ISIS-DAESH, Guerra dal Nord
Africa all'Afghanistan (2011 [inizio della Primavera Araba]-?)
Siria, Usa: “Iniziato il ritiro delle truppe”. Curdi: “E’
una coltellata nella schiena” Dubbi Pentagono: favore a
Russia e Iran
L'annuncio della Casa Bianca: "Cinque anni fa, l’Isis era potente
e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto
il califfato". Il Dipartimento della difesa avrebbe cercato di
convincere l'amministrazione che una mossa del genere sarebbe un
tradimento degli alleati curdi, le cui truppe da anni operano a
fianco di quelle statunitensi. Graham, senatore repubblicano:
"Errore come quello di Obama".
Washington ha dato il via al ritiro
delle truppe dallaSiria.
“Abbiamo iniziato a riportare a casa i soldati degli Stati Uniti
mentre passiamo alla fase successiva di questa campagna”, afferma
la Casa Bianca in una nota. “Cinque anni fa, l’Is (Islamica
state, lo Stato islamico, ndr) era una forza estremamente
potente e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto
il califfato” nella regione. Ma è scontro con il Pentagono:
“La lotta all’Isis non
è finita, anche se la coalizione ha liberato alcuni
territori che erano in mano all’organizzazione”, afferma Diana
White, portavoce del Dipartimento della Difesa,
confermando come gli Usa “hanno iniziato il processo di rientro
delle truppe e si avviano alla prossima fase della campagna”.
La notizia del rientro dei 2mila
militari del contingente Usa era stata anticipata da
diversi media statunitensi e da un tweet diDonald
Trump: “Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica
ragione di permanenza lì durante la presidenza Trump”, ha
scritto il presidente degli Stati Uniti. Una decisione che,
secondo ilNew
York Times, troverebbe contrario il Pentagono: i vertici del
Dipartimento della difesa avrebbero cercato di convincere la Casa
Bianca che una mossa del genere sarebbe un tradimento degli
alleati curdi le
cui truppe da anni operano a fianco di quelle Usa in Siria e che
rischierebbero di essere attaccate da un’offensiva dellaTurchia.
Secondo il Wall
Street Journal il ritiro sarebbe stato deciso dallo stesso
Trump a seguito di una conversazione con il presidente turco Recep
Tayyip Erdogan, che considera dei “terroristi” le Forze
siriane democratiche, sostenute da Washington e che operano
nell’est del Paese nel quadro della Coalizione
internazionaleanti-Isis. Lunedì lo stesso Erdogan ha
annunciato che la Turchia potrebbe avviare “da un momento
all’altro” una nuova
operazione militare contro i curdi in Siria, nell’area a
est del fiume Eufrate. E dalle forze curde arriva il grido di
allarme: la decisione “improvvisa” degli americani è una “pugnalata
alla schiena“, afferma una fonte militare delle Forze
siriane democratiche.
Non solo: in una serie di incontri e telefonate, il segretario
alla Difesa James
Mattis e altri funzionari hanno evidenziato i rischi
legati ad un ritiro integrale: la decisione consentirebbe allaRussiae
all’Iran di
ampliare il proprio controllo sul Paese diBashard.
“Queste vittorie sull’Is in Siria non segnano la fine della Global
Coalition o della sua campagna – si legge ancora nel
comunicato della Casa Bianca – Abbiamo iniziato a riportare a casa
le truppe degli Stati Uniti mentre passiamo allafase
successiva di questa campagna. Gli Stati Uniti e i nostri
alleati sono pronti a impegnarsi nuovamente a tutti i livelli per
difendere gli interessi americani ogni volta che sarà necessario”,
prosegue la Casa Bianca. “Continueremo a lavorare insieme”, si
legge ancora. Lalotta
al terrorismo verrà condotta su tutti i fronti per
contrastare l’espansione degli estremisti, bloccare “finanziamenti
e supporto” e impedire “che si infiltrino attraverso i nostri
confini”.
La decisione contraddice le precedenti affermazioni del
Consigliere americano per la Sicurezza nazionale John
Bolton, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero
mantenuto la loro presenza militare nella regione fino a quando
le forze
iraniane non avessero lasciato la Siria.
Strasburgo, 3 morti. Killer in fuga: “Può essere su una Ford
Fiesta”. Grave il giornalista italiano ferito.
Cherif Chekatt, attentatore 29enne in fuga, forse è scappato in
Germania. Ha anche ferito 16 persone, sei delle quali sono gravi.
Tra loro anche un giovane giornalista italiano, che è in condizioni
gravissime. Trovato del materiale esplosivo nell'abitazione
dell'attentatore, che era già stato condannato 20 volte per reati
comuni. 12 dicembre 2018.
Caccia all’uomo nel cuore dell’Europa per trovare l’autore della
strage di Strasburgo.
Francia eGermania sono
mobilitate per cercareCherif
Chekatt,
il 29enne accusato di essere il killer,
che intorno
alle 20 di martedì sera ha fatto fuoco nel mercatino
di Natale uccidendo 3 persone (e non due, come detto dalla
prefettura martedì mattina) e ferendone altre 16, sei delle quali in
modo grave.
Tra queste c’è anche l’italiano Antonio Megalizzi. Il procuratore di
Parigi, confermando che il killer ha urlato “Allah
Akbar”,
ha spiegato che ci sono “due morti e una terza persona in stato di
morte cerebrale”. Si tratta di un turista thailandese di 45 anni, la
cui moglie risulta tra i feriti, un uomo di origini afghane e un
francese che viveva in città. Anche alle forze di polizia italiane è
arrivata la nota di allerta diramata per le ricerche del terrorista:
secondo l’Adnkronos,
per gli investigatori Cherif potrebbe essere a bordo di una Ford
Fiesta targataCX168FD.
Grave l’italiano ferito: “In coma. Non operabile” – Nella
sparatoria è rimasto coinvolto ancheil giornalista
italiano Antonio
Megalizzi, 28enne originario di Trento. “È in coma e
non si può operare per la posizione gravissima del proiettile che è
arrivato alla colonna alla base del cranio, vicino alla spina
dorsale”, ha spiegato Danilo
Moresco, padre di Luana, la sua fidanzata. “Ci hanno detto
che Antonio è
stato colpito alla testa da un proiettile sparato da quel
delinquente. Le due ragazze che erano con lui (la trentina Caterina
Moser e Clara Stevanato, veneta e residente aParigi,
ndr) ce l’hanno fatta a scappare, rifugiandosi poi in un locale
pubblico. Hanno perso di vista Antonio, perché lui è rimasto a
terra”.
La nota di allerta: “Killer a bordo di una Ford Fiesta” –Intanto
sono stati fermati il padre, la madre e i due fratelli di Chekatt che,
scrive la Bild,
dopo essere scappato su un “taxi nero” pare sia fuggito in Germania.
Lì pare che abbia dei riferimenti a cui appoggiarsi. Nel 2016 era
stato infatti condannato dal tribunale di Singen a
2 anni e tre mesi. Aveva commesso un furto in uno studio dentistico
e poi in una farmacia del Baden-Wuerttemberg,
riferisce l’emittente tedesca N-tv.
In un primo momento, secondo quanto emerso dalla riunione
straordinaria del Comitato
di analisi strategica antiterrorismo (Casa) che si è tenuta
alViminale,
si escludeva che l’attentatore avesse collegamenti con l’Italia. Poi
l’agenzia Adkronos ha dato notizia della nota arrivata alle forze di
polizia italiane: “A seguito dei fatti terroristici accaduti a
Strasburgo in data 11 dicembre 2018 al mercato di Natale si richiede
di collaborare nelle ricerche di Chekatt Cherif, nato il 21 febbraio
1989 a Strasburgo, persona armata e pericolosa suscettibile di
viaggiare a bordo di Ford Fiesta targata CX168FD”, si legge nel
documento che comprende anche una foto di Cherif. Nell’immagine il
29enne, ricercato in tutta Europa per l’attentato di Strasburgo,
appare con i capelli corti scuri e con la barba.
Situazione Libia: Il maglio francese e
l'accordo Minniti per la drastica riduzione degli sbarchi in
Italia.
Si è tenuto oggi al palazzo dell’Eliseo di Parigi un vertice fra
le più importazioni fazioni in lotta in Libia. Sponsorizzato
dal presidente Emmanuel Macron, l’incontro ha riunito
delegati di altri 20 paesi e 4 organizzazioni
internazionali, ufficialmente per creare le condizioni per
uscire dalla crisi. Formula piuttosto vaga dietro la quale
si celano profonde differenze fra i promotori.
La Francia, in particolare, è tacciata da diplomatici di
altri paesi di voler accelerare
a tutti i costi il processo elettorale, iniziativa che
secondo i suoi critici mira a rafforzare il generale Haftar, attore
con cui Parigi si è più volte schierata in
questi anni. Ilcomunicato emesso
alla fine del vertice effettivamente impegna le parti a
cercare di realizzare al più presto le elezioni; ma non è
stato firmato e – a differenza delle bozze precedenti – non
contiene un calendario né la minaccia di sanzioni verso chi
non rispettasse l’esito del voto.
Dopo un incontro simile
lo scorso luglio, l’Esagono continua a voler perseguire una
propria agenda in Libia. A danno dell’Italia, sponsor del
premier al-Serraj, riconosciuto dall’Onu. Gli attriti
nordafricani fra Roma e Parigi sono figli di un’asimmetria
nelle percezioni reciproche e nelle rispettive capacità
di esercitare influenza oltre i propri confini. (29 maggio
2018)
Al di là dell’emergenza migranti sostenuta in un clima di
costante campagna elettorale, gli sbarchi nelle coste
italiane non erano così contenuti da anni. Da gennaio 2018
ad oggi il numero è di 5 volte inferiore rispetto all’anno
passato. Una vittoria amara dato che l’arresto degli arrivi
è in parte il risultato del tanto criticato memorandum
d’intesa dell’allora governo Gentiloni con il primo ministro
del governo di unità nazionale di Tripoli, Fayez al Serraj.
Dall’est all’ovest. Nonostante
le critiche contro le ripetute violazioni dei diritti umani
del governo libico (ad oggi non firmatario della convenzione
di Ginevra), la stretta sulle partenze c'è stata ed ha
comportato lo spostamento parziale delle rotte migratorie.
Il cambiamento dei porti di partenza ha così determinato una
variazione della provenienza dei migranti. Così, a
differenza degli anni passati, nei primi sei mesi del 2018
il maggior numero di migranti, sbarcati in Italia, ha
dichiarato di esser di nazionalità tunisina.
Tunisia. Nel
2017 la Tunisia era all’ottavo posto delle nazionalità
arrivate in Italia. La maggior parte sono migranti economici
alla ricerca di migliori condizioni lavorative. Il paese
nordafricano, nonostante un’economia in crescita, ha ancora
seri problemi di disoccupazione. Inoltre, le politiche di
sviluppo attuate dal governo hanno portato a forti scontri,
repressi anche con la forza, poiché hanno allargato il già
notevole divario tra ricchi e poveri, aggravando la
situazione nelle aree più vulnerabili. Oltre ai problemi
economici, ci sono anche ancora leggi draconiane che
colpiscono la comunità Lgbti, l’omosessualità è infatti
punita con il carcere. Inoltre il governo, cavalcando l’onda
di insicurezza e sotto il velo della lotta al terrorismo sta
attuando azioni di contrasto che violano i diritti umani.
Eritrea. Nei
primi sei mesi del 2018 sono sbarcati in Italia 2.233
eritrei, la seconda nazionalità per numero. Le persone che
fuggono dal paese, scappano da uno stato che impone il
servizio militare a tempo indeterminato, limita la
possibilità dei suoi cittadini di espatriare e usa questo
escamotage per sfruttare gli arruolati in lavori pesanti. Il
paese, da anni in tensione con i vicini, ha una delle
economie più povere del mondo. Secondo i dati Unicef di
giugno 2017, 22.700 mila bambini al di sotto dei 5 anni
verserebbe in uno stato di malnutrizione acuta. Il paese non
riconosce inoltre la libertà di culto, né quella di stampa.
Sudan. Terzi
nel 2018, noni nel 2017. Sono circa 1373 i migranti
provenienti dal Sudan sbarcati in Italia. Un paese che in
seguito alla scissione con il Sud Sudan, non ha mai trovato
pace. Libertà d’espressione, di riunione e di stampa sono
diritti costantemente calpestati dal governo d Khartoum. Gli
arresti arbitrari hanno colpito anche esponenti del terzo
settore e dell’opposizione politica. Inoltre il persistere
dell’instabilità politica alimentata dagli scontri con i
vicini del sud, ha alimentato le crescenti violazioni del
diritto internazionale e di guerra anche con uccisioni
sommarie di civili, stupri e saccheggi. Drammatica anche la
situazione economica con aree come il Kordofan del Sud e
Nilo Blu dove si stima che quasi il 40% della popolazione
sia fortemente malnutrita.
Nigeria. Nel
2017 è stata la nazionalità più diffusa tra i migranti, nel
2018 è la quarta. Ma questo non vuol dire che la situazione
in Nigeria sia migliorata. La minaccia di Boko Haram
continua a flagellare parte del paese. Centinaia i morti
nell’ultimo anno, con picchi di violenza che hanno portato
allo sfollamento di intere comunità. Migliaia le persone
costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Come se non
bastasse, la reazione dello stato al terrorismo sta portando
all’aumento di casi di violenze e violazioni contro civili
da parte delle forze governative. Arresti arbitrari anche di
donne e minorenni, uccisioni sommarie e il mancato impegno
del governo nel perseguire i responsabili delle violazioni
accertate. La Nigeria inoltre persegue la comunità Lgbti, le
donne sono vittima di leggi e consuetudini arretrate e ha
una limitatissima libertà di stampa
Il patto dell’Europa con Tripoli “è disumano e la
sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un
oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Sono queste le
parole durissime dell’Alto commissario Onu per i diritti
umani Zeid Raad Al Hussein che è intervenuto per parlare
delle politiche migratorie dell’Unione europea e in
particolare dell’accordo del governo italiano con le
autorità libiche
Il comandante dell’operazione militare nella regione, generale
Abdul Amir Yarallah, ha detto che le forze lealiste hanno
cominciato ad avanzare nel territorio urbano. Brett McGurk,
inviato degli Stati Uniti: "Dal 2014, l’Isis ha perso il 95% del
territorio che controllava in Iraq e in Siria". Forza iraniane:
"Anche in Siria la vittoria è vicina"
La presa di Tabqa da parte delle Forze siriane democratiche è stata
un passaggio cruciale per l'assedio di Raqqa, durato fino al 17
ottobre e conclusosi con la sconfitta dell'Isis e la cacciata dei
miliziani da quella che era considerata la capitale siriana del
Califfato. Karim Franceschi, di Senigallia, è stato il primo
italiano ad andare in Siria per combattere contro l'Isis a Kobane.
Era il gennaio del 2015. Ora guida uno dei battaglioni
internazionali d'assalto, che fanno parte dello Ypg curdo.
L'Iraq dopo Kirkuk riprende anche Sinjar ai curdi. Trump: "Noi non
siamo con nessuno"
L'avanzata dell'esercito federale e delle milizie nel Kurdistan.
Ripresi anche i pozzi di petrolio: minata l'autonomia del governo
regionale che ha promosso il referendum per l'indipendenza.
L'esercito federale iracheno e le milizie sciite di Hashad al Shaabi
(mobilitazione popolare)continuano
l'avanzatanei
territori del nord dell'Iraq che da mesi erano sotto controllo dei
peshmerga curdi. All'alba le milizie curde si sono ritirate da
Sinjar, la città yazida che era stata liberata dai curdi dopo mesi
di occupazione da parte dello Stato Islamico.Masloum
Shingali,
il comandante di una milizia yazida locale, ha detto che i soldati
curdi hanno lasciato la città prima dell'alba e che poche ore più
tardi sono arrivate la milizie sciite che combattono per il governo
di Bagdad.
Il sindaco della città,Mahma
Khalil,
dice che ormai Sinjar è sotto il controllo delle forze del governo
federale, e che non ci sono stati combattimenti, quasi ci fosse
stata un'intesa fra i Peshmerga e le forze di Bagdad.
L'offensiva del governo federale iracheno è iniziata nella notte di
sabato innanzitutto contro Kirkuk, la grande città a 250 chilometri
a nord di Bagdad che era stata occupata dai curdi, ma non fa parte
della regione amministrativa del Kurdistan con popolazione curda, ma
è abitata soprattutto da arabi e turcomanni. Liberata Kirkuk, le
milizie dell'esercito popolare e quelle di "mobilitazione popolare"
sciite hanno occupato anche tutti i maggiori campi petroliferi della
zona: la tv di Bagdad sostiene che sono stati ripresi i pozzi di
Havana e Bai Hassan, ad ovest di Kirkuk, dopo avere conquistato
lunedì quelli di Baba Gurgur, a est.
A questo punto il governo di Bagdad avrebbe il controllo di circa
400mila dei 600mila barili di petrolio al giorno estratti nella
regione del Kurdistan. Significa che il Krg, il Kurdistan regional
government (che ha promossoil
referendum per l'indipendenza)
di fatto non ha più le risorse per mantenere la sua autonomia, e che
quindi a parte la perdita di un territorio importante come quello di
Kirkuk, l'autonomia sarebbe stata di fatto ridimensionata
economicamente.
