltà, era in piena ritirata dopo aver perso le posizioni raggiunte a Okuniew, Radzymin, Wolomin e Minsk-Mazowiecki, mentre intervenivano i primi reparti della 47ª Armata per stabilizzare la situazione. Mentre i corpi corazzati sovietici venivano ritirati dal fronte per essere riequipaggiati, i corpi di fucilieri della 47ª Armata furono rapidamente schierati su posizioni difensive per 80 km, dalla periferia meridionale di Varsavia a Siedlce: il 1º Fronte Bielorusso del generale Rokossovskij, dopo la brillante ma estenuante avanzata, passava sulla difensiva in gran parte dei settori, il sobborgo di Praga era ora saldamente in mano tedesca, e Varsavia (in cui infuriava già da alcuni giorni la rivolta) era ormai lontana dagli obiettivi sovietici, e quindi esposta alla repressione tedesca[25].

    Il riuscito contrattacco dei panzer aveva anche stabilizzato il fronte settentrionale, mantenendo le comunicazioni con le forze in ripiegamento sul Narew e con quelle schierate in difesa della Prussia orientale. La precarietà della situazione complessiva del fronte tedesco, rese inevitabile, tuttavia, una rapida sospensione dei contrattacchi del 39º Panzerkorps (10 agosto), dopo aver ottenuto i risultati indispensabili a salvaguardare Varsavia: le preziose Panzerdivision sarebbero state rapidamente inviate a nord (in Prussia orientale e nel Baltico) e a sud (contro le teste di ponte sulla Vistola) per salvare la situazione anche negli altri settori pericolanti dell'Ostfront, abbandonando l'area della capitale polacca (tranne alcune formazioni della 19. Panzer-Division)[26].

    Da Mogilev alla Vistola: il disastro di bielorussia, giugno-agosto 1944

     

    Normandia e bielorussia furono due battaglie contemporanee che misero definitivamente in crisi la wermacht.

    L'esercito nazista nell'estate del 1944 si ritrovo' pressato da due direzioni, perdendo definitivamente l'iniziativa, quella blitzkrieg che porto' avanti dall'invasione della polonia il primo settembre 1939. Nonostante il forte dissanguamento seguito in ucraina all'indomani del fallimento dell'ultima offensiva del luglio 1943, la wermacht rimaneva un esercito fortissimo soprattutto perche' poteva contare su armi pesanti temibilissime che continuavano ad essere prodotte dalla macchina produttiva nazista in crescita esponenziale e questo nonostante la ferocissima campagna di bombardamenti portata avanti dagli alleati su tutto il territorio metropolitano tedesco. il vallo atlantico ed il gruppo d'armate centro ad est, dovevano rappresentare nella mente di hitler, quelle muraglie insuperabili capaci di preservare il reich posto sulla difensiva, prendendo tempo prezioso necessario per mettere in linea nuove armi micidiali come i missili balistici, i caccia a reazione, la nuova tipologia di sottomarini, i nuovi super carri armati corazzati indistruttibili e con cannoni capaci di devastare le corazze avversarie a lunghissima distanza. gli ingegneri tedeschi, incardinati nella macchina produttiva spinta al massimo dal ministro della produzione albert speer, avevano gia' iniziato le nuove produzioni e per gli alleati risultava fondamentale aggredire la germania prima che la produzione nazista risultasse fatale restituendo l'iniziativa ad hitler.

    il tracollo inaspettato di bielorussia, unito al fallimento dell'operazione zitadelle del luglio 1943, rappresento' un passaggio storico importantissimo, perche' impedi' alla germania nazista di avere tempo necessario per mettere in linea nuove armi mantenendo intatto il suo retroterra.

    Sul fronte occidentale, le armi in dotazione alla wermacht, nonostante l'inferiorita' numerica, avevano prodotto pesantissime perdite agli alleati, il fatto che la macchina da guerra tedesca non potesse spostarne altre ad ovest a causa della fortissima pressione sovietica ad oriente, fu una grande fortuna per gli alleati che potevano in questo modo mantenere a loro volta elevata la pressione sopperendo alle perdite subite impedendo ai tedeschi il rimpiazzo. Ad occidente la wermacht tento' sempre il contrattacco e questo perche' i mezzi pesanti nazisti lo consentivano, mezzi che invece vennero meno in bielorussia che fu travolta. associato ad un incredibile errore strategico, con lo stato maggiore tedesco convinto di un assalto in forze in ucraina, la wermacht in bielorussia cedette di schianto quasi senza combattere lasciando dietro di se oltre mezzo milione di uomini, una catastrofe peggiore di stalingrado. catastrofe che aumenta la sua portata in relazione alla debolezza tecnologica nazista ad oriente: un immenso territorio quasi senza appigli tattici ,se non i fiumi, che porto' l'armata rossa a 200 chilometri da berlino.

    Nella seconda metà di luglio la situazione del feldmaresciallo Model, che comandava contemporaneamente i resti dell'Heeresgruppe Mitte e l'Heeresgruppe Nordukraine, schierato più a sud, appariva quasi disperata. Nonostante il progressivo afflusso di notevoli riserve corazzate provenienti dagli altri Gruppi d'armate o da altri fronti, la progressione sovietica sembrava inarrestabile[5].

    A nord il 1º Fronte Baltico del generale Bagramjan avanzava su Tukums e sembrava in grado di tagliare le comunicazioni dell'Heeresgruppe Nord schierato nei Paesi Baltici[6]; al centro il generale Cerniakovskij (3º Fronte Bielorusso) aveva superato il Niemen e si avvicinava a Kaunas e alla Prussia orientale; infine, più a sud, il potente 1º Fronte Bielorusso del generale Rokossovskij avanzava da due direzioni differenti: da Pinsk-Baranovici verso Brėst (raggiunta il 28 luglio), e da Lublino(liberata il 23 luglio) verso la Vistola e Varsavia. Il feldmaresciallo Model doveva inoltre contenere anche la potente offensiva del 1º Fronte Ucraino del marescialloKonev in Volinia, che aveva provocato la caduta di Lvov e Brody e una nuova pericolosa marcia sovietica verso la Vistola, 150 km a sud di Varsavia[7]. La minaccia più grande per i tedeschi, tuttavia, proveniva da sud, dove le armate del fianco sinistro del 1º Fronte Bielorusso del generale Rokossovskij (8ª Armata della Guardia del famoso generale Čuikov, 69ª Armata e 1ª Armata polacca) si avvicinavano alla Vistola, che raggiunsero il 25 luglio cercando subito di attraversarla, e soprattutto da sud-est dove i tre corpi corazzati della 2ª Armata corazzata sovietica (passata al comando del generale Radzievskij dopo il ferimento del generale Bogdanov), dopo aver liberato Lublino, il 28 luglio arrivarono a 40 km a sud-ovest di Varsavia, contrastate solo dalla 73. Divisione fanteria (che subì una grave sconfitta) e da elementi della Panzer-Division "Hermann Göring", trasferita dall'Italia[10].

    'Ritrovato un treno nazista carico d'oro'. La scoperta scuote la Polonia

    Due uomini, un tedesco e un polacco, nei giorni scorsi hanno comunicato alle autorità di Wroclaw, in Polonia, di aver ritrovato un treno carico di beni preziosi. Da decenni si vociferava dell'esistenza del convoglio, che i soldati della Wehrmacht avrebbero tentato di salvare dall'avanzata dell'Armata Rossa. Secondo i due ricercatori è stato rinvenuto in un tunnel ferroviario in disuso

     

    'Ritrovato un treno nazista carico d'oro'. La scoperta scuote la Polonia
    Un treno carico di armi, gioielli, oro e materiale industriale è stato ritrovato a Wałbrzych, cittadina nell'ovest del Paese ai confini con la Repubblica ceca e vicino all'antica città tedesca di Breslavia. Ad annunciarlo è il sindaco , che in una conferenza stampa ha confermato le notizie che erano già emerse nei giorni scorsi quando due persone, un polacco e un tedesco, avevano contattato le autorità locali comunicando la scoperta e chiedendo il 10 per cento dei proventi.

    Il ritrovamento confermebbe la veridicità di molte dicerie che negli ultimi decenni si erano diffusi nella regione
     . Il treno sarebbe appartenuto alla Wehrmacht (l'esercito regolare tedesco) e sarebbe stato in fuga dall'avanzata sovietica sul finire della seconda guerra mondiale. Entrato in una galleria vicino al castello di Książ, tra le montagne, non sarebbe più emerso. Secondo la stampa locale il tunnel sarebbe poi stato chiuso dimenticando il convoglio al suo interno.

    Lungo circa 150 metri, il materiale trovato al suo interno 
    avrebbe un inestimabile valore economico e storiografico . Nonostante non sia ancora stato comunicato cosa precisamente contenga sono già in molti a fantasticare quali meravigliose ricchezze i tedeschi avessero stipato al suo interno. Diversi storici si sono già messi alla ricerca della provenienza del treno, per individuare l'origine del carico.

    Durante la Seconda Guerra mondiale, infatti, i nazisti prelevarono oltre 550 milioni di dollari in oro dai governi dei Paesi occupati. Quando capirono che la capitolazione era vicina i soldati della Wehrmacht tentarono di mettere al sicuro i bottini dall'avanzata sovietica, trasportandoli nel cuore della Germania. Molto di essi andarono perduti, in conti bancari secretati o nelle valigie di alcuni ufficiali. Alcuni però sono rimasti dispersi in zone desolate degli ex territori occupati. Come quelli ritrovati sul treno abbandonato.

     

    L'Offensiva Bragation del 22 giugno 1944 e l'annientamento del Gruppo d'Armate Centro (MITTE). Caduta di Minsk, 8 luglio 1944 ed Armata Rossa sulla Vistola. Caduta di St. Lo - Avranches e sfondamento in Normandia (20 luglio-31 luglio 1944) Sacca di Falaise e sua liquidazione (22 agosto 1944)

     

    Il crollo DEL GRUPPO D'ARMATE CENTRO E L'ARRETRAMENTO SULLA VISTOLA(AGOSTO 1944). Il Gruppo d'Armate centro rappresentava lo scudo su Berlino in un momento storico nel quale la Wermacht si ritrovava sotto pressione sul Fronte Occidentale con gli Alleati che premevano su St.Lo e Caen in Normandia, tentando si sfondare la linea del fronte tedesca che, dopo l'iniziale sbandamento successivo allo sbarco, si era irrigidita a tal punto da non permettere agli Alleati di avanzare nonostante la superiorità numerica sia dei mezzi di terra che di aria. Soprattutto per l'azione della Panzer Divisione del colonnello Wittman, il 13 giugno a Vie Bocage, riusciva col suo carro Tigre ad annientare un'intera colonna di carri Shermann e Cromwell inglesi, una carneficina di uomini e mezzi che costrinse gli Alleati a rallentare fortemente l'avanzata temendo perdite troppo elevate. Per i tedeschi fu un vantaggio soprattutto perchè ad ovest non potevano dislocare uomini e mezzi in quanto dovevano sottrarli dal fronte Orientale che si stava muovendo soprattutto dall'Ucraina sud occidentale. Li si stanziava il Gruppo d'Armata Nord Ucraina messo sulla linea del Bug e sotto pressione continua fin dal disastro di Cerkassy del febbraio 1944. La campagna di liberazione dell'Ucraina stava volgendo alla fine all'indomani del fallimento dell'ultima offensiva tedesca su Kursk, luglio 1943, e li lo stato maggiore nazista prevedeva, erroneamente, il maggiore sforzo dell'Armata Rossa, posizionando ivi tre divisioni corazzate panzer lasciando al centro solo la ventesima. Un clamoroso errore strategico che segnò la fine della Wermacht in Bielorussia.

     

     

    Crollo di Minsk e crollo di St. Lo. (20 luglio 1944)

     

    Con la Wermacht completamente in rotta in Bielorussia, ad ovest la situazione precipitò allo stesso modo. I nazisti non erano in grado di inviare rinforzi in Normandia e gli Alleati, con l'Operazione Cobra, iniziarono a sfondare le linee tedesche a St.Lo e Caen dopo due mesi di durissimi combattimenti.

     

    IL 20 luglio 1944 è anche il giorno dell'attentato ad Hitler da parte dei colonnelli guidati da Klaus Von Stauffemberg, che in persona a Rastenburg, nel Quartier generale di Hitler nella Prussia Orientale, piazzò una bomba che doveva uccidere il Fuhrer, dare il via al colpo di stato e chiudere la guerra con una dichiarazione di resa su entrambi i fronti. Proprio in quel momento l'Armata Rossa aveva varcato i confini della Polonia Orientale del 1939 e gli Alleati dilagavano nella campagna a sud di St.Lo - Caen con l'Operazione COBRA. All'interno di una simile pressione tutta l'azione dei colonnelli sembrava portare a termine un piano insperato. Invece le cose mutarono nuovamente: Hitler ne usciva con i timpani scoppiati e con un braccio offeso ma vivo e diramò immediatamente una ferocissima repressione che investi' le truppe più fanatiche di una violenza che, sul fronte occidentale , si tradusse in una ulteriore recrudescenza della reazione sul campo, costringendo gli Alleati ad un rallentamento della marcia tale che fu il tentacolo più meridionale, quello di Avranches, a dare la spallata finale al fronte tedesco. Questi successi dei mezzi corazzati americani e soprattutto la caduta di Coutances avevano disarticolato completamente il fianco sinistro del fronte tedesco; gran parte dell'84º Corpo d'armata era ormai distrutto o accerchiato; rimasero tagliate fuori i resti della 91ª, 353ª e 243ª Divisione fanteria, alcuni reparti di paracadutisti e le unità meccanizzate della 2. SS "Das Reich" e della 17. Panzergrenadier SS, oltre ai superstiti della Panzer-Lehr-Division[57]. Il generale von Choltiz, comandante dell'84º Corpo, rischiò di essere catturato o ucciso dai carri armati americani nel suo posto di comando di Térence e dovette fuggire a piedi attraverso la campagna normanna[68].Il generale Eugen Meindl, comandante del 2º Corpo paracadutisti, si trovava in grande difficoltà dopo il crollo delle difese dell'84º Corpo d'armata schierato sul fianco sinistro delle sue truppe; tuttavia, nonostante la netta superiorità materiale del nemico, alcuni reparti di paracadutisti erano riusciti a frenare l'avanzata americana verso sud-est, ritardando l'estensione dello sfondamento. Il gruppo del capitano Goercke difese per ventiquattro ore Le Mesnil-Herman, respinse gli attacchi dei carri armati americani e riuscì a disimpegnare i resti della 352ª Divisione tedesca del generale Dietrich Kraiss; Marigny venne difesa temporaneamente dai paracadutisti del colonnello Wolf Werner Graf von der Schulenburg[70]. Queste disperate azioni di contenimento non avevano alcuna possibilità di bloccare a lungo l'avanzata degli americani; il feldmaresciallo von Kluge aveva dato quindi ordine al generale Paul Hausser di contrattaccare al più presto con il rinforzo della 2. Panzer-Division del generale Heinrich von Lüttwitz e della 116. Panzer-Division del generale Gerhard von Schwerin, richiamate d'urgenza dal fronte di Caen e assegnate al comando del 47° Panzer-Korps del generale Hans Freiherr von Funck. Si sperava che queste forze corazzate avrebbero potuto attaccare da est verso ovest e ristabilire il collegamento con le truppe dell'84º Corpo d'armata rimaste isolate a ovest dallo sfondamento nemico.Contemporaneamente le due Panzer-Division provenienti da Caen avevano cercato di contrattaccare da est e tra il 28 e il 31 luglio nuovi aspri combattimenti si accesero a Tessy-sur-Vire. Le forze americane erano state rinforzate opportunamente con l'intervento del XIX corpo d'armata del generale Charles H. Corlett e del V corpo d'armata del generale Leonard T. Gerow sulla sinistra del VII corpo del generale Collins e furono soprattutto questi reparti che affrontarono le formazioni corazzate tedesche che stavano progressivamente arrivando sul campo. Nella cittadina di Percy le unità meccanizzate del Combat Command B della 2ª Divisione corazzata, al comando del generale Maurice Rose, e la fanteria della 4ª Divisione di fanteria furono attaccati di sorpresa il 30 luglio dai carri armati tedeschi[76]. Un kampfgruppe corazzato della 2. Panzer-Division avanzò lungo la strada da Saint-Lô a Villebaudon per cercare di ricongiungersi con la 2. SS "Das Reich" e i resti della Panzer Lehr, distrusse circa 25 mezzi corazzati americani, ma rimase isolato e il 31 luglio solo sette carri riuscirono a ripiegare fino a Moyon[77]. I combattimenti costarono pesanti perdite a entrambe le parti; alla fine le unità corazzate americane del XIX corpo d'armata riuscirono a respingere gli attacchi, alcuni battaglioni di carri M4 Sherman dovettero combattere per molti giorni prima di avere la meglio. I contrattacchi tedeschi sferrati affrettatamente non raggiunsero alcun risultato a causa dell'inferiorità di forze e della superiorità aerea Alleata che rese molto difficile mantenere la coesione dei reparti; la 116. Panzer-Division poté attaccare con forze ridotte solo il 30 luglio lungo la strada di Saint-Lô ma senza riuscire a collegarsi con la 2. Panzer-Division. Gli attacchi fallirono e le formazioni meccanizzate tedesche dovettero battere in ritirata entro pochi giorni.

     

    29 luglio 1944: fuga ad Avranches. SALTA PER ARIA IL DISPOSITIVO TEDESCO

     

    il 29 luglio era continuata l'avanzata verso sud delle due divisioni corazzate americane dell'VIII corpo d'armata del generale Middleton; dopo la conquista di Coutances le unità meccanizzate statunitensi potevano muovere rapidamente quasi senza incontrare resistenza in direzione dell'importante varco di Avranches che avrebbe permesso finalmente di sboccare in Bretagna[57]. La 6ª Divisione corazzata del generale Grow attraversò con successo il fiume Sienne e il Combat Command A della divisione raggiunse Pont-de-la-Roche; il 30 luglio fu il Combat Command B che guidò l'avanzata e occupò Bréhal[57]. Sulla sinistra delle unità del generale Grow, avanzavano contemporaneamente i carri armati della 4ª Divisione corazzata del generale Wood che il 29 luglio liberarono Cérences e il giorno seguente superarono il fiume Sée[79]. Nella stessa giornata gli elementi di punta della divisione, il Combat Command B del colonnello Bruce Clarke, entrarono ad Avranches e occuparono la città sorprendendo masse di truppe tedesche sbandate[80]. Gli americani il 31 luglio avevano già raggiunto con una riuscita manovra a sorpresa l'obiettivo più importante della campagna, concludendo con un completo successo l'operazione Cobra e segnando la svolta definitiva della battaglia di Normandia. Entrata ad Avranches la sera del 30 luglio, l'avanguardia della 4ª Divisione corazzata del generale Wood aveva proseguito audacemente fino al fiume Sélune raggiungendo il solo ponte disponibile su cui passava la strada di Pontorson che dava accesso alla Bretagna. Il ponte, costituito da undici arcate e largo solo cinque metri, era ancora intatto e non era stato neppure minato dai tedeschi. L'avanzata americana era stata facilitata anche da un grave errore tattico del comando della 7ª Armata; invece di far ripiegare verso sud-ovest l'84º corpo d'armata del generale von Choltiz in modo da sbarrare l'accesso alla Bretagna, il generale Paul Hausser aveva preferito cercare di farlo ritirare verso sud-est per riprendere i collegamenti con il 2º Corpo paracadutisti del generale Meindl; il generale confermò la sua decisione nonostante le proteste del generale von Choltiz[84].Il feldmaresciallo von Kluge diramò l'ordine di ripiegare lentamente verso sud cercando di rallentare l'avanzata americana, ma le disposizioni del comandante in capo erano ineseguibili; le forze tedesche erano ormai decimate: la 353ª Divisione fanteria era ridotta a soli 800 soldati, il kampfgruppe Heinz aveva poche centinaia di uomini, nell'agguerrito 6º Reggimento paracadutisti erano rimasti quaranta soldati[86]. In realtà nonostante le sue dimostrazioni di autorità ed energia, il feldmaresciallo von Kluge era pienamente cosciente che la battaglia stava diventando rapidamente incontrollabile. Il 31 luglio il generale Speidel, capo di stato maggiore del Gruppo d'armate B, aveva segnalato che "il fianco sinistro è crollato", e nello stesso giorno il feldmaresciallo aveva parlato con il generale Walter Warlimont all'OKW descrivendo in termini drammatici lo sfondamento americano ad Avranches e la disastrosa situazione di inferiorità dell'esercito tedesco. Egli aveva reclamato rinforzi immediati per evitare la catastrofe del invasionfront.

     

    Il primo agosto PATTON prese in mano la situazione della TERZA ARMATA ed in 48 ore fece attraversare sul ponte di Pontaubault oltre 100.000 uomini, oltre 15000 mezzi correndo come un forsennato in direzione sud - sud-est chiudendo la strada della Bretagna ai tedeschi in ritirata ed iniziando una corsa frenetica a sud del saliente tedesco nel tentativo di strozzarlo ad ovest prima dell'arrivo alla Senna.

     

    I Nazisti tentarono di raggruppare delle riserve da ovest via Calais-Avignone.  Il feldmaresciallo von Kluge cercava di improvvisare uno sbarramento lungo la baia di Mont-Saint-Michel raggruppando deboli forze di seconda linea sotto il comando del 25º Corpo d'armata del generale Wilhelm Fahrmbacher con l'ordine di impedire l'irruzione in Bretagna delle truppe americane, l'OKW aveva confermato come fosse essenziale non cedere e fare in modo "che l'invasione resti bloccata in Normandia", l'alto comando aveva finalmente disposto l'invio immediato di una serie di rinforzi[88]. Era previsto l'arrivo in Normandia dell'81º Corpo d'armata con l'85ª e l'89ª Divisione fanteria, schierate in quel momento sul Passo di Calais, mentre venne distaccato dal Gruppo d'armate G il 58° Panzer-Korps del generale Walter Krüger con la 708ª Divisione fanteria e la 9. Panzer-Division che dovevano affluire sul fronte partendo da Avignone[89]; si trattava di misure tardive che richiedevano tempo per avere effetto e che non potevano cambiare l'esito della battaglia. Tuttavia i tedeschi continuavano a dar battaglia sul fianco nord- sinistro:il 30 luglio era incominciata una nuova offensiva Alleata nel settore orientale del fronte da parte di due corpi d'armata britannici con lo scopo di raggiungere e conquistare Vire e il Mont Pinçon. L'operazione Bluecoat fu fortemente contrastata e non raggiunse molti risultati; il 2 agosto il feldmaresciallo von Kluge impegnò in questo settore le due Panzer-Division del 2° Panzer-Korps SS del generale Wilhelm Bittrich che bloccarono la lenta avanzata Alleata. Tuttavia queste forze corazzate ben equipaggiate si trovarono impegnate per giorni contro i britannici e non poterono partecipare al tentativo di fermare l'avanzata americana sul fianco sinistro tedesco Patton cosi poteva continuare la sua corsa a sud-est senza incontrare resistenza.

     

    In pieno delirio di sopravvivenza, Hitler, il 2 agosto 1944 ordinava una contro offensiva in direzione Avranches-Mortain allo scopo di chiudere il corridoio di Patton. Tre Panzer Divisioni furono scagliate addosso agli Alleati il 7 agosto, fu una carneficina di uomini e mezzi soprattutto da parte tedesca: nella controffensiva veniva fatto fuori anche Wittman col suo Tigre 007 squarciato completamente, l'eroe di Vie Bocage, l'8 agosto 1944. Il 12 agosto l'intero Gruppo di Armate B in Normandia stava per essere chiuso definitivamente a Falaise determinando l'annientamento totale della Wermacht ad ovest mentre anche ad est l'Armata Rossa stava per disintegrare le difese naziste sulla Vistola.

     

     AD EST Il quadro mutò in modo radicale nell’estate del 1944: i sovietici iniziarono a concentrare un notevole numero di forze nell’area centrale del fronte, proprio di fronte alle posizioni difese dal Gruppo d’armate Centro. Il Comando supremo sovietico inoltre condusse un’efficacissima operazione di intelligence, al fine di sviare i tedeschi dalle loro vere intenzioni. Convinsero, infatti, il Comando supremo tedesco che l’attacco principale sul fronte orientale sarebbe stato scatenato contro il Gruppo d'armate Nord Ucraina.
    L’OKH fu tratto quindi in inganno e iniziò a dare disposizioni letali per le possibilità di respingere l’offensiva: alcune unità furono spostate dal Gruppo d’armate Centro al gruppo d'armate Nord Ucraina, esattamente come avrebbero voluto i sovietici.

    L’offensiva sovietica (Operazione Bagration) fu lanciata il 22 giugno 1944: 185 divisioni sovietiche si scagliarono contro il Gruppo d’armate Centro; su un tratto di fronte di poco più di 1.000 chilometri i russi concentrarono 2,5 milioni di uomini e 6.000 carri armati. I 500.000 effettivi del Gruppo d’armate Centro furono travolti dal peso della pressione degli attaccanti. Ben 350.000 soldati furono uccisi o catturati e le forze sovietiche arrivarono a liberare Minsk e il resto della Bielorussia entro la fine di agosto.
    La II e la IV Armata furono completamente annientate nel corso dell’offensiva. Le unità furono ricostituite con truppe nuove, ma scarse di esperienza, onde essere riassegnate al Gruppo d’armate Centro.

    A ristabilire l’ordine nel dissestato Gruppo d’armate Centro fu chiamato il feldmaresciallo Walther Model, esperto di difesa, che non riuscì comunque a stabilizzare il fronte se non dopo alcuni mesi. L'intervento di Model risultò comunque essere decisivo per evitare alle truppe tedesche una rotta ancora più tragica di quella che stavano subendo. Ignorando in modo esplicito disposizioni a volte provenienti dal Führer in persona, Model organizzò brillantemente uno schema di difesa elastico, rinunciando il più delle volte a posizioni che riteneva indifendibili. Ciò permise al Gruppo d’armate Centro di stabilizzarsi e di fermare l'attacco sovietico sulle rive della Vistola. Stalin, ormai sicuro di poter arrivare a conquistare Varsavia entro agosto, fu costretto a rimandare questo obiettivo ai primi mesi dell'anno successivo.

    L’assedio di Memel E LA GIGANTESCA SACCA BALTICA

    Ad aiutare il Gruppo di Armate Centro a ristabilire le proprie posizioni difensive, venne anche la decisione sovietica di spostare il baricentro dell’offensiva molto a sud, liberando il centro del fronte dalla forte pressione esercitata precedentemente.
    Nonostante questo, però, gli attacchi contro le posizioni tedesche non finirono certo. Tant'è che il 1° Fronte Baltico riuscì a sfondare nell’area di Memel, arrivando a circondare e liberare la città entro la fine dell’anno.

     

    IL CORRIDOIO DI FALAISE (14-22 agosto 1944)

     

    Nella notte del 12 agosto la 2. Panzer-Division, la 1. SS-Panzer-Division "Leibstandarte SS Adolf Hitler" e la 116. Panzer-Division iniziarono a muovere dal saliente di Mortain verso est. Era previsto di contrattaccare da Carrouges verso Sées tra il 14 e il 15 agosto; il generale Heinrich Eberbach avrebbe guidato le forze corazzate. Le divisioni corazzate in realtà erano gravemente indebolite, con gli equipaggi esausti e pochissimi carri armati disponibili. Questo disperato contrattacco non ebbe mai inizio; la 9. Panzer-Division del colonnello Sperling era già stata quasi distrutta dai blindati francesi del generale Leclerc nella foresta di Écouves il 12 agosto, la 10. SS "Frundsberg" non poté muoversi per mancanza di carburante; il generale Eberbach quindi, invece di sferrare un potente contrattacco, dovette impiegare le sue forze in emergenza non appena arrivavano per bloccare la pericolosa avanzata l'alleata da sud. La 116. Panzer-Division del colonnello Müller difese Argentan dagli attacchi della 5ª Divisione corazzata americana, la 1. SS "Leibstandarte Adolf Hitler" del generale Theodor Wisch si schierò difensivamente tra Carrouges e La Ferté-Macé, la 2. Panzer-Division del generale Heinrich von Lüttwitz raggiunse la foresta di Écouves[21] e dovette combattere aspramente per contrastare la 2ª Divisione blindata francese vicino a Ecouché[23]. Il fronte tedesco nel settore di Argentan si stava consolidando; l'artiglieria era in posizione a nord della città mentre la 116. Panzer-Division era stata raggiunta anche da elementi della 2. SS-Panzer-Division "Das Reich"[26]. Più a sud nel frattempo Gli americani avevano iniziato a far convergere il serpentone di meccanizzati in direzione della Senna allo scopo di tagliare via l'intero Gruppo d'Armate Tedesco.  Il feldmaresciallo von Kluge era consapevole della situazione; egli era ormai deciso ad ordinare una ritirata generale delle truppe per evitare un accerchiamento definitivo; il pomeriggio del 14 agosto lasciò il suo quartier generale di La Roche-Guyon e arrivò in un primo tempo al quartier generale del generale Josef Dietrich passato al comando della 5. Panzerarmee generale Dietrich nel castello di Fontaine l'Abbé, a est di Bernay. Egli intendeva addentrarsi il giorno seguente verso ovest per incontrarsi personalmente con i generali Hausser e Eberbach per concordare una piano d'azione[32]. A nord della linea Argentan-Falaise si muoveva in direzione sud  la 1ª Armata canadese del generale Crerar, Si prevedeva di attaccare impegnando in prima linea forti contingenti di carri armati schierati in masse compatte, mascherati da estese cortine fumogene e precedute da un nuovo, potente attacco aereo. Dopo il bombardamento i canadesi sarebbero avanzati in due colonne; a sinistra della strada la 4ª Divisione corazzata canadese; sulla destra, direttamente verso Falaise, la 3ª Divisione fanteria canadese e la 4ª Brigata corazzata[33]. Il generale Montgomery tuttavia non impegnò tutte le sue forze principali sulla direttrice di Falaise, la 7ª Divisione corazzata britannica ricevette infatti ordine di avanzare verso est in direzione di Lisieux, mentre la combattiva 1ª Divisione corazzata polacca avrebbe dovuto allargarsi sul fianco sinistro dei canadesi fino a raggiungere Trun, muovendo quindi parte del XXI Gruppo d'Armate del generale Montgomery. Contro il XXI Gruppo d'Armate, a nord di Falaise, si spiegava ciò che rimaneva della V PanzerArmee del generale Dietricht. L'85a e 89a divisione fanteria era affiancata da ciò che rimaneva della 12a Panzer SS Hitlerjugend con gli ultimi carri superstiti Tigre del 101° battaglione corazzato pesante, quello che perse l'asso Wittmann nella carneficina di Mortain del 7-8 agosto 1944. Alle 11 del 14 agosto 1944 le linee tedesche furono investite da un pesantissimo attacco aereo, ripetuto alle 14, che annientò l'intera 85a divisione fanteria. La 3a divisione fanteria e 4a divisione corazzata canadesi sembravano avere la meglio facilmente quando cozzarono contro gli elementi della 12a Panzer SS Hitlerjugend. Inaspettatamente la linea si irrigidi' impedendo ai reparti canadesi e polacchi di chiudere il corridoio tra TRUN e CHAMBOISE. Per tutto il 16 e 17 agosto, i reparti della 12a Panzer SS continuarono a tenere Falaise fino al loro totale annientamento mentre Montgomery urlava allo stato maggiore della Prima Armata canadese di chiudere il varco a tutti i costi!! Mentre a Falaise si combatteva casa per casa, Von Kluge, comandante in capo del gruppo d' Armate B in Normandia ordinava la ritirata senza attendere le decisione di Hitler che nel frattempo lo aveva destituito col feldmaresciallo MODEL richiamato d'urgenza dal fronte orientale a sua volta al collasso. Nella notte del 17 agosto la VII Armata riusciva a transitare nel corridoio mentre Von Kluge, sospettato di far parte della cospirazione del 20 luglio, si suicidava a Metz. Il 18 agosto c'erano ancora 15 divisioni imbottigliate in trenta chilometri per diciotto, questi 100.000 uomini combatterono fino all'ultimo per quattro giorni di seguito prima di riuscire ad uscire dalla sacca il 22 agosto 1944. Dietro di loro rimasero oltre 50.000 prigionieri, oltre 10.000 morti, 780 carri disintegrati su 880, 18 divisioni completamente annientate, carreggiate di strade impraticabili a causa della massa di morti e macerie lasciate al sole. Parigi veniva liberata il 24 agosto.

     

    LO SFONDAMENTO A SUD EST DEL TERZO E QUARTO FRONTE UCRAINO: L'INVASIONE DELL'UNGHERIA

    Una svolta più favorevole ai sovietici si verificò invece più a sud, dove già il 20 settembre truppe rumene della 1ª Armata e sovietiche della 53ª Armata, presero la città di Arad, causando grande preoccupazione nello stato maggiore ungherese che attivò la 3ª Armata, una forza composta da nuove reclute e riservisti, di un valore militare molto limitato (corpi VII e VIII ungherese). Allo stesso tempo in Ungheria, fazioni pro-tedesche e pro-alleate cercavano di assumere il controllo del paese. Il Reggente, ammiraglio Horthy iniziò negoziati per un armistizio con i sovietici, e Friessner fu costretto a dirottare alcuni dei suoi disperatamente necessari rinforzi a Budapest per controllare la situazione, con la scusa del riposo e della ricostituzione.

    Alla fine di settembre sia Malinovskij che Friessner ricevettero nuovi ordini. Il maresciallo Malinovskij doveva marciare direttamente su Budapest sfruttando le posizioni raggiunte nel saliente di Arad, usando la 46ª Armata, la 1ª Armata rumena e il Gruppo di Cavalleria meccanizzata di Pliev, che avrebbe dovuto avanzare in profondità[12]. Il resto delle forze sovietiche (6ª Armata corazzata della Guardia, 53ª armata e il Gruppo di cavalleria meccanizzata di Gorškov, rafforzate in un secondo momento anche dalla 7ª Armata della Guardia), doveva invece attaccare presso Oradea, verso Debrecen. I due raggruppamenti avrebbero poi dovuto ricongiungersi accerchiando e distruggendo gli avversari, presi a tenaglia.

    Il generale Friessner invece, secondo le ottimistiche direttive di Hitler e dell'OKH, doveva raggruppare quattro Panzer-Divisionen del 3º Panzerkorpsintorno a Debrecen e contrattaccare (Operazione Zigeunerbaron[13]), a partire dal 10 ottobre, verso Oradea, aggirare e distruggere le forze sovietiche avventuratesi a nord delle Alpi Transilvaniche e riprendere i passi carpatici, stabilendo una solida linea difensiva fino alla primavera seguente.

     

     

    LA CARNEFICINA DEL DON: LA DISTRUZIONE DELL'INTERA VIII ARMATA NELL'AMBITO DELLA BATTAGLIA DI STALINGRADO (16 DICEMBRE 1942 - 31 GENNAIO 1943)

     

    L'operazione Piccolo Saturno non toccò il Corpo alpino ma ne scoprì il fianco destro, poiché le due armate sovietiche progredirono verso sud[111]. Il successo ottenuto permise allo Stavka di continuare le operazioni nel gennaio 1943, estendendo poco a poco l'offensiva fino a includere i Gruppi d'armate Centro, Don e A: questa nuova serie di manovre iniziò con attacchi mirati alle unità ungheresi e tedesche poste a difesa del corso medio del Don e a quelle tedesco-rumene che cercavano ostinatamente di tenere Rostov, attraverso la quale doveva ripiegare dal Caucaso il Gruppo d'armate A[112]. L'obiettivo sovietico era quello di sbaragliare le unità nemiche e assumere il controllo della linea ferroviaria Svoboda-Kantemirovka, quindi avanzare verso ovest fino alla linea Urazovo-Alekseevka-Rep'ëvka[113]. Fra il 13 e il 27 gennaio la 40ª Armata del Fronte di Voronež e la 6ª e la 3ª Armata corazzata del Fronte Sud-Occidentale condussero l'offensiva Ostrogorzk-Rossoš, provocando la distruzione della 2ª Armata ungherese distribuita alla sinistra del Corpo alpino[112]. Già il primo giorno le forze magiare cedettero di schianto, il 14 formazioni sovietiche sfondarono le posizioni del XXIV. Panzerkorps che si trovava più a nord e il 15 raggiunsero Rossoš', sede del comando del Corpo alpino; inizialmente respinti, i soldati sovietici ripresero la cittadina il giorno seguente[111]. Nei primi giorni dell'offensiva il Corpo alpino mantenne le posizioni, rinforzato dalla 156ª Divisione "Vicenza", e la 3ª Divisione "Julia" riuscì assieme ad alcuni reparti eterogenei del XXIV Corpo corazzato a tenere una linea difensiva improvvisata a sud-ovest del fiume Kalitva; a metà mese, però, le divisioni sovietiche investirono anche gli alpini. Gli stati maggiori italo-tedeschi non si resero subito conto della portata dello sfondamento e tardarono a intervenire, cosicché solo la sera del 17 fu ordinato alle unità di ritirarsi, quando ormai le divisioni "Tridentina", "Julia", "Cuneense" e "Vicenza", assieme alla 385ª e 387ª Divisioni di fanteria (appartenenti al XXIV. Panzerkorps), al gruppo Waffen-SS "Fegelein" e alla modesta 27ª Divisione panzer, erano già circondate[114].

     

    Il villaggio di Šeljakino in fiamme dopo l'attacco della "Tridentina"

    Circa 70 000 uomini del Corpo alpino, assieme a circa 10 000 tedeschi e 2 000/7 000 ungheresi, si riversarono verso ovest, nel disperato tentativo di rompere l'accerchiamento sovietico e ricongiungersi al lontano fronte amico[115]. Le armate sovietiche avevano sopravanzato i reparti dell'Asse di circa 100 chilometri e le loro formazioni corazzate, nonostante si preoccupassero soprattutto di avanzare, si insinuavano continuamente con fulminee scorrerie tra le colonne in rotta, rendendo ancor più penosa la fuga attraverso la steppa innevata, a temperature comprese tra i -20 e i -40 °C[116]. Colti di sorpresa, la notte del 18 i generali Umberto Ricagno, Luigi Reverberi e Emilio Battisti, comandanti rispettivamente della "Julia", della "Tridentina" e della "Cuneense", riuscirono a riunirsi a Podgornoe, dove il generale Nasci aveva trasferito frettolosamente il suo quartier generale: fu deciso di ripiegare in due colonne separate verso il comando dell'8ª Armata, ristabilitosi a Valujki. La "Tridentina" e la "Cuneense" erano al completo degli effettivi, mentre la "Julia", che si era sacrificata per difendere il lato destro del Corpo, era ridotta a un terzo delle sue forze; le unità tedesche erano letteralmente dissanguate, combattevano con appena un quarto del loro organico e avevano a disposizione i pochi armamenti pesanti presenti tra le truppe in fuga: una decina di semoventi Sturmgeschütz III, quattro semicingolati, cinque pezzi FlaK da 88 mm e alcuni lanciarazzi Nebelwerfer. Unica reale difesa contro i carri sovietici, furono sempre in prima linea durante i feroci combattimenti per uscire dalla sacca[117]. Il generale Nasci cercò quindi di coordinare il movimento delle tre divisioni alpine e della "Vicenza", ma la confusione era enorme e di sicuro incertezza e caos avevano paralizzato anche il comando dell'8ª Armata, dacché non diramava ordini o direttive volte a salvare le divisioni accerchiate[118]. La Divisione "Tridentina", ancora coesa e combattiva, fu guidata dal generale Reverberi in testa all'enorme colonna di soldati sbandati, stremati e spesso privi di armi: coadiuvata dai corazzati tedeschi, il 19 si mise in marcia e il giorno seguente si raccolse a Podgornoe, mentre una decina di chilometri a sud, vicino al villaggio di Samojlenko, si riunì la "Vicenza". Ancora più a sud, verso Rossoš', si raggrupparono i resti della "Julia" e della "Cuneense", a cui si erano aggiunti due o tremila sbandati tedeschi[119].

     

    Un'emblematica immagine della sterminata colonna di fanti, in ritirata attraverso la steppa russa

    Da Podgornoe la "Tridentina" confluì a Postojalyj e qui tentò di spezzare il primo "anello" dell'accerchiamento. Nella feroce battaglia i sovietici inflissero dure perdite al battaglione "Verona", che riuscì comunque a conquistare lo snodo e aprire provvisoriamente la strada alla massa in disordinato ripiegamento; essa, peraltro, veniva ingrossata di ora in ora da militari tedeschi, ungheresi e rumeni lasciati indietro o sopravvissuti alla distruzione delle loro unità e migliaia di altri dispersi, appartenenti alle divisioni "Ravenna", "Pasubio" e "Cosseria"[120]. Presso la cittadina si radunarono tutte le colonne, quindi la "Tridentina" riprese l'avanzata e guidò l'attacco su Šeljakino, infrangendo un nuovo sbarramento sovietico; tuttavia le altre due divisioni alpine deviarono per errore più a nord e il 23 gennaio, a Varvarovka, incapparono in forze sovietiche cinque volte superiori: la battaglia fu tragica e le perdite altissime, interi reparti furono distrutti. I resti della "Julia"[N 5], della "Cuneense" e della "Vicenza" proseguirono ancora verso sud allontanandosi dalla "Tridentina" e dai reparti tedeschi, che nel frattempo avevano ricevuto comunicazione di cambiare destinazione e dirigersi a Nikolaevka, dato che Valujki era ormai nelle mani dei sovietici. Il generale Nasci, che aveva affiancato Reverberi alla guida della "Tridentina", disponeva di un apparato radio tedesco che gli permetteva di comunicare con il comando d'armata, ma non fu capace di contattare le altre due divisioni che proseguirono verso la meta originaria[121][122].

    Durante l'ultima fase della tragica ritirata ci furono fasi di disperazione, di caos e di cedimento morale. Gravi incidenti scoppiarono tra le truppe tedesche e quelle italiane, apparentemente per lo sprezzante, poco cameratesco comportamento dei soldati tedeschi e per violenti liti riguardanti il diritto di usufruire dei pochissimi mezzi motorizzati disponibili; in realtà non mancarono episodi di rivalsa tra le truppe italiane anche con l'uso delle armi[123][124]. La stremata colonna guidata dalla "Tridentina", comunque, non era ancora uscita dalla sacca, e nella giornata del 25 dovette dapprima fronteggiare un attacco di partigiani e forze regolari russe a Nikitowka che venne respinto dal 5º battaglione alpini e dalle residue artiglierie tedesche e italiane, e successivamente, e alle prime luci del 26 gennaio dovette respingere duri attacchi nei pressi di Arnatauwo con i battaglioni "Tirano" e "Val Camonica"[125]. Superata quest'ultima sacca, tutta la "Tridentina" si schierò per sfondare l'ultimo sbarramento sovietico a Nikolaevka: il 26 gennaio 1943 gli alpini e i rimanenti cannoni d'assalto tedeschi si scagliarono con le ultime energie contro l'ostacolo e, in un sanguinoso scontro riuscirono finalmente a rompere l'accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino. La loro marcia però non finì qui: il comando di divisione fece ricostituire rapidamente i reparti ed ordinò la ripresa della marcia all'alba del 27, che si concluse solamente solo il 31 gennaio, quando gli alpini raggiunsero Triskoje non senza ulteriori perdite e grandi difficoltà[126]. Sorte peggiore toccò alle due divisioni "Cuneense", "Vicenza" e ai sopravvissuti della "Julia", che furono definitivamente intrappolate e costrette alla resa il 28 gennaio a Valujki dai reparti del 7º Corpo di cavalleria sovietico, giunto in quella località fin dal 19, a cui non seppero e non poterono opporre una efficace resistenza[127][128][129][130][N 6].

    Bilancio e conseguenze[modifica | modifica wikitesto]

    Fin dai primi mesi seguenti la disfatta, le fonti ufficiali italiane accusarono i tedeschi di avere dilazionato il ripiegamento del Corpo d'armata alpino per salvare le proprie truppe. Sebbene non sussista dubbio che Hitler e i suoi generali, nella grossolana sottovalutazione delle capacità e risorse militari sovietiche, accettarono il rischio di una grande battaglia di logoramento e della difesa di un fronte troppo esteso assegnato a nutriti contingenti dei paesi satelliti, è altresì chiaro che tanto i tedeschi quanto i loro alleati soffrirono perdite e drammi gravosi. I reparti tedeschi, però, uscirono meglio dalla ritirata dal Don per il semplice fatto di essere meglio equipaggiati e provvisti di pochi, ma essenziali, mezzi di trasporto[123][131].