Nella notte per la prima volta il presidente americanoDonald
Trumpha
commentato l'offensiva di Bagdad in Kurdistan: "Gli Stati Uniti non
prenderanno posizione a favore dell'uno o dell'altro. Da molti anni
abbiamo una relazione molto buona con i curdi e siamo anche stati
dalla parte dell'Iraq, pur se non avremmo mai dovuto essere lì",
dice Trump, che in passato aveva criticato l'intervento militare
americano in Iraq.
Una portavoce del Dipartimento di Stato dice che Washington "è molto
preoccupata per le notizie della violenza intorno a Kirkuk:
sosteniamo l'esercizio pacifico dell'amministrazione congiuntamente
da parte del governo centrale e del governo regionale, coerentemente
con la costituzione irachena, in tutte le aree contese".
Gli Usa temono che lo scontro possa destabilizzare la coalizione che
sta combattendo contro lo Stato islamico. Ma alcuni elementi
lasciano pensare che le operazioni in Kurdistan non dovrebbero
interferire in maniera negativa con l'offensiva contro lo Stato
Islamico: innanzitutto il fatto che le aree ancora occupate dai
terroristi del Califfato si sono molto ridotte, e che lo sforzo
militare terrestre iracheno potrà essere molto più concentrato. Fra
l'altro l'esercito iracheno e le milizie sciite in questi ultimi
mesi hanno avuto modo di consolidarsi e rafforzarsi dopo le
operazioni iniziali avviate con il sostegno degli Stati Uniti e
dell'Iran che a terra ha sostenuto e organizzato soprattutto Hashad
al Shaabi.
La provincia di Kirkuk, il cui capoluogo omonimo è situato 250
chilometri a nord-est di Bagdad e conta circa un milione di
abitanti, è stata al centro di influenze e interessi contrastanti da
quando, nel 1927, i britannici vi scoprirono il petrolio. Durante
l'era del deposto e defunto presidente iracheno Saddam Hussein
l'area era stata sottoposta a un processo di 'arabizzazionè forzata,
come molte altre aree miste dell'Iraq.
Ma nel 2014, quando l'esercito federale abbandonò il nord del Paese
di fronte all'avanzata dei jihadisti dell'Isis, le forze della
vicina regione autonoma del Kurdistan occuparono la città e i siti
petroliferi più importanti.
Da allora Kirkuk è rimasta sotto il controllo dei Peshmerga, e le
autorità del Kurdistan avevano avviato un lento processo di
integrazione che ha comportato la diffusione della lingua curda e la
nomina di rappresentanti di questa etnia in posti chiave
dell'amministrazione, compresa la polizia.
A Kirkuk vivono 850 mila abitanti, di cui un terzo curdi e un venti
per cento turcomanni; nella sua area vengono estratti ogni giorno
400.000 barili di petrolio, quasi il 70%dei
600.000 che Erbil invia fino al terminal turco sul Mediterraneo di
Cehyan, sbocco dell'oleodotto che parte proprio da Kirkuk. La crisi
è precipitata con il referendum del 25 settembre per l'indipendenza
voluto dal presidente del Governo regionale del Kurdistan, Massoud
Barzan
Raqqa, caduta la capitale dell’Isis: “Completamente strappata al
Califfato”. 3.200 morti nella battaglia finale – FOTO
"L’operazione militare è terminata, ma adesso portiamo a termine
un’operazione di pulizia per porre fine alle cellule dormienti di
Daesh che ci sono ancora", ha spiegato al telefono con l'agenzia
spagnola Efe il portavoce delle Fsd, Talal Salu. Nei giorni scorsi
circa 3mila civili e 275 jihadisti e foreign fighters erano stati
evacuati dalla città grazie a un accordo tra le Forze democratiche
siriane a maggioranza curda e lo Stato islamico
Cade la capitale delloStato
Islamico. Le forzecurdo-sirianealleate
degliStati
Unitiche
combattono l’Isis,
infatti, hanno confermato di avere interamente strappatoRaqqaal
controllo delCaliffato.L’annuncio
è stato dato dalle stesse Forze democratiche siriane (Sdf), a
predominanza curda, sostenute dalla Coalizione internazionale a
guida americana.
“A Raqqa l’operazione militare èterminata,
ma adesso portiamo a termine un’operazione dipuliziaper
porre fine alle cellule dormienti diDaesh(acronimo
arabo per indicare l’Isis ndr) che ci sono ancora”, ha spiegato al
telefono con l’agenzia spagnolaEfe il
portavoce delle Fsd,Talal
Salu, anticipando che le Forze democratiche siriane
pubblicheranno a breve un comunicato proclamando ufficialmente laliberazionedi
Raqqadall’Isis.
Gli ultimi combattenti jihadisti si erano trincerati in un’area
molto ristretta delcentrodella
città. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani tra di
loro c’erano moltiforeign
fighters,
cioè combattenti stranieri arrivati da altri Paesi arabi ma anche
da Usa ed Europa per combattere nelle file dell’Isis. È sempre
l’Osservatorio a tracciare una prima stima delle vittime della
battaglia finale per riconquistare la roccaforte Isis: almeno3.200
morti da
giugno ad oggi, tra cui non meno di1.100
civili.
Almeno 267 i bambini e 194 le donne decedute.
Intanto sullostadiodi
Raqqa è stata issata la bandiera dell’Ypg,le
Unità di protezione delpopolo
curdo, la più potente delle fazioni che compongono
l’alleanza curdo araba.Rojda
Felat, comandante delle operazioni delle Forze siriane
democratiche a Raqqa, ha dichiarato che sono in corso le
operazioni per mettere in sicurezza lo stadio, ripulendolo dalleminedisseminate
dai jihadisti. L’impianto sportivo è l’ultimo grande obiettivo
riconquistato dalle Forze democratiche, mentre prima erano stati
riconquistati l’ospedale,
altra zona di resistenza delle milizie jihadiste, epiazza
al Naim, divenuta celebre perché teatro delle esecuzioni
pubbliche dei boia dell’Isis.
Già domenica, quando era cominciato l’assalto finale alla città,
centinaia dimilizianidi
Daesh e migliaia dicivili,
tra cui le famiglie degli stessi estremisti, erano statievacuatida
Raqqa in base a un accordo raggiunto tra le Sdf e lo Stato
islamico, con la mediazione di capi tribali locali. Anche ai foreign
fighters era stato permesso di lasciare la città, nonostante
l’opposizione soprattutto deiservizi
segreti francesi, convinti che in città si nascondessero
anche le menti degli attentati di Parigi. Secondo le Sdf sono
stati evacuati nei giorni scorsi circa3milacivili
e275miliziani
dell’Isis, mentre tra i 250 e i 300 jihadisti stranieri
La gioia per la liberazione della città, però, lascia presto il
posto alla situazione di emergenza in cui si trovano i
sopravvissuti. “Ibambiniche
si trovano nei campi intorno a Raqqa hanno raccontato ai nostri
operatori che sono stati costretti a essere testimoni diesecuzioniedecapitazioni –
spiegaSave
the Children in un comunicato – Hanno detto di aver
vistoamiciefamiliarisaltare
in ariaa
causa delle mine presenti sulle strade e di aver assistito a
bombardamenti che hanno ridotto in cenere le case. Ci potrebbero
volere molti anni per curare i danni psicologici che hanno
subìto”, continua l’ong, che ha denunciato anche le condizioni
delle “circa270milapersone
fuggite dai combattimenti a Raqqa che hanno urgentemente bisogno
di aiuti, mentre i campi di sfollati sono al limite delcollasso“.
Labattagliaper
liberare Raqqa è iniziata a giugno. La città era controllata dall’Is
dal2014e
si ritiene che da qui i miliziani pianificassero gli attacchi
all’estero. È a Raqqa, infatti, che si concentravano migliaia di foreign
fighters. Sempre a Raqqa, poi, l’Isis aveva organizzato la
sua amministrazione locale che prevedeva tasse, burocrazia e
polizia. È l’ultima grande città persa dallo Stato Islamico mentre
la scorsa estate l’esercito iracheno, sempre coadiuvato dagli
Stati Uniti, aveva espugnatoMosul.
hannorifiutatol’accordo.
Mosul, ultimo atto:il 9 luglio 2017 cade la seconda capitale del
Califfato, un milione di profughi, oltre centomila civili uccisi,
città rasa al suolo
Siria, 4 zone cuscinetto e cessate il fuoco: Russia, Turchia e Iran
trasformano le loro aree di influenza in entità politiche (4 maggio
2017)
"La Troika Russia–Iran–Turchia è lo strumento più efficace per
risolvere la crisi siriana", disse il 20 dicembre il ministro degli
Esteri russo Serghiei Lavrov, nel corso di un vertice a Mosca. Ora
arrivano i primi risultati dell'accordo. Tensione nel nord del Paese
tra Ankara e Washington: "Se veicoli Usa continuano a sostenere
l'avanzata dell'Ypg verso la città di Raqqa, potrebbero essere
colpiti accidentalmente"
Quattrozone
cuscinettoe
ilcessate
il fuocodal
6 maggio. Sono questi i termini principali di un memorandum d’intesa
siglato giovedì 4 maggio adAstana,
in Kazakistan, fra i tre paesi garanti della tregua inSiria:
Iran, Russia e Turchia.
Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi,la capitale del gigantesco
ovest irakeno: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe(1-5-16)
Da sempre considerato ribelle e difficile da governare, il
capoluogo sunnita della provincia di al Anbar è stato dominato
dagli uomini di abu Musab al Zarkawi, il capo del ramo iracheno
dell'organizzazione fondata da Bin Laden. E' stato lui a gettare
le basi del Califfato. C'è voluto un anno per riconquistarla. Ma
gli effetti della pioggia di raid aerei e degli ordigni eplosivi
disseminati dai miliziani dell'Is prima di fuggire hanno
trasformato la città. La reazione del governatore davanti ai
giornalisti arrivati per un'intervista: "Andate subito via,
restare è un suicidio". Ramadi è situata a 50 chilometri ad ovest
di Bagdad, sulla medesima direttrice di Falluja, la città
completamente annientata dagli statunitensi tra l'aprile ed il
dicembre del 2004. Non solo annientata, ma fosforizzata e riempita
di uranio impoverito, facendone una delle aree più contaminate di
radiazioni ed agenti tossici dell'intero pianeta.
I marines assediarono e bombardarono Falluja nell’aprile di 6 anni
fa, dopo che 4 dipendenti della compagnia di sicurezza Blackwater
furono uccisi e i loro corpi bruciati e portati per la città. Dopo
8 mesi di stallo nelle operazioni, i Marines decisero di usare
l’artiglieria e i bombardamenti aerei per piegare la resistenza.
Utilizzando armi legali, fu detto. Prima che si scoprisse dell’uso
del fosforo bianco, in grado di bruciare, a contatto con l’aria,
pelle e carne su cui si deposita: un’arma illegale, in campi di
guerra densamente popolati come una città. E ora il dubbio è “che
siano state usate anche armi contenenti uranio, in qualche forma”,
dice il dottor Busby.
I militari britannici, che affiancarono gli americani durante
l’assalto, rimsaero esterrefatti notando il volume di fuoco
impiegato per l’operazione. Falluja venne considerata una zona
sulla quale poter sparare liberamente: “In una sola notte vennero
lanciati 40 colpi di artiglieria pesante su un singolo settore
della città”, ricorda il brigadiereNigel
Aylwin-Foster. Il comandante che ordinò quell’uso
devastante di munizioni non lo considerò rilevante, tanto da non
menzionarlo nemmeno nel rapporto al comandante delle truppe Usa.
Kabul, il mullah Omar è morto due anni fa,nel 2013
Lo hanno confermato i servizi segreti afgani, anche se gli
integralisti insistono nel negare la morte del loro capo supremo,
che sarebbe avvenuta nell'aprile 2013. Mistero sulle cause del
decesso (29-07-15)
Decreto fiscale in vigore da
oggi. Che cosa c’è: da rottamazione ter a definizione agevolata
delle liti con le Entrate
Debito pubblico, l’Italia non guarirà tornando alla lira. Basta
saperne un po’ di economia
Questo post spiega a chi non si interessa molto di economia alcuni
punti chiave per capire il marasma in cui si trova l’Italia e
le ricette che vengono proposte per rimediarvi.
Partiamo da una semplice considerazione: le banconote e
le monete emesse dalla banca centrale di un Paese sono una passività
del settore pubblico. In altre parole sono considerate undebito del
governo. Quindi, specularmente, per chi le ha in tasca costituiscono
un credito verso il governo. Una banconota, in altre parole, è una
cambiale con cui il governo paga i suoi dipendenti, i suoi debitori,
i pensionati eccetera. Questa cambiale ha due caratteristiche: non
paga interessi e non ha una scadenza. Ma una persona accetta quei
pezzetti di carta colorata perché milioni di individui
l’accetteranno in cambio dibeni (pane,
vino, cicoria ecc.) oservizi (visite
mediche, biglietti dell’autobus, taglio di capelli ecc.).
Ai bei tempi andati del gold
standard (fino al 1971) a garanzia di questo debito del governo
nel bilancio della banca centrale c’erano leriserve
auree. Oggi che le banche centrali non pongono a garanzia
della moneta un bene fisico come l’oro, il corrispettivo di questa
passività dello Stato è un asset immateriale:
la fiducia nel governo e nelle istituzioni pubbliche, economiche,
politiche, militari, giudiziarie ecc. Infatti si definisce moneta
fiduciaria.
Il fatto che questo questo asset sia
immateriale è fonte di infinita confusione per chi non ha acquisito
almeno i rudimenti di economia. La confusione deriva da un semplice
fatto: la fiducia nelle istituzioni non è misurabile. Quindi a
fronte di un elemento concreto, tangibile, di uso quotidiano come
banconote e monete, con un valore preciso stampigliato sopra, vi è
un elemento impalpabile. Questa dissonanza cognitiva
sull’insostenibile leggerezza della fiducia pone un problema
politico, perché l’elettore è bombardato da unapropaganda ossessiva
sulle virtù taumaturgiche della moneta e non riesce a raccapezzarsi.
Viene indotto a pensare che più si aumenta la quantità di moneta in
circolazione, più sale il reddito reale degli individui. Invece non
è così. Altrimenti la banca centrale avrebbe inventato la bacchetta
magica con cui creare ricchezza senza limiti.
L’impalpabile fiducia sui cui si regge il valore della moneta è
essenzialmente la fiducia che le banconote mantengano nel tempo il
loro valore per l’acquisto di beni reali. Se oggi con dieci euro si
compra una pizza, ma per mancanza di fiducia nelle istituzioni la
gente si convince che domani quella pizza costerà venti euro,
nessuno terrà una banconota in tasca o nel portafogli. Si
precipiterà a spenderla. Per rendersi conto di cosa succede in
concreto basta digitare su Google “inflazione
Venezuela”.
Inoltre nel bilancio dello Stato esiste un’altra passività: il debito
pubblico, cioè la somma di Bot, Btp e altre obbligazioni emesse
dal governo. A differenza della moneta, questi titoli pagano un
interesse e hanno una scadenza. I risparmiatori li comprano perché
nutrono fiducia che il governo alla scadenza ripaghi con gli
interessi questi titoli di credito. Quindi anche in questo caso il
valore dei titoli dipende dalla fiducia nelle istituzioni. E lo
ripeto per chi fosse confuso: è la stessa identica impalpabile
fiducia nelle istituzioni che spinge ad accettare in pagamento le
banconote.
Da alcuni anni vengono diffuse sul web tutta una serie di
farneticazioni da varie bande di mestatori, che si presentano sotto
varie etichette, ma che appartengono allo stesso ceppo (o alla
stessa ceppa per dirla alla Di
Maio): Mmt, noeuro, minkioliristi, sovranisti,
fascio-comunisti, patacchisti eccetera. Le farneticazioni poggiano
su un banale, semplicistico e puerile pilastro: il governo, tramite
la banca centrale, deve stampare moneta per acquistare le
obbligazioni pubbliche. In questo modo risolve tutti i problemi
economici, azzera il debito dello Stato e anzi può creare dal nulla,
per incanto, le risorse con cui pagare pensioni,
sussidi, reddito
di cittadinanza, opere pubbliche e ogni ben di Dio senza
che nessuno lavori e produca. Insomma la stampante “magggica”
vagheggiata nel piano
B del Savona in versione descamisado tardo-peronista.
I peron-sovranisti essenzialmente
propugnano una partita di giro tra passività: ai titoli pubblici si
sostituisce moneta. Tradotto: a una passività del governo con
interessi e con scadenza definita si sostituisce una passività senza
interessi e senza scadenza. Ma come abbiamo visto, entrambe le
passività si reggono sulle stesse fondamenta: lafiducia.
Quindi cosa si ottiene in pratica da questa partita di giro?