     

    Un momento della ritirata delle forze dell'Asse nel dicembre 1942: un cannone d'assalto Sturmgeschütz III, con a bordo soldati tedeschi, affianca la massa in rotta nella neve

    La ritirata fu un'esperienza chiave per gli uomini dell'ARMIR e rimase profondamente incisa nell'immaginario collettivo, dominando quasi del tutto la memorialistica e la saggistica della campagna italiana in Unione Sovietica. Molti soldati reagirono con rabbia e rancore nei confronti dell'alleato tedesco, rivolgendogli accuse di scarsissima cooperazione, egoismo e malvagità ed è indubbio che molti episodi di soprusi siano stati frutto del comportamento delle truppe tedesche; è anche vero che un'analisi attenta delle fonti e delle testimonianze di entrambi gli schieramenti rivela numerosi esempi di atteggiamenti e circostanze in cui i soldati tedeschi e italiani ebbero i medesimi comportamenti fra di loro[132]. Molti episodi di supposta crudeltà o mancanza di cameratismo si possono tuttavia ricondurre alla dura logica della sopravvivenza in condizioni disperate e, peraltro, è stato chiarito che pure da parte delle formazioni italiane, Alpini compresi, ci furono numerosi gesti di ritorsione e scarsa cooperazione: sembra accertato che il generale Karl Eibl, comandante del XXIV. Panzerkorps dal 19 gennaio 1943, rimase ucciso due giorni dopo per l'esplosione di una bomba a mano scagliata dagli Alpini contro il suo veicolo di comando[133] A fianco di questi scomodi episodi si verificarono comunque esempi di cameratismo e fratellanza d'armi, come durante i combattimenti a Kantemirovka, Čertkovo o durante le fasi di cooperazione dei resti del XXIV Corpo con la "Tridentina" per uscire dall'accerchiamento[134]. Stando però ai documenti tedeschi, nella maggior parte dei casi i rapporti tra soldati italiani e tedeschi si incrinarono repentinamente dopo la ritirata disordinata da Kantemirovka, due giorni dopo l'irruzione sovietica nei settori della "Ravenna" e della "Cosseria", un evento che destò particolare indignazione nei tedeschi[135] e aumentò i loro pregiudizi nei confronti degli italiani. In generale furono pochi i testimoni che poterono confermare il coraggio dei fanti italiani, mentre moltissimi poterono assistere alle scene di panico a Kantemirovka e altrove[136].

    Dalla vicenda emerge con forza la mancanza di una base ideologica, culturale e forse morale nell'alleanza tra la Germania nazista e l'Italia fascista, in cui sono sempre stati assenti sentimenti di solidarietà e comunanza di destini. Da una parte si registrò la disonestà venata di razzismo con cui i comandi tedeschi, a ogni livello, addossarono agli italiani tutte le responsabilità del crollo del fronte del Don[123]; dall'altra una sofferta ammirazione per l'efficienza tedesca, in molti casi trasformatasi in odio da parte di non pochi reduci, che forse scaricavano sull'alleato le delusioni verso il regime e i propri comandi, dai quali si sentivano traditi[137][N 7]. Non ci sono poi dubbi sul fallimento della propaganda fascista che cercò in ogni modo di presentare la campagna in Russia come una crociata contro il bolscevismo ateo: se ne trova qualche eco tra gli ufficiali ma non nelle truppe, che nei limiti di una guerra d'occupazione fatta di arresti, rastrellamenti e fucilazioni di spie, partigiani o presunti tali, stabilirono anche rapporti cordiali con le popolazioni. I tedeschi al contrario mostrarono maggior ferocia e spietatezza nei confronti dei civili, frutto dalla formidabile propaganda orchestrata da Joseph Goebbels che seppe inquadrare la guerra all'est in una lotta per la sopravvivenza del popolo tedesco contro un nemico barbarico e pericoloso. Rientra quindi nella grande complessità degli avvenimenti la maturazione, nella maggior parte dei reduci, di un sentimento privato di condanna e riprovazione nei confronti dei commilitoni tedeschi, cagionato dai crimini da questi commessi e dei quali numerosi soldati italiani furono testimoni oculari. Non si riscontra, invece, nulla del genere verso i sovietici, nonostante la ferocia dei combattimenti ed eccettuati, ovviamente, i sopravvissuti alla prigionia[138].

    Il quartier generale dell'ARMIR fu disattivato il 31 gennaio 1943 e le unità superstiti trasferite in Bielorussia. Il generale Gariboldi e il suo stato maggiore, assieme agli Alpini e al XXXV Corpo d'armata, tornò in patria a marzo, trovandosi dinanzi ad un paese alla deriva, in profonda crisi economica e sociale, ormai in procinto di veder esplodere anche la crisi politica che vedrà la caduta del fascismo nel luglio dello stesso anno, e che rischiava di diventare un campo di battaglia. Il II Corpo d'armata, con la "Ravenna" e la "Cosseria", rimase sul posto con l'intenzione di continuare a rappresentare l'Italia fascista sul fronte orientale, ma le enormi difficoltà nel reperire equipaggiamenti e il rifiuto tedesco a farsi carico del rifornimento di queste divisioni fecero arenare l'idea sul nascere. Tra aprile e maggio 1943 anche il II Corpo tornò in Italia[139].

    link: https://it.wikipedia.org/wiki/Campagna_italiana_di_Russia

     

    L'ARMADIO DELLA VERGOGNA ITALIANO: DOPO L'8 SETTEMBRE 1943, UN MILIONE DI DEPORTATI, 25.000 MORTI AMMAZZATI SU SUOLO ITALIANO PER RAPPRESAGLIA , FUCILAZIONI DI MASSA DEI SOLDATI ITALIANI CHE NON SI ARRESERO AI TEDESCHI, IL TUTTO IN 695 FASCICOLI, SOLO 300 DEI QUALI APERTI CON UNA INCHIESTA.....

     

     

    Ritrovato 70 anni dopo il video del medico della Wehrmacht nell'Italia occupata: i bimbi sorridenti nel Paese massacrato

    Ritrovato 70 anni dopo il video del medico della Wehrmacht nell'Italia occupata: i bimbi sorridenti nel Paese massacrato

     

    Due pellicole miracolosamente sviluppate. Un filmato che interroga e sconcerta, conservato da Home Movies, mostra gli ufficiali in Veneto accanto ai civili tra il '44 e il 45. Mentre altrove venivano uccise donne e bambini

     

     

     

     

    Dalla precipitosa ritirata della 10a e 14a armata tedesca dall'Italia (20 aprile 1945).Incredibilmente Hitler mantenne in Italia qualcosa come 19 divisioni(seppur rimaneggiate)più due di riserva, e questo nonostante sul fronte ovest si necessitasse urgentemente di un afflusso di uomini. E' vero che gli Alleati, proprio per impedire un poderoso afflusso da sud, distrussero sistematicamente tutte le linee di collegamento tra Italia e Germania, tuttavia tutti i valichi alpini rimasero in mano ai tedeschi fino al 29 aprile 1945 ed altresi c'è da aggiungere che gli Alleati, pur sbarcati in Provenza nell'agosto del 1944,non aprirono MAI un fronte che aggredisse da ovest ed alle spalle il dispositivo della Linea Gotica (anche qui le motivazioni sono assolutamente sconosciute....). Nonostante cio' Hitler negò assurdamente la ritirata che avrebbe potuto creare un corridoio d'uscita a sud della trappola di Berlino dando manforte alla 12a armata del generale Wenk. Quando i generali ed il plenipotenziario delle SS Wolff decisero di agire autonomamente ormai il fronte era saltato per aria e solo poche unità, prevalentemente del LXXVI Corpo Corazzato posto ad est della Linea Gotica e quindi più vicino al confine, riuscirono ad imboccare la via del Brennero e dei valichi friulani.

    Durante l'estate, le divisioni del feldmaresciallo Kesselring, comandante del Gruppo di armate 'C' in Italia, si sono ritirate da Roma a Firenze subendo continui attacchi aerei alleati e, nonostante le numerose perdite, sono riuscite a sfuggire all'annientamento e a riorganizzarsi.
    Il 25 agosto 1944 solo alcune avanguardie delle divisioni tedesche in ritirata hanno raggiunto le posizioni difensive della Linea Gotica: secondo la tattica di Kesserling il grosso permane sulla Linea dell'Arno e del Metauro. Il feldmaresciallo dispone sulla Gotica di diciannove divisioni, anche se tutte rimaneggiate e molto sotto organico, raggruppate in due armate. La Decima Armata del generale von Vietinghoff tiene il settore orientale del fronte ed è formata da due corpi d'armata: il LXXVI Corpo corazzato, al comando del generale Herr, composto dalla 278a(1) e dalla 71a divisione(2) di fanteria che, insieme alla 5a divisione di fanteria da montagna(3), sono nel settore costiero adriatico lungo la linea fino a San Sepolcro, mentre la 1a paracadutisti(4) e la 162a turkmena(5) di fanteria sono di riserva sulla costa; il LI Corpo da montagna, comandato dal generale Feurstein, che copre la linea fino al confine tra le due armate (appena a ovest di Pontassieve) con cinque divisioni: la 114a Jaeger(6), la 44a(7), la 305a(8), la 334a(9) e la 715a di fanteria(10); come riserva, attorno a Cesena è stazionata la 98a divisione di fanteria(11) appena giunta su questo fronte. La Quattordicesima Armata del generale Lemelsen difende invece il fronte occidentale, da Pontassieve fino alla costa tirrenica, con otto divisioni. Il settore centrale è tenuto dal I Corpo paracadutisti, al comando del generale Shlemm, con la356a(12) e la 362a divisioni di fanteria(13) e la 4a paracadutisti(14). Vi è poi, sulla destra dei difensori, il XIV Corpo corazzato, al comando del generale Frido von Senger und Etterlin, schierato da Empoli fino al mare, con la26a divisione corazzata(15)(Nel passare il Po vi furono perdite altissime; moltissimi soldati che non sapevano nuotare annegarono, carichi degli equipaggiamenti e delle armi. Nonostante questo, alcuni reparti della "Ventiseiesima" continuarono a combattere aprendosi la strada verso il Brennero con le armi. Il 30 aprile la notizia della resa delle truppe tedesche in Italia raggiunse il grosso dell'unità nei pressi di Trento e Bolzano.), la 65a fanteria(16) e la 16a SS Panzergrenadier(17)
    (Quest'ultima trasferita in Ungheria nel febbraio 1945 per cercare di aprire un corridoio nella sacca di Budapest:Nell'agosto 1944 alcuni reparti della divisione si resero responsabili di numerose atrocità ai danni della popolazione civile: l'11 agosto a Nozzano (59 morti); il 12 agosto quattro compagnie del II battaglione del 35. reggimento aSant'Anna di Stazzema (560 morti); ancora effettivi del 35. reggimento a Vinca (170 morti) il 24 agosto; nel mese di settembre effettivi di questa divisione effettuarono il rastrellamento della Certosa di Farneta trucidando nei giorni seguenti i prigionieri (strage di Farneta e strage delle Fosse del Frigido; infine a Marzabotto (Bologna) dove tra il 29 settembre e il 1º ottobre 1944 furono trucidate circa 750 persone. Per l'eccidio di Marzabotto l'unità responsabile fu il 16. Reparto corazzato di ricognizione (16. SS Panzer Aufklarung Abteilung) comandato dal maggiore (Sturmbannführer) Walter Reder. Pur se spedita ad est per contrastare l'avanzata russa, non venne annientata e riusci' a riparare in Austria arrendendosi agli inglesi a Klagenfurt nel sud della Carinzia il 5 maggio 1945) In riserva, la 29a divisione Panzergrenadier(18)(AL MOMENTO DELLO SFONDAMENTO DELLA LINEA GOTICA SI RITIRÒ COMBATTENDO DA BOLOGNA VERSO IL FIUME PO E POI VERSO IL VENETO E IL FIUME PIAVE.

    05/1945: Si arrese alle truppe britanniche sul fiume PIAVE, a FELTRE.)

     e la 20a divisione da campo Luftwaffe(19). In più, nelle immediate retrovie tirreniche, è schierata l'Armata Liguria del maresciallo Graziani, di composizione mista italo-tedesca, che da parte germanica vede schierate nell'orbita della Gotica la 34a divisione fanteria(20) e la 42a Jaeger(21), oltre a due divisioni fasciste italiane.
    Come per le divisioni di terra, costrette a trincerarsi sulla Gotica a ranghi ridotti, anche nei cieli la situazione della Luftwaffe non è delle migliori, con una flotta ridotta a poche decine di caccia e ricognitori.

    Nel giro di due giorni la situazione per i tedeschi precipitò: il 19 aprile 1945 il fronte tedesco stava crollando sotto i colpi degli americani che erano nei sobborghi di Bologna mentre le loro avanguardie corazzate erano già in marcia verso il Po. Quasi tutte le forze di Vietinghoff erano state impegnate in prima linea, ed egli aveva a disposizione ben poche riserve per contrastare le penetrazioni Alleate. Al generale tedesco fu ormai preclusa ogni possibilità di stabilizzare il fronte o di districare le sue forze; l'unica speranza di salvarle risiedeva nella ritirata. Ma Hitler aveva già respinto le proposte del generale Herr per una difesa elastica, mediante ripiegamenti tattici da ciascun fiume al successivo, in modo tale da frustrare l'offensiva dell'8ª armata e rallentarla consentendo ai tedeschi una ritirata ordinata. Già il 14 aprile, prima che gli americani iniziassero l'offensiva, Vietinghoff chiese di essere autorizzato a ritirarsi sul Po prima che fosse troppo tardi. Il suo appello fu respinto, ma il 20 aprile si assunse personalmente la responsabilità di ordinare la ritirata[66].

    Negoziati dietro le quinte per una resa erano cominciati già in febbraio tra il generale Karl Wolff, il capo delle SS in Italia, e Allen W. Dulles, capo dell'Office of Strategic Services (OSS) statunitense in Svizzera, inizialmente tramite la mediazione dell'ambasciata svizzera e poi, dopo la liberazione del capo della Resistenza italiana Ferruccio Parri il 3 marzo come segno di buona volontà da parte tedesca, con colloqui diretti a quattrocchi, con lo scopo di negoziare la resa separata delle forze tedesche nel nord Italia ed il trapasso dei poteri dalla Repubblica Sociale Italiana alle forze angloamericane appartenenti agli Alleati.[68].

    Wolff e Dulles si incontrarono l'8 marzo a Zurigo per discuterne i termini. Il 19 marzo Wolff vide ad Ascona il generale statunitense Lyman Lemnitzer e il parigrado inglese Terence Airey. Il tutto all'insaputa di Adolf Hitler e Benito Mussolini, ma con un tacito accordo di Heinrich Himmler[71]. Gli scopi erano diversi: gli anglo-americani intendevano accelerare la vittoria in Italia per poter concentrare le forze in Germania e eventualmente nei Balcani; i tedeschi speravano di poter contrattare un salvacondotto verso la Germania che evitasse vendette finita la guerra e, nell'eventualità che questa fosse continuata, per potersi unire alle loro forze militari lì presenti intente a fronteggiare l'avanzata dell'Armata Rossa. Inoltre contatti segreti tra gli italiani militanti dalle due parti erano stati mantenuti fin dall'8 settembre 1943 e per tutto il periodo seguente all'armistizio, fra la Decima MAS della Repubblica Sociale e Mariassalto del Regno d'Italia, entrambe desiderose di evitare che i due reparti potessero scontrarsi direttamente sul fronte, gestire i prigionieri dell'una e dell'altra parte all'insaputa dei comandi rispettivamente tedeschi e angloamericani, e infine a coordinare un ipotetico tentativo di sbarco di truppe regie in Istria con il supporto dei reparti locali della Decima repubblicana per evitare l'invasione della Venezia Giulia da parte dei partigiani comunisti di Tito.

    Wolff fu probabilmente spinto a tale decisione dalla speranza di poter partecipare ad un ipotetico cambio di alleanze in funzione anticomunista, allineandosi con lepotenze occidentali, e per evitare ulteriori danni materiali in Italia. Il generale Wolff era una figura molto importante, in quanto oltre a controllare la politica delle SS in Italia era responsabile delle regioni dietro il fronte, e l'unico in grado di sventare l'idea di Hitler di fare delle Alpi una specie di ridotto nel quale tentare un'ultima resistenza[72]. A rallentare e intralciare i colloqui contribuirono da parte tedesca la nomina di Vietinghoff a comandante in capo in Italia al posto di Kesselring, ed il reciproco atteggiamento di sospetto e cautela che accompagna simili negoziati. Inoltre questi negoziati, di cui i sovietici furono informati ma a cui non furono invitati a partecipare, innescarono una accesa polemica personale tra i Tre Grandi: si verificò un aspro scontro epistolare tra Stalin e Roosevelt. Il dittatore sovietico accusò gli alleati occidentali di negoziare alle spalle dell'URSS e di favorire le manovre tedesche per dividere le tre grandi potenze. Roosevelt replicò negando queste circostanze e accusando gli informatori di Stalin di "mistificazioni"[73]. Dopo questo scontri nella prima settimana di aprile la dirigenza americana di Washington frenò le iniziative di Dulles.

    Inoltre all'inizio di aprile l'attività di Wolff fu "congelata" da Himmler. Fu così che sebbene dall'8 aprile Vietinghoff stesse prendendo in considerazione l'idea di una resa, non fu possibile raggiungere un risultato concreto in tempo per rendere superflua l'offensiva di primavera degli Alleati[72]. In un incontro del 23 aprile Wolff e Vietinghoff decisero di comune accordo di ignorare gli ordini di Hitler per una prosecuzione della resistenza, e di negoziare una resa. Entro il 25 Wolff aveva ordinato alle SS di non ostacolare i partigiani nelle loro operazioni, mentre lo stesso maresciallo Graziani manifestava il desiderio che le forze fasciste italiane si arrendessero[72].

    Alle 14:00 del 29 aprile a Caserta il colonnello Schweinitz e il suo aiutante Wenner, in rappresentanza del generale Vietinghoff sottoscrissero il documento che stabilì la resa incondizionata delle forze tedesche in Italia. I tedeschi firmarono il documento che prevedeva l'entrata in vigore della resa alle ore 13:00 (ora di Greenwich, le 14:00 in Italia) del 2 maggio 1945[74]. Nonostante un intervento in extremis di Kesselring, la resa entrò in vigore alla data prevista, sei giorni prima della resa tedesca sul fronte occidentale, predisposta attraverso lo stesso canale segreto (quello tra Wolff e Dulles).

    Sebbene gli Alleati avessero in mano la situazione militare che gli avrebbe assicurato la vittoria, questo canale spianò la strada ad una più rapida fine della guerra in Italia, risparmiando così innumerevoli vite umane e devastazioni materiali[72].Il giorno precedente l'entrata degli americani a Verona, cioè il 25 aprile, ebbe luogo l'insurrezione generale delle forze partigiane, che cominciarono ad attaccare ovunque i tedeschi. Tutti i passi alpini furono bloccati entro il 28 aprile, giorno in cui Benito Mussolini e Claretta Petacci insieme ad alcuni gerarchi del regime in fuga verso il confine svizzero, furono arrestati e sommariamente processati e giustiziati secondo le decisioni del CLNAI presso il lago di Como. Le truppe tedesche si stavano ormai arrendendo in massa, e dopo il 25 aprile l'inseguimento Alleato incontrò ovunque una resistenza pressoché nulla. Il 29 i neozelandesi raggiunsero Venezia e il 2 maggio Trieste, dove il principale motivo di preoccupazione si rivelò la presenza non dei tedeschi, bensì degli jugoslavi[68].

    Il tesoro dimenticato di Benito Mussolini abbandonato in un caveau di Bankitalia

    Il collare d'argento del Duce. La tuta da meccanico indossata dalla Petacci durante la fuga. Il vasellame lasciato dai Savoia al Quirinale. Oltre a lingotti d'oro, monili e preziosi frutto di sequestri e confische. Un patrimonio sterminato e catalogato solo in parte. Di cui lo Stato non conosce nemmeno il valore.

    Battaglia di Saipan  15 giugno - 9 luglio 1944

     

    Battaglia di Guam (1944) 21 luglio - 10 agosto 1944

     

    Battaglia di Tinian 24 luglio 1944 – 1º agosto 1944

     

    Battaglia di Iwo Jima 19 febbraio-26 marzo 1945

     

    Battaglia di Okinawa 1º aprile - 22 giugno 1945

     

     

     

    RELIGIONE E CHIESA

     

     

    Usa, al via la beatificazione di Alce Nero: il capo Sioux che sfidò il generale Custer sarà santo

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    Considerato il più influente leader indiano del ventesimo secolo, si convertì al cattolicesimo nel 1904. A differenza di Cavallo Pazzo e Toro Seduto, Black Elk era diventato famoso per una visione avuta a nove anni nel delirio di una malattia

     

     

    DISFUNZIONI GIUDIZIARIE ITALIOTE,

     

     

    CINEMA, COSTUME, CULTURA

     

     

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    . L'uomo dal cuore di ferro
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    Das Boot, una storia di sopravvivenza

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    Hawaii, incontro ravvicinato con lo squalo bianco: "E' Deep Blue, l'esemplare più grande al mondo"

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    'La paranza dei bambini', il trailer. La gioventù bruciata di Saviano da Napoli al Festival di Berlino

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    Gomorra, il 29 marzo arriva la quarta stagione.

    .IN GUERRA, poco prima della rivolta dei Gilet Gialli, in Francia un film epico......nov. 2018

    Stephane Brizè, con una forsennata macchina da presa a mano, racconta la perdita del lavoro, l’assenza del lavoro, la lotta determinata, furiosa, impossibile per riconquistarlo. "In tantissimi paesi sono state votate leggi una dopo l’altra tutte a favore dei profitti della grande finanzaIl divario tra la fetta piccolissima di ricchissimi e quello di una enorme quantità di poveri e sempre più grande" dice il regista al fattoquotidiano.it.

    Una multinazionale tedesca chiude un suo stabilimento francese. 1100 dipendenti licenziati in tronco. Una massa unita di operai, e di qualche timido impiegato, sciopera ad oltranza. Barricate, occupazione della fabbrica, adunate in piazza. Non è uno dei tanti, infiniti servizi giornalistici da cronaca industriale di oggi, ma la trama di In Guerrail nuovo film di Stephane Brizé. La perdita del lavoro, l’assenza del lavoro, la lotta determinata, furiosa, impossibile per riconquistarlo.

    La forsennata macchina da presa a mano di Brizé rinchiude la trattativa prolungata ed esasperata del gruppo di operai capitanati da un’inarrestabile Laurent Amédéo (Vincent Lindon) tra le stanze del lavoro e del potere, davanti alle telecamere dei servizi tv, alla reception delle multinazionale in attesa che il presidente “mr. Hauser” scenda e si confronti vanamente con loro. Come si diceva, l’occhio della cinecamera sembra affiancarsi a quello di tanti nuovi (e vecchi) media. Prima Laurent e i suoi compagni sono primo piano e sfondo di numerosi servizi giornalistici dans la rue, poi diventano con sequenzialmente, senza stacchi di montaggio, chiusa la porta del tavolo di confronto, birilli esausti di una lotta classista che travolge ogni benaugurante auspicio di egualitarismo socio-economico davanti all’obiettivo sfumato di Brizé. Coperti in parte da spalle e mezzi busti fuori fuoco, gli operai che protestano (tanti gli attori non professionisti in scena) continuano lo scontro serrato dopo che fotografi e operatori dei media sono usciti dagli uffici dove la trattativa sbatte contro la sordità del capitale. Rimane, appunto, la regia di Brizé, lo sguardo che taglia e cuce la protesta, che registra le urla e gli improperi verso i padroni del vapore, che segue gli scontri comunque all’interno di una mai definitiva unità tra scioperanti.