Prendiamo un caso reale che ci riguarda tutti da vicino. L’ultima
asta del Btp Italia è stata un fiasco clamoroso come
non se ne registravano da anni. Detto in soldoni, la gente si fida
poco del governo italiano e delle sue istituzioni. Qual è la ricetta
che propongono i peron-sovranisti di lotta e di sgoverno? Tornare
alla lira in
modo da ricomprare il debito pubblico italiano con minkiolire
fresche di stampa. In parole povere un governo screditato (cioè che
non gode di alcuna fiducia) risolverebbe magicamente i problemi
costringendo la gente a scambiare carta straccia con altra carta
straccia. Se tra i lettori qualcuno ritiene che questa sia una
strategia vincente, io ne sono immensamente felice. Vendesi stupenda
fontana monumentale rinascimentale nel cuore diRomain
puro marmo di Carrara a
prezzo sensazionale, di assoluto realizzo.
Magneti Marelli, Fca la vende alla Calsonic Kansei per 6,2 miliardi
di euro
L'accordo con il fornitore giapponese di componentistica si
perfezionerà nel 2019, e darà vita a un colosso da 15,2 miliardi
di fatturato. La sede resterà in Italia, a Corbetta, per almeno
cinque anni e verranno tutelati i livelli occupazionali.
Soddisfatti i sindacati, che tuttavia restano vigili.
Alla fine, la prima decisione “pesante” dell’era Manley è
arrivata:Magneti
Marelli è stata ceduta da FCA ai giapponesi dellaCalsonic
Kansei per6,2
miliardi di euro, e le sue attività verranno effettuate
sotto il nome diMagneti
Marelli CK Holdings. La Calsonic Kalsei, di proprietà del
fondo Usa Kkr,
è uno dei principali supplier dicomponentistica giapponesi,
che insieme all’azienda italiana formerà uncolosso da
top ten dei fornitori mondiali, dal fatturato di15,2
miliardi di euro e dalla forza lavoro di ben65
milapersone distribuite
in quasi200
impianti e centri di ricerca e sviluppo in Europa,
Giappone, America e Asia-Pacifico.
“Questa è una giornata di trasformazione sia
per Magneti Marelli che per Calsonic Kansei, che creano così unbusiness globale
con una gamma eccezionale, presenza geografica, competenza e
prospettive future: una combinazione ideale”, ha dichiarato il
numero uno di FcaMike
Manley, al quale ha fatto eco l’ad di CK Beda
Bolzenius: “Insieme beneficeremo di una presenzageografica
e di linee diprodotti complementari,
mentre i nostri rispettiviclienti beneficeranno
di un maggiore investimento in persone, processi e prodotti
innovativi”.
Le trattative per
la cessione iniziarono quando sul ponte di comando di Fca c’era
ancoraSergio
Marchionne, che più che altro in mente aveva lo scorporo di
Magneti Marelli: un modo per far entraredenaro fresco
da distribuire agliazionisti.
Lui stesso, tuttavia, aveva affermato di poter riconsiderare
l’ipotesi della vendita,
in cambio di un “big
check”: insomma, di fronte a un’offerta irrinunciabile
l’affare si poteva andare in porto.
Quell’offerta, nondimeno, tardava ad arrivare. Prima di stringere
coi giapponesi Fca aveva parlato anche con altri, tra cui Apollo
Global Management eBain
Capital, come riporta il sito specializzato Autonews.com.
Una volta focalizzata la trattativa con Calsonic Kalsei, c’era da
trovare il punto d’incontro
tra domanda e offerta:Marchionne aveva
fatto sapere che il suddetto “big check” era unacifra non
inferiore aisei
miliardi di euro. Dopo l’estate ballava ancora circa un
miliardo, differenzapoi
colmata con l’ultima offerta appunto da 6,2 miliardi di euro. A
quel punto è arrivata la mossa Pietro
Gorlier, l’ex amministratore delegato “riassorbito”
dandogli la poltrona di responsabile Fca
per l’areaEmea lasciata
libera dopo le dimissioni diAlfredo
Altavilla.Infine,
c’è il capitolo lavoratori.
Sia Fca che CK hanno fatto sapere con una nota ufficiale
di voler tutelare ilivelli occupazionali
e leoperazioni in
Italia, anche per questo ilquartier
generaleresterà
a Corbetta (vicino
Milano), almeno per i prossimi cinque anni. Anche perché Magneti
Marelli continuerà ad essere ilfornitore di
Fca, che manterrà nel suo perimetro la divisioneplastica.
Soddisfatti i sindacati,
che restano comunque guardinghi: “La cessione di Magneti Marelli
non provocherà effetti diretti e immediati sui rapporti di lavoro,
poiché avverrà tramite passaggio azionario e fusione con la
società acquirente”, ha dichiarato il segretario generale della
Uilm Rocco
Palombella,
“e il fatto che la giapponese Calsonic sia concentrata in Asia (e
che magneti Marelli non sia presente in Giappone, ndr) dovrebbe
escludere pericolose sovrapposizioni,
mentre la prosecuzione dei rapporti di fornitura con Fca dovrebbe
assicurare piena continuitàproduttiva.
Ma la nostra attenzione come
sindacato sarà massima”. Sulla stessa lunghezza d’onda il
segretario generale Fim CislMarco
Bentivogli:
“L’accordo prevede la salvaguardiaintegrale
della forza lavoro, su cui vigileremo affinché l’operazione sia
una grande occasione di crescita“.
“E’ fondamentale avviare sin da subito un confronto sul
futuro del gruppo”, commenta infine la segretaria generale della
Fiom-CgilFrancescaRe
David,
“sia dal punto di vista occupazionale sia produttivo e della
ricerca e sviluppo su cui chiederemo un ruolo attivo
delGoverno“.
A metà mattinata, spinto dalla cessione di
Magneti Marelli, il titolo
Fcaguadagnava
il 4,26% a
Piazza Affari.
Le sigle sindacali hanno proclamato l'astensione dal lavoro anche
per i lavoratori saltuari che si aggiungono nei periodi di grandi
consegne, come Black Friday e Natale (24-11-17)
Tre anni dopo i tweet di giubilo di Matteo Renzi, la situazione
delle acciaierie di Piombino precipita definitivamente. Il
rilancio dell’ex Lucchini per mano dell’algerino Issad Rebrab
non avverrà. È stata un presa in giro, come la definisce
il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Tanto che il
sindaco Massimo Giuliani, che in questi anni di passione è
arrivato a ospitare gli operai all’interno del Comune, lo dice
senza giri di parole: “Evidentemente il ministro Calenda ha
preso atto che non ci sono ulteriori fatti o documenti che
facciano ritenere il piano industriale di Aferpi attendibile,
verosimile e fattibile
Salvini viene dai centri sociali. E dal comunismo al
nazionalismo il passo non è stato breve
ALPHASPIRIT VIA GETTY IMAGES
Finale d'anno da "che
mangino brioche" nelle zone dell'opposizione. Lanci
di volumetti, gilet
azzurri, e inni alla Costituzione calpestata, fuori
tempo massimo. Manifestazioni di maniera, indecisione,
cautela nelle scelte. Non un alito di vita vera sale dalle
sue fila: dalla sinistra non è arrivata in tutti questi mesi
nessuna iniziativa che abbia avuto impatto sulla vicenda
politica nazionale.
Il leader della Lega Matteo
Salvini – nonché vicepremier eministro
dell’Interno – da qualche tempo indossa quasi sempreun
giubbotto da poliziotto, con galloni e mostrine. Dopo avere
raschiato il barile delle felpe e avere provato anche a vestirsi
da vigile del fuoco, si è immedesimato nella parodia del
comandante in capo della Ps, tanto più che si fa chiamare “capitano”
dai suoi adepti. Scelta inedita per la nostra Repubblica,
indegna di un ministro e pure illecita, perché la legge vieta di
indossare abusivamente divise o distintivi delleforze
dell’ordine. Ma a lui “che
je frega”, come dicono a Roma. Questa
recita, che ricorda i tempi infausti in cui un leader (fascista)
sfoggiava look militareschi, gli è stata consigliata da chi cura
la sua immagine trucida, per continuare a ramazzare voti.
Ovviamente gli hanno pure detto che “uomo d’ordine/terrore dei
migranti/nemico dei comunisti” (comunisti in Italia e
altrove ormai estinti) è la ricetta perfetta per fare un po’ di
comodonazionalpopulismo,
sventolato davanti allo smartphone o alle tv. Non a caso, una
delle sue celebri battute, da ministro fresco di nomina, risale
al giugno scorso quando, durante
un comizio a Pisa, aveva
detto a
un ragazzo: “Sei l’unico che ha la maglietta rossa in tutta
la piazza, di rosso di buono c’è solo il vino”. E pensare che
c’è stata un’epoca in cui Matteo Salvini è stato…comunista!
Un esempio? La mattina del 10 settembre 1994 nel centro di Milano ci
furono alcuniscontri tra manifestanti e forze
dell’ordine. Pochi giorni prima era stato sgomberato per
l’ennesima volta il Leoncavallo,
“storico” centro
sociale. La protesta si concluse con sassaiole e
manganellate. L’avversario del centro sociale era il sindaco
leghista Marco
Formentini. Fatto sta che dopo, in Consiglio comunale,
qualcuno si alzò per difendere il Leoncavallo. “Gli incidenti
sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i 15mila
giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e
condivisibili, ma sono stati strumentalizzati”. A parlare, di
fronte a sindaco e giunta, era stato un consigliere comunale
leghista di 21 anni: Matteo Salvini, quando vestiva colori
rosso/verdi.
In effetti Salvini fa parte della Lega
Nord dal 1990, ma aveva una formazione “originale”
rispetto alla linea del partito. Nel 1997 infatti entrò nelMovimento
dei comunisti padani. “Chi non ha mai frequentato un
centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il
liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi
ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”, spiegava. Non
contento, dopo fece una scelta ulteriore: “Io ero stato eletto
al Parlamento padano coi comunisti padani nel ‘97. In Lega ero
accusato di avere l’orecchino e la barba e di essere un po’
strano”. Lo
ha “rivelato” nel
2014durante la trasmissione Bersaglio
mobile,
su La7.
È vero che in quel periodo Umberto
Bossi cercò di riprodurre ogni partito politico in
versione leghista, per far credere che il sedicente Parlamento
padano, e quindi la Lega Nord, fossero già rappresentativi di
ogni ideologia. È pure vero che i due ex segretari della Lega
sono stati comunisti vecchio stile:lo stesso
fondatore Bossi, tra 1974 e 1975, è stato iscritto
alla sezione del Pci di
Verghero, frazione diSamarate (lui
ammette solo qualche frequentazione, ma la tessera è stata
trovata) e prima ancora avrebbe frequentato il partito diUnità
proletaria per il comunismo; Roberto
Maroni è stato fino al 1979 comunista diDemocraziaproletaria. Però
il giovane Matteo era e resta una novità: veniva dai centri
sociali. Immemore di quei trascorsi e (più o meno
consapevolmente) di molto altro, oggi Matteo Salvini – 25 anni e
25 chili dopo – cavalca la bolla elettorale che premia, in
quest’epoca di scelte politiche effimere, il suo nuovo partito.
Oggi vorrebbe (fare) manganellare, anzi “ruspare”, quelli che
oggi frequentano i suoi vecchi ambienti: dice cose tipo “centri
sociali conigli” e “forse campano con la camorra”.
Spiegano Alessandro
Franzi eAlessandro
Madronnel
libro Matteo
Salvini #ilMilitante,
a proposito del vicepremier in stile anni Novanta: “Era rapido
nell’organizzare la protesta e facile bersaglio di accuse di
opportunismo da parte degli avversari”, anche dentro la Lega.
Insomma, il Salvini trasformista di ieri, alleato di Berlusconi,
era già il Salvini trasformista di oggi, alleato del solito
Berlusconi dove gli conviene e dei pentastellati nel
governo. Dal
“comunismo” leghista al populismo
nazionalista il passo per lui non è stato breve; né gli
è stato facile far dimenticare ai meridionali chenel
2009 a Pontidacantava “Senti
che puzza, arrivano i napoletani”, oppure fare scordare ai
padani doc che è svanito il sogno dellaPadania
indipendente. Certo, di questi tempi una felpa con la
scritta giusta o un giubbotto abusivo della Polizia di Stato
bastano per consolidare un’“ideologia” che con le idee ha poco a
che fare; semmai marcia a forza di non-idee, cioè di pregiudizi.
Per il momento una porzione consistente dell’elettorato
superstite gli sta dando ragione. In caso di emergenza
elettorale avrà già pronta qualche felpa con un nuovo slogan,
d’altra parte è un campione delle virate. Ammesso e non concesso
che il giochino del trasformista possa durare all’infinito: il
tempo delle chiacchiere potrebbe essere finito anche per lui.
IL
MAGMA
Il
regime non riuscì a creare una propria classe politica e fallì
sul terreno di quei ceti borghesi che avrebbero dovuto essere il
punto di forza... Non solo non fu capace di crearla, ma era esso
stesso la causa, principale e quindi ineliminabile di questa
incapacità. Da qui il dramma del regime e la sua più intima
condanna all’autodistruzione, a prescindere da quelle che furono
poi le cause “esterne” della sua fine».
È il giudizio sintetico sulla parabola del
ventennio fascista, formulato qualche decennio fa dal suo
storico più illustre, Renzo
De Felice.
Mi è tornato in mente in questi giorni di polemiche furiose su
borghesi, borghesucci, madamine e su altre parole che non sto
qui a ripetere. Torna la borghesia nelle polemiche di questi
giorni, a proposito della manifestazione di Torino Sì-Tav, a
sorpresa, perché si tratta di un attore in gran parte assente
nella vicenda italiana. Da noi, a differenza che in altri Stati
europei, c’è la debolezza, l’assenza, l’incapacità della
borghesia di caratterizzarsi come portatrice dell’interesse
generale del Paese, il suo essere attratta da interessi piccoli,
particolari, mediocri. Un enorme e indistinto ceto medio che non
è mai riuscito a diventare borghesia, l’ha definito Giuseppe De
Rita (Repubblica, 14 novembre), «un magma sociale che sobbolle
proprio perché non riesce a fare quel salto».
Dopo il voto del 4 marzo e la vittoria del
Movimento 5 Stelle, arrivato a percentuali superiori al trenta
per cento e paragonabili a quelle dei grandi partiti
rappresentanti di quel corpaccione centrale dell’elettorato
italiano come la Democrazia cristiana, in tanti si sono chiesti,
con speranza o con timore, se da quel magma politico sarebbe
emerso l’embrione di una classe dirigente o se sarebbe rimasto
un network di umori, un megafono di rancori, un insieme di
frustrazioni impossibile da riportare all’interesse generale,
nonostante l’identificazione con una piattaforma che prende il
nome di Rousseau.
Oggi, dopo cinque mesi di governo, si può dire
che quella scommessa stia fallendo, o meglio, che stia prendendo
una piega molto conosciuta, in sintonia con la tradizione
italiana.Il Movimento 5 Stelle, nato come l’alfiere del
cambiamento e della rivoluzione, si propone sempre di più come
l’ennesima versione del trasformismo, l’adeguamento ai vizi
nazionali, un mosaico di rivendicazioni apparentemente
irrisolvibili, più Alberto Sordi che Beppe Grillo (posto che
come attore Sordi Grillo se lo sarebbe mangiato). Ci sono
partiti che riuscendo a mediare tra interessi e spinte
contrapposte sono rimasti al governo per decenni. Ma la Dc ha
potuto farlo nella stagione della Prima Repubblica in virtù
dell’intelligenza di una leadership plurale, di un radicamento
territoriale e della presenza della Chiesa che consentiva di
assorbire tutto. In più, c’era un sistema politico coerente e
stabile e un quadro internazionale che manteneva l’equilibrio.
Mentre per M5S non esiste nessuna di queste condizioni. Il
sistema politico è disastrato e i riferimenti istituzionali
vacillano, presidenza della Repubblica a parte: il Parlamento è
vuoto, il governo è rappresentato da un presidente del Consiglio
inconsistente e da ministri tanto inutili quanto arroganti, la
burocrazia gira a vuoto in assenza di input e la ricostruzione
del ponte Morandi a Genova sta già diventando lo specchio di
un’impasse collettiva. E in M5S non si vedono leader né
intelligenze, non si sa chi potrebbe tenere insieme le varie
anime se dovessero cominciare ad andare in direzione opposta.
M5S è il partito del condono, della promessa mancata, del
fasullo elevato a cultura politica. Era già chiaro nelle
premesse: il Vaffa per gli altri che deresponsabilizza, che
scarica le colpe su altri, la Casta, il Potere, per non fare mai
i conti con se stessi. Nella prova di governo tutto questo si è
accentuato, fino a proporre un dilemma nuovo e forse inatteso:
cosa fare se, in tempi rapidi, il Movimento dovesse implodere?
Nel Palazzo non si parla d’altro e la prospettiva
alletta o atterrisce. Nessuno pensa, naturalmente, che un
partito in grado di raccogliere il 32 per cento dei voti possa
sparire da un momento all’altro. La precedente legislatura, poi,
ha dimostrato che M5S è invulnerabile rispetto alle conseguenze
di espulsioni, dimissioni, micro-scissioni. Nessuno dei
fuoriusciti o degli espulsi tra i parlamentari è riuscito a
farsi rieleggere, fuori da Roma solo il sindaco di Parma
Federico Pizzarotti è riuscito a farsi rieleggere nella sua
città fuori e contro M5S. La novità, però, è che lo scontro tra
le diverse anime o, se si preferisce, tra i dirigenti e i peones
avviene non sui dogmi di Grillo ma sulle politiche di governo,
com’è successo al Senato sull’emendamento sul condono edilizio a
Ischia, bocciato grazie al voto in dissenso di Gregorio De Falco
e di Paola Nugnes.