     

    Se la multinazionale tedesca chiude l’anno con degli utili in  borsa perché deve licenziare più di mille dipendenti? Così In Guerradiventa una rincorsa senza fiato contro la fine del tempo utile per la sopravvivenza. Un tentativo cinematografico di ridare dignità agli individui più vulnerabili di fronte allo tsunami dell’industrializzazione globalizzata contemporanea. Un film partigiano e combattente fuori da ogni misura di un paludato perbenismo. “Nel post 1945, dopo decenni di naturale contrattazione tra capitale e lavoro, con l’avvento dell’ultraliberismo negli Stati Uniti i politici hanno dato le chiavi del potere in mano alle banche e alle borse”, ha spiegato il regista Brizé al fattoquotidiano.it. “Cosa abbiamo ottenuto in cambio non è chiaro, ma in tantissimi paesi sono state votate leggi una dopo l’altra tutte a favore dei profitti della grande finanza; leggi che negli ultimi trenta anni sono state votate da tutti i politici, sia di destra che di sinistra. Per questo le persone che vogliono difendere il loro lavoro non hanno più gli strumenti necessari per salvaguardarlo”.

    A seguire In Guerra, infatti, la lotta degli operai assume i contorni di un agire presente e futuro tragicamente solitario e inascoltato. Tanto che nemmeno il rappresentante del governo francese riesce a far rispettare un minimo di coerenza e di onestà alla controparte industriale del film, ovviamente rapace, nebulosa, sfuggente. “Il divario tra la fetta piccolissima di ricchissimi e quello di una enorme quantità di poveri e sempre più grande”, aggiunge il solito, monumentale, totalizzante Vincent Lindon, che dona forza d’animo e cuore al suo Laurent. “Può sembrare un discorso socialista ma è semplicemente un discorso sociale, non è un’idea comunista ma la normalità del buon senso: la diseguaglianza nella ripartizione della ricchezza deve essere meno dilatata di quella attuale; la differenza tra i salari più alti e quelli più bassi deve diminuire. Questa sperequazione non può continuare a durare. Non dico che i ricchi devono diventare poveri, ma che chi ha poco deve avere la possibilità di un minimo per vivere dignitosamente”. In Guerra è distribuito da Academy Two dal 15 novembre.

    .Muore Dolores O'Riordan, vode dei Cramberries, gruppo irlandese esploso negli anni novanta---La manager dell'artista irlandese: "È scomparsa all'improvviso a Londra, i familiari sono devastati". Con 'Zombie' ha segnato un decennio. Ora si indaga su una morte "non sospetta". E dal passato riaffiora il lato più oscuro, culminato in un tentativo di suicidio (16-01-2018)
    .TRE MANIFESTI A EBBING, MISSOURI di Martin McDonagh, CORPO E ANIMA di Ildikò Enyedi, MORTO STALIN, SE NE FA UN ALTRO di Armando Iannucci, LEO DA VINCI – MISSIONE MONNA LISA di Sergio Manfio, BENEDETTA FOLLIA di e con Carlo Verdone, THE MIDNIGHT MAN di Travis Zariwny
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    .GLI INVISIBILI - Questo film - che è anche un documentario - racconta della capitale del Reich nel 1943. Il regime nazista ha ufficialmente dichiarato la città “libera dagli ebrei”. Tuttavia alcuni di loro sono riusciti in un’impresa apparentemente impossibile
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    Gomorra 4 la serie / Anticipazioni quarta stagione e news: Ciro Di Marzio morto fan in rivolta, tornerà?

    Le anticipazioni di Gomorra 4 e il commento dell'ultimo episodio andato in onda ieri sera su Sky Atlantic. Ciro è morto, ecco i primi rumors sulla nuova stagione.

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    La morte di Ciro Di Marzio ha letteralmente sconvolto gli appassionati della serie tv Gomorra. Sui social network, nelle pagine dedicate alla fiction, non si parla d'altro. Centinaia di commenti e possibili scenari futuri per i nostri protagonisti: i telespettatori si confrontano e avanzano considerazioni contrastanti sull'ultimo episodio andato in onda su Sky Atlantic. "Mi rifiuto di commentare e accettare la morte di Ciro" scrive una fan su Facebook. "Nel finale non si vede più Patrizia. Sicuramente, vestita da sub, recupererà Ciro che non è morto" ironizza un internauta

    .Sorrentino, Garrone, Muccino. Ma anche Clint Eastwood, un doppio Spielberg, il Jurassic World di Bayona, Tomb Raider versione Alicia Vikander, l’ultimo film con Daniel Day Lewis, Lady Gaga nel remake di È nata una stella, e Ryan Gosling nei panni dell’astronauta Neil Armstrong.
    .Napoli velata,Il regista si cimenta con un thriller-mystery, protagonisti Giovanna Mezzogiorno e Alessandro Borghi e un coro di grandi attrici e attori. Ambientato nella città più misteriosa del mondo
    .Programmato ieri fuori concorso in Festa Mobile al Torino Film Festival, Darkest Hour (L’ora più buia è il titolo italiano, uscita prevista il 18 gennaio) rappresenta la discesa agli inferi del più ambizioso, scaltro e capace statista inglese del XX secolo avvenuta dal 10 al 28 maggio 1940 quando si trovò a decidere le sorti del proprio Paese rispetto al conflitto in corso
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    L’inutile foresta pietrificata degli studi umanistici a scuola

    Dopo aver curato un manuale per le superiori, il professore universitario Claudio Giunta spiega che ai ragazzi bisogna insegnare un po’ meno Dante e di più ad amare i libri. E che il liceo classico non è più l’ascensore sociale di un tempo

    Se volete capire perché l’Italia sembra così immobile, periferica, sempre uguale, andate a vedere come la scuola insegna la cultura nazionale – che in Italia è quasi solo cultura umanistica – nelle scuole. Con il dogma dei Promessi sposi applicato dalle Indicazioni del ministro Guido Baccelli nel 1881 e la Divina Commedia spalmata su tre anni del liceo perché questa sembrava una buona idea al ministro Michele Coppino nel 1884. E poi chiedetevi quello che si è chiesto Claudio Giunta docente di Letteratura italiana all’Università di Trento, tra gli accademici italiani più brillanti: E se non fosse la buona battaglia?, questo il titolo della sua raccolta di saggi pubblicata dal Mulino. E se il modo di trasmettere un’identità culturale e sociale che passa soprattutto per la letteratura – nelle scuole ma anche in Rai e nei festival – fosse parte del problema e non della soluzione ai guai di questo Paese?

    Giunta ha da poco curato un manuale per le superiori, ha girato decine di scuole, ha assistito alla didattica, ha dovuto dimostrare anche a se stesso di essere capace di non replicare errori che contesta ad altri. E poi ha pubblicato un libro che raccoglie le sue riflessioni, maturate anche nella redazione del manuale.

    Il primo filone di analisi riguarda il “cosa” si insegna: la scuola è stretta tra un’ossessione per la conservazione, per cui il sapere deve essere trasmesso immutabile di generazione in generazione, e una altrettanto ossessiva ricerca di innovazione che finisce poi soffocata dal linguaggio burocratico dei documenti ministeriali, da progetti sempre incompiuti (i corsi di approfondimento al pomeriggio, le scuole aperte d’estate, i progetti, l’alternanza scuola lavoro). Resiste un approccio nozionistico scolorito che, alla fine, si limita a dare un’infarinatura di tutto. Mentre, osserva Giunta, la scuola dovrebbe insegnare a leggere, a usare i libri come strumento di vita, più che a ricordarsi anche a distanza di anni i versi della Cavalla storna di Giovanni Pascoli. Meglio tagliare autori minori e sacrificare alcune opere di quelli grandi se questo è il prezzo per dare modo agli studenti di assaporarne qualcuna e, magari, di scoprire che oltre alla poesia e allanarrativa esiste la saggistica, che saper argomentare è altrettanto importante (e, perché no, utile) che cantare in versi l’amore.

    Poi c’è il “come” si insegna e si studia. Mentre al ministero si scrivono circolari sugli smartphone in classe o sulla necessità di dotare gli insegnanti di tablet destinati all’obsolescenza in un paio d’anni, in aula la didattica si riduce troppo spesso alla fredda analisi, a smontare il “meccanismo narrativo”, a fare l’autopsia di testi che invece dovrebbero risultate vivi, o che comunque lo sono stati in un certo momento.

    Gli insegnanti sono demotivati da stipendi troppo bassi, dall’assenza di una prospettiva di carriera e da mancanza di stimoli. Lamentele tipiche di ogni testo dedicato alla scuola, che Giunta non sottovaluta certo, ma che considera parte del problema, non il cuore. Perché molti insegnanti sono e sarebbero bravissimi ed efficaci anche con stipendi miseri. Ma ogni loro slancio viene frustrato da programmi ministeriali insostenibili e da un sistema di valutazione e aggiornamento che sembra premiare l’indole burocratica o la disponibilità a partecipare ad attività collaterali invece che la capacità di insegnare (per quanto sia difficilissimo).

    E infine c’è il “perché”. Claudio Giunta offre una utile spiegazione della furia che travolge chiunque si limiti a osservare l’ovvio, cioè che, a prescindere dal valore intrinseco della materia, chi ha una formazione umanistica trova meno lavoro di chi studia ingegneria o economia. Per decenni, soprattutto nel dopoguerra, l’istruzione umanistica era sinonimo diascensore sociale. Chi sopravviveva al liceo classico era, per definizione, parte dell’élite. Le versioni di latino e greco, insomma, sono state a lungo un mezzo più che un fine, come in quei film americani dove gli aspiranti marine sono sottoposti alle prove più assurde al solo scopo di allontanare i deboli.

    Oggi il liceo classico non è molto più facile, ma è cambiata la sua funzione: non basta più come ascensore sociale garantito, a quello scopo sono più efficaci altri studi, quelli scientifici seguiti da specializzazioni più applicate. Che i filologi o i filosofi siano richiestissimi dalla finanza o dal marketing è una bufala a cui credono solo gli organizzatori dei meeting di orientamento agli studenti. Studiare le humanities, insomma, rende specialisti di humanities, adatti a una carriera universitaria o di insegnante. È quindi fisiologico che i numeri si riducano e pure lo status di chi ha questa formazione.

    Dunque è tutto inutile, non è una “buona battaglia”? Sì e no. Claudio Giunta considera un privilegio aver passato una vita tra i libri, a leggere e studiare. E chiunque sia abbastanza interessato al tema dal leggere il suo saggio non potrà che essere d’accordo: è una vita ben spesa. Ma Giunta è anche consapevole di essere uno degli ultimi esponenti di una generazione fortunata (ha 46 anni). Quella successiva non avrà le stesse opportunità. Soltanto sfrondando di retorica e presunzione l’insegnamento delle discipline umanistiche sarà possibile salvarle dal declino a cui sembrano destinate. Per colpa di un mondo che non le valorizza, certo, ma anche per come vengono presentate dai docenti.

     

    Ps: potete contattarci alla mailsandroesimonecesano@gmail.com

     

     

    https://quibrianzanews.com/fine-unepoca-ristorante-fauno-chiude-battenti/

    Sex Factor, il reality per i talenti del porno

    E' l'ultima frontiera del talent: otto donne e otto uomini pronti a contendersi lo scettro di nuova star a luci rosse. In palio un milione di dollari

    Sex Factor, il reality per i talenti del porno
    Qualcuno scherzosamente ha detto che per vincere questo reality non sarà sufficiente avere il fattore “X”, ma sarà necessario possedere quello “XXX”. PerchéSex Factor   è il primo show in cui i concorrenti dovranno darsi da fare per dimostrare di avere abbastanza talento per sfondare nell’industria del porno. Lo show a luci rosse, che sarà presentato dalla pornostar nippo-americana Asa Akira, conterà

    10 episodi e sarà visibile online dal 19 maggio, tenta di sfruttare il successo dei reality: ad avere l’idea è stato il produttore Buddy Ruben, che pur non avendo nessuna esperienza nel settore e con alle spalle soltanto un lavoro di venditore di software in un’azienda della Silicon Valley, ha pensato che il porno fosse l’ultima frontiera che questo genere televisivo non aveva ancora toccato.
     

     

    Dopo Prince, Cruijf, Bowie, Eco, Casaleggio, il 2016 si porta via anche Mohamed Ali al secolo Cassius Clay.

    Addio al più grande: è morto Muhammad Ali Il re del ring che fu campione dei diritti civili

    Addio al più grande: è morto Muhammad Ali
    Il re del ring che fu campione dei diritti civili
    (04-06-16)

    Foreman: "Andata via parte di me" Video 1974, la storica sfida 
    Le immagini della carriera Foto - Album / Le frasi celebri - fotoMuhammad Alì è morto nella notte in un ospedale di Phoenix, dove era ricoverato da due giorni. Aveva 74 anni (leggi). E’ l’uomo che combattè contro la segregazione razziale, che nato Cassius Clay si convertì all’islam prendendo il nome di Ali, che partecipò ai cortei delle Pantere Nere, che fu picchiato da poliziotti bianchi, che rifiutò di partire per la guerra del Vietnam, e per questo fu arrestato, gli fu tolto il titolo di campione e gli fu impedito di combattere. La medaglia olimpica l’ha vinta a Roma 1960, ma una volta tornato in patria l’ha gettata in un fiume perché si è reso conto di essere stato uno schiavo che ha combattuto per e non contro il padrone

    Video Quel no al Vietnam: "Loro non mi hanno mai chiamato negro "
    Video Il ricordo di Benvenuti alle Olimpiadi del 1960: arrivò un leader 

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     

     


     

     

     

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      CALCIO ITALIOTA ED EUROPEO

     

     

      ITALONIA

     

     

     
     
     
     
     
     

    Pro Piacenza verso la cancellazione dalla Serie C a metà campionato: l’ennesima farsa annunciata

     

    Bosnia ed Erzegovina, Finlandia, Grecia, Armenia, Liechtenstein. Evitate le insidie Germania e Danimarca. Ungirone J abbordabile quello sorteggiato, al Convention Centre di Dublino, per l’Italia di Roberto Mancini in vista dell’Europeo del 2020. Le qualificazioni si svolgeranno tra marzo e novembre 2019 e vedranno la Bosnia di Dzeko e Pjanic come la rivale più temibile per gli azzurri. Insidie potrebbe riservare anche la Grecia, che però non sta vivendo il suo miglior periodo calcistico. Sulla carta più modeste sono Finlandia, Armenia e Liechtestein che non dovrebbe creare particolari problemi.

    “È stato un buon sorteggio, tutti volevano evitare la Germania, quindi è andata bene” commenta il ct dell’Italia, Roberto Mancini, a Raisport, dopo le urne di Dublino per le qualificazioni: “La Bosnia è un’ottima squadra, con giocatori forti, che conosciamo. Non sarà una partita semplice, ma va bene. Sulla carta è un buon girone, ma le partite comunque vanno giocate e vinte“. Tra le avversarie più insidiose capitate agli azzurri appunto la Bosnia e la Grecia.

     
     

     

    I bosniaci sono trascinati da due giocatori che conoscono bene il calcio italiano: Pjanic e Dzeko. Nel 2016 la Bosnia fallì l’accesso alla fase finale della competizione europea per nazioni dopo gli spareggi contro l’Irlanda. Due anni prima, in Brasile, arrivò invece la prima qualificazione nella loro storia a un mondiale. La Grecia invece, dopo gli ottavi raggiunti nel mondiale del 2014, sta vivendo una fase di appannamento che l’ha costretta a rinunciare sia a Euro 2016 che a Russia 2018. Nella Uefa Nations League la squadra ellenica, allenata dal tecnico Anastasiadis, ha totalizzata due vittorie e due sconfitte.

    Nel nostro gruppo anche l’Armenia, capitanata dal ex giocatore di Manchester United, attualmente all’Arsenal, Henrikh Mkhitaryan, la Finlandia, nazionale al 58° posto nel ranking Fifa (la peggiore delle scandinave)e il Liechtenstein dove gioca il calciatore dell’Empoli Buchel.

    Per la prima volta nella storia dell’Europeo accederanno alla fase finale 24 nazionali. Le prime due classificate dei dieci gironi e I quattro rimanenti posti saranno decisi da spareggi, a cui accederanno le vincitrici delle leghe di Uefa Nations League, determinate da un mini torneo a 4 nel quale le squadre di ogni singola lega (4 di A, 4 di B, 4 di C e 4 di D) si sfideranno in una gara secca di semifinale e una di finale. Nel caso in cui tra queste 16 squadre, come è possibile, vi sia qualcuna già qualificata accederà agli spareggi la squadra subito dietro in un ranking stilato dalla Fifa che comprende vari parametri come posizione nel girone, ai punti totalizzati, alla differenza reti, ai gol segnati.

    Un evento che per la prima volta vedrà più città europee teatro delle partite della rassegna continentale. Tra queste: Glasgow, Dublino, Copenaghen, Budapest, Bucarest, Bruxelles, Bilbao e Amsterdam, dove si terranno tre partite della fase a gironi e un ottavo di finale. A San Pietroburgo, Monaco, Baku e Roma invece si giocheranno tre partite della fase a gironi e un quarto di finale. Infine a Londra si svolgeranno le due semifinali e la finale. Altra curiosità: non ci sarà un logo unico, ma ogni città avrà il suo. Al momento svelato solo quello di Londra:il Tower Bridge.

    I gironi:

    Girone A: Inghilterra, Repubblica Ceca, Bulgaria, Montenegro, Kosovo

    Girone B: Portogallo, Ucraina, Serbia, Lituania, Lussemburgo

    Girone C: Olanda, Germania, Irlanda del Nord, Estonia, Bielorussia

    Girone D: Svizzera, Danimarca, Irlanda, Georgia, Gibilterra

    Girone E: Croazia, Galles, Slovacchia, Ungheria, Azerbaigian

    Girone F: Spagna, Svezia, Norvegia, Romania, Isole Faroe, Malta

    Girone G: Polonia, Austria, Israele, Slovenia, Macedonia, Lettonia

    Girone H: Francia, Islanda, Turchia, Albania, Moldavia, Andorra

    Girone I: Belgio, Russia, Scozia, Cipro, Kazakistan, San Marino

    Girone J: Italia, Bosnia ed Erzegovina, Finlandia, Grecia, Armenia, Liechtenstein

    Ad un anno dal crollo: Il CONI svuotato di danari dal governo giallo-verde; i vertici di FIGC, Gravina, e Lega Calcio , Miccichè, soffocati dall'assenza di potere e denaro. La nazionale nel frattempo arranca: non retrocede in B, come Croazia e Germania, ma non progredisce. Gli interessi dei BIG club rendono la nazionale un fastidio.....(18-11-2018)

    In guerra col governo per una riforma dello sport che .

    Ma contro il governo, questo governo, non c'è solo Malagò e una parte consistente del mondo dello sport, anche se qualcuno avrebbe preferito toni più concilianti da parte del presidente del Coni. C'è anche il mondo del calcio, pur viaggiando almeno per ora su diversi binari rispetto a quelli di Malagò: i presidenti di serie A sono più che preoccupati per diversi motivi. Il divieto di pubblicità per i giochi e scommesse, voluto da Di Maio, che crea enormi problemi ai club. La percentuale variabile (dal 5 al 10 per cento, circa 10-20 milioni) sui biglietti da destinarsi alla gestione dell'ordine pubblico (la vuole Salvini, difficile torni indietro) e infine la decisione di Giorgetti di destinare il 10 per cento dei diritti tv (circa 120 milioni) a chi utilizza giovani calciatori, ragazzi cresciuti nel vivaio dei club. Ma il governo non può intervenire sul minutaggio, riguarda l'autonomia tecnico-sportiva: decidono gli allenatori chi mandare in campo ed è la Lega che ha la titolarità di organizzare il campionato. Il sottosegretario, che di recente ha ricevuto Micciché, Marotta e Lotito a Palazzo Chigi, si è detto disponibile a discutere. Ma pare proprio che non ci siano margini di manovra, anche perché ci sono di mezzo sia Di Maio che Salvini. Non è affatto escluso quindi che la Lega maggiore in futuro decida di prendere posizioni molto forti. Qualche presidente vorrebbe addirittura scioperare contro il governo: e qui si tratta di imprenditori importanti, che hanno un certo peso nel Paese. A Micciché il compito di risolvere questa grana.

    Italia-Portogallo 0-0: azzurri ancora a secco al Meazza, sfumano le Finals di Nations League

    Italia-Portogallo 0-0: azzurri ancora a secco al Meazza, sfumano le Finals di Nations League
    Verratti in azione (afp)

     

    La nazionale prolunga il digiuno nello stadio milanese (dove non segna da 349') e fa felice i lusitani. Insigne e compagni sciupano sei ghiotte occasioni poi calano e per poco non vengono beffati nel finale da Carvalho. Fischi a Bonucci. MILANO - La maledizione di San Siro non abbandona gli azzurri. Dopo lo 0-0 con Germania e, soprattutto, quello tristemente storico con la Svezia, arriva anche lo 0-0 con il Portogallo che prolunga a 349′ il digiuno al Meazza e cancella anche le residue speranze di approdare alle Finals di Nations League. Al di là del risultato, la prestazione della squadra di Mancini va comunque applaudita. Per un'ora si è vista in campo un'ottima Italia, sicura nel palleggio e di grande personalità. Poi è calata fisicamente ma ha comunque tentato fino in fondo, col cuore più che con la testa, di vincere.

    VERRATTI LA NOTA PIU' LIETA - La nota più lieta viene dal centrocampo dove a lungo Verratti ha giganteggiato, mettendo lo zampino in tutte le trame offensive: da brutto e incompiuto anatroccolo, il piccolo regista del Psg con Mancini sta decisamente tramutandosi in cigno. L'importante sarà trovare continuità di rendimento. Bene, oltre al solito Chiellini, che ha festeggiato nel migliore dei modi le 100 presenze in azzurro, anche Jorginho, Barella, Insigne e Biraghi, continuo nei suoi inserimenti a sinistra. Sottotono, invece, la catena di destra formata da Florenzi e Chiesa che ha faticato a mettersi in moto. Implacabile con la Lazio, infine, Immobile continua a litigare con la porta in nazionale dove non segna da oltre 13 mesi. Davvero troppi per uno che con il suo club da tre stagioni viaggia a una media di 0,76 gol a partita (60 in 79 gare).