Si parla di ortodossi e governativi, come in
tutti i partiti nati da una posizione estrema, il solito
dilemma. Quello che manca al Movimento per chiudere rapidamente
la crepa è una cultura politica di base, quello che tiene tutti
insieme, una leadership forte e riconosciuta, una serie di
risultati da poter vantare. Resta il Movimento, un’entità
metafisica e astratta, restano la piattaforma Rousseau e la
Casaleggio associati con il suo carico di conflitto di
interessi, di rapporti con le aziende pubbliche, ovviamente in
crescita, e resta il potere conquistato che diventa la
condizione esistenziale di M5S: il cambiamento c’è perché M5S è
al governo e dunque restare o resistere al governo diventa un
fine in sé, non è un mezzo per realizzare il contratto, il
programma o alcunché.
L’immobilismo si addice al Movimento,
lo si è capito da tempo, se M5S sceglie muore oppure svela la
sua vera natura, di conservazione dell’esistente. Se Luigi Di
Maio per sopravvivere è costretto a mantenere tutto bloccato
all’anno zero, in un eterno attimo di partenza, la Lega di
Matteo Salvini ha l’interesse opposto: mettere tutto in
movimento, portare a compimento la campagna di conquista del
centrodestra cominciata dopo il voto del 4 marzo, quando il capo
leghista ha deciso di separare i suoi destini da quello di
Silvio Berlusconi. Restare
al governo per Salvini è un mezzo, a differenza di Di Maio, per
cui è un fine.
Un mezzo per accrescere consenso, potere, autorevolezza.
Internazionale, un trampolino per passare all’assalto
dell’Europa. In questi percorsi paralleli le due strade sono
destinate a separarsi, perché è difficile per Salvini immaginare
di restare a lungo al governo con i Toninelli o con il partito
di Virginia Raggi senza pagare a sua volta un prezzo elettorale
o la delusione del pragmatico elettorato del Nord che non ama i
no di M5S e una visione non soltanto sovranista ma autarchica.
Bisogna trovare il momento giusto per scendere
dall’alleanza, prima che la delusione per il Movimento 5 Stelle
si estenda anche in direzione Lega.
A questo servono i nemici esterni:
a giustificare ritardi, contraddizioni, frenate, marce indietro,
e anche rotture. L’Europa è il nemico perfetto, con la sua
burocrazia sclerotizzata, con l’impossibilità di prendere
posizione anche nel caso della procedura di infrazione nei
confronti del governo italiano, degna di Bisanzio più che di
Bruxelles. I giornalisti sono l’altro nemico perfetto di questo
movimento che si abbevera di visibilità e prospera nelle
polemiche mediatiche, ma che al tempo stesso vorrebbe mutilare
il giornalismo del suo ruolo più essenziale: le inchieste, le
critiche, le domande, la possibilità di dare all’opinione
pubblica strumenti per giudicare più flessibili e meno
definitivi di quelli di cui gode la magistratura, ma altrettanto
importanti per il controllo del potere. La democrazia è quel
sistema in cui la stampa controlla e critica il potere, in
regimi di altro tipo succede l’opposto, il potere controlla la
stampa e condiziona i giornalisti. Qui da noi, nell’Italia 2018,
tutto questo avviene con la partecipazione e la complicità di
altri giornalisti, i più anti, naturalmente. E si perpetua così
un altro classico della tradizione italiana: fare opposizione
dai vertici del potere, perché - naturalmente - il vero potere è
sempre altrove: tra i centri finanziari, tra gli editori, sui
giornali, in tv.
L’attacco ai giornalisti scatenato dai capi dei
Cinque Stelle è il segno più fragoroso di una difficoltà, di un
rischio implosione più vicino di quello che si pensi.
Tutto questo dovrebbe spingere l’opposizione ad accelerare, a
tenersi pronta per elezioni che potrebbero rivelarsi più vicine
del previsto. Fino a poche ore prima della comunicazione della
sua decisione, Marco Minniti è stato molto incerto se candidarsi
o no alla segreteria del Pd. In queste settimane l’ex ministro
dell’Interno ha spiegato ai suoi interlocutori di avere tutto da
perdere e di aver valutato la possibilità di entrare nella corsa
perché estremamente preoccupato per le sorti della democrazia
italiana.
Una scena pesantemente condizionata da attori
internazionali che si muovono da padroni in Italia, a partire da
quel Vladimir Putin che è stato il vero protagonista nascosto
della conferenza di pace sulla Libia di Palermo e che spesso dà
l’impressione di muovere a suo piacimento i partiti del governo
italiano sulla scacchiera continentale: uno sprazzo del potere
di condizionamento che l’ex blocco sovietico esercita in Italia
e nel resto d’Europa ce lo danno le
inchieste di
Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Stefano Vergine e Francesca
Sironi. In questa situazione, l’Italia rischia di scivolare
verso lande sconosciute, uno di quei paesi in cui l’opposizione
politica non esiste o è affidata ad alcuni giornalisti e
intellettuali coraggiosi e quasi sempre avversati dai
governanti. Che un’analisi così cupa sia in gran parte condivisa
da un uomo che ha gestito negli ultimi anni gli apparati di
sicurezza e i servizi di intelligence è un motivo di
preoccupazione in più.
Ora la scelta di Minniti è compiuta, così come
quella di Nicola Zingaretti e di Maurizio Martina, e il
congresso finalmente comincia. Resta l’esigenza di avere in
tempi rapidi un leader riconosciuto per il principale partito di
opposizione che avverte il pericolo della dissoluzione, con il
suo ex leader Matteo Renzi che ormai visibilmente sta con un
piede dentro e uno fuori.
Ed è l’unico elemento che per paradosso avvicina M5S e Pd: il
principale partito di governo e il principale partito di
opposizione condividono la stessa situazione di possibile
implosione. In un sistema impazzito.
Def, dal reddito di cittadinanza alle pensioni al condono: ecco cosa
ci sarà nella manovra
Lega e 5 Stelle: deficit al 2,4% per tre anni. Secondo i calcoli
sale dagli iniziali 33 a 40 miliardi, per finanziare l'avvio della
flat tax, il reddito e la pensione di cittadinanza e il superamento
della legge Fornero. Condono fino a 100mila euro, ma Garavaglia
rilancia: "Sarà a 500mila"
IL MASSACRO DI RENZI, L'ANNIENTAMENTO STORICO DELLA
SINISTRA IN ITALIA E LA NASCITA DEL GOVERNO GIALLO_VERDE, PRIMO
DELLA STORIA D'ITALIA AL DI LA' DEL POSIZIONAMENTO IDEOLOGICO. Dalle
ideologie al Sovranismo economico-Finanziario. Scompaiono le idee a
fronte degli accelleratori di pagamento informatici.
Pisa, Massa e Siena, addio alla Toscana rossa (leggi). Risultati
– Terni alla Lega, Avellino e Imola a M5s
Matteo Orfini: “Su migranti e antipolitica abbiamo inseguito il
racconto della destra” (video di M. Lanaro). Le amministrative
comunali certificano l'annientamento di un partito liquefattosi
all'indomani del fallimento del Referendum Costituzionale, 24
giugno 2018.
L’elettorato di centrosinistra,
invece, riesce a tenere serrati i ranghi quando il proprio
candidato è al ballottaggio, mentre quando non c’è (come nel caso
di Terni) si divide tra astensione
(prevalente) e M5s.
Anche in questi tempi di grandissima volatilità elettorale,
insomma, si conferma solida
la barriera fra centrodestra e centrosinistra.
Per quanto riguarda il comportamento complessivo degli elettori,
si nota “l’involontario mutamento che sta attraversando il il Pd,
non più dominante al Nord”. Ma soprattutto: il centrodestra “sta
mettendo solide radici nelle zone centrali del Paese”. Quindi il
consenso per la Lega non è “episodico”. Diversa invece la
situazione per i 5 stelle: da una parte si confermano i principali
catalizzatori delle “seconde preferenze degli elettori” (hanno
vinto 5 ballottaggi su 7), ma la “perdurante disorganizzazione a
livello territoriale lo rende un partito d’opinione su scala
nazionale” che “produce tensioni e incertezze nell’intero sistema
politico, lacerato tra un
faticoso tripolarismo nazionale e
un più o meno imperfetto bipolarismo municipale”.
Grazie, Oettinger
Dobbiamo essere grati al tedesco Gunther
Oettinger (CDU) per aver detto apertamenteuna
spiacevole verità: “I
mercati… insegneranno agli italiani a non votare per i partiti
populisti”. I veri amici sono quelli che ti mettono di fronte la
realtà. La
verità ci farà liberi. Angela
Merkelaveva ricordato il giorno prima:
“Anche con la Grecia di Tsipras all’inizio fu difficile, poi ci
accordammo”. Poi… dopo che gli spread avevano piegatoi
greci ribelli, e consegnato al Consiglio Europeo un Primo
Ministro greco in ginocchio. Piangendo implorò pietà per il suo
popolo, e salvò il posto, ma dovette ingoiarecondizioni
durissime. Una scena che ricorda quando Marco Aurelio (179)
o Costanzo II (369) ricevevano i capi germani sconfitti.
Il significato delle parole di Oettinger è questo. “Gli italiani non
sono un popolo libero, sono
in una gabbia; e quanto più si lanciano contro le sbarre,
tanto più si fanno male; i colpi che si infliggono sono il migliore
modo per indurli a non riprovarci più”. Rimuovere questa semplice
realtà per noi è disastroso.
Tutti i politici italiani hanno protestato, ma con motivazioni
diverse. Per il Pd (e alcuni eurocrati): “Sono dichiarazioni soprattutto
stupide”. Ovvero: “molto meglio evitare, oltre il danno,
anche le beffe”, per non aizzare gli italiani, complicando il lavoro
ai secondini.
Mai più,
si chiude una delle legislature più di merda della storia
repubblicana del cazzo
Il cerchio si stringe attorno a Maria Elena Boschi e alla sua
fragile difesa, audizione dopo audizione. Dice il ministro del
Tesoro Padoan: "Io non ho autorizzato nessuno e nessuno mi ha
chiesto un'autorizzazione, la responsabilità del settore
bancario è in capo al ministro delle Finanze che ne parla col
presidente del Consiglio". Traducendo in maniera un po'
grossier dal linguaggio formale, significa: la Boschi non
agiva nel mio conto. Concetto reso ancora più esplicito quando
il senatore Augello, in commissione" chiede a Padoan: ma
almeno l'allora ministro delle Riforme riferiva degli incontri
con Consob, Bankitalia e l'ad di Unicredit Ghizzoni? Risposta:
"Ho appreso di specifici incontri dalla stampa".
Significa che Maria Elena Boschi non porta il risultato di cotanto
attivismo e interessamenti né in colloqui informali col ministro
competente né nella sede formale del cdm. Un ministro, giova
ricordare, giura sulla Costituzione di "esercitare le proprie
funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". E dunque, si
ripropone la domanda: a che titolo la Boschi si occupava del dossier
banche, la cui responsabilità è "in capo al ministro delle Finanze
che ne parla col presidente del Consiglio?". O meglio: si occupava
di banche nell'interesse del paese e dunque avrebbe dovuto riferire
a Padoan degli incontri, o della banca di cui è vicepresidente il
padre, animata da una preoccupazione privata?
Ricapitolando. Di quella banca parlò con il presidente di una
autorità indipendente come la Consob Giuseppe Vegas, in più
occasioni. In una per informarlo che il padre sarebbe diventato
vicepresidente di Etruria; in un'altra per esprimergli, non si sa a
che titolo dopo le parole di Padoan, "preoccupazione per il futuro
del settore orafo perché a suo avviso c'era la possibilità che
Etruria venisse incorporata dalla banca di Vicenza". La
preoccupazione per il settore dell'oro, argomento degno di un
confronto collegiale in cdm però non viene portato all'attenzione
del ministro del Tesoro.
Maria Elena Boschi si è occupata eccome dei problemi di Banca
Etruria. Contrariamente a quanto affermò in Parlamento il 18
dicembre 2015. Giuseppe Vegas, ex parlamentare di Forza Italia
oggi presidente (uscente) della Consob da un paio d’anni in
rotta di collisione con il renzismo, gioca nella sua deposizione
sui coni d’ombra temporali e lo dice senza mezzi termini: su
Banca Etruria “ho avuto modo di parlare della questione con
l’allora ministro Boschi”, che espresse “un quadro di
preoccupazione perché a suo avviso c’era la possibilità che
Etruria venisse incorporata dalla Popolare di Vicenza”
Per dirla con Matteo Renzi, hanno perso i “gufi” e i “profeti di
sventura”. Ma stavolta il gufo è lui. Insieme ai suoi
fedelissimi e a centri studi, agenzie di rating e banche
d’affari che, prima del referendum del 4 dicembre 2016 sulla
riforma costituzionale, avevano evocato scenari di caos politico
e apocalisse economica in caso di vittoria del No. Un anno dopo,
con il pil a +1,5%, l’Italia resta in coda alla classifica Ue
ma ben lontano dal -0,7% paventato nel luglio 2016 da
Confindustria. Ed è lo stesso Renzi a rivendicarlo. Negli ultimi
12 mesi, poi, non si sono registrate fughe di capitali né la
perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro
Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri
condannati a 12 anni. Di Matteo: “Ex senatore cinghia di
trasmissione tra Cosa nostra e Berlusconi”
Ai vertici del Ros inflitta la stessa pena del fondatore di Forza
Italia. Otto anni a De Donno, ventotto a Bagarella, dodici a Cinà:
sono stati tutti riconosciuti colpevoli di violenza o minaccia a
un corpo politico dello Stato. Prescritto Brusca, assolto Mancino
per falsa testimonianza. Otto anni a Ciancimino per calunnia a De
Gennaro. Il pm: "Mentre i giudici saltavano in aria qualcuno nelle
Istituzioni aiutava i boss a ottenere i risultati chiesti da
Riina"
Sette minuti e cinquanta secondi. Tanto ci ha impiegato il
giudice Alfredo
Montalto per dire che non solo laTrattativa tra Cosa
nostra e pezzi delloStato c’è
stata, ma che ad averla fatta sono stati i boss mafiosi, tre alti
ufficiali deicarabinieri e
il fondatore diForza
Italia. Mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni
Falcone ePaolo
Borsellino, inermi cittadini nelle stragi diFirenze eMilano,
uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati
il canale che ha condotto fino al cuore
dello Stato la minaccia
violenta dei corleonesi. Che alla fine hanno ottenuto un
riconoscimento grazie a Marcello
Dell’Utri, uomo cerniera di Cosa
nostra quando s’insedia il primo governo diSilvio
Berlusconi.
Condannati boss, carabinieri e Dell’Utri –Il
commento del pm, però, è legato allo storico dispositivo appena
letto dai giudici che hanno condannato a dodici anni di carcere gli
ex vertici del RosMario Mori e Antonio
Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e AntoninoCinà,
medico fedelissimo di Totò
Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano
dei carabinieriGiuseppe
De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca
Bagarella. Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una
pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio
Teresi, Roberto
Tartaglia eFrancesco
Del Bene, che
invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni.
Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei
confronti del pentito Giovanni
Brusca, il boia della strage di Capaci.
La minaccia allo Stato –Sono stati tutti
riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del
codice di penale: quello diviolenza
o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello
Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di
altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva
antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi
che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e
il 1994: quelli di Giuliano
Amato eCarlo
Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello diSilvio Berlusconi,
all’alba della Seconda.
L’assoluzione di Mancino –Assolto
dall’accusa di falsa
testimonianza perché
il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola
Mancino. Massimo
Ciancimino, invece,è
stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo
della Polizia Gianni
de Gennaro.
Il figlio di don Vito, uno dei testimoni fondamentali del processo,
è stato invece assolto dall’accusa di concorso
esterno inassociazione
mafiosa.
I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori,
Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci
milioni di euro alla
presidenza del Consiglio
dei ministri che
si era costituita parte civile.
Riscritta la storia della Seconda Repubblica – La parte
lesa del
processo sullaTrattativa è
infatti il governo,intimidito
dall’escalation di terrore intrapresa dai corleonesi dopo che
diventano definitivi gli ergastoli del Maxi
processo istruito da Falcone e Borsellino.
C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30
gennaio del 1992.
Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere
a vita:
è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero
assicurato il contrario. È il “fine
pena mai”
lo spettro che scatena la furia di Riina, capo dei capi di
un’organizzazione criminale all’epoca titolare di un’enorme potenza
di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva
cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare in
provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia
sfavorevole bisognava “pulirsi
i piedi“.
Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano
rispettato i patti. Il primo è Salvo
Lima:
la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del
1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un
messaggio diretto ad Andreotti nel
giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di
aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole
comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia
si apre la strada da sola”,
scrive su La
Stampa Falcone,
poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci.