     

     
     
     
     
     
     
     

    Il neocalcio è a inviti. Ora la Fifa prepara l’affare Mondiale

    Un torneo intercontinentale dal 2021 riservato ai club più blasonati con un introito da tre miliardi di dollari. Il futuro della Fifa rischia di dipendere da un torneo. Il nuovo Mondiale per club: è su quel progetto che Gianni Infantino ha posto le basi della propria conferma al vertice del calcio mondiale. Il progetto è stato esposto già due volte agli stakeholders, l'ultima due mesi fa al Royal Festival Hall di Londra. Una partita da 23 miliardi di euro. Che possono essere infinitamente tanti, oppure pochissimi. Ma che di certo rappresenta per la Fifa l'ultima chance di e...

     

    Milan, sentenza Uefa: multa di 12 milioni e rosa ridotta in Europa

    Milan, sentenza Uefa: multa di 12 milioni e rosa ridotta in Europa
    Ivan Gazidis, ad del Milan 

     

    Il club dovrà raggiungere il pareggio di bilancio entro il 2021, in caso contrario sarà escluso dalle coppe

    NYON - Dodici milioni di multa, limiti alla rosa nelle coppe europee 2019-20 e 2020-21 e la necessità di raggiungere il "break-even" entro il 30 giugno 2021, quindi nel giro di due esercizi e mezzo, altrimenti scatterà una nuova esclusione dalle coppe europee. E' questa la decisione della Camera giudicante dell'Uefa sul caso Milan, arrivata all'indomani della mazzata di Atene con l'Olympiakos che ha provocato l'uscita di scena anticipata della squadra rossonera dall'Europa League. I commissari di Nyon hanno scelto di adottare una sanzione economica secca: 12 milioni trattenuti sui premi dell'Europa League in corso, quindi senza alcuna differenza tra parte fissa e condizionata. Come sanzione accessoria il Milan non potrà inserire più di 21 giocatori nella lista Uefa consegnata per le coppe europee 2019-20 e 2020-21.
     
    ANCORA RISCHIO ESCLUSIONE DALLE COPPE - Ma la parte più dura è quella relativa alla necessità del pareggio di bilancio in tempi brevi: la Camera giudicante ha fissato questo termine al 30 giugno 2021. In caso contrario la Uefa escluderà il Milan da una competizione europea nella stagione 2022-23 o 2023-24 (la solita formula usata da Nyon in questi dispositivi). Non sembra una sentenza leggera perché impone al Milan la rinuncia immediata a 12 milioni di ricavi e obbliga il club a raggiugnere il pareggio di bilancio in due anni e mezzo, un percorso che richiederà sacrifici notevoli oltre a un'impennata del fatturato, considerato che l'ultimo esercizio ha chiuso con -126 milioni di passivo. Non c'è margine di trattativa perché l'impostazione della Camera giudicante è quella di stabilire una sanzione, non di definire un percorso di patteggiamento programmato, come accade con settlement o voluntary agreement.
     
     

     

    RIENTRO CON MOLTI SACRIFICI - E' vero che l'ultimo rendiconto con la maxi-perdita oltre quota 100 milioni ha scontato alcuni accantonamenti proprio in vista della sanzione Uefa, ma resta il dato di un club che perde cifre consistenti e rischia di chiudere anche il bilancio 2018-19 con un "rosso" notevole (sembra difficile restare sotto quota -70 o -80 a meno che non arrivino nuovi introiti importanti a breve). A quel punto rimarranno solo due anni per arrivare al pareggio. Ecco perché il margine di manovra del Milan sul mercato risulterà molto limitato, a partire dal mercato di gennaio, fino ai riscatti onerosi della sessione estiva, in particolare quello di Higuain. Il Milan potrà ricorrere al Tas proprio come successo a luglio scorso. E gli arbitri di Losanna potrebbero ritenere anche questa pena non condizionata. Ma per adesso il risveglio dopo il naufragio di Atene è diventato ancora più problematico.

    RICORSO DA VALUTARE - Dopo aver appreso la decisione, il Milan ha iniziato a valutare se presentare ricorso al Tas. Secondo alcune indiscrezioni, la prima reazione del club rossonero andrebbe nella direzione di fare un nuovo appello davanti agli arbitri di Losanna dopo quello vincente della scorsa estate. Ma si tratta di voci non confermate dalla società di via Aldo Rossi che per ora non effettua comunicazioni sul tema. Inoltre, secondo una prima lettura, la sanzione della Camera Giudicante non sarebbe così pesante perché lascia al Milan margine di manovra nel triennio 2018-21 sulle modalità di raggiungimento del break even (quindi una perdita massima di 30 milioni nell'arco dei 36 mesi). In questo modo Elliott sarebbe libera di effettuare investimenti per raggiungere la Champions e fare strada nella competizione, la via che resta la migliore per massimizzare i ricavi.

    PER LA STAGIONE 2017-18 NUOVO ROUND - Resta ancora in sospeso una questione. Questa decisione della Camera Giudicante prende in considerazione lo scostamento del triennio 2014-17 relativo alla fine della gestione Fininvest. E' rimasta fuori, a causa della particolarità della procedura, la stagione 2017-18. La Uefa ora dovrà esaminare questa situazione probabilmente entro il prossimo mese di marzo. E la Camera Investigativa potrebbe ritenere necessario concludere un settlement agreement aggiuntivo con altre sanzioni accessorie. Sembra invece esclusa un'altra multa oltre ai 12 milioni già previsti. 

    Il calcio italiano produce deficit: i costi superano sempre i ricavi. In cinque anni perdite per 1,7 miliardi

    Il rapporto Pwc Arel: nell’ultima stagione 2016-2017 il calcio professionistico italiano (Serie A, B, Lega Pro) ha avuto un giro d’affari di 3,2 miliardi di euro, tutti mangiati dai costi che si sono attestati a 3,35 miliardi. I debiti sono saliti a 4 miliardi a fronte di un capitale di soli 358 milioni

    E se il calcio italiano, oggi grande assente ai Mondiali la vetrina più importante del football globale, non fosse altro che una straordinaria metafora del sistema Paese? Una sorta di specchio fedele dei vizi e delle virtù dell’italica patria? In fondo è lo sport più popolare per antonomasia, catalizza passioni se non fedi calcistiche. Ma è nei suoi risultati economico-finanziari, nei suoi conti, che le similitudini con le gioie e le disgrazie della Repubblica si fanno calzanti. Ricco e sfavillante nei suoi ingaggi e nelle sue finanze private, gracile nei suoi conti pubblici.

    Che il calcio sia affare ricco per i suoi protagonisti che scendono in campo ogni domenica è indubbio. Così come è un fatto che i conti privati delle famiglie italiane brillino di ricchezza, sicuramente in parte nascosta e mal distribuita, ma presente. La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane veleggia da anni attorno ai 4mila miliardi. Il doppio del debito pubblico italiano. Soldi investiti in conti correnti, Btp, azioni, fondi comuni, polizze. Ricchezza cumulata dalle generazioni e tenuta lì come un tesorettocapitalizzato per l’avvenire. Con nonni e capifamiglia che con quel tesoretto sostengono la generazione dei millennials, precaria nel lavoro e precaria nell’esistenza.

    Figc, Carlo Tavecchio si dimette. Poi è show in conferenza stampa: “Sono qui per un atto politico, non sportivo”. Il numero uno del calcio italiano ha comunicato la sua decisione all'inizio del Consiglio Federale. Negli scorsi giorni si era fatta sempre più forte la pressione del ministro della Sport, Luca Lotti, e del presidente del Coni, Giovanni Malagò. Alla fine è venuto meno anche l'appoggio della Lega Dilettanti. Resta reggente e convocherà le elezioni entro 90 giorni. Poi un lungo sfogo in conferenza stampa: attacchi agli avversari, rivendicazioni del lavoro fatto e alcune frasi in francese. Assunzioni di responsabilità? Zero. Malagò: "Ora commissariamento"

    Da assemblea sui diritti televisivi ad assemblea elettiva di tutte le cariche vacanti: ma non tutti i presidenti sono stati avvertiti

    Italia fuori dal Mondiale, il precedente del ’58: dopo lo choc, repulisti generale e rifondazione. E nacque il calcio moderno

     
    CALCIO

    Il 15 gennaio di 60 anni fa la nazionale di Alfredo Foni perse 2-1 in trasferta contro l’Irlanda del Nord: fu il “disastro di Belfast”, che estromesse gli azzurri dal torneo di Svezia. Il pallone di casa nostra cambiò per sempre: commissariamento della FederCalcio, azzeramento dei vertici, inaugurazione del centro tecnico di Coverciano e svolta decisa verso il futuro del professionismo. Così sarebbero arrivati i trionfi del decennio successivo

    Un colpo al Pil del paese, la Figc perde 150 milioni. I diritti tv sono dimezzati

    Un colpo al Pil del paese, la Figc perde 150 milioni. I diritti tv sono dimezzati
    Gli azzurri a terra al termine della partita con la Svezia (afp)

     

    I conti in tasca al sistema (e non solo) dopo l'eliminazione: un buon Mondiale vale una finanziaria

     

     

    Italia-Svezia 0-0, è Apocalisse Nazionale: disastro Ventura, azzurri di cuore ma senza un’idea dicono addio a Russia 2018

    La Svezia ha eliminato l’Italia. Anche sul clima

    Italia-Svezia 0-0, azzurri fuori dai mondiali

    Italia-Svezia 0-0, azzurri fuori dai mondiali
    (ansa)

     

    La squadra di Ventura non riesce a ribaltare la sconfitta di Stoccolma. Era dal 1958 che non veniva fallita la fase finale

     

     
     
     
     
     
     

    .Dopo la battaglia di Milano di Santo Stefano, scure durissima sull'Inter:

     

    MILANO - "Obbligo di disputare due gare prive di spettatori e ulteriore gara con il settore secondo anello verde privo di spettatori". Lo ha deciso il Giudice sportivo della serie A dopo quanto accaduto ieri al Meazza nel corso di Inter-Napoli"per cori insultanti di matrice territoriale, reiterati per tutta la durata della gara, nei confronti dei sostenitori della squadra avversaria, provenienti dalla grande maggioranza dei tifosi assiepati nel settore indicato e percepiti anche in tutto l'impianto; nonchè per coro denigratorio di matrice razziale nei confronti del calciatore del Napoli Koulibaly". L'Inter giocherà a porte chiuse le partite contro Benevento (ottavi di Coppa Italia, 13 gennaio) e Sassuolo (19 gennaio) e senza tifosi della curva la sfida con il Bologna (3 febbraio).

    Tifosi morti: da Plaitano a Belardinelli, la sottile linea nera che parte nel 1963. Il decesso del 35enne Daniele Belardinelli allunga la terribile lista di vite spezzate per violenze nate dalla passione per il calcio: storie di tifosi uccisi dentro gli stadi o dopo le partite, una serie di tragedie lunga 45 anni e che comprende anche il poliziotto Filippo Raciti (2007) e il napoletano Ciro Esposito (2014).

    I fascisti, il designer e il vecchio capo ultrà. La curva “decapitata”

    Milano - L’agguato ai napoletani, costato la vita a un assalitore, inguaia i tutti i gruppi interisti più estremi. Caccia all’investitore

    Quei cento urlavano: “È una guerra”. Le 19.20 del 26 dicembre. In via Novara a Milano si scatenano gli scontri. L’agguato degli ultras dell’Inter contro i van dei napoletani è al suo apice. Una ventina di metri oltre verso via San’Elena c’è il corpo di Dedè Belardinelli. Ha il bacino frantumato, ma non è ancora […]

    Tifoso morto, arrestato Nino Ciccarelli: è uno dei capi della curva dell’Inter. Nuovi arresti nell'inchiesta sul tifoso morto a Milano durante gli scontri prima di Inter-Napoli. Due persone sono finite in manette. Una è Nino Ciccarelli, 49 anni, nome storico del tifo interista e uno dei capi della curva, fondatore, nel 1984, dei Viking. E' ritenuto dal gip Guido Salvini che ha firmato l'ordinanza particolarmente pericoloso e può "facilmente" condizionare "altri tifosi" dato che è "conosciuto in tutto l'ambiente ultras". L'altro arrestato è Alessandro Martinoli, ultrà del gruppo estremista della destra radicale dei tifosi del Varese 'Blood and Honour', gemellati a quelli nerazzurri. Dei 'Blood Honour' faceva parte anche Daniele Belardinelli, morto durante la guerriglia perché investito da due auto, molto probabilmente guidate dai tifosi del Napoli.

    Scontri prima di Inter-Napoli, tifoso napoletano indagato per omicidio volontario

    Scontri Inter-Napoli, arrestato capo ultrà Marco Piovella. Il gip: "Pericoloso e reticente".

    Tifoso ucciso, Piovella: ‘Berardinelli investito da un’auto a bassissima velocità’ Da Ros ai pm: ‘Il Rosso ha deciso agguato’

    Scontri Inter-Napoli, l'accusa dell'arrestato: "Agguato deciso da capo ultrà nerazzurro" .

    Tifoso interista morto, il video inedito della guerriglia tra ultras interisti e napoletani.

    Inter-Napoli, “un corteo di 20 auto per colpire i napoletani”. 

    Via Emanuele Filiberto, civico 13. Bisogna partire da qua per comprendere cosa sia successo nelle ore precedenti la guerriglia scatenata a Milano il 26 dicembre prima di Inter-Napoli. È un indirizzo chiave, confermato ieri dai tre arrestati al giudice Guido Salvini. Uno di loro, Luca Da Ros, 21 anni, studente di sociologia all’università Cattolica e membro del gruppo Boys San, ha fornito particolari ulteriori. Su tutti il nome del capo dei Boys che, stando a Da Ros, sarebbe stato tra gli organizzatori. Si tratta di Marco Piovella, 34 anni, soprannominato “il Rosso”, un Daspo a carico di un anno a carico per i disordini di Inter-Juve dello scorso aprile. Piovella, interrogato ieri dalla Digos, ha confermato la sua presenza negli scontri ma non il ruolo di organizzatore. In serata è stato rilasciato, ma resta indagato.

    Torniamo in via Filiberto, strada distante pochi chilometri dallo stadio Meazza. Da Ros detto il Gigante davanti al giudice spiega che lui è arrivato allo stadio alle 17,30 del 26 dicembre. Qui passa al Baretto, ritrovo degli ultras di Inter e Milan. Dopodiché sale al secondo anello per posizionare gli striscioni. A questo punto, si sposta in via Filiberto. Qui l’appuntamento è alCartoons Pub. Come Da Ros molti si ritrovano qua. Tra questi gli altri due arrestati Francesco Baj e Simoncino Tira. Anche loro confermeranno la presenza al locale e poi nel mezzo della guerriglia. A questo punto succede qualcosa che ha dell’incredibile: davanti al pub si forma una fila di venti macchine.

    Spiegherà Da Ros: solo gli autisti erano a conoscenza della destinazione finale. Cosa succede a questo punto? Gli ultras, compresi quelli dei Blood and Honour arrivati da Varese e i francesi del Nizza della Populaire sud, salgono sulle auto. Quattro o cinque a bordo più chi guida. I mezzi partono a breve distanza l’uno dall’altro, formando un colonna che dalla zona di corso Sempione si avvia verso lo stadio, senza che nessuno se ne accorga. Da qua il serpentone, giunge nel parchetto di via Fratelli Zoia. A questo punto chi arriva trova nel parchetto due grossi sacchi scuri dentro i quali ci sono le armi per il “combattimento”. Ci si arma, ci si incappuccia, e si attende il segnale. Le staffette in fondo a via Novara agganciano i van dei napoletani. Poi un colpo di petardo dà il via a tutto. Il manipolo degli interisti occupa via Novara. Sono circa le 19,20. La dinamica dunque è chiara.

    La conferma arriva direttamente dal giudice per le indagini preliminari Guido Salvini, che oggi deciderà sui tre arrestati tutti accusati di rissa e lesioni aggravate. Ciò che al momento resta oscuro è la catena di comando. Torniamo allora al capo dei Boys Marco Piovella. Laureato al Politecnico e titolare di uno studio di light-design a Milano, sarebbe stato lui uno degli organizzatori della guerriglia. Questo almeno mette a verbale Da Ros che aggiunge qualcosa in più: in via Zoia la sera del 26 dicembre c’erano tutti i capi dei vari gruppi della curva Nord. Oltre a quello del Rosso, vengono fatti altri due soprannomi collegati al gruppo dei Viking e a quello degli Irriducibili. Secondo questa ricostruzione, il direttivo della curva ha avuto parte nella guerriglia. Dai verbali emergono poi particolari sulla dinamica dell’incidente che ha provocato la morte di Belardinelli, colpito sulla carreggiata di via Novara in direzione stadio.

    La Procura qui procede per omicidio a carico di ignoti. Il fatto ancora non è stato rubricato a omicidio stradale. L’auto non sembra un Suv, ma una macchina più piccola. Di più: non è affatto escluso che l’investimento sia voluto. L’ipotesi della Procura è che l’auto facesse parte del gruppo dei napoletani e sia passata con entrambe le ruote sul corpo del capo ultras dei Blood and Honour. Ancora da comprendere il movente della guerriglia. Movente che sembra più legato a dinamiche politiche di estrema destra. Due arrestati e altri indagati sono legati al gruppo di Lealtà e azione, mentre i francesi del Nizza sono considerati vicini al Fronte popolare diMarine Le Pen. Il gruppo così formato ha colpito il 26. Nel progetto, secondo una fonte interna al mondo ultras milanese, c’era l’assalto al commissariato San Siro, già colpito nel 2007 durante il corteo per l’uccisione dell’ultras della Lazio Gabriele Sandri. L’investimento di Dedè ha però mandato a monte il piano.

    Inter-Napoli, morto tifoso investito negli scontri: “Sei indagati” Siro chiuso due giornate per i cori razzisti.

     

     

     

     

     


     

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    Milan, l’Uefa condanna i rossoneri: esclusi dalla prossima Europa League.

    La società presenterà ricorso al Tas, 27-06-18.

     

    Lo ha deciso l'Adjucatory Chamber dell'Uefa. Il comunicato del club: "Chiesto a pool legale di avviare la procedura di ricorso". Se non verrà accolto, il suo posto verrà preso dalla Fiorentina, che ha anticipato il ritiro della squadra.

    Il Milan è stato escluso dalla prossima Europa League. Lo ha deciso l’Adjucatory Chamber dell’UefaLo scorso 22 maggio, Nyon aveva bocciato il settlement agreement del club rossonero: in pratica, la società aveva proposto un “patteggiamento” delle sanzioni per aver sforato i parametri del fair play finanziario negli ultimi tre anni.  La società ha annunciato che presenterà ricorso al Tribunale Arbitrale dello Sport (Tas) di Losanna. Se non dovesse essere accolto l’appello, il posto del Milan in Europa League verrà preso dalla Fiorentina. (27 giugno 2018)

    “Il club non potrà partecipare alla prossima competizione Uefa per club a cui si qualificherà nelle prossime due stagioni (es.: una sola competizione nella stagione 2018/19 o in quella 2019/20, in caso di qualificazione)”, si legge nel comunicato. Il Milan potrà quindi partecipare alle coppe europee nel 2019, perché “sconta” la sua pena già in questa stagione. Se non si fosse qualificato a maggio, avrebbe invece dovuto scontarla nella stagione successiva. “La camera giudicante dell’Organo di Controllo Finanziario per Club, presieduta da José Narciso da Cunha Rodrigues, ha preso una decisione sul caso AC Milan per la violazione delle norme del fair play finanziario, in particolare per la violazione della regola del pareggio di bilancio“, scrive sempre la Uefa.

    L’Uefa “ha deciso di sanzionare AC Milan per le violazioni della normativa sul Financial Fair Play commesse da luglio 2014 a giugno 2017 con un anno di esclusione dalle Competizioni Ufficiali Europee per Club”, si legge nella nota ufficiale del club rossonero. “Nel prendere atto di tale decisione, AC Milan comunica di aver richiesto al proprio pool legale di avviare la procedura di ricorso presso il Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna, confidando in una sollecita revisione del provvedimento”, conclude il comunicato.

    Già lo scorso dicembre, il Milan si era visto respingere il voluntary agreement. All’epoca, l’ad Marco Fassone aveva spiegato che Nyon “aveva chiesto di completare prima della decisione il rifinanziamento del debito con Elliott che scade a ottobre e fornire garanzie sufficienti per dimostrare la capacità della società di finanziare il club e le perdite che farà nei prossimi anni attraverso una garanzia bancaria o un deposito di una cifra molto importante. Cose impossibili non solo per noi ma per qualunque club si trovi nella situazione del Milan”.Il no era frutto di due motivazioni. Secondo la Uefa c’erano ancora troppe incertezze sulla reale possibilità di rifinanziare il debito da oltre 300 milioni di euro contratto con Elliott in scadenza ad ottobre 2018. In aggiunta, c’erano anche dubbi “sulle garanzie finanziarie fornite dall’azionista principale” Yonghong Li, sul quale diverse inchieste giornalistiche continuano a sollevare numerosi dubbi. Sugli stessi punti aveva insistito Nyon a fine maggio ed evidentemente anche oggi, visto la pesante sanzione inflitta al club rossonero. 27

    Nelle scorse ore, Mr. Li ha rifiutato l’offerta dell’italo-americano Rocco Commisso che sembrava in procinto di entrare nel club. L’operazione avrebbe permesso di ripianare il debito contratto con Elliott portando contestualmente linfa vitale per le casse del club.

     

     

    Mazzata a Casa Milan. La commissione inquirente dell'Uefa ha bocciato il settlement agreement del club di via Aldo Rossi, il patteggiamento delle sanzioni sportive ed economiche per le deviazioni dai parametri del fair-play finanziario nell'ultimo triennio. Sarà ora la commissione giudicante del massimo organismo sportivo del calcio europeo a pronunciarsi sulla questione a metà giugno. E diventa a questo punto possibile, tra le varie punizioni, anche la più pesante: l'esclusione dalle prossime coppe europee, nel caso specifico dall'Europa League, alla quale la squadra di Gattuso si era appena qualificata direttamente, grazie al sesto posto in campionato. Nel caso sarebbe l'Atalanta - settima classificata della serie A e ammessa ai due turni preliminari estivi e all'eventuale play-off di agosto per l'ingresso nella fase a gironi dell'Europa League - a ottenere l'accesso diretto al torneo, mentre la Fiorentina, ottava, giocherebbe i preliminari al posto dell'Atalanta.

    Per il Milan, che già ne dicembre scorso era stato bocciato dall'Uefa per la richiesta di voluntary agreement presentata invano dall'Ad Fassone, si tratta di un colpo duro. La sentenza di oggi paralizza infatti l'attività del club e in particolare il mercato, rendendo complicato il piano di rafforzamento che Gattuso stava delineando col ds Mirabelli per raggiungere nel prossimo campionato di serie A uno dei primi quattro posti in classifica e ottenere così nella stagione 2019-20 il ritorno in Champions League, competizione dalla quale il club italiano più titolato a livello internazionale manca ormai dal 2014. L'Uefa ha comunicato la decisione alla società, in via informale, intorno alle 18, per poi renderla pubblica più tardi con il comunicato ufficiale.

    Adesso la prossima scadenza delicata, venerdì prossimo, sarà l'aumento di capitale di 10 milioni di euro, promesso dal presidente cinese Yonghong Li. Poi, con l'ulteriore spada sul collo del debito con Elliott da restituire o da rifinanziare entro ottobre, partirà l'ennesima estate di passione, col caso Donnarumma di nuovo in prima pagina e con un mercato tutto da decifrare.

     

    LA DECISIONE - La camera di investigazione dell'Organo di Controllo Finanziario per Club UEFA (CFCB) ha deciso di rinviare l'AC Milan alla camera giudicante del CFCB per la violazione delle norme del fair play finanziario, in particolare per la violazione della regola del pareggio di bilancio (break-even rule).

    Dopo un attento esame di tutta la documentazione e delle spiegazioni fornite dalla società, la camera di investigazione ritiene che le circostanze del caso non consentano la conclusione di un settlement agreement.

    Nello specifico, la camera di investigazione è del parere che permangano ancora incertezze sul rifinanziamento del prestito e sul rimborso delle obbligazioni da effettuare entro ottobre 2018.

    La camera giudicante prenderà una decisione in merito a tempo debito. Durante il mese di giugno, la camera di investigazione comunicherà eventuali altre decisioni in merito al monitoraggio delle società sotto indagine o che hanno concluso un settlement agreement.

    FASSONE: "TANTA AMAREZZA, VIA ALL'ANALISI LEGALE" - La decisione dell'Uefa mi ha generato sorpresa ed amarezza". L'ad del Milan Marco Fassone ha commentato così, a margine dell'assemblea di Lega, la decisione dell'Uefa di negare il settlement agreement al club rossonero. "Mi attendevo ci venisse offerto il settlement, come è sempre stato fatto da quando esiste il Fair play finanziario. È importante che il Milan assuma una posizione chiara. Da domani faremo anche un'analisi legale della decisione, può rappresentare un danno importante per l'immagine della società".

    https://www.raiplay.it/video/2018/05/Le-scatole-del-cinese---Anticipazione-300eb26b-4053-4cf3-b19c-ad0b48456044.html

     
     
     

    Operazione Super League: così le grandi squadre si sono comprate il calcio

    Un unico campionato su scala europea, alternativo ai tornei nazionali e alla Champions. Ecco il progetto segreto sponsorizzato dai club più ricchi d'Europa, tra cui Juventus, Real Madrid e Barcellona. Alla fine, per convincerle a restare, l'Uefa ha aumentato i premi per le società maggiori, penalizzando tutte le altre

    Questo, in estrema sintesi, il progetto studiato dai padroni del calcio continentale, società come Real Madrid, Barcellona, Bayern Monaco e anche la Juventus, per moltiplicare i loro ricavi e, di fatto, mettere fuori gioco i tornei nazionali, destinati a perdere audience e quindi introiti.
    Le carte che descrivono nei dettagli il piano elaborato fin dal 2016 con l'attiva partecipazione, tra gli altri, del presidente della Juve, Andrea Agnelli, emergono dalla gigantesca banca dati di Football Leaks, milioni di documenti ottenuti dal settimanale tedesco Der Spiegel e analizzati da L'Espresso insieme agli altri partner internazionali del consorzio giornalistico Eic (European investigative collaborations).Più volte rivisto e corretto, il progetto è ancora di stretta attualità. Risale al 22 ottobre scorso una lettera della società di consulenza Key Capital Partners al presidente del Real Madrid, Florentino Perez, in cui si descrive la creazione di una società che avrebbe come azionisti 11 grandi squadre. E cioè le italiane Juventus e Milan, insieme a Paris Saint Germain e Bayern Monaco, le spagnole Real Madrid e Barcellona, le inglesi Arsenal, Chelsea, Liverpool e le due di Manchester, il City e lo United. Il documento appare come una prima bozza di accordo destinato con ogni probabilità a essere integrato nei prossimi mesi. Di certo però la lega dei big del pallone sembra determinata a prendere il posto della Uefa, l’associazione delle federazioni dei Paesi europei che gestisce le competizioni continentali, a cominciare dalla Champions League.La nuova società, di cui il Real Madrid sarebbe il maggior azionista con il 18 per cento circa del capitale, avrebbe il compito di fissare i criteri per la distribuzione dei proventi televisivi, oltre a decidere e applicare le norme che regolano il nuovo campionato su scala continentale, un torneo che lascerebbe ai singoli campionati nazionali, riservati alle squadre di media grandezza, soltanto le briciole della torta miliardaria del calcio. Nella bozza che compare tra le carte di Football Leaks si legge che oltre agli 11 membri fondatori, la futura Superlega potrebbe contare anche sulla partecipazione di altre cinque squadre: le italiane Inter e Roma, l’Atletico Madrid, l’Olympique Marsiglia e il Borussia Dortmund.Dai documenti analizzati da L’Espresso con gli altri partner del consorzio Eic, emerge che già due anni fa le big seven del calcio europeo erano pronte a scendere in campo per fare piazza pulita dei tradizionali assetti del calcio europeo. Il 31 marzo del 2016 i rappresentanti di Real Madrid, Barcellona, Bayern, Juventus, Milan, Manchester United e Arsenal si erano dati appuntamento in un lussuoso hotel di Zurigo con l’obiettivo di passare alla fase operativa del progetto Superleague. Dopo aver raggiunto una prima intesa, l’operazione non è poi andata in porto, ma il gruppetto delle sette grandi squadre è comunque riuscito a cambiare le regole del gioco in modo da aumentare i propri profitti.

    Le carte di Football Leaks descrivono nei dettagli il negoziato tra i manager delle grandi squadre e l’Uefa, a cui è stata prospettata senza troppi giri di parole la prossima creazione di una Champions League alternativa
    . A partire da maggio del 2016 e poi per tutta l’estate seguente si sono susseguiti gli incontri per trovare un accordo. La trattativa, secondo quanto risulta dai documenti, è stata in buona parte gestita, per conto delle big seven, da Karl-Heinz Rumenigge, l’ex attaccante tedesco passato alla presidenza del Bayern, insieme ad Andrea Agnelli.Con il presidente Michel Platini sospeso dall’incarico perché coinvolto in un’inchiesta giudiziaria sulla gestione finanziaria dell’associazione e il suo braccio destro Gianni Infantino passato a dirigere la Fifa, in quelle settimane l’Uefa era provvisoriamente diretta dal segretario generale, il greco Theodore Theodoridis. E proprio quest’ultimo ha infine alzato bandiera bianca avallando una riforma della Champions League, annunciata ad agosto del 2016 ed entrata in vigore a partire da questa stagione, che finisce per destinare risorse ancora maggiori alle squadre più forti. Ovvero quelle che minacciavano di lasciare l’Uefa per lanciare un nuovo campionato.

    Ogni anno, il massimo torneo continentale per club muove oltre 2 miliardi di euro. Un fiume di denaro che secondo le previsioni della stessa Uefa potrebbe crescere fino a 3,2 miliardi entro il 2021. Con il nuovo meccanismo di distribuzione delle risorse, ogni società incassa una somma che dipende per il 25 per cento dai risultati raggiunti nelle precedenti edizioni della Champions League e per un altro 15 per cento dal valore dei diritti tv incassati nel proprio Paese. In precedenza, invece, erano solo i proventi televisivi incassati in patria a determinare per il 40 per cento l’entità delle risorse destinate a ciascun club. La novità finisce per favorire le squadre più ricche, le stesse che negli ultimi anni hanno raggiunto con maggiore frequenza i turni finali della Champions. Inoltre anche i cosiddetti “contributi di solidarietà” pagati dalle società maggiori a quelle più piccole sono stati rivisti in modo da favorire le prime.

    I documenti di Football Leaks
     fanno anche per la prima volta un bilancio della riforma: i club minori, quelli che giocano la Europa League, perdono in totale circa 60 milioni di euro all’anno, mentre quelli che partecipano alla Champions guadagnano 150 milioni in più per stagione. E così, nell’Europa del calcio, aumenta il vantaggio delle squadre maggiori su tutte le altre. Fino a quando la distanza sarà così ampia da sembrare incolmabile e i big del pallone potranno tornare a chiedere di giocare un campionato studiato su misura per i padroni del business.   

    Football Leaks, l'Uefa ha punito il Milan e graziato l'Inter. Che però aveva i conti peggiori

    Dai documenti riservati consultati dall'Espresso e dal consorzio Eic emerge una forte disparità di trattamento tra le due squadre: ai rossoneri fu in un primo momento vietata la partecipazione alle Coppe. Ma i nerazzurri avevano un rosso più profondo.

    C’è un derby segreto giocato sotto la Madonnina. Un derby vinto dall’Inter, come accaduto nella stracittadina di due settimane fa, ma in questo caso non per meriti sportivi. A decretare il successo dei nerazzurri non è stato infatti il fiuto del gol di Mauro Icardi, l’argentino che ha siglato al 92esimo minuto la rete della vittoria interista a San Siro. Il merito - o il demerito, dipende da che maglia si indossa - è stato tutto dell’arbitro. Che in questo caso è la Uefa. Di fronte ai bilanci dei due club milanesi, l’organo che governa il calcio europeo si è comportato in modo non proprio imparziale. Di manica larga con i nerazzurri, di manica molto più stretta con i cugini rossoneri.

    Questo almeno dicono i numeri, quelli contenuti nei documenti di Football Leaks , ottenuti dal settimanale tedesco Der Spiegel e analizzati da L’Espresso insieme agli altri partner che formano il consorzio di giornalismo investigativo Eic. Carte che permettono per la prima volta di conoscere nel dettaglio i parametri sui cui sono state basate le decisioni in tema di fair play finanziario dei due club milanesi.

     

    Partiamo dalla fine. Gli appassionati di calcio ricorderanno l’estate caldissima vissuta dal Milan, quella appena trascorsa. Il club sette volte campione d’Europa escluso dalle coppe europee su decisione della Uefa, poi riammesso grazie a una sentenza del tribunale sportivo di Losanna. Al di là del salvataggio in extremis, ciò che conta è il motivo per cui i rossoneri sono stati puniti così duramente dall’organo di controllo finanziario della Uefa, il Cfcb (Club Financial Control Body). La motivazione principale è stata riportata nei mesi scorsi da vari media: mancato rispetto della regola del pareggio di bilancio. La Uefa aveva infatti contestato alla società italiana di aver accumulato troppe perdite nei tre anni precedenti. I documenti in nostro possesso confermano che il rosso del Milan era ben oltre i limiti, ma aggiungono un dato finora inedito: le perdite dell’Inter erano maggiori di quelle dei cugini. Eppure, il club nerazzurro non ha subito lo stesso trattamento riservato a Donnarumma e compagni. Le regole del fair play finanziario sono piuttosto complicate, ma possiamo riassumerle in alcuni semplici punti. Il principio generale, adottato a partire dal 2013, è quello del pareggio di bilancio. In altre parole, ogni club che partecipa a competizioni europee deve presentare conti senza perdite. La Uefa concede in realtà la possibilità di sforare leggermente. In gergo tecnico viene chiamata «deviazione accettabile». Semplificando, fino alla metà del 2015 ogni squadra poteva accumulare al massimo un deficit di 45 milioni di euro in due anni. Da quel momento in poi il limite è stato abbassato a 30 milioni di euro in tre anni. Per valutare l’imparzialità della Uefa nel giudicare i bilanci di Inter e Milan conta però soprattutto un altro aspetto normativo. Che fare quando un club ha accumulato perdite superiori a quelle fissate dalle regole? Le opzioni sono due. La più punitiva prevede di chiamare in causa la Camera Giudicante, il tribunale interno alla Uefa, che nella peggiore delle ipotesi può arrivare a vietare la partecipazione alle coppe europee. È proprio quello che è successo la scorsa estate al Milan, poi salvatosi facendo ricorso alla Corte Arbitrale dello Sport di Losanna (Tas). L’opzione più morbida si chiama invece “settlement agreement”: un accordo tra le parti, fra la società e la Uefa, per riportare i conti in equilibrio senza traumi, potendo cioè continuare a giocare le coppe e a incassare soldi derivanti dalla partecipazione a queste competizioni. E questa è la strada scelta per l’Inter.

    Ora passiamo ai numeri. La premessa è che non basta leggere i bilanci pubblici dei due club milanesi. La Uefa prende infatti in considerazione solo i ricavi e i costi che definisce «rilevanti». Ciò significa che ai fini del fair play finanziario non vanno considerate come spese, ad esempio, gli investimenti per lo stadio, i costi di sviluppo del settore giovanile e altre uscite non direttamente collegate all’attività di una squadra di calcio.

     

    I documenti di Football Leaks permettono di conoscere le cifre esatte prese in considerazione dalla Uefa per valutare il rispetto del fair play finanziario. Ed ecco i risultati. In 30 mesi, dal giugno 2014 al dicembre 2017, il Milan ha accumulato perdite pari a 145,9 milioni di euro. Sottraendo da questa cifra la deviazione considerata accettabile dalla Uefa per quegli anni, il rosso scende a 120,9 milioni. È questo il numero da tenere a mente. Ora vediamo invece la situazione dell’Inter. Il club nerazzurro è finito sotto il faro della Uefa per le tre stagioni sportive che vanno dal 2012 al 2014. Il deficit accumulato in questi 36 mesi è stato di 210 milioni di euro. Al netto della deviazione considerata accettabile in quegli anni, la perdita è stata di 165 milioni di euro.

    Dunque: 120,9 milioni per il Milan, 165 milioni per l’Inter. Perché allora la Uefa ha scelto di usare le maniere forti con il Milan e non con l’Inter? Perché ha firmato un accordo con i nerazzurri, mentre ai cugini rossoneri è stata negata questa possibilità? Sono gli stessi dubbi che qualche mese fa aveva esternato alla stampa l’allora amministratore delegato del Milan, Marco Fassone. Dubbi che adesso, grazie ai numeri svelati con i documenti di Football Leaks, appaiono ancora più fondati. E mettono in discussione l’imparzialità della Uefa, l’arbitro del derby finanziario giocato sotto la Madonnina.

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    Football Leaks, così la Uefa ha permesso a Manchester City e Psg di truccare i bilanci

    I due club tra i più potenti del mondo violano le regole del fair play finanziario. Ma grazie all’aiuto di Platini e Infantino non sono stati esclusi dalla Champions. Ecco cosa rivelano i documenti esclusivi

    L’inchiesta Football Leaks rivela le manovre che hanno permesso a Psg e Manchester City di ricevere sanzioni lievi per violazioni al fair play finanziario nel 2014. I parigini, tuttavia, sono ancora sotto osservazione. Il potere economico dei club però non dipende solo dalla generosità di emiri e sceicchi.

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    “Negli ultimi cinque anni, PSG e Manchester City hanno investito più di tutti in calciatori. Ma siccome i loro introiti reali non permetterebbero loro tali investimenti, hanno inventato sponsor fittizi, legati agli stati, che pagano cifre non corrispondenti al mercato”. Così parlava il presidente della Liga spagnola Javier Tebas al quotidiano francese L'Equipe l'anno scorso. L'ultima puntata dell'inchiesta Football Leaks portata avanti dal consorzio European Investigative Collaboration di cui fanno parte anche Der Spiegel e L'Espresso, non ne smentisce i timori. Ma, soprattutto, mette in crisi l'idea del fair play finanziario.

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    Il PSG e il nation branding del Qatar
    Nel 2011, quando il fondo Qatari Sports Investments definisce nello studio legale Mayer Brown l'acquisto del Paris Saint-Germain per una cifra complessiva fra gli 80 e i 90 milioni di euro, ha in mente un'operazione di nation branding. Il PSG ne diventa una parte integrante, soprattutto grazie alle sponsorizzazioni: dal 2011 al 2018, sottolinea l'Equipe in uno speciale del 19 ottobre che analizza il valore dei club di Ligue 1, il brand del PSG ha decuplicato il suo valore. Il merchandising è cresciuto da 14,6 a 50 milioni, i ricavi da botteghino da 33,5 a 100, le sponsorizzazioni da 15 a 105, i diritti tv da 45 a 120.

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    Ma la UEFA, in materia di fair play finanziario (FFP), si è concentrata sulla voce “altri ricavi”, che oggi pesa per il 30% degli introiti complessivi e fa riferimento agli accordi con “parti correlate”, ovvero enti e società del Qatar. Determinante l'accordo firmato nel 2011, quinquennale poi rinnovato nel 2016, con la Qatar Tourism Authority che vale 150 milioni di euro a stagione. Un accordo in base al quale i giocatori devono partecipare ad iniziative promozionali per il Qatar che può così migliorare la propria immagine di nazione e aiutare il PSG a raggiungere uno degli obiettivi del Piano Strategico 2012-2017, “diventare uno dei cinque top club d'Europa”. Un accordo che per la UEFA è sopravvalutato.

    PSG e QTA, il fair value ribassato due volte
    Per queste operazioni, ricorda il giornalista Marco Bellinazzo nel suo libro Goal Economy, “il regolamento sul Fair Play finanziario prescrive che siano passate al vaglio del fair value, ovvero che siano comparate con analoghe operazioni realizzate sul mercato tra soggetti indipendenti per capire se il prezzo dell'accordo è corretto oppure se è stato gonfiato”. Dall'inchiesta emerge come un rapporto della società Octagon abbia fissato il fair value a tre milioni. Ma la Uefa ha stabilito che per quel contratto, per quel che riguarda gli adempimenti del fair play finanziario, il PSG avrebbe potuto iscrivere a bilancio 100 milioni. Una cifra a cui si arriva, spiega Bellinazzo, anche attraverso il confronto con i contratti tra Emirates e Arsenal, Manchester United e General Motors, Barcellona e Qatar Airways, che garantisce 25 milioni a stagione fino al 30 giugno 2019: il club ne ha chiesti 80, la compagnia aerea ha già annunciato di non voler rinnovare.

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    L'inchiesta racconta di un incontro riservato con Infantino e Platini, allora presidente dell'Uefa con il figlio che lavora per una società degli sceicchi, precedente alla definizione del fair value da parte dell'Organo di Controllo Finanziario dei Club (CFCB). Il PSG paga una sanzione molto blanda, 20 milioni, e sconta la restrizioni a 21 giocatori della lista Uefa oltre alla limitazione delle spese di mercato per due anni. Il PSG da allora iscrive 100 milioni per l'accordo con QTA e rispetta i limiti del pareggio di bilancio, ovvero l'obbligo di dimostrare un passivo non superiore a una certa soglia, scesa a 5 milioni nel 2018, tra le uscite (senza contare le spese per strutture e settore giovanile) e le entrate relative al settore calcistico. Nell'ultima stagione, il PSG ha passato il vaglio nonostante l'arrivo di Neymar e una ulteriore svalutazione dei contratti di sponsorizzazione con parti correlate, che ha portato a 58 milioni il fair value dell'accordo con QTA e ridotto del 37% l'impatto degli introiti derivanti da Ooredoo, Qatar National Bank e beIN Sports. A settembre, però, l'indagine è stata riaperta.

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    Manchester City, la potenza dello sceicco Mansour
    Il Manchester City si è impegnato nel 2014 a non aumentare l'entità degli accordi con le parti correlate, soprattutto con Etihad, che tra naming rights dello stadio e sponsorizzazione delle maglie garantisce 55-60 milioni di sterline, più di un decimo dei ricavi stagionali dei Citizens.


    Potenza dello sceicco Mansour, che in undici stagioni ha investito solo nell'acquisto di giocatori 1,543 miliardi di sterline, esclusi prestiti e trasferimenti gratuiti. Il valore della rosa, secondo il sito specializzato Transfermark, nell'era Mansour è cresciuto da 222 a 770 milioni di sterline, anche se i costi per gli ingaggi, spiega la BBC, sono lievitati da 54 milioni del 2008-2009 ai 244 del 2016-17. Tuttavia, il rapporto fra i costi per gli ingaggi e i ricavi si attesta nel 2017 al 56%, uno dei migliori in Premier League: un cambio di paradigma radicale rispetto al 114% registrato nel 2011.

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    Nella stagione 2016-2017, scrive l'informatissimo blog The Swiss Ramble, aumentano tutte le fonti di ricavo rispetto all'anno precedente: +7% nel settore commerciale (£232m) +4% nei diritti tv (£212m), +9% dal botteghino (£57m). Salgono di 4 milioni le plusvalenze (£39m) anche se il club non poggia in maniera significativa sul calciomercato per far quadrare i conti. Il presidente Khaldoon Al Mubarak si gode il quarto esercizio con il saldo in attivo e un margine operativo lordo (differenza ricavi/costi al netto delle plusvalenze) a livelli record: un altro indicatore della solidità finanziaria della società che ha superato i 500 milioni di sterline di ricavi, seconda squadra inglese ad arrivare a questa soglia dietro lo United.

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    I ricavi commerciali raggiungono i 232 milioni di sterline (+62% dal 2013), e sono destinati ad aumentare dall'anno prossimo con il passaggio dello sponsor tecnico da Nike a Puma con introiti più che raddoppiati (si parla di un aumento da 20 a 50 milioni di sterline l'anno).

    Il FFP serve?
    L'inchiesta Football Leaks, però, più che la gestione economica del City e del PSG, mette in discussione lo strumento del fair play finanziario. Da un punto di vista economico, scrive Henning Vöpel dell'Hamburgisches WeltWirtschaftsInstitut, “le regole del FFP non sono né adeguate né necessarie. (Gli) elementi centrali del pareggio di bilancio e dei cosiddetti introiti rilevanti possono essere considerati una barriera all'ingresso dei club più piccoli”. Sono le stesse conclusioni di Thomas Peters e Stefan Szymanski, studiosi di equilibrio competitivo con una visione economico-centrica e fortemente liberista, per cui il FFP finisce per rinforzare la posizione dei team dominanti. Il FFP, che è un progetto di lungo periodo, non cancella il rischio di doping finanziario e non migliora l'equilibrio competitivo, obiettivo meglio raggiungibile con un salary cap all'americana.

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    La chiave, sottolinea Holger Preuss, che ha pubblicato con altri due studiosi una ricerca in materia sullo European Journal of Sport Studies, sta nell'efficacia del sistema di sanzioni. “Il FFP non limita le possibilità di doping finanziario, anzi può incentivarle da parte di club con entrate maggiori” scrivono. La Uefa, che ha imposto dall'alto questo sistema di sanzioni a società che guardano più all'obiettivo individuale, “deve garantire trasparenza e sanzioni che siano superiori ai benefici attesi dei comportamenti devianti”. L'inchiesta Football Leaks ha palesato quanto siano state alleggerite, nel timore che l'esclusione di top club potesse ridurre il valore della competizione. È la Champions League, bellezza.