Carabinieri e Forza Italia: il nuovo patto –Nel
frattempo i carabinieri del Ros hanno già tentato di aprire un
dialogo con laCupola,
agganciando Massimo Ciancimino e usando il padre Vito comeinterlocutore:
per questo motivo Mori, De Donno e Subranni sono stati condannati
per i fatti commessi fino al 1993.
Con la loro condotta hanno cioè veicolato
la minaccia di Cosa nostra fino al cuore dello Stato. La
stessa cosa che ha fatto Dell’Utri, riconosciuto colpevole per i
fatti commessi nel 1994. Come dire: la Trattativa tra mafia e Stato
la aprirono i carabinieri, ma la portò avanti e la chiuse il
fondatore di Forza Italia.
Di Matteo: “Sentenza storica” – “Che
la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa
sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello
Stato si sono fattitramite delle
richieste della mafia. Mentresaltavano
in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Statoaiutava
Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e
gli altri boss chiedevano. È unasentenza
storica“, è commento del pm Di Matteo, che ha abbracciato
il collega Tartaglia mentre i giudici leggevano il dispositivo. “La
sentenza – ha aggiunto il pm – dice che Dell’Utri ha fatto da cinghia
di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora
governo Berlusconi che si era da poco insediato. La corte ritieneprovato
questo. Ritiene provato che il rapporto non si ferma al
Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico”. “Il
verdetto – ha detto invece Tartaglia
– dimostra che questo era un processo che doveva necessariamente
essere celebrato. La procura ha lavorato bene, svolgendo con serietà
e professionalità il proprio lavoro. Le polemiche e le critiche sono
state esagerate: ma le abbiamo superate”.
Totò Riina morto, dalla scalata
a Cosa nostra alle stragi: tutti i misteri del capo dei capi che
dichiarò guerra allo Stato(17-11-17)
MAFIE
Dalla conquista della piovra, al biennio al tritolo, fino alla
mancata perquisizione del covo. Tutte le domande senza risposta
che il boss mafioso si è portato nella tomba dopo avere
terrificato un intero Paese all'apice di un'escalation di violenza
senza precedenti. Nato poverissimo in una famiglia di contadini,
viddano sanguinario e analfabeta è rimasto irredibimibile fino
alla fine. Stava scontanto 26 ergastoli per circa 200 omicidi
Partito di Renzi TRAVOLTO ALLE
REGIONALI SICILIANE E NEL MUNICIPIO DI OSTIA sciolto per mafia,
06-11-17
POLITICA|Di
F. Q.Pd.
Ancorauna
Waterloo fragorosaper
ilDiversamente
Statista Renzi,
che dal 2014 non ne indovina una e se giocasse a ramino da solo
perderebbe pure lì.D’AlemaeVeltronisi
dimisero per molto meno. Patetico il suonon
averci voluto mettere la faccia.
Micari, nonostante i discorsi dal pulpito, è riuscito a farsi
votare meno del Poro Asciugamano. Come sempre ridicoli gli
scaricabarile post-voto. Cerasa, nonper
nulla stimatissimoda
Renzi, ha dato la colpa a Crocetta e Faraone a Grasso: una
prece. Nel frattempo,il
Pd muore per sua stessa mano.
Ma vedrete che da domani torneranno a dirvi che “Renzi è un
vincente”.Siciliani.
Si dice che gli
elettori abbiano sempre ragione.Ne
prendo nuovamente atto. Anche se, più che un voto, quello di
ieri mi è parso da parte loro un desiderio – più o meno
consapevole – di eutanasia.Ventitré.
Dopo 23 anni, questo paese vota ancoraBerlusconi
e derivati.
C’è bisogno di aggiungere altro? C’mon meteorite.
IL MERDELLUM ( dopo il crollo del Merdalicum
nella disfatta referendaria, dopo l'affondamento della consulta del
Porcatum, ecco un'altra Merdata....)
Approfittando dello sfinimento generale, il Merdellum pudicamente
ribattezzato Rosatellum-bis avanza a passo di carica in commissione
Affari costituzionali della Camera. Tg e giornaloni tengono fermi
gli elettori, distraendoli col solito teatrino dei pupi (Pisapia
attacca D’Alema, Vendola attacca Pisapia, Salvini attacca il
telefono a Berlusconi, la Meloni attacca il telefono a Salvini,
Delrio si attacca al tram sullo Ius soli e fa lo sciopero della fame
contro il suo stesso governo, la Boldrini si attacca alla dieta
Delrio, cose così). Intanto, nell’indifferenza-ignoranza dei più, il
Quartetto Casta – Renzi, B., Salvini e Alfano – ci scippa ogni
giorno un pezzo di sovranità. Per fermarli, il Fatto ha raccolto
oltre 60 mila firme in cinque giorni all’appello dei
costituzionalisti. Vi chiediamo di passare parola sui social: se
qualcuno vi chiede perché, spiegategli come funziona –scrive
Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 07
ottobre 2017, dal titolo “Il Merdellum-bis”.
2 nominati su 3.
Per 10 anni abbiamo avuto una legge elettorale che faceva nominare i
parlamentari dai capi-partito su liste bloccate anziché farli
eleggere dai cittadini con la preferenza (proporzionale) o nei
collegi (uninominale). Siccome per la Consulta il Porcellum era
incostituzionale, il Quartetto Casta ne ha escogitato un altro che
prevede due terzi di nominati e un terzo di eletti. Due parlamentari
su tre usciranno da circoscrizioni proporzionali, dove ogni partito
presenta un listino bloccato da 2 a 4 candidati, scelti dai capi e
dunque nominati perché non c’è preferenza e conta l’ordine di
apparizione in lista. Uno su tre invece è scelto col maggioritario
in collegi uninominali dove vince chi arriva primo, dunque conviene
coalizzarsi col maggior numero di liste (vere o “civetta”) per
raccattare almeno un voto più degli altri.
I supernominati.
Il primo Merdellum prevedeva 75-77 circoscrizioni proporzionali (8-9
eletti in media per ciascuna: totale 600, cioè 2/3 del Parlamento) e
tanti collegi uninominali quanti sono i seggi assegnati con quel
sistema (330, 1/3). Ma il Quartetto Casta s’è fatto due conti e ha
scoperto che le circoscrizioni sono troppo piccole e numerose per
garantire l’elezione ai candidati nei listini. Ecco dunque un
emendamento per allargarle riducendone il numero: così più nominati
avranno la poltrona assicurata.
I supermeganominati.
Due problemi. 1) I partiti, a parte il capo supremo, hanno poche
facce spendibili sul territorio. 2) I vecchi politici sono così
sputtanati che rischiano di non essere eletti nemmeno se si fanno
nominare in un listino bloccato. Soluzione prêt-à-porter: ogni
candidato può correre in un collegio e in 5 circoscrizioni.
Poi, se viene eletto in più posti, deve optare per il collegio
uninominale; e, se è stato trombato in quello ma eletto in più
circoscrizioni proporzionali, passa in quella dove la sua lista ha
avuto più voti (nelle altre scatta il primo dei non eletti). Così è
ancor più facile far passare chi vuole il capo, all’insaputa degli
elettori.
Voto forzato.
Nei sistemi misti proporzional-maggioritari, tipo il tedesco a cui
finge di ispirarsi il Rosatellum, c’è il voto disgiunto: voto il
candidato che preferisco nel maggioritario e, nel proporzionale,
posso scegliere un’altra lista che mi soddisfa di più. Col
Rosatellum no: se voto un candidato uninominale, devo scegliere una
delle liste che lo sostengono, e non altre.
Sbarramento col trucco.
Per evitare la dispersione dei partitini, c’è lo sbarramento del 3%:
chi non lo raggiunge sta fuori dal Parlamento e i suoi voti se li
dividono quelli che ci entrano. Ma Renzi e B. vogliono inventare
liste civetta per fare massa nei collegi. Ed ecco il trucco: le
liste coalizzate nei collegi che superano l’1% possono regalare i
loro voti agli alleati, anziché disperderli. Così i cacicchi e
capibastone, forti nel loro territorio ma deboli o sconosciuti nel
resto d’Italia (Mastella nel Beneventano, De Luca nel Salernitano,
Crocetta in Sicilia ecc.) potranno fondare una miriade di liste
civiche per portare acqua in cambio di posti sicuri con gli alleati.
Sbarramento con truffa.
Gli alfaniani di Ap hanno due grane. 1) Il 3% se lo scordano, ma i
loro ministri e parlamentari sono affezionatissimi alla cadrega,
dunque non si accontentano di portare voti agli alleati col
trucchetto dell’1%. 2) Sono divisi fra gli alfaniani filo-Pd e i
lupiani (da Maurizio Lupi, con rispetto parlando) filo-FI. Detto,
fatto. Un emendamento consente di eleggere senatori anche alle liste
che non arrivano al 3% nazionale, purché lo superino almeno in tre
Regioni (secondo i sondaggi l’Ap, con le sue clientele, è sopra il
3% in Sicilia, Calabria e Puglia). Così gli alfaniani potrebbero
correre da soli e tornare in Parlamento con una pattuglia di
senatori che poi si danno al miglior offerente: Renzi, B. o meglio
Renzusconi.
Coalizioni finte.
Nel proporzionale i partiti corrono da soli. Nell’uninominale invece
si coalizzano (volendo e potendo), ma per finta. Il Pd fa un
Ulivetto bonsai con Pisapia e altri àscari; FI va con Lega, FdI,
Rivoluzione Italiana (la bad company di B.) e un centrino (Fitto,
Costa, Parisi, Verdini, Quagliariello…). Ma già sanno che non
avranno il 50% per governare, quindi le alleanze serviranno solo per
sbaragliare nell’uninominale i partiti solitari (M5S e Mdp), anche
se valgono più di loro (M5S). Poi, la sera delle elezioni, Renzi e
B. saluteranno i rispettivi alleati allergici all’inciucio (Salvini,
Meloni e forse Pisapia, ma non è detto) e tenteranno di abbracciarsi
in un bel governissimo. La prova? FdI presenta un emendamento per
dare il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40%. Ma Pd e FI lo
bocciano: segno che non vogliono vincere per governare coi propri
alleati, ma scaricarli subito dopo il voto e mettersi insieme alle
spalle degli elettori. Firmiamo per fermarli.
Grillo se lo sentiva e infatti nelcomizio
semidesertoa
Genova se ne vantava, con una voluttà allasconfitta
quasi poetica, come se la disfatta
fosse uno schema lungamente provato in allenamento: “Resteremo fuori
da tutto, così nessuno verrà sotto casa a rompermi i coglioni perché
il nostro sindaco non piace”. Di questo passo passerà alla storia,
mutatis mutandis, come l’erede inconsapevole di quell’altro grande
sconfittista che eraRiccardo
Lombardi, nel ritratto diIndro
Montanelli: “Più che il potere, amava
la catastrofe, per la quale sembrava che madre natura lo avesse
confezionato… con un volto che il Carducci avrebbe definito ‘piovorno’,
e di cui nessun pittore sarebbe riuscito a riprodurre le notturne
fattezze senza ritrarlo su uno sfondo di cielo livido, solcato da
voli di corvi e stormi di procellarie: questo era Lombardi, e così
sempre mi apparve. In cosa consistesse il suo alto pensiero
politico, non so. Ma non credo che sia la cosa, di lui, più
importante”.
Ora che il capolavoro, almeno per questa tornata
amministrativa, è compiuto, è bene riepilogarnele
tappe, in quello che già si annuncia
come un preziosomanuale
di istruzioniper
la Caporetto perfetta.
Mossa n. 1.Hai
un sindaco,Federico
Pizzarotti, che 5 anni fa ti ha fatto
conquistare il primo capoluogo:Parma.
Non ruba, governa benino, fa quel che può e annuncia solo quel poco
che fa, sottovoce. È anche un gran rompicoglioni, refrattario agli
ordini di scuderia. Tenerselo stretto e coprirlo di attenzioni,
oltre a levargli ogni alibi per la fuga, sarebbe la migliore
smentita ai detrattori che dipingono il Movimento come una caserma
agli ordini di Grillo&Casaleggio.Ergo
lo scaricano con unasospensione
disciplinaredi
un anno, lo attaccano un giorno sì e
l’altro pure, non lo chiamano mai, lo regalano agli avversari ecandidano
al suo posto un carneade che non mette in fila due parole in croce.
Risultato: 3,18%.
Mossa n. 3.Palermoè
il capoluogo della prima Regione che potrebbe andare ai 5Stelle, ma
il sindacoLeoluca
Orlandopesca
anche nel territorio di caccia grillino. I locali deputati
pentastellati si mettono subito d’impegno e si fan beccare nelloscandalo
delle firme false: migliaia di
nomi veri ricopiati in una notte per sanarne uno con la residenza
sbagliata, il tutto nel 2012, quando il M5S non piazzò nemmeno un
consigliere. I geni vengono indagati e interrogati dai pm, mapensano
bene dinon
rispondere.Grillo
li sospende, quelli polemizzano pure. Le
Comunarie le vince l’avvocatoUgo
Forello, ex Addiopizzo, che si porta
dietro una scia di sospetti sulle cause dei commercianti antiracket.
Segue immancabilefaida
interna, con denunce in Procura e
diffusione di un audio che spiega perché Forello non va bene.
Risultato:Orlando
sindaco per la quinta voltadavanti
a un suo ex fedelissimo passato a destra con la benedizione di
Cuffaro.
Mossa n. 4.Taranto
è l’ideale per i 5Stelle:il
governo annunciail
“salvataggio” dell’Ilvache
avvelena la città, con 6mila esuberi.
Difficile mancare il ballottaggio. Ma si trova il modo: il vertice
cittadino sostiene un candidato, ma altri Meetup si mettono di
traverso con altri nomi (esattamente come a L’Aquila, a Piacenza, a
Padova ecc.). Da Roma si pensa di non presentare il simbolo, magari
appoggiando l’ex procuratore anti-Ilva Sebastio, sostenuto da liste
civiche. Idea troppo brillante: si rischierebbe di vincere. Infatti
subito accantonata.Le
Comunarie last minute le vince con ben 107 voti l’avvocatoFrancesco
Nevoli. Che inizia la campagna
elettorale alla vigilia del voto. Risultato:solito
ballottaggio destra-sinistra.
Mossa n. 5.Incassata
la débâcle,si
dà la colpa alle liste civichecoi
partiti dietro; si vanta la “crescita lenta, ma inesorabile”; si
esulta per i trionfi diSarego
eParzanica;
si fanno sparate anonime sui giornaloni contro i pochi volti noti e
vincenti (Di Maio, Raggi, Appendino), in vista della grande,
spettacolare, definitivadisfatta
nazionale.
Prossima mossa.Vista
la strepitosa riuscita del sistema diselezione
a caso o a cazzo, si completa l’opera
passando direttamentedall’“uno
vale uno” al “l’uno vale l’altro”. Al
posto delle Comunarie,sorteggiodei
candidati dagli elenchi telefonici.
Il
ministro spiega le linee guida del disegno di legge delega sulla
riforma della Pubblica amministrazione: "Stop alle carriere
automatiche: si andrà avanti solo per merito". Sul piano dei
contenuti, un solo ufficio territoriale del governo per uscire
"dall'idea della frammentazione"
I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di
139 mila unit�. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656
mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese
.
.
.
ISIS-DAESH, Guerra dal Nord Africa all'Afghanistan (2011 [inizio della Primavera Araba]-?)
Siria, Usa: “Iniziato il ritiro delle truppe”. Curdi: “E’ una coltellata nella schiena” Dubbi Pentagono: favore a Russia e Iran
L'annuncio della Casa Bianca: "Cinque anni fa, l’Isis era potente e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato". Il Dipartimento della difesa avrebbe cercato di convincere l'amministrazione che una mossa del genere sarebbe un tradimento degli alleati curdi, le cui truppe da anni operano a fianco di quelle statunitensi. Graham, senatore repubblicano: "Errore come quello di Obama".
Washington ha dato il via al ritiro delle truppe dalla Siria. “Abbiamo iniziato a riportare a casa i soldati degli Stati Uniti mentre passiamo alla fase successiva di questa campagna”, afferma la Casa Bianca in una nota. “Cinque anni fa, l’Is (Islamica state, lo Stato islamico, ndr) era una forza estremamente potente e pericolosa in Medio Oriente. Ora gli Stati Uniti hanno sconfitto il califfato” nella regione. Ma è scontro con il Pentagono: “La lotta all’Isis non è finita, anche se la coalizione ha liberato alcuni territori che erano in mano all’organizzazione”, afferma Diana White, portavoce del Dipartimento della Difesa, confermando come gli Usa “hanno iniziato il processo di rientro delle truppe e si avviano alla prossima fase della campagna”.
La notizia del rientro dei 2mila militari del contingente Usa era stata anticipata da diversi media statunitensi e da un tweet di Donald Trump: “Abbiamo sconfitto l’Isis in Siria, la mia unica ragione di permanenza lì durante la presidenza Trump”, ha scritto il presidente degli Stati Uniti. Una decisione che, secondo il New York Times, troverebbe contrario il Pentagono: i vertici del Dipartimento della difesa avrebbero cercato di convincere la Casa Bianca che una mossa del genere sarebbe un tradimento degli alleati curdi le cui truppe da anni operano a fianco di quelle Usa in Siria e che rischierebbero di essere attaccate da un’offensiva della Turchia.