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    Empoli-Inter 0-1: Keita, guizzo da tre punti e appuntamento al 2019.  Nessuna beffa in finale di gara. Questa volta l’Inter torna a casa con il bottino pieno grazie alla rete messa a segno da Keita Balde. Non benissimo i nerazzurri nei primi quarantacinque minuti. Gara avara di emozioni al Castellani che si accende con l’ingresso in campo di Lautaro Martinez. L’argentino porta vivacità in attacco, complice anche la stanchezza che cresce negli uomini di Iachini, e l’Inter passa dopo pochi minuti con la girata di Keita Balde.

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    Inter-Genoa 5-0: show nerazzurro con Gagliardini, Politano, Joao Mario e Nainggolan

    Inter-Genoa 5-0: show nerazzurro con Gagliardini, Politano, Joao Mario e Nainggolan
    Gagliardini esulta dopo il gol del 3 a 0 (ansa)

     

    La squadra di Spalletti allunga a sette la striscia di vittorie consecutive e torna seconda con il Napoli. Tutto facile contro i rossoblù, doppietta dell'ex Atalanta e gol dell'attaccante, del portoghese e del belga. Icardi resta in panchina.

    MILANO - Nessuno ferma l'Inter, nemmeno il Genoa. Davanti a 67mila spettatori arriva la settima vittoria consecutiva per i nerazzurri, un trionfo per 5-0 che è il risultato più abbondante ottenuto fin qui, con tre gol italiani come non accadeva da una vita, e tenendo ancora la porta imbattuta: solo 6 gol incassati in 11 gare. Pratica risolta subito, già dopo 16', poi il resto è gestione attenta, quasi risparmio di energie in vista della sfida di Champions contro il Barcellona, martedì ancora a San Siro.

    Per via dell'impegno europeo alle porte, Spalletti ne cambia cinque rispetto alla vittoria di Roma, va in panchina anche Maurito Icardi e lascia spazio a Lautaro Martinez. Il ventenne argentino va subito vicino al gol dopo 77", su invito di Politano da destra, ma il sinistro da pochi passi finisce a lato, poi Lautaro vivrà una gara in salita, spesso anticipato dal coetaneo Romero, argentino come lui. Non c'è partita fin dall'inizio, nel senso che il Genoa è anche ben disposto ad attaccare a viso aperto e a non trincerarsi dietro, nonostante l'assenza del capocannoniere Piatek (sostituito dal 35enne Pandev, gloria nerazzurra del Triplete) ma l'Inter sa chiudersi benissimo e riparte facendo sempre male, come con la combinazione Joao Mario-Perisic al 4', e destro dal limite impreciso.

    Inter-Genoa 5-0: show nerazzurro con Gagliardini, Politano, Joao Mario e Nainggolan

    L'esultanza di Politano

    Il Genoa ha uno sprazzo con Lazovic, che salta D'Ambrosio sulla linea di fondo e crossa con pericolosità, ma fuori. Così arrivano i due minuti con cui l'Inter sistema il primo tempo. Al 14' tutto parte da un pallone recuperato in pressing da Joao Mario, l'Inter è subito in area mentre la difesa del Genoa rientra precipitosamente, ancora pallone tra i piedi di Joao Mario, che sta per servire Gagliardini, sulla traiettoria c'è il tocco di Biraschi e a quel punto Gagliardini stanga in rete, anche se in posizione di fuorigioco, ma dato che l'ultimo tocco è stato genoano, l'arbitro Valeri dopo consulto col Var convalida il gol. Poco dopo ancora Joao Mario protagonista, con il lancio verticale e centrale per il taglio di Politano, su cui Lazovic liscia addirittura l'intervento spalancando all'ala la strada della porta: il sinistro rasoterra non lascia scampo a Radu, è 2-0 al 16'. La miglior difesa del campionato, solo 6 gol incassati nelle prime 10 partite, riesce poi a contenere i tentativi di reazione del Genoa senza affanni, anzi chiude con un altro contropiede fulmineo, ispirato da Brozovic e concluso da un altro taglio centrale di Politano, sul cui sinistro in corsa stavolta Radu vigila (35').

    Inter-Genoa 5-0: show nerazzurro con Gagliardini, Politano, Joao Mario e Nainggolan

    Il gol di Joao Mario

    La ripresa inizia come era finito il primo tempo, cioè con l'Inter padrona dei suoi destini e ancora in gol al 4', stavolta da azione di rimessa laterale in attacco: Gagliardini prolunga di testa per Perisic, sul tiro del croato Radu riesce a evitare il gol sulla linea, ma ancora Gagliardini ribadisce in rete da pochi passi per il 3-0, ed è la sua prima doppietta in carriera. Solo ora Juric inserisce Piatek per il buon vecchio Pandev, che non ha visto palla. Troppo tardi, ovviamente. L'Inter può rallegrarsi e rilassarsi, pensando al Barcellona e controllando la gara a piacimento, mentre Spalletti concede minuti di riposo a Politano e Perisic, e nel finale si rivede anche . Il Genoa non si avvicinerà mai con pericolosità a Handanovic, nemmeno per sbaglio, e i quasi settantamila di San Siro arriveranno al 90' tra canti e balli, poi un attimo dopo l'inizio del recupero arriva il meritatissimo gol di Joao Mario, tra i migliori in campo, con un sinistro radente dal limite, e al 48' persino l'inzuccata di Nainggolan, sul secondo assist di giornata di Joao Mario. L'unico insoddisfatto sarà Lautaro Martinez, che sperava di mettersi di più in mostra invece non ha mai visto la porta.

     

    Inter-Genoa 5-0 (2-0)
    Inter (4-3-3): Handanovic, D'Ambrosio, De Vrij, Skriniar, Dalbert, Gagliardini, Brozovic (42' st Nainggolan), Joao Mario, Politano (13'st Keita), Lautaro Martinez, Perisic (31' st Borja Valero). (27 Padelli, 2 Vrsaljko, 8 Vecino, 9 Icardi, 13 Ranocchia, 18 Asamoah, 23 Miranda, 87 Candreva). All.: Spalletti 8.
    Genoa (3-5-2): Radu, Biraschi, Romero, Gunter, Pereira, Romulo (35'st Omeonga), Sandro (13' st Veloso), Bessa, Lazovic, Pandev (5' st Piatek), Kouame. (23 Russo, 25 Vodisek, 5 Lopez, 10 Lapadula, 15 Mazzitelli, 33 Lakicevic, 45 Medeiros, 87 Zukanovic, 88 Hiljemark). All.: Juric.
    Arbitro: Valeri di Roma.
    Reti: nel pt 14' Gagliardini, 16' Politano; nel st al 4' Gagliardini, al 46' Joao Mario, al 49' st Nainggolan.
    Angoli: 11-5.
    Recupero: 3' e 3'.
    Ammoniti: D'Ambrosio, Gunter, Lautaro Martinez, Veloso per gioco falloso, Sandro per comportamento non regolamentare.
    Var: 1.
    Spettatori: 67.532.

     

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    Inter-Milan 1-0: Icardi, urlo al 92'

    Inter-Milan 1-0: Icardi, urlo al 92'
    Il guizzo di Icardi al 92' (afp)

     

    Una rete in pieno recupero dell'argentino permette ai nerazzurri di vincere il derby di Milano e confermare il terzo posto alle spalle della Juventus e del Napoli.

    MILANO - Come un anno fa. Il Milan si arrende a Icardi in pieno recupero, finisce 1-0 per l'Inter l'attesissimo derby di Milano. Finisce come era finita l'ultima stracittadina di Montella, con l'argentino che quella sera era stato protagonista assoluto con una tripletta, con la rete decisiva segnata su rigore oltre il 90′. Questa volta basta un gol, al 92′, una stoccata quando sembrava che entrambe le squadre fossero appagate dal pareggio. Il Milan invece si arrende, ancora, come 12 mesi fa, dopo aver giocato quasi tutta la partita sulla difensiva, facendosi vedere dalle parti di Handanovic solo sulle ripartenze.


    DERBY NERAZZURRO - E' probabilmente il risultato più giusto, sia per le occasioni avute dalla squadra di Spalletti, sia per la qualità del gioco e la quantità di passaggi sviluppati nella metà campo avversaria. Dopo due confronti non fortunati (una sconfitta e un pareggio), l'ex tecnico della Roma si prende una bella rivincita su Rino Gattuso, ancora una volta arrabbiato con le sue punte. Icardi vince nettamente il confronto con Higuain, Politano surclassa per prestazione quella di Calhanoglu e Suso ha dovuto più volte concentrarsi più sulla fase difensiva che su quella che preferisce di più. Romagnoli, impeccabile per tutta la partita, ha avuto l'unica pecca di "consegnare" Icardi a Musacchio nell'ultima azione nerazzurra e la decisione è stata pagata a caro prezzo. Il capitano rossonero era riuscito ad annullare fino a quel momento la formidabile punta argentina, poi un'incertezza in uscita di Donnarumma sul cross laterale di Vecino ha fatto il resto.CONFERMA INTER, INCERTEZZA MILAN - La vittoria conferma le ambizioni interiste in campionato. Icardi e compagni risalgono al terzo posto alle spalle del Napoli e guadagnano due punti sulla Juventus, portandosi a -6 dai bianconeri con lo scontro diretto ancora da giocare. Si tratta della quinta vittoria di fila in campionato, la settima contando le due di Champions. Il Milan, invece, scivola nella parte destra della classifica e si ritrova con l'autostima ai minimi storici da quando Gattuso è al timone. Doveva essere la partita del rilancio per la squadra rossonera dopo le due vittorie di fila prima della sosta, invece, non solo è arrivata la sconfitta, ma anche sul piano del gioco Romagnoli e compagni non sono stati all'altezza dei cugini.

    DUE GOL ANNULLATI E UNA TRAVERSA - Il primo tempo è vibrante a San Siro dove, dopo il buon avvio del Milan (conclusioni dal limite di Suso e Calhanoglu, entrambe sul fondo), l'Inter esce fuori e lo fa in maniera prepotente andando in vantaggio con Icardi (12′), ma Guida annulla per fuorigioco (decisione confermata dal Var). Sono momenti di sbandamento in casa rossonera e Romagnoli rischia l'autogol su un traversone dalla destra di Politano. Dal corner seguente l'ex Sassuolo prova a sorprendere Donnarumma direttamente dalla bandierina, ma il portiere rossonero è attento. La gara si innervosisce dopo un duro intervento di Biglia su Nainggolan a centrocampo. Si fanno male entrambi, ma è il belga a lasciare il campo per Borja Valero. Al 22′ grande parata di Donnarumma su un bel colpo di testa di Perisic da dentro l'area. Il Milan arranca, De Vrij colpisce la traversa dopo una sponda in area di Perisic, poi è Romagnoli poco dopo a salvare i rossoneri respingendo una conclusione destinata in rete da parte di Icardi. Al 42′ si rivede il diavolo che va in gol con Musacchio sugli sviluppi di un corner, ma Guida annulla anche in questo caso per fuorigioco.

    ICARDI ALL'ULTIMO RESPIRO - Nella ripresa la musica non cambia. L'Inter prova a fare la partita, il Milan cerca le ripartenze veloci. I rossoneri, però, reggono bene in difesa e si chiudono a riccio di fronte alla porta difesa da Donnarumma. E' la squadra di Spalletti a creare le occasioni migliori nonostante l'estremo milanista sia meno occupato del primo tempo. Al quarto d'ora Biglia rischia l'autogol con un retropassaggio errato per il proprio portiere, ma il numero uno della nazionale azzurra riesce a rimediare con i piedi a pochi centimetri dalla linea di porta. Alla mezz'ora Gattuso prova a mettere in campo la grinta e l'energia di Cutrone, ma questa volta, il giustiziere dell'ultimo derby di coppa Italia, non riesce a incidere pagando la giornata opaca della sua squadra. Qualche minuto più tardi Handanovic salva su un cross errato di Rodriguez da sinistra. Al 36′ Icardi fa le prove per il gol: traversone dalla sinistra del neo-entrato Keita e colpo di testa sul quale Donnarumma blocca in due tempi. Al 92′, quando ormai il Milan sembrava sicuro di aver portato a casa almeno un punticino, Vecino crossa dalla destra per il capitano nerazzurro che di testa questa volta non sbaglia facendo esplodere San Siro all'ultimo respiro, esattamente come un anno fa.

    INTER-MILAN 1-0 (0-0)
    INTER (4-2-3-1): Handanovic; Vrsaljko, De Vrij, Skriniar, Asamoah; Vecino, Brozovic; Politano (dal 38′ s.t. Candreva), Nainggolan (dal 30′ p.t. Borja Valero), Perisic (dal 25′ s.t. Keita); Icardi. (Padelli, Miranda, Ranocchia, D'Ambrosio, Dalbert, Gagliardini, Joao Mario, L. Martinez). All. Spalletti
    MILAN (4-3-3): G. Donnarumma; Calabria (dal 47′ s.t. Abate), Musacchio, Romagnoli, Rodriguez; Kessie (dal 39′ s.t. Bakayoko), Biglia, Bonaventura; Suso, Higuain, Calhanoglu (dal 29′ s.t. Cutrone). (Reina, A. Donnarumma, Caldara, Zapata, Laxalt, Mauri, Bertolacci, Castillejo, Borini). All. Gattuso
    ARBITRO: Guida di Torre Annunziata
    MARCATORE: Icardi al 47′ s.t.
    NOTE: ammoniti Biglia, Calhanoglu, Calabria, Suso, Politano, Bakayoko

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    Juventus-Genoa 1-1: stavolta Ronaldo non basta, Bessa firma l'impresa

    Juventus-Genoa 1-1: stavolta Ronaldo non basta, Bessa firma l'impresa
    Il gol del pari di Bessa (ap)

     

    Dopo 8 vittorie consecutive si ferma la striscia bianconera. Segna il portoghese, poi il pari ligure nella ripresa su disattenzione generale della difesa di Allegri. La Juventus si è fermata a otto, inciampando sul Genoa e prima ancora, o soprattutto, su se stessa, perché si è fatta prigioniera di una partita superficiale, come le è già successo in passato quando le è capitato di giocare al ritorno di una pausa del campionato e nell'imminenza di una partita di Champions di quelle che assorbono i pensieri, tipo quella di martedì con il Manchester United. Il fatto che la gara con i rossoblù si fosse messa in discesa dopo il gol al 18' di Ronaldo non ha aiutato: tutto è sembrato semplicissimo come al solito e forse lo era, perché per lungo tempo non c'è stato confronto. Ma progressivamente la Juve ha creduto troppo alla banalità dell'ennesima vittoria senza fatica, e prima ha alzato il piede dall'acceleratore e poi ha commesso gli errori che il Genoa ha punito.

    L'1-1 è stato tutto un programma: Bonucci ha anticipato Piatek mandando la palla verso il calcio d'angolo, ma mentre tutti i bianconeri (e in particolare Benatia, il più vicino all'azione) si sono fermati a guardarla rotolare in direzione della linea di fondo, Kouamé è andato a prendersela prima che uscisse, l'ha crossata alla svelta e gli imbambolati Bonucci e Cancelo, presi semmai a tenere d'occhio Piatek, si sono fatti infinocchiare dall'inserimento di Bessa, che ha colpito di testa a botta sicura.All'inizio, s'è detto, sembrava una passeggiata. Ronaldo ha cominciato a martellare il Genoa da ogni parte, ha colpito un palo di testa al 14' e nel solo primo tempo ha concluso a rete ben sette volte (ma nella ripresa, quando si eclisserà, una soltanto), però il Genoa ha saputo in qualche modo resistergli, benché perso in una partita puramente difensiva, quasi innocua. La rete è stata provocata da un tiro sbagliato di Cancelo che dopo un paio di rimpalli è arrivato nella zona di CR7, appostato nell'area piccola e curiosamente tenuto un gioco da Piatek, che nella circostanza ha dimostrato che il difensore proprio non sa farlo. Anche Radu, comunque, ci ha messo del suo con un'uscita sfarfallante. Per Ronaldo è stato il 400 gol in campionato tra Premier, Liga e serie A: è il primo giocatore ad aver tagliato questo traguardo, considerando le cinque leghe principali (quindi anche Germania e Francia).

    La spina staccata - La Juve ha gestito il vantaggio, confortato dal fatto che il Genoa, spesso in crisi nel difendersi nella propria area (il debuttante argentino Romero, vent'anni, è stato un disastro nel primo tempo ma un drago nel secondo) e incapace di tenere botta a centrocampo, sembrava del tutto inoffensivo. Così ha progressivamente allentato i ritmi, avvinghiandosi a un possesso palla del tutto sterile, il classico titic-titoc per far passare il tempo ma sottovalutando la verve di Koumé, formidabile in campo aperto, e di Piatek, controllato a vista come raramente i difensori juventini fanno, segno di grande considerazione, e pericoloso nell'unica occasione in cui ha avuto l'opportunità di esserlo: al 7' st, il suo destro dal limite e stato deviato con fatica dal connazionale Szczesny.

    Reazione confusa - Il pareggio ha preso alla sprovvista la Juve, che ha reagito con veemenza ma scarsa lucidità, ammucchiandosi in un'area che non ha saputo violare. Cristiano è sparito, mentre gli innesti di Dybala e soprattutto di Douglas Costa sono stati persino dannosi. Radu non ha dovuto fare miracoli e l'ultimo attacco della gara l'ha addirittura condotto il Genoa, che ha regalato a Juric un esordio esaltante e un risultato in qualche modo storico.
     

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    Inter-Fiorentina 2-1: i nerazzurri soffrono, D'Ambrosio gli regala tre punti d'oro

    Inter-Fiorentina 2-1: i nerazzurri soffrono, D'Ambrosio gli regala tre punti d'oro
    Festa Inter dopo la rete di D'Ambrosio (reuters)

     

    La squadra di Spalletti conquista il terzo successo consecutivo tra Champions e campionato. Icardi apre su rigore nel primo tempo, Chiesa pareggia nella ripresa ma nel momento migliore dei viola il difensore trova il gol decisivo. MILANO -  L'Inter cavalca l'onda dei successi contro Tottenham e Sampdoria, batte anche un'ottima Fiorentina e prosegue la sua risalita in classifica. I nerazzurri si impongono di misura (2-1) sui viola segnando il gol decisivo proprio nel momento migliore degli uomini di Pioli, che sembravano in grado di poter tornare a casa con l'intera posta in palio. Ed è proprio per la qualità mostrata da una Fiorentina spensierata e mai doma che la terza vittoria consecutiva dei nerazzurri risulta davvero pesante. I gigliati mettono in campo tutta la freschezza tipica di una squadra dall'età media bassissima: un pregio che si rivela anche un limite, visto che il 2-1 di D'Ambrosio nasce da un'evitabile leggerezza della difesa gigliata.
     
    TORNANO TITOLARI DE VRIJ E PERISIC - Tra i nerazzurri tornano titolari De Vrij e Perisic, mentre Candreva e Nainggolan vengono preferiti rispettivamente a Keita e Borja Valero. Pioli apporta solo due modifiche all'undici schierato contro la Spal: Edimilson prende il posto di Gerson a centrocampo e Mirallas vince il ballottaggio con Pjaca per completare il tridente offensivo.

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    Sampdoria-Inter 0-1: Brozovic all'ultimo respiro stende i blucerchiati

    Sampdoria-Inter 0-1: Brozovic all'ultimo respiro stende i blucerchiati
    (ansa)

     

    Gara intensa ed emozionante soprattutto nel finale. Nel primo tempo gol annullato a Nainggolan dopo un check Var. La stessa cosa accade per Asamoah nella ripresa mentre Defrel segna in netto offside. In pieno recupero la rete decisiva del croato. Espulso Spalletti. Dopo il successo in rimonta contro il Tottenham in Champions, l'Inter dà continuità ai propri risultati sbancando Marassi in pieno recupero grazie a Brozovic. 1-0 alla Sampdoria al terzo tentativo. Sì, perché i nerazzurri in precedenza avevano segnato anche con Nainggolan e Asamoah, ma il Var aveva annullato. Gol anche per Defrel, ma in questo caso il netto offside era stato rilevato dal guardalinee.

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    Inter-Tottenham 2-1: magia di Icardi, poi Vecino al 92', festa nerazzurra

    Inter-Tottenham 2-1: magia di Icardi, poi Vecino al 92', festa nerazzurra
    L'esultanza di Vecino dopo il gol al 92' (ansa)

     

    Sfida al cardiopalma a San Siro, dove dopo un primo tempo equilibrato gli inglesi passano in vantaggio in avvio di ripresa. In un finale rovente, però, il capitano e l'uruguaiano regalano un'esaltante vittoria ai nerazzurri.

     

    Gooooooool del Inter!!! Matías Vecino le da la vuelta al marcador al 92' !!! 2-1  Dal 20 maggio al 18 settembre, dall'Olimpico di Roma a San Siro: è ancora Vecino l'uomo che fa sognare ed esplodere di gioia i tifosi dell'Inter. Porta la firma dell'uruguaiano la vittoria in rimonta per 2-1 sul Tottenham, con la quale gli uomini di Spalletti festeggiano il loro ritorno in Champions dopo oltre sei anni di assenza. E l'affermazione sugli Spurs è la quintessenza del dna nerazzurro, un condensato di sofferenza, orgoglio ed esaltazione. La pazza Inter colpisce ancora, alla sua maniera, e conquista un successo che potrebbe davvero dare una scossa significativa a una stagione iniziata male.
     
    Icardi e compagni giocano alla pari con il Tottenham fino allo sfortunato e rocambolesco svantaggio di avvio ripresa. Dopo la rete subita, l'Inter traballa, si disunisce e soffre terribilmente gli affondi in campo aperto di un imprendibile Lucas Moura. Handanovic li tiene a galla con le sue parate e i nerazzurri hanno il merito di non mollare. Alla prima palla davvero buona Icardi si inventa un gol da cinetica: è la scintilla che accende la gara. San Siro, gremito di un pubblico straordinario che dimostra cosa significhi non lasciare mai sola la propria squadra, spinge i ragazzi di Spalletti a gettare il cuore oltre l'ostacolo e in pieno recupero si materializza una vittoria che che fino a pochi minuti prima sembrava impensabile.
     
    SKRINIAR TERZINO DESTRO - Costretto a rinunciare a Vrsaljko e con D'Ambrosio non al meglio, Spalletti opta comunque per la difesa a quattro e adatta Skriniar nel ruolo di terzino destro. Alle spalle di Icardi spazio al trio Politano-Nainggolan-Perisic. In casa Spurs pesano le assenze di Lloris, Sissoko e soprattutto Alli, ma il potenziale offensivo a disposizione di Pochettino - che schiera Lamela, Eriksen e Son a supporto di Kane - resta impressionante.
     