Secondo il Wall Street Journal il ritiro sarebbe stato deciso dallo stesso Trump a seguito di una conversazione con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che considera dei “terroristi” le Forze siriane democratiche, sostenute da Washington e che operano nell’est del Paese nel quadro della Coalizione internazionaleanti-Isis. Lunedì lo stesso Erdogan ha annunciato che la Turchia potrebbe avviare “da un momento all’altro” una nuova operazione militare contro i curdi in Siria, nell’area a est del fiume Eufrate. E dalle forze curde arriva il grido di allarme: la decisione “improvvisa” degli americani è una “pugnalata alla schiena“, afferma una fonte militare delle Forze siriane democratiche.
Non solo: in una serie di incontri e telefonate, il segretario alla Difesa James Mattis e altri funzionari hanno evidenziato i rischi legati ad un ritiro integrale: la decisione consentirebbe alla Russiae all’Iran di ampliare il proprio controllo sul Paese di Bashard.
“Queste vittorie sull’Is in Siria non segnano la fine della Global Coalition o della sua campagna – si legge ancora nel comunicato della Casa Bianca – Abbiamo iniziato a riportare a casa le truppe degli Stati Uniti mentre passiamo alla fase successiva di questa campagna. Gli Stati Uniti e i nostri alleati sono pronti a impegnarsi nuovamente a tutti i livelli per difendere gli interessi americani ogni volta che sarà necessario”, prosegue la Casa Bianca. “Continueremo a lavorare insieme”, si legge ancora. La lotta al terrorismo verrà condotta su tutti i fronti per contrastare l’espansione degli estremisti, bloccare “finanziamenti e supporto” e impedire “che si infiltrino attraverso i nostri confini”.
La decisione contraddice le precedenti affermazioni del Consigliere americano per la Sicurezza nazionale John Bolton, secondo il quale gli Stati Uniti avrebbero mantenuto la loro presenza militare nella regione fino a quando le forze iraniane non avessero lasciato la Siria.
Strasburgo, 3 morti. Killer in fuga: “Può essere su una Ford Fiesta”. Grave il giornalista italiano ferito. Cherif Chekatt, attentatore 29enne in fuga, forse è scappato in Germania. Ha anche ferito 16 persone, sei delle quali sono gravi. Tra loro anche un giovane giornalista italiano, che è in condizioni gravissime. Trovato del materiale esplosivo nell'abitazione dell'attentatore, che era già stato condannato 20 volte per reati comuni. 12 dicembre 2018. Caccia all’uomo nel cuore dell’Europa per trovare l’autore della strage di Strasburgo. Francia e Germania sono mobilitate per cercare Cherif Chekatt, il 29enne accusato di essere il killer, che intorno alle 20 di martedì sera ha fatto fuoco nel mercatino di Natale uccidendo 3 persone (e non due, come detto dalla prefettura martedì mattina) e ferendone altre 16, sei delle quali in modo grave. Tra queste c’è anche l’italiano Antonio Megalizzi. Il procuratore di Parigi, confermando che il killer ha urlato “Allah Akbar”, ha spiegato che ci sono “due morti e una terza persona in stato di morte cerebrale”. Si tratta di un turista thailandese di 45 anni, la cui moglie risulta tra i feriti, un uomo di origini afghane e un francese che viveva in città. Anche alle forze di polizia italiane è arrivata la nota di allerta diramata per le ricerche del terrorista: secondo l’Adnkronos, per gli investigatori Cherif potrebbe essere a bordo di una Ford Fiesta targata CX168FD.
Grave l’italiano ferito: “In coma. Non operabile” – Nella sparatoria è rimasto coinvolto anche il giornalista italiano Antonio Megalizzi, 28enne originario di Trento. “È in coma e non si può operare per la posizione gravissima del proiettile che è arrivato alla colonna alla base del cranio, vicino alla spina dorsale”, ha spiegato Danilo Moresco, padre di Luana, la sua fidanzata. “Ci hanno detto che Antonio è stato colpito alla testa da un proiettile sparato da quel delinquente. Le due ragazze che erano con lui (la trentina Caterina Moser e Clara Stevanato, veneta e residente a Parigi, ndr) ce l’hanno fatta a scappare, rifugiandosi poi in un locale pubblico. Hanno perso di vista Antonio, perché lui è rimasto a terra”.
La nota di allerta: “Killer a bordo di una Ford Fiesta” –Intanto sono stati fermati il padre, la madre e i due fratelli di Chekatt che, scrive la Bild, dopo essere scappato su un “taxi nero” pare sia fuggito in Germania. Lì pare che abbia dei riferimenti a cui appoggiarsi. Nel 2016 era stato infatti condannato dal tribunale di Singen a 2 anni e tre mesi. Aveva commesso un furto in uno studio dentistico e poi in una farmacia del Baden-Wuerttemberg, riferisce l’emittente tedesca N-tv. In un primo momento, secondo quanto emerso dalla riunione straordinaria del Comitato di analisi strategica antiterrorismo (Casa) che si è tenuta al Viminale, si escludeva che l’attentatore avesse collegamenti con l’Italia. Poi l’agenzia Adkronos ha dato notizia della nota arrivata alle forze di polizia italiane: “A seguito dei fatti terroristici accaduti a Strasburgo in data 11 dicembre 2018 al mercato di Natale si richiede di collaborare nelle ricerche di Chekatt Cherif, nato il 21 febbraio 1989 a Strasburgo, persona armata e pericolosa suscettibile di viaggiare a bordo di Ford Fiesta targata CX168FD”, si legge nel documento che comprende anche una foto di Cherif. Nell’immagine il 29enne, ricercato in tutta Europa per l’attentato di Strasburgo, appare con i capelli corti scuri e con la barba.
Situazione Libia: Il maglio francese e l'accordo Minniti per la drastica riduzione degli sbarchi in Italia.
Si è tenuto oggi al palazzo dell’Eliseo di Parigi un vertice fra le più importazioni fazioni in lotta in Libia. Sponsorizzato dal presidente Emmanuel Macron, l’incontro ha riunito delegati di altri 20 paesi e 4 organizzazioni internazionali, ufficialmente per creare le condizioni per uscire dalla crisi. Formula piuttosto vaga dietro la quale si celano profonde differenze fra i promotori.
La Francia, in particolare, è tacciata da diplomatici di altri paesi di voler accelerare a tutti i costi il processo elettorale, iniziativa che secondo i suoi critici mira a rafforzare il generale Haftar, attore con cui Parigi si è più volte schierata in questi anni. Il comunicato emesso alla fine del vertice effettivamente impegna le parti a cercare di realizzare al più presto le elezioni; ma non è stato firmato e – a differenza delle bozze precedenti – non contiene un calendario né la minaccia di sanzioni verso chi non rispettasse l’esito del voto.
Dopo un incontro simile lo scorso luglio, l’Esagono continua a voler perseguire una propria agenda in Libia. A danno dell’Italia, sponsor del premier al-Serraj, riconosciuto dall’Onu. Gli attriti nordafricani fra Roma e Parigi sono figli di un’asimmetria nelle percezioni reciproche e nelle rispettive capacità di esercitare influenza oltre i propri confini. (29 maggio 2018) Al di là dell’emergenza migranti sostenuta in un clima di costante campagna elettorale, gli sbarchi nelle coste italiane non erano così contenuti da anni. Da gennaio 2018 ad oggi il numero è di 5 volte inferiore rispetto all’anno passato. Una vittoria amara dato che l’arresto degli arrivi è in parte il risultato del tanto criticato memorandum d’intesa dell’allora governo Gentiloni con il primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, Fayez al Serraj.
Dall’est all’ovest. Nonostante le critiche contro le ripetute violazioni dei diritti umani del governo libico (ad oggi non firmatario della convenzione di Ginevra), la stretta sulle partenze c'è stata ed ha comportato lo spostamento parziale delle rotte migratorie. Il cambiamento dei porti di partenza ha così determinato una variazione della provenienza dei migranti. Così, a differenza degli anni passati, nei primi sei mesi del 2018 il maggior numero di migranti, sbarcati in Italia, ha dichiarato di esser di nazionalità tunisina. Tunisia. Nel 2017 la Tunisia era all’ottavo posto delle nazionalità arrivate in Italia. La maggior parte sono migranti economici alla ricerca di migliori condizioni lavorative. Il paese nordafricano, nonostante un’economia in crescita, ha ancora seri problemi di disoccupazione. Inoltre, le politiche di sviluppo attuate dal governo hanno portato a forti scontri, repressi anche con la forza, poiché hanno allargato il già notevole divario tra ricchi e poveri, aggravando la situazione nelle aree più vulnerabili. Oltre ai problemi economici, ci sono anche ancora leggi draconiane che colpiscono la comunità Lgbti, l’omosessualità è infatti punita con il carcere. Inoltre il governo, cavalcando l’onda di insicurezza e sotto il velo della lotta al terrorismo sta attuando azioni di contrasto che violano i diritti umani. Eritrea. Nei primi sei mesi del 2018 sono sbarcati in Italia 2.233 eritrei, la seconda nazionalità per numero. Le persone che fuggono dal paese, scappano da uno stato che impone il servizio militare a tempo indeterminato, limita la possibilità dei suoi cittadini di espatriare e usa questo escamotage per sfruttare gli arruolati in lavori pesanti. Il paese, da anni in tensione con i vicini, ha una delle economie più povere del mondo. Secondo i dati Unicef di giugno 2017, 22.700 mila bambini al di sotto dei 5 anni verserebbe in uno stato di malnutrizione acuta. Il paese non riconosce inoltre la libertà di culto, né quella di stampa. Sudan. Terzi nel 2018, noni nel 2017. Sono circa 1373 i migranti provenienti dal Sudan sbarcati in Italia. Un paese che in seguito alla scissione con il Sud Sudan, non ha mai trovato pace. Libertà d’espressione, di riunione e di stampa sono diritti costantemente calpestati dal governo d Khartoum. Gli arresti arbitrari hanno colpito anche esponenti del terzo settore e dell’opposizione politica. Inoltre il persistere dell’instabilità politica alimentata dagli scontri con i vicini del sud, ha alimentato le crescenti violazioni del diritto internazionale e di guerra anche con uccisioni sommarie di civili, stupri e saccheggi. Drammatica anche la situazione economica con aree come il Kordofan del Sud e Nilo Blu dove si stima che quasi il 40% della popolazione sia fortemente malnutrita. Nigeria. Nel 2017 è stata la nazionalità più diffusa tra i migranti, nel 2018 è la quarta. Ma questo non vuol dire che la situazione in Nigeria sia migliorata. La minaccia di Boko Haram continua a flagellare parte del paese. Centinaia i morti nell’ultimo anno, con picchi di violenza che hanno portato allo sfollamento di intere comunità. Migliaia le persone costrette ad abbandonare le loro abitazioni. Come se non bastasse, la reazione dello stato al terrorismo sta portando all’aumento di casi di violenze e violazioni contro civili da parte delle forze governative. Arresti arbitrari anche di donne e minorenni, uccisioni sommarie e il mancato impegno del governo nel perseguire i responsabili delle violazioni accertate. La Nigeria inoltre persegue la comunità Lgbti, le donne sono vittima di leggi e consuetudini arretrate e ha una limitatissima libertà di stampa
Migranti, Onu: “Il patto con la Libia è disumano
Si tollerano le torture per evitare gli sbarchi”; a 6 anni dalla morte di Gheddafi, sorgono di nuovo i campi di concentramento e sterminio. Tutti gli autori di questo patto devono essere portati alla sbarra per crimini contro l'umanità ad incominciare dal Ministro dell'Interno Italiota Pezzo di Merda Minniti, 14 novembre 2017
Osservatori delle Nazioni Unite: “Migliaia di uomini denutriti e traumatizzati, donne e bimbi ammassati”
Video See Watch: Frustate e persone gettate in acqua. Cnn: “Uomini venduti all’asta per 800 dollari”
Il patto dell’Europa con Tripoli “è disumano e la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”. Sono queste le parole durissime dell’Alto commissario Onu per i diritti umani Zeid Raad Al Hussein che è intervenuto per parlare delle politiche migratorie dell’Unione europea e in particolare dell’accordo del governo italiano con le autorità libiche
Egitto, bombe e raffiche di mitra contro
i fedeli in moschea: “235 morti, 109 feriti”, 24-11-17
Iraq, Baghdad: “Caduta ultima roccaforte Isis,Tal Afar”. Coalizione: “Il califfato è alla fine”
Il comandante dell’operazione militare nella regione, generale Abdul Amir Yarallah, ha detto che le forze lealiste hanno cominciato ad avanzare nel territorio urbano. Brett McGurk, inviato degli Stati Uniti: "Dal 2014, l’Isis ha perso il 95% del territorio che controllava in Iraq e in Siria". Forza iraniane: "Anche in Siria la vittoria è vicina"
Karim, l'italiano che combatte in Siria, racconta la campagna per riconquistare Raqqa
La presa di Tabqa da parte delle Forze siriane democratiche è stata un passaggio cruciale per l'assedio di Raqqa, durato fino al 17 ottobre e conclusosi con la sconfitta dell'Isis e la cacciata dei miliziani da quella che era considerata la capitale siriana del Califfato. Karim Franceschi, di Senigallia, è stato il primo italiano ad andare in Siria per combattere contro l'Isis a Kobane. Era il gennaio del 2015. Ora guida uno dei battaglioni internazionali d'assalto, che fanno parte dello Ypg curdo.
“Così abbiamo liberato Raqqa”. Parla l’italiano per 7 mesi in prima linea a combattere contro l’Isis, Claudio Locatelli
L'Iraq dopo Kirkuk riprende anche Sinjar ai curdi. Trump: "Noi non siamo con nessuno"
L'avanzata dell'esercito federale e delle milizie nel Kurdistan. Ripresi anche i pozzi di petrolio: minata l'autonomia del governo regionale che ha promosso il referendum per l'indipendenza. L'esercito federale iracheno e le milizie sciite di Hashad al Shaabi (mobilitazione popolare) continuano l'avanzata nei territori del nord dell'Iraq che da mesi erano sotto controllo dei peshmerga curdi. All'alba le milizie curde si sono ritirate da Sinjar, la città yazida che era stata liberata dai curdi dopo mesi di occupazione da parte dello Stato Islamico. Masloum Shingali, il comandante di una milizia yazida locale, ha detto che i soldati curdi hanno lasciato la città prima dell'alba e che poche ore più tardi sono arrivate la milizie sciite che combattono per il governo di Bagdad.
Il sindaco della città, Mahma Khalil, dice che ormai Sinjar è sotto il controllo delle forze del governo federale, e che non ci sono stati combattimenti, quasi ci fosse stata un'intesa fra i Peshmerga e le forze di Bagdad.
L'offensiva del governo federale iracheno è iniziata nella notte di sabato innanzitutto contro Kirkuk, la grande città a 250 chilometri a nord di Bagdad che era stata occupata dai curdi, ma non fa parte della regione amministrativa del Kurdistan con popolazione curda, ma è abitata soprattutto da arabi e turcomanni. Liberata Kirkuk, le milizie dell'esercito popolare e quelle di "mobilitazione popolare" sciite hanno occupato anche tutti i maggiori campi petroliferi della zona: la tv di Bagdad sostiene che sono stati ripresi i pozzi di Havana e Bai Hassan, ad ovest di Kirkuk, dopo avere conquistato lunedì quelli di Baba Gurgur, a est.
A questo punto il governo di Bagdad avrebbe il controllo di circa 400mila dei 600mila barili di petrolio al giorno estratti nella regione del Kurdistan. Significa che il Krg, il Kurdistan regional government (che ha promosso il referendum per l'indipendenza) di fatto non ha più le risorse per mantenere la sua autonomia, e che quindi a parte la perdita di un territorio importante come quello di Kirkuk, l'autonomia sarebbe stata di fatto ridimensionata economicamente.
Nella notte per la prima volta il presidente americano Donald Trump ha commentato l'offensiva di Bagdad in Kurdistan: "Gli Stati Uniti non prenderanno posizione a favore dell'uno o dell'altro. Da molti anni abbiamo una relazione molto buona con i curdi e siamo anche stati dalla parte dell'Iraq, pur se non avremmo mai dovuto essere lì", dice Trump, che in passato aveva criticato l'intervento militare americano in Iraq.
Una portavoce del Dipartimento di Stato dice che Washington "è molto preoccupata per le notizie della violenza intorno a Kirkuk: sosteniamo l'esercizio pacifico dell'amministrazione congiuntamente da parte del governo centrale e del governo regionale, coerentemente con la costituzione irachena, in tutte le aree contese".
Gli Usa temono che lo scontro possa destabilizzare la coalizione che sta combattendo contro lo Stato islamico. Ma alcuni elementi lasciano pensare che le operazioni in Kurdistan non dovrebbero interferire in maniera negativa con l'offensiva contro lo Stato Islamico: innanzitutto il fatto che le aree ancora occupate dai terroristi del Califfato si sono molto ridotte, e che lo sforzo militare terrestre iracheno potrà essere molto più concentrato. Fra l'altro l'esercito iracheno e le milizie sciite in questi ultimi mesi hanno avuto modo di consolidarsi e rafforzarsi dopo le operazioni iniziali avviate con il sostegno degli Stati Uniti e dell'Iran che a terra ha sostenuto e organizzato soprattutto Hashad al Shaabi.
La provincia di Kirkuk, il cui capoluogo omonimo è situato 250 chilometri a nord-est di Bagdad e conta circa un milione di abitanti, è stata al centro di influenze e interessi contrastanti da quando, nel 1927, i britannici vi scoprirono il petrolio. Durante l'era del deposto e defunto presidente iracheno Saddam Hussein l'area era stata sottoposta a un processo di 'arabizzazionè forzata, come molte altre aree miste dell'Iraq.
Ma nel 2014, quando l'esercito federale abbandonò il nord del Paese di fronte all'avanzata dei jihadisti dell'Isis, le forze della vicina regione autonoma del Kurdistan occuparono la città e i siti petroliferi più importanti.
Da allora Kirkuk è rimasta sotto il controllo dei Peshmerga, e le autorità del Kurdistan avevano avviato un lento processo di integrazione che ha comportato la diffusione della lingua curda e la nomina di rappresentanti di questa etnia in posti chiave dell'amministrazione, compresa la polizia.
A Kirkuk vivono 850 mila abitanti, di cui un terzo curdi e un venti per cento turcomanni; nella sua area vengono estratti ogni giorno 400.000 barili di petrolio, quasi il 70% dei 600.000 che Erbil invia fino al terminal turco sul Mediterraneo di Cehyan, sbocco dell'oleodotto che parte proprio da Kirkuk. La crisi è precipitata con il referendum del 25 settembre per l'indipendenza voluto dal presidente del Governo regionale del Kurdistan, Massoud Barzan
Raqqa, caduta la capitale dell’Isis: “Completamente strappata al Califfato”. 3.200 morti nella battaglia finale – FOTO
Cade la capitale dello Stato Islamico. Le forze curdo-siriane alleate degli Stati Uniti che combattono l’Isis, infatti, hanno confermato di avere interamente strappato Raqqa al controllo del Califfato. L’annuncio è stato dato dalle stesse Forze democratiche siriane (Sdf), a predominanza curda, sostenute dalla Coalizione internazionale a guida americana.
“A Raqqa l’operazione militare è terminata, ma adesso portiamo a termine un’operazione di pulizia per porre fine alle cellule dormienti di Daesh (acronimo arabo per indicare l’Isis ndr) che ci sono ancora”, ha spiegato al telefono con l’agenzia spagnola Efe il portavoce delle Fsd, Talal Salu, anticipando che le Forze democratiche siriane pubblicheranno a breve un comunicato proclamando ufficialmente la liberazione di Raqqa dall’Isis.
Gli ultimi combattenti jihadisti si erano trincerati in un’area molto ristretta del centro della città. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani tra di loro c’erano molti foreign fighters, cioè combattenti stranieri arrivati da altri Paesi arabi ma anche da Usa ed Europa per combattere nelle file dell’Isis. È sempre l’Osservatorio a tracciare una prima stima delle vittime della battaglia finale per riconquistare la roccaforte Isis: almeno 3.200 morti da giugno ad oggi, tra cui non meno di 1.100 civili. Almeno 267 i bambini e 194 le donne decedute.
Intanto sullo stadio di Raqqa è stata issata la bandiera dell’Ypg, le Unità di protezione del popolo curdo, la più potente delle fazioni che compongono l’alleanza curdo araba. Rojda Felat, comandante delle operazioni delle Forze siriane democratiche a Raqqa, ha dichiarato che sono in corso le operazioni per mettere in sicurezza lo stadio, ripulendolo dalle mine disseminate dai jihadisti. L’impianto sportivo è l’ultimo grande obiettivo riconquistato dalle Forze democratiche, mentre prima erano stati riconquistati l’ospedale, altra zona di resistenza delle milizie jihadiste, e piazza al Naim, divenuta celebre perché teatro delle esecuzioni pubbliche dei boia dell’Isis.
Già domenica, quando era cominciato l’assalto finale alla città, centinaia di miliziani di Daesh e migliaia di civili, tra cui le famiglie degli stessi estremisti, erano stati evacuati da Raqqa in base a un accordo raggiunto tra le Sdf e lo Stato islamico, con la mediazione di capi tribali locali. Anche ai foreign fighters era stato permesso di lasciare la città, nonostante l’opposizione soprattutto dei servizi segreti francesi, convinti che in città si nascondessero anche le menti degli attentati di Parigi. Secondo le Sdf sono stati evacuati nei giorni scorsi circa 3mila civili e 275 miliziani dell’Isis, mentre tra i 250 e i 300 jihadisti stranieri
La gioia per la liberazione della città, però, lascia presto il posto alla situazione di emergenza in cui si trovano i sopravvissuti. “I bambini che si trovano nei campi intorno a Raqqa hanno raccontato ai nostri operatori che sono stati costretti a essere testimoni di esecuzioni e decapitazioni – spiega Save the Children in un comunicato – Hanno detto di aver visto amici e familiari saltare in aria a causa delle mine presenti sulle strade e di aver assistito a bombardamenti che hanno ridotto in cenere le case. Ci potrebbero volere molti anni per curare i danni psicologici che hanno subìto”, continua l’ong, che ha denunciato anche le condizioni delle “circa 270mila persone fuggite dai combattimenti a Raqqa che hanno urgentemente bisogno di aiuti, mentre i campi di sfollati sono al limite del collasso“.
La battaglia per liberare Raqqa è iniziata a giugno. La città era controllata dall’Is dal 2014 e si ritiene che da qui i miliziani pianificassero gli attacchi all’estero. È a Raqqa, infatti, che si concentravano migliaia di foreign fighters. Sempre a Raqqa, poi, l’Isis aveva organizzato la sua amministrazione locale che prevedeva tasse, burocrazia e polizia. È l’ultima grande città persa dallo Stato Islamico mentre la scorsa estate l’esercito iracheno, sempre coadiuvato dagli Stati Uniti, aveva espugnato Mosul.
hanno rifiutato l’accordo.
Mosul, ultimo atto:il 9 luglio 2017 cade la seconda capitale del Califfato, un milione di profughi, oltre centomila civili uccisi, città rasa al suolo
Siria, 4 zone cuscinetto e cessate il fuoco: Russia, Turchia e Iran trasformano le loro aree di influenza in entità politiche (4 maggio 2017)
"La Troika Russia–Iran–Turchia è lo strumento più efficace per risolvere la crisi siriana", disse il 20 dicembre il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, nel corso di un vertice a Mosca. Ora arrivano i primi risultati dell'accordo. Tensione nel nord del Paese tra Ankara e Washington: "Se veicoli Usa continuano a sostenere l'avanzata dell'Ypg verso la città di Raqqa, potrebbero essere colpiti accidentalmente"
Quattro zone cuscinetto e il cessate il fuoco dal 6 maggio. Sono questi i termini principali di un memorandum d’intesa siglato giovedì 4 maggio ad Astana, in Kazakistan, fra i tre paesi garanti della tregua in Siria: Iran, Russia e Turchia.
Iraq, viaggio tra le rovine di Ramadi,la capitale del gigantesco ovest irakeno: liberata dall'Is, distrutta dalle bombe(1-5-16)
Da sempre considerato ribelle e difficile da governare, il capoluogo sunnita della provincia di al Anbar è stato dominato dagli uomini di abu Musab al Zarkawi, il capo del ramo iracheno dell'organizzazione fondata da Bin Laden. E' stato lui a gettare le basi del Califfato. C'è voluto un anno per riconquistarla. Ma gli effetti della pioggia di raid aerei e degli ordigni eplosivi disseminati dai miliziani dell'Is prima di fuggire hanno trasformato la città. La reazione del governatore davanti ai giornalisti arrivati per un'intervista: "Andate subito via, restare è un suicidio". Ramadi è situata a 50 chilometri ad ovest di Bagdad, sulla medesima direttrice di Falluja, la città completamente annientata dagli statunitensi tra l'aprile ed il dicembre del 2004. Non solo annientata, ma fosforizzata e riempita di uranio impoverito, facendone una delle aree più contaminate di radiazioni ed agenti tossici dell'intero pianeta.
I marines assediarono e bombardarono Falluja nell’aprile di 6 anni fa, dopo che 4 dipendenti della compagnia di sicurezza Blackwater furono uccisi e i loro corpi bruciati e portati per la città. Dopo 8 mesi di stallo nelle operazioni, i Marines decisero di usare l’artiglieria e i bombardamenti aerei per piegare la resistenza. Utilizzando armi legali, fu detto. Prima che si scoprisse dell’uso del fosforo bianco, in grado di bruciare, a contatto con l’aria, pelle e carne su cui si deposita: un’arma illegale, in campi di guerra densamente popolati come una città. E ora il dubbio è “che siano state usate anche armi contenenti uranio, in qualche forma”, dice il dottor Busby.
I militari britannici, che affiancarono gli americani durante l’assalto, rimsaero esterrefatti notando il volume di fuoco impiegato per l’operazione. Falluja venne considerata una zona sulla quale poter sparare liberamente: “In una sola notte vennero lanciati 40 colpi di artiglieria pesante su un singolo settore della città”, ricorda il brigadiere Nigel Aylwin-Foster. Il comandante che ordinò quell’uso devastante di munizioni non lo considerò rilevante, tanto da non menzionarlo nemmeno nel rapporto al comandante delle truppe Usa.
Kabul, il mullah Omar è morto due anni fa,nel 2013
Lo hanno confermato i servizi segreti afgani, anche se gli integralisti insistono nel negare la morte del loro capo supremo, che sarebbe avvenuta nell'aprile 2013. Mistero sulle cause del decesso (29-07-15)
FRONTE DEL MEDITERRANEO
Migranti, ad aprile 2016 più sbarchi in Italia
che in Grecia: molti arrivati dall’Egitto
Brennero, “Austria: “Per ora no muro”. Egitto, "400 migranti dispersi in un naufragio"
Intervista Il medico di Fuocoammare: "Andiamo a salvarli"
Gommone in avarìa nel Canale di Sicilia: 6 morti, 108 in salvo foto
Migranti, “700 bambini morti nel 2015
Raddoppiato numero totale vittime”
Appello Unicef: “Fermare l’ecatombe”
Traffico migranti, 7 arresti in tutta Italia
"A fine anno saranno più di 100mila"
Lega: "Colpa di Renzi". Il Pd: "Sciacalli"
Inchiesta sulla strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013
Dossier / foto / video / Il viaggio di papa Francesco
Ieri nuova tragedia: 30 morti per asfissia
ECONOMIA ITALIOTA
Fatture, no alla banca dati: la Privacy ferma il Fisco
Decreto fiscale in vigore da oggi. Che cosa c’è: da rottamazione ter a definizione agevolata delle liti con le Entrate
Debito pubblico, l’Italia non guarirà tornando alla lira. Basta saperne un po’ di economia
Questo post spiega a chi non si interessa molto di economia alcuni punti chiave per capire il marasma in cui si trova l’Italia e le ricette che vengono proposte per rimediarvi.
Partiamo da una semplice considerazione: le banconote e le monete emesse dalla banca centrale di un Paese sono una passività del settore pubblico. In altre parole sono considerate un debito del governo. Quindi, specularmente, per chi le ha in tasca costituiscono un credito verso il governo. Una banconota, in altre parole, è una cambiale con cui il governo paga i suoi dipendenti, i suoi debitori, i pensionati eccetera. Questa cambiale ha due caratteristiche: non paga interessi e non ha una scadenza. Ma una persona accetta quei pezzetti di carta colorata perché milioni di individui l’accetteranno in cambio di beni (pane, vino, cicoria ecc.) o servizi (visite mediche, biglietti dell’autobus, taglio di capelli ecc.).
Ai bei tempi andati del gold standard (fino al 1971) a garanzia di questo debito del governo nel bilancio della banca centrale c’erano le riserve auree. Oggi che le banche centrali non pongono a garanzia della moneta un bene fisico come l’oro, il corrispettivo di questa passività dello Stato è un asset immateriale: la fiducia nel governo e nelle istituzioni pubbliche, economiche, politiche, militari, giudiziarie ecc. Infatti si definisce moneta fiduciaria.
Il fatto che questo questo asset sia immateriale è fonte di infinita confusione per chi non ha acquisito almeno i rudimenti di economia. La confusione deriva da un semplice fatto: la fiducia nelle istituzioni non è misurabile. Quindi a fronte di un elemento concreto, tangibile, di uso quotidiano come banconote e monete, con un valore preciso stampigliato sopra, vi è un elemento impalpabile. Questa dissonanza cognitiva sull’insostenibile leggerezza della fiducia pone un problema politico, perché l’elettore è bombardato da una propaganda ossessiva sulle virtù taumaturgiche della moneta e non riesce a raccapezzarsi. Viene indotto a pensare che più si aumenta la quantità di moneta in circolazione, più sale il reddito reale degli individui. Invece non è così. Altrimenti la banca centrale avrebbe inventato la bacchetta magica con cui creare ricchezza senza limiti.
L’impalpabile fiducia sui cui si regge il valore della moneta è essenzialmente la fiducia che le banconote mantengano nel tempo il loro valore per l’acquisto di beni reali. Se oggi con dieci euro si compra una pizza, ma per mancanza di fiducia nelle istituzioni la gente si convince che domani quella pizza costerà venti euro, nessuno terrà una banconota in tasca o nel portafogli. Si precipiterà a spenderla. Per rendersi conto di cosa succede in concreto basta digitare su Google “inflazione Venezuela”.
Inoltre nel bilancio dello Stato esiste un’altra passività: il debito pubblico, cioè la somma di Bot, Btp e altre obbligazioni emesse dal governo. A differenza della moneta, questi titoli pagano un interesse e hanno una scadenza. I risparmiatori li comprano perché nutrono fiducia che il governo alla scadenza ripaghi con gli interessi questi titoli di credito. Quindi anche in questo caso il valore dei titoli dipende dalla fiducia nelle istituzioni. E lo ripeto per chi fosse confuso: è la stessa identica impalpabile fiducia nelle istituzioni che spinge ad accettare in pagamento le banconote.
Da alcuni anni vengono diffuse sul web tutta una serie di farneticazioni da varie bande di mestatori, che si presentano sotto varie etichette, ma che appartengono allo stesso ceppo (o alla stessa ceppa per dirla alla Di Maio): Mmt, noeuro, minkioliristi, sovranisti, fascio-comunisti, patacchisti eccetera. Le farneticazioni poggiano su un banale, semplicistico e puerile pilastro: il governo, tramite la banca centrale, deve stampare moneta per acquistare le obbligazioni pubbliche. In questo modo risolve tutti i problemi economici, azzera il debito dello Stato e anzi può creare dal nulla, per incanto, le risorse con cui pagare pensioni, sussidi, reddito di cittadinanza, opere pubbliche e ogni ben di Dio senza che nessuno lavori e produca. Insomma la stampante “magggica” vagheggiata nel piano B del Savona in versione descamisado tardo-peronista.
I peron-sovranisti essenzialmente propugnano una partita di giro tra passività: ai titoli pubblici si sostituisce moneta. Tradotto: a una passività del governo con interessi e con scadenza definita si sostituisce una passività senza interessi e senza scadenza. Ma come abbiamo visto, entrambe le passività si reggono sulle stesse fondamenta: la fiducia. Quindi cosa si ottiene in pratica da questa partita di giro?
Prendiamo un caso reale che ci riguarda tutti da vicino. L’ultima asta del Btp Italia è stata un fiasco clamoroso come non se ne registravano da anni. Detto in soldoni, la gente si fida poco del governo italiano e delle sue istituzioni. Qual è la ricetta che propongono i peron-sovranisti di lotta e di sgoverno? Tornare alla lira in modo da ricomprare il debito pubblico italiano con minkiolire fresche di stampa. In parole povere un governo screditato (cioè che non gode di alcuna fiducia) risolverebbe magicamente i problemi costringendo la gente a scambiare carta straccia con altra carta straccia. Se tra i lettori qualcuno ritiene che questa sia una strategia vincente, io ne sono immensamente felice. Vendesi stupenda fontana monumentale rinascimentale nel cuore di Romain puro marmo di Carrara a prezzo sensazionale, di assoluto realizzo.
Magneti Marelli, Fca la vende alla Calsonic Kansei per 6,2 miliardi di euro
L'accordo con il fornitore giapponese di componentistica si perfezionerà nel 2019, e darà vita a un colosso da 15,2 miliardi di fatturato. La sede resterà in Italia, a Corbetta, per almeno cinque anni e verranno tutelati i livelli occupazionali. Soddisfatti i sindacati, che tuttavia restano vigili.
Alla fine, la prima decisione “pesante” dell’era Manley è arrivata: Magneti Marelli è stata ceduta da FCA ai giapponesi della Calsonic Kansei per 6,2 miliardi di euro, e le sue attività verranno effettuate sotto il nome di Magneti Marelli CK Holdings. La Calsonic Kalsei, di proprietà del fondo Usa Kkr, è uno dei principali supplier di componentistica giapponesi, che insieme all’azienda italiana formerà un colosso da top ten dei fornitori mondiali, dal fatturato di 15,2 miliardi di euro e dalla forza lavoro di ben 65 mila persone distribuite in quasi 200 impianti e centri di ricerca e sviluppo in Europa, Giappone, America e Asia-Pacifico.