    INTER BEN MESSA IN CAMPO - La tensione è subito palpabile ed entrambe le squadre riversano sul terreno di gioco tanta intensità. In avvio un'Inter un po' contratta lascia l'iniziativa al Tottenham, senza però rinunciare a pressare sui portatori di palla degli Spurs. Gli uomini di Spalletti occupano bene gli spazi e con il passare dei minuti dimostrano maggiore scioltezza. Il Tottenham fatica ad arrivare nella trequarti avversaria e sono i padroni di casa ad esercitare maggiore pressione. Il ritmo c'è, ma le occasioni da rete latitano fino al 25'.
     
    BRIVIDO KANE - La prima a rendersi davvero pericolosa è l'Inter con un traversone di Perisic deviato in tuffo da Sanchez verso la propria porta: a scongiurare l'autogol ci pensa l'attento Vorm. Quasi dieci minuti dopo gli uomini di Spalletti ci riprovano, grazie alla pressione vincente di Nainggolan su Vertonghen: al Ninja, bravo a recuperare palla all'altezza della linea di fondo, manca la giusta lucidità per servire Icardi a centro area. Dopo buoni sprazzi a tinte nerazzurre, la migliore chance di tutto il primo tempo la costruisce il Tottenham al 37', quando Eriksen smarca Kane con un assist delizioso. Il bomber inglese aggira Handanovic, ma si allunga la palla e non trova spazio per il tiro.
     
    ROCAMBOLESCO VANTAGGIO DEGLI SPURS - A spaccare la partita è il vantaggio inglese. Al 54' Eriksen conclude dal limite, Handanovic respinge ma dal flipper che si innesca scaturisce una strana conclusione ancora del danese che, deviata da Miranda, beffa il portiere sloveno. L'Inter accusa il colpo, fatica a reagire e sbaglia troppo negli ultimi venti metri, prestando il fianco alle brucianti ripartenze di Lucas che affonda nella difesa meneghina come una lama nel burro. Il Tottenham, però, non riesce a chiudere i conti, fermato dalle prodezze di Handanovic su Lamela, e l'Inter dà fondo a tutte le sue risorse psicofisiche per gli ultimi assalti.
     
    RIBALTONE NERAZZURRO - All'86' un break di Vecino libera Asamoah al cross dalla sinistra: Icardi si coordina come solo un campione sa fare e, al volo da fuori area, infila la palla dove Vorm non può arrivare. San Siro è una bolgia, l'Inter si esalta e mette all'angolo gli Spurs. In pieno recupero, sugli sviluppi di un corner, sbucano la testa di De Vrij a fare da sponda e quella di Vecino a correggere in rete sotto porta. Il cielo sopra il Meazza si tinge di nerazzurro e il ritorno in Champions ha un sapore dolcissimo per i tifosi dell'Inter.
     
    INTER-TOTTENHAM 2-1 (0-0)
    INTER (4-2-3-1): Handanovic; Skriniar, De Vrij, Miranda, Asamoah; Vecino, Brozovic; Politano (27' st Keita Balde), Nainggolan (44' st Borja Valero), Perisic (19' st Candreva), Icardi. In panchina: Padelli, Berni, Ranocchia, D'Ambrosio.  All. Spalletti.
    TOTTENHAM (4-2-3-1): Vorm; Aurier, Sanchez, Vertonghen, Davies; Dier, Dembele; Lamela (27' st Winks), Eriksen, Son (19' st Lucas); Kane (44' st Rose). In panchina: Gazzaniga, Walker-Peters, Wanyama, Llorente.  All. Pochettino.
    ARBITRO: Turpin (Fra).
    RETI: 8′ st Eriksen, 41′ st Icardi, 47′ st Vecino.
    NOTE - Serata serena, terreno in ottime condizioni. Ammoniti: Skriniar, Perisic, Sanchez, Vertonghen e Vorm. Angoli: 6-4. Recupero: 0′; 5′.

    Lazio-Inter 2-3: Vecino chiude la rimonta nel finale, nerazzurri in Champions

    Lazio-Inter 2-3: Vecino chiude la rimonta nel finale, nerazzurri in Champions
    Matias Vecino esulta dopo il gol del 2-3 (ansa)

     

    Una rete dell'uruguaiano permette agli uomini di Spalletti di sbancare l'Olimpico e conquistare il quarto posto in virtù dello scontro diretto. I biancocelesti, due volte avanti con Marusic e Felipe Anderson, si fanno riprendere prima da D'Ambrosio, poi da Icardi. Espulso Lulic

     Impresa dell’Inter, che torna in Champions League dopo aver inseguito per 70′ la Lazio. All'Olimpico i nerazzurri battono in rimonta (3-2) i romani nell’ultima giornata di campionato e conquistano il quarto posto (stessi punti degli uomini di Inzaghi) grazie allo scontro diretto di questa sera dopo lo 0-0 del Meazza. Si decide tutto in un finale incandescente con la Lazio che sembrava ormai prossima a festeggiare l’accesso all’Europa che conta e i nerazzurri a mangiarsi le mani per i tanti passi falsi commessi durante la stagione. Poi la follia di De Vrij in area che manda Icardi dal dischetto, il rosso di Lulic per somma di ammonizione e il sorpasso targato Vecino. Il tutto in 4′.

    RAMMARICO LAZIO, CUORE INTER – Follia allo stato puro all’Olimpico al termine di un match spettacolare e giocato alla grande da entrambe le squadre. Icardi raggiunge uno deluso Ciro Immobile (recuperato in tempo record) in testa alla classifica dei capocannonieri con 29 reti, Spalletti vince la sfida generazionale con Inzaghi e le lacrime dei laziali a fine gara sono ampiamente giustificate. Resta il rammarico per Lulic e compagni di aver sprecato il match point di sette giorni fa a Crotone ed essere arrivati a questa partita con ancora tutto in bilico. All’Inter, invece, va il merito di averci creduto dopo aver rischiato più volte di perdere il treno che portava in Champions. Un treno che vale ben 40 milioni di euro. Soldi che potranno essere investiti nel mercato estivo e che, in caso di superamento della fase a gironi, aumenterebbero ulteriormente.

    SHOW ALL’OLIMPICO – Primo tempo pirotecnico all’Olimpico con Lazio e Inter che giocano a ritmi elevatissimi e senza soste. Bene i nerazzurri nei primissimi minuti di gioco, ma col passare del tempo i biancocelesti alzano il proprio baricentro e spingono gli avversari nella loro metà campo. Il vantaggio arriva al 9′ con Marusic che dal limite sfrutta al meglio la sponda di un possente Milinkovic-Savic (un attimo prima era andato lui vicino al gol trovando l’ottima risposta di Handanovic) e infila il numero uno nerazzurro grazie alla decisiva deviazione col viso di Perisic. L’Inter potrebbe pareggiare poco dopo quando Cancelo ruba palla nella trequarti e lancia Icardi a tu per tu con Strakosha, ma il capitano nerazzurro manda clamorosamente sul fondo. Dall’altra parte un indiavolato Milinkovic-Savic colpisce in pieno il palo su punizione dal limite e l’Inter, dopo aver ringraziato il legno, raggiunge la parità sfruttando al meglio un calcio d’angolo: D’Ambrosio si avventa su un pallone calciato da Brozovic sul secondo palo e chiama alla grande parata Strakosha, sulla ribattuta l’esterno interista infila in acrobazia. Nel finale grande contropiede dei padroni di casa innescato al limite della propria area da Felipe Anderson che serve Lulic e insieme si fanno 50 metri prima che il serbo verticalizzi per il brasiliano che dal limite buca Handanovic per la seconda volta con un diagonale rasoterra.TUTTO IN 4′ – Nella ripresa i ritmi sono leggermente più bassi e l’Inter col passare dei minuti guadagna metri e campo costringendo la Lazio a lanciare spesso in avanti. Al 27′ Rocchi assegna un calcio di rigore all’Inter per fallo di mano di Milinkovic-Savic in area per poi tornare sui suoi passi dopo aver consultato il Var. E’ il campanello d’allarme in casa Lazio che nessuno coglie. Al 32′ De Vrij atterra platealmente Icardi in area, questa volta non c’è nemmeno bisogno di guardarlo lo schermo e Rocchi assegna un secondo penalty che l’argentino trasforma: è 2-2 al 33′. Pochi secondi dopo (34′), Lulic, già ammonito, stende Brozovic nella metà campo dell’Inter e il fischietto di Firenze non può far altro che estrarre il secondo giallo. La Lazio è in affanno, oltre che in dieci, Felipe Anderson manda in angolo una respinta corta di Strakosha. Dalla bandierina Brozovic calcia teso sul primo palo dove Vecino (36′) salta più in alto di tutti e infila nel palo più lontano. Delirio Inter: 2-3 in 3′. Inutile e confuso l’assalto finale dei padroni di casa che al triplice fischio di Rocchi sprofondano in Europa League.

    LAZIO – INTER 2-3 (2-1)
    LAZIO (3-5-2): Strakosha; Luiz Filipe, De Vrij (39’st Nani), Radu (31’st Bastos); Marusic, Murgia, Lucas Leiva, Milinkovic-Savic, Lulic; Felipe Anderson, Immobile (30’st Lukaku). A disp: Guerrieri, Vargic, Patric, Lukaku, Basta, Wallace, Caicedo, Caceres, Di Gennaro. All.Inzaghi.
    INTER (4-2-3-1): Handanovic; Cancelo, Skriniar, Miranda, D’Ambrosio (Ranocchia al 36′ s.t.); Vecino, Brozovic; Candreva (Eder al 16’st), Rafinha (Karamoh al 23’st), Perisic; Icardi. A disp.: Padelli, Berni, Lisandro, Gagliardini, Ranocchia, Borja Valero, Santon, Dalbert, Pinamonti. All. Spalletti.
    MARCATORI: 9′ pt Marusic. 29’pt D’Ambrosio, 41’pt Felipe Anderson, 33’st rig. Icardi, 36’st Vecino.
    ARBITRO: Rocchi.
    NOTE: espulsi Lulic (L) per doppia ammonizione al 79′ e Patric (L) dalla panchina per proteste. Ammoniti Brozovic (I), Miranda (I), Luis Felipe (L), Lucas Leiva (L), D’Ambrosio (I), Strakosha (L), Vecino (I).

    Walter Zenga e l’orgoglio del suo Crotone: come ti rianimo l’Inter sull’orlo di una crisi di nervi dopo l’harakiri col Sassuolo

    Walter Zenga e l’orgoglio del suo Crotone: come ti rianimo l’Inter sull’orlo di una crisi di nervi dopo l’harakiri col Sassuolo

    FATTO FOOTBALL CLUB - I calabresi, la cui salvezza è appesa a un filo, fermano la Lazio allo Scida e regalano una speranza a Spalletti e al popolo nerazzurro, sempre alle prese con la loro personale legge di Murphy: se c'è una partita decisiva da vincere, la Beneamata la perderà

    Solo un vero interista poteva salvare questa Inter. E Walter Zengaincarna come pochi quei colori nerazzurri che ha indossato a lungo, al punto da vivere il suo personale “5 maggio” proprio mentre ne evitava un altro alla sua squadra del cuore. L’Uomo Ragno ha regalato all’Inter lo spareggio per la Champions League, costringendo al pareggio la Lazio col suo piccolo Crotone. Ma così rischia di diventare l’agnello sacrificale di questa incredibile lotta per non retrocedere, in cui tutto (classifica, scontri diretti, persino la differenza reti) pare condannare i calabresi, che dovranno fare punti a Napoli e sperare in un passo falso delle concorrenti.

    Zenga ha sempre sognato di sedere sulla panchina di San Siro, e chissà che con la partita di domenica non riesca ad entrare anche da allenatore nella storia nerazzurra, a suo modo. Senza di lui, infatti, la stagione dell’Inter di Spalletti sarebbe già finita con l’ennesimo fallimento, ancor più clamoroso di quello degli scorsi anni in cui non c’era nulla da dire o da sperare. Invece quest’anno l’Inter si gioca la Champions, fondamentale per dare un senso al campionato e a tutto il progetto di Spalletti e Suning. Doveva battere in casa il Sassuolo già matematicamente salvo per arrivare allo “spareggio”, magari in goleada per garantirsi due risultati su tre all’Olimpico. Ma state tranquilli che se c’è una partita decisiva da vincere, l’Inter la perderà: è praticamente la legge di Murphyapplicata al pallone. Ed è successo anche sabato sera, davanti a 70mila spettatori arrivati a San Siro come per una finale di Champions: lacrime in campo e sgomento sugli spalti, il tragico destino nerazzurro che ciclicamente si rimaterializza in sconfitteepiche e indimenticabili.

     
     

     

    Solo che stavolta è arrivato Zenga, a fermare la Lazio e a ridare una seconda occasione (che quest’anno in realtà sarà forse la terza, o anche la quarta: tutte sprecate in precedenza) alla banda di Spalletti. L’ha fatto solo per il suo Crotone e per se stesso, da professionista serio, allenatore forse modesto ma che continua a crederci, a lottare da anni ogni settimana per conquistarsi il diritto a una panchina in Serie A che ad altri è stato concesso a cuor leggero. Non a lui, che ha dovuto fare una lunghissima gavetta in Romania e campionati minori, prima di avere una chance a Catania, ha sbagliato davvero solo a Palermo (con la Samp non l’hanno neanche fatto provare) e dopo altri anni di ostracismo ora si gioca tutto il suo futuro in Calabria. Ha lavorato bene, fatto intravedere anche bel calcio con una rosa limitata, ma rischia di retrocedere (anche per un paio di torti arbitrali clamorosi subiti nel corso della stagione) e di mettere forse una croce sulla sua carriera.

    Per questo quella con la Lazio era davvero la partita della vita per lui e per il suo Crotone, che è arrivato a un passo dall’impresa e poi si è dovuto accontentare di un pareggio buono solo per i sogni degli altri. Ma forse è più romantico pensare che prima, durante e dopo i novanta minuti Zenga abbia pensato almeno per un secondo alla sua Inter, di cui conosce a memoria gioie e dolori, successi e soprattutto fallimenti. Il 2-2 non è servito a nulla al suo Crotone e magari non servirà neppure all’Inter: se domenica sera non vincerà all’Olimpico non andrà in Champions, probabilmente neanche se lo merita a differenza della Lazio che ha fatto una grande stagione e non ha raccolto il dovuto. Ma salvate l’Uomo Ragno. O se almeno Suning l’anno prossimo gli dia la panchina nerazzurra che ha sempre sognato. Chi la merita più di lui?

    Milan-Benevento 0-1: Iemmello firma la prima vittoria esterna dei sanniti

    Milan-Benevento 0-1: Iemmello firma la prima vittoria esterna dei sanniti
    La festa del Benevento al Meazza (ap)

     

    La squadra di De Zerbi ottiene una storica affermazione a San Siro, grazie alla rete messa a segno nel primo tempo dall'attaccante. I rossoneri frenano nella corsa all'Europa: la serie di gare senza successi sale a sei consecutive

     

     

     

    Napoli-Atalanta 1-2: impresa dei nerazzurri, è semifinale

    Napoli-Atalanta 1-2: impresa dei nerazzurri, è semifinale
    Castagne sblocca il risultato (ansa)

     

    Successo bergamasco meritato che matura nel secondo tempo grazie ai gol di Castagne e del Papu Gomez. Inutile e tardiva la rete nel finale di Mertens. Adesso gli orobici affronteranno la vincente del derby Juventus-Torino

     

     

    Verona-Milan 3-0, i rossoneri affondano al Bentegodi

    Verona-Milan 3-0, i rossoneri affondano al Bentegodi
    L'esultanza di Kean e Bessa dopo il gol del 2 a 0 (ansa)

     

    Dopo una buona partenza la squadra di Gattuso crolla: a segno Caracciolo, Kean e Bessa, espulso nel finale Suso

     

     

     

    Benevento-Milan 2-2, il portiere Brignoli al 95' regala ai sanniti il primo punto

    Benevento-Milan 2-2, il portiere Brignoli al 95' regala ai sanniti il primo punto
    L'esultanza di Brignoli dopo il gol del pareggio (ansa)

     

    Clamoroso finale al Vigorito, il numero uno della squadra di De Zerbi batte Donnarumma con un colpo di testa e firma il pari rovinando l'esordio di Gattuso sulla panchina rossonera. In precedenza a segno Suso, Puscas e Kalinic, espulso Romagnoli

     

    Dal mondiale alla fine di un'epoca: Mediaset perde Coppa dei Campioni e Serie A.

    Diritti tv, Mediaset perde anche l’asta per la Coppa Italia: senza Serie A, si chiuderà l’epoca del calcio sui canali del Biscione

     
     

    Sconfitta dalla Rai, se non dovesse trasmettere il campionato del prossimo triennio, Fininvest non avrà più calcio sulle proprie reti. La fine di un'epoca, visto che proprio le partite dello sport più famoso al mondo hanno contribuito a costruire l'impero televisivo e non sono mai mancate sui canali Mediaset, in chiaro o a pagamento. Nel caso, Cologno dovrà anche ricollocare 40 assunti di Premium: un piano c'è già e l'azienda garantisce che il numero rimarrà stabile.

     

    La fine di un’era, iniziata con la Copa de Oro 1980. È questo il rischio che Mediaset corre dopo aver perso l’asta per trasmettere i match di Coppa Italia del prossimo triennio, acquistati dalla Rai. Con le conseguenti preoccupazioni della redazione sportiva di Premium, 41 giornalisti a contratto più i collaboratori, che senza calcio da mandare in onda non avrà senso di esistere. Quasi quarant’anni di calcio in tv, spesso in chiaro, passando per il Mundialito per club e le prime partite di Coppa dei Campionicomprate dalle squadre straniere durante gli Anni Ottanta. Fino all’ingresso in pianta stabile nel 1992/93 con le grandi europee visibili sui canali Fininvest.

    Dopo aver contribuito alla creazione dell’impero televisivo della famiglia Berlusconi e aver tentato di scardinare il ruolo di primus inter pares di Sky, da settembre Mediaset potrebbe rimanere senza gol. Nemmeno uno, nemmeno di serie C. La Champions League, che in questa storia riveste un ruolo decisivo, e l’Europa League verranno trasmesse dal network di Rupert Murdoch e il “mercoledì da leoni”, spot immaginifico a cavallo tra i due millenni che annunciava le telecronache di Bruno Longhi e Sandro Piccinininel 2018/19 andrà in onda in chiaro sulla Rai accompagnato dall’inno di Tony Britten. I diritti tv della Serie B sono in vendita, ma Mediaset non ha partecipato all’asta. Resta la Serie A, dove per il momento il Biscione è stato l’ago della bilancia: vuole comprare ma solo in maniera “opportunistica”, come usano dire dalle parti di Cologno Monzese da quando è naufragata la vendita di Premium a Vivendi. I soldi sul piatto sono quelli, prendere o lasciare. Nella guerra legale tra Sky e Mediaproche ha acquistato i diritti per 1,05 miliardi di euro, Mediaset è finora stata attore non protagonista ma conta sul fatto che qualcuno andrà a bussare alla porta.

     

     

    Il tribunale di Milano si pronuncerà mercoledì, ma non sarà unverdetto decisivo. Tra rimodulazioni del bando, rinvii, ricorsi e controricorsi è possibile che la vicenda giudiziariavada avanti fino a estate inoltrata, con buona pace dei tifosi che sapranno dove poter vedere JuveNapoliInter e tutte le altre mentre sorseggiano un drink sotto l’ombrellone. Grazie anche alla pace di Pasqua firmata con Sky che ha portato allo scambio di alcuni canali, forse qualcosa arriverà anche sulla piattaforma a pagamento di Mediaset, ma difficilmente si tratterà della parte più pregiata. Un clima da fine impero, insomma.

    Tutto il contrario del 2015/16, quando Piersilvio Berlusconidecise di lanciare l’offensiva ai rivali della pay-tv strappando l’esclusiva per la trasmissione della Champions per tre stagioni. Strapagare i diritti doveva essere il modo per lanciare un segnale di forza e costruire il primo polo pay in Italia. Si è dimostrato l’inizio della fine. Le big europee – complice anche l’assenza delle milanesi – non hanno portato a un travaso di abbonati dal satellite al digitale, così il Biscione ha finito per monetizzaretrasmettendo in chiaro molte partite. E oggi anche l’altra grande esclusiva del triennio, i film della major americane, sono finite (gratis, per gli abbonati) sui canali di Sky.Chi non sa dove andrà, invece, è la squadra che tutto questo lo ha presentato agli appassionati di calcio. Premium ha in pancia 41 redattori e altre decine di collaboratori. L’azienda, in più di un incontro, ha già chiarito che i posti degli assunti sono tutti garantiti. Se Premium Sport dovesse diventare una scatola vuota, i giornalisti tornerebbero sotto Rti, garantisce l’azienda. Ma restano i timori dei dipendenti di un “pacchetto” da cedere. Stando alle comunicazioni dei vertici, verranno in buona parte impiegati – probabilmente – nella redazione di News Mediaset, l’agenzia diretta da Andrea Pucci che fornisce i servizi per i telegiornali del gruppo. Una piccola porzione invece continuerebbe ad occuparsi di calcio e motori sotto la guida di Alberto Brandi, giornalista che la redazione sportiva di Rti l’ha vista nascere. Era il 1991 e il Biscione si preparava a trasformare il pallone in uno show, che ora rischia di abbandonare o quantomeno di vivere senza più particolare trasporto. Subito dopo aver trasmesso per la prima volta, beffe del destino, l’evento più atteso, i Mondiali di Russia.

     

     

     

     

    Inter-Milan 3-2: Icardi show, nerazzurri secondi a -2 dal Napoli

    Inter-Milan 3-2: Icardi show, nerazzurri secondi a -2 dal Napoli
    Mauro Icardi (ansa)

     

    Con una tripletta, l'argentino regala il derby agli uomini di Spalletti dopo due anni. I rossoneri rimontano due volte lo svantaggio, prima con Suso e poi con Bonaventura, ma al 90' vengono traditi da Rodriguez che regala al 90' il rigore decisivo ai rivali. Sull'1-0 palo di André Silva. Sabato la sfida alla capolista

    Juventus-Lazio 1-2: Immobile e Strakosha violano lo "Stadium"

    Juventus-Lazio 1-2: Immobile e Strakosha violano lo "Stadium"
    Il rigore segnato da Immobile (lapresse)

     

    Dopo oltre due anni i bianconeri cadono in casa in campionato. Apre Douglas Costa, nella ripresa uno-due dell'attaccante biancoceleste e al 97' Dybala fallisce il rigore del pari