“Questa è una giornata di trasformazione sia per Magneti Marelli che per Calsonic Kansei, che creano così un business globale con una gamma eccezionale, presenza geografica, competenza e prospettive future: una combinazione ideale”, ha dichiarato il numero uno di Fca Mike Manley, al quale ha fatto eco l’ad di CK Beda Bolzenius: “Insieme beneficeremo di una presenzageografica e di linee di prodotti complementari, mentre i nostri rispettivi clienti beneficeranno di un maggiore investimento in persone, processi e prodotti innovativi”.
Le trattative per la cessione iniziarono quando sul ponte di comando di Fca c’era ancora Sergio Marchionne, che più che altro in mente aveva lo scorporo di Magneti Marelli: un modo per far entrare denaro fresco da distribuire agli azionisti. Lui stesso, tuttavia, aveva affermato di poter riconsiderare l’ipotesi della vendita, in cambio di un “big check”: insomma, di fronte a un’offerta irrinunciabile l’affare si poteva andare in porto.
Quell’offerta, nondimeno, tardava ad arrivare. Prima di stringere coi giapponesi Fca aveva parlato anche con altri, tra cui Apollo Global Management e Bain Capital, come riporta il sito specializzato Autonews.com. Una volta focalizzata la trattativa con Calsonic Kalsei, c’era da trovare il punto d’incontro tra domanda e offerta: Marchionne aveva fatto sapere che il suddetto “big check” era una cifra non inferiore ai sei miliardi di euro. Dopo l’estate ballava ancora circa un miliardo, differenza poi colmata con l’ultima offerta appunto da 6,2 miliardi di euro. A quel punto è arrivata la mossa Pietro Gorlier, l’ex amministratore delegato “riassorbito” dandogli la poltrona di responsabile Fca per l’area Emea lasciata libera dopo le dimissioni di Alfredo Altavilla.Infine, c’è il capitolo lavoratori. Sia Fca che CK hanno fatto sapere con una nota ufficiale di voler tutelare i livelli occupazionali e le operazioni in Italia, anche per questo il quartier generaleresterà a Corbetta (vicino Milano), almeno per i prossimi cinque anni. Anche perché Magneti Marelli continuerà ad essere il fornitore di Fca, che manterrà nel suo perimetro la divisioneplastica. Soddisfatti i sindacati, che restano comunque guardinghi: “La cessione di Magneti Marelli non provocherà effetti diretti e immediati sui rapporti di lavoro, poiché avverrà tramite passaggio azionario e fusione con la società acquirente”, ha dichiarato il segretario generale della Uilm Rocco Palombella, “e il fatto che la giapponese Calsonic sia concentrata in Asia (e che magneti Marelli non sia presente in Giappone, ndr) dovrebbe escludere pericolose sovrapposizioni, mentre la prosecuzione dei rapporti di fornitura con Fca dovrebbe assicurare piena continuitàproduttiva. Ma la nostra attenzione come sindacato sarà massima”. Sulla stessa lunghezza d’onda il segretario generale Fim Cisl Marco Bentivogli: “L’accordo prevede la salvaguardiaintegrale della forza lavoro, su cui vigileremo affinché l’operazione sia una grande occasione di crescita“. “E’ fondamentale avviare sin da subito un confronto sul futuro del gruppo”, commenta infine la segretaria generale della Fiom-Cgil Francesca Re David, “sia dal punto di vista occupazionale sia produttivo e della ricerca e sviluppo su cui chiederemo un ruolo attivo del Governo“. A metà mattinata, spinto dalla cessione di Magneti Marelli, il titolo Fcaguadagnava il 4,26% a Piazza Affari.
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Tre anni dopo i tweet di giubilo di Matteo Renzi, la situazione delle acciaierie di Piombino precipita definitivamente. Il rilancio dell’ex Lucchini per mano dell’algerino Issad Rebrab non avverrà. È stata un presa in giro, come la definisce il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. Tanto che il sindaco Massimo Giuliani, che in questi anni di passione è arrivato a ospitare gli operai all’interno del Comune, lo dice senza giri di parole: “Evidentemente il ministro Calenda ha preso atto che non ci sono ulteriori fatti o documenti che facciano ritenere il piano industriale di Aferpi attendibile, verosimile e fattibile
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POLITICA ITALIOTA
Salvini viene dai centri sociali. E dal comunismo al nazionalismo il passo non è stato breve
Finale d'anno da "che mangino brioche" nelle zone dell'opposizione. Lanci di volumetti, gilet azzurri, e inni alla Costituzione calpestata, fuori tempo massimo. Manifestazioni di maniera, indecisione, cautela nelle scelte. Non un alito di vita vera sale dalle sue fila: dalla sinistra non è arrivata in tutti questi mesi nessuna iniziativa che abbia avuto impatto sulla vicenda politica nazionale.
Il leader della Lega Matteo Salvini – nonché vicepremier e ministro dell’Interno – da qualche tempo indossa quasi sempre un giubbotto da poliziotto, con galloni e mostrine. Dopo avere raschiato il barile delle felpe e avere provato anche a vestirsi da vigile del fuoco, si è immedesimato nella parodia del comandante in capo della Ps, tanto più che si fa chiamare “capitano” dai suoi adepti. Scelta inedita per la nostra Repubblica, indegna di un ministro e pure illecita, perché la legge vieta di indossare abusivamente divise o distintivi delle forze dell’ordine. Ma a lui “che je frega”, come dicono a Roma. Questa recita, che ricorda i tempi infausti in cui un leader (fascista) sfoggiava look militareschi, gli è stata consigliata da chi cura la sua immagine trucida, per continuare a ramazzare voti.
Ovviamente gli hanno pure detto che “uomo d’ordine/terrore dei migranti/nemico dei comunisti” (comunisti in Italia e altrove ormai estinti) è la ricetta perfetta per fare un po’ di comodo nazionalpopulismo, sventolato davanti allo smartphone o alle tv. Non a caso, una delle sue celebri battute, da ministro fresco di nomina, risale al giugno scorso quando, durante un comizio a Pisa, aveva detto a un ragazzo: “Sei l’unico che ha la maglietta rossa in tutta la piazza, di rosso di buono c’è solo il vino”. E pensare che c’è stata un’epoca in cui Matteo Salvini è stato… comunista!
Un esempio? La mattina del 10 settembre 1994 nel centro di Milano ci furono alcuni scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Pochi giorni prima era stato sgomberato per l’ennesima volta il Leoncavallo, “storico” centro sociale. La protesta si concluse con sassaiole e manganellate. L’avversario del centro sociale era il sindaco leghista Marco Formentini. Fatto sta che dopo, in Consiglio comunale, qualcuno si alzò per difendere il Leoncavallo. “Gli incidenti sono avvenuti per colpa di pochi violenti, mentre i 15mila giovani che hanno manifestato avevano ragioni giuste e condivisibili, ma sono stati strumentalizzati”. A parlare, di fronte a sindaco e giunta, era stato un consigliere comunale leghista di 21 anni: Matteo Salvini, quando vestiva colori rosso/verdi.
In effetti Salvini fa parte della Lega Nord dal 1990, ma aveva una formazione “originale” rispetto alla linea del partito. Nel 1997 infatti entrò nel Movimento dei comunisti padani. “Chi non ha mai frequentato un centro sociale? Io sì, dai 16 ai 19 anni, mentre frequentavo il liceo, il mio ritrovo era il Leoncavallo. Là stavo bene, mi ritrovavo in quelle idee, in quei bisogni”, spiegava. Non contento, dopo fece una scelta ulteriore: “Io ero stato eletto al Parlamento padano coi comunisti padani nel ‘97. In Lega ero accusato di avere l’orecchino e la barba e di essere un po’ strano”. Lo ha “rivelato” nel 2014 durante la trasmissione Bersaglio mobile, su La7.
È vero che in quel periodo Umberto Bossi cercò di riprodurre ogni partito politico in versione leghista, per far credere che il sedicente Parlamento padano, e quindi la Lega Nord, fossero già rappresentativi di ogni ideologia. È pure vero che i due ex segretari della Lega sono stati comunisti vecchio stile: lo stesso fondatore Bossi, tra 1974 e 1975, è stato iscritto alla sezione del Pci di Verghero, frazione di Samarate (lui ammette solo qualche frequentazione, ma la tessera è stata trovata) e prima ancora avrebbe frequentato il partito di Unità proletaria per il comunismo; Roberto Maroni è stato fino al 1979 comunista di Democrazia proletaria. Però il giovane Matteo era e resta una novità: veniva dai centri sociali. Immemore di quei trascorsi e (più o meno consapevolmente) di molto altro, oggi Matteo Salvini – 25 anni e 25 chili dopo – cavalca la bolla elettorale che premia, in quest’epoca di scelte politiche effimere, il suo nuovo partito. Oggi vorrebbe (fare) manganellare, anzi “ruspare”, quelli che oggi frequentano i suoi vecchi ambienti: dice cose tipo “centri sociali conigli” e “forse campano con la camorra”.
Spiegano Alessandro Franzi e Alessandro Madron nel libro Matteo Salvini #ilMilitante, a proposito del vicepremier in stile anni Novanta: “Era rapido nell’organizzare la protesta e facile bersaglio di accuse di opportunismo da parte degli avversari”, anche dentro la Lega. Insomma, il Salvini trasformista di ieri, alleato di Berlusconi, era già il Salvini trasformista di oggi, alleato del solito Berlusconi dove gli conviene e dei pentastellati nel governo. Dal “comunismo” leghista al populismo nazionalista il passo per lui non è stato breve; né gli è stato facile far dimenticare ai meridionali che nel 2009 a Pontida cantava “Senti che puzza, arrivano i napoletani”, oppure fare scordare ai padani doc che è svanito il sogno della Padania indipendente. Certo, di questi tempi una felpa con la scritta giusta o un giubbotto abusivo della Polizia di Stato bastano per consolidare un’“ideologia” che con le idee ha poco a che fare; semmai marcia a forza di non-idee, cioè di pregiudizi. Per il momento una porzione consistente dell’elettorato superstite gli sta dando ragione. In caso di emergenza elettorale avrà già pronta qualche felpa con un nuovo slogan, d’altra parte è un campione delle virate. Ammesso e non concesso che il giochino del trasformista possa durare all’infinito: il tempo delle chiacchiere potrebbe essere finito anche per lui.
Il regime non riuscì a creare una propria classe politica e fallì sul terreno di quei ceti borghesi che avrebbero dovuto essere il punto di forza... Non solo non fu capace di crearla, ma era esso stesso la causa, principale e quindi ineliminabile di questa incapacità. Da qui il dramma del regime e la sua più intima condanna all’autodistruzione, a prescindere da quelle che furono poi le cause “esterne” della sua fine».
È il giudizio sintetico sulla parabola del ventennio fascista, formulato qualche decennio fa dal suo storico più illustre, Renzo De Felice. Mi è tornato in mente in questi giorni di polemiche furiose su borghesi, borghesucci, madamine e su altre parole che non sto qui a ripetere. Torna la borghesia nelle polemiche di questi giorni, a proposito della manifestazione di Torino Sì-Tav, a sorpresa, perché si tratta di un attore in gran parte assente nella vicenda italiana. Da noi, a differenza che in altri Stati europei, c’è la debolezza, l’assenza, l’incapacità della borghesia di caratterizzarsi come portatrice dell’interesse generale del Paese, il suo essere attratta da interessi piccoli, particolari, mediocri. Un enorme e indistinto ceto medio che non è mai riuscito a diventare borghesia, l’ha definito Giuseppe De Rita (Repubblica, 14 novembre), «un magma sociale che sobbolle proprio perché non riesce a fare quel salto».
Dopo il voto del 4 marzo e la vittoria del Movimento 5 Stelle, arrivato a percentuali superiori al trenta per cento e paragonabili a quelle dei grandi partiti rappresentanti di quel corpaccione centrale dell’elettorato italiano come la Democrazia cristiana, in tanti si sono chiesti, con speranza o con timore, se da quel magma politico sarebbe emerso l’embrione di una classe dirigente o se sarebbe rimasto un network di umori, un megafono di rancori, un insieme di frustrazioni impossibile da riportare all’interesse generale, nonostante l’identificazione con una piattaforma che prende il nome di Rousseau.
Oggi, dopo cinque mesi di governo, si può dire che quella scommessa stia fallendo, o meglio, che stia prendendo una piega molto conosciuta, in sintonia con la tradizione italiana.Il Movimento 5 Stelle, nato come l’alfiere del cambiamento e della rivoluzione, si propone sempre di più come l’ennesima versione del trasformismo, l’adeguamento ai vizi nazionali, un mosaico di rivendicazioni apparentemente irrisolvibili, più Alberto Sordi che Beppe Grillo (posto che come attore Sordi Grillo se lo sarebbe mangiato). Ci sono partiti che riuscendo a mediare tra interessi e spinte contrapposte sono rimasti al governo per decenni. Ma la Dc ha potuto farlo nella stagione della Prima Repubblica in virtù dell’intelligenza di una leadership plurale, di un radicamento territoriale e della presenza della Chiesa che consentiva di assorbire tutto. In più, c’era un sistema politico coerente e stabile e un quadro internazionale che manteneva l’equilibrio. Mentre per M5S non esiste nessuna di queste condizioni. Il sistema politico è disastrato e i riferimenti istituzionali vacillano, presidenza della Repubblica a parte: il Parlamento è vuoto, il governo è rappresentato da un presidente del Consiglio inconsistente e da ministri tanto inutili quanto arroganti, la burocrazia gira a vuoto in assenza di input e la ricostruzione del ponte Morandi a Genova sta già diventando lo specchio di un’impasse collettiva. E in M5S non si vedono leader né intelligenze, non si sa chi potrebbe tenere insieme le varie anime se dovessero cominciare ad andare in direzione opposta. M5S è il partito del condono, della promessa mancata, del fasullo elevato a cultura politica. Era già chiaro nelle premesse: il Vaffa per gli altri che deresponsabilizza, che scarica le colpe su altri, la Casta, il Potere, per non fare mai i conti con se stessi. Nella prova di governo tutto questo si è accentuato, fino a proporre un dilemma nuovo e forse inatteso: cosa fare se, in tempi rapidi, il Movimento dovesse implodere?
Nel Palazzo non si parla d’altro e la prospettiva alletta o atterrisce. Nessuno pensa, naturalmente, che un partito in grado di raccogliere il 32 per cento dei voti possa sparire da un momento all’altro. La precedente legislatura, poi, ha dimostrato che M5S è invulnerabile rispetto alle conseguenze di espulsioni, dimissioni, micro-scissioni. Nessuno dei fuoriusciti o degli espulsi tra i parlamentari è riuscito a farsi rieleggere, fuori da Roma solo il sindaco di Parma Federico Pizzarotti è riuscito a farsi rieleggere nella sua città fuori e contro M5S. La novità, però, è che lo scontro tra le diverse anime o, se si preferisce, tra i dirigenti e i peones avviene non sui dogmi di Grillo ma sulle politiche di governo, com’è successo al Senato sull’emendamento sul condono edilizio a Ischia, bocciato grazie al voto in dissenso di Gregorio De Falco e di Paola Nugnes.
Si parla di ortodossi e governativi, come in tutti i partiti nati da una posizione estrema, il solito dilemma. Quello che manca al Movimento per chiudere rapidamente la crepa è una cultura politica di base, quello che tiene tutti insieme, una leadership forte e riconosciuta, una serie di risultati da poter vantare. Resta il Movimento, un’entità metafisica e astratta, restano la piattaforma Rousseau e la Casaleggio associati con il suo carico di conflitto di interessi, di rapporti con le aziende pubbliche, ovviamente in crescita, e resta il potere conquistato che diventa la condizione esistenziale di M5S: il cambiamento c’è perché M5S è al governo e dunque restare o resistere al governo diventa un fine in sé, non è un mezzo per realizzare il contratto, il programma o alcunché.
L’immobilismo si addice al Movimento, lo si è capito da tempo, se M5S sceglie muore oppure svela la sua vera natura, di conservazione dell’esistente. Se Luigi Di Maio per sopravvivere è costretto a mantenere tutto bloccato all’anno zero, in un eterno attimo di partenza, la Lega di Matteo Salvini ha l’interesse opposto: mettere tutto in movimento, portare a compimento la campagna di conquista del centrodestra cominciata dopo il voto del 4 marzo, quando il capo leghista ha deciso di separare i suoi destini da quello di Silvio Berlusconi. Restare al governo per Salvini è un mezzo, a differenza di Di Maio, per cui è un fine. Un mezzo per accrescere consenso, potere, autorevolezza. Internazionale, un trampolino per passare all’assalto dell’Europa. In questi percorsi paralleli le due strade sono destinate a separarsi, perché è difficile per Salvini immaginare di restare a lungo al governo con i Toninelli o con il partito di Virginia Raggi senza pagare a sua volta un prezzo elettorale o la delusione del pragmatico elettorato del Nord che non ama i no di M5S e una visione non soltanto sovranista ma autarchica.
Bisogna trovare il momento giusto per scendere dall’alleanza, prima che la delusione per il Movimento 5 Stelle si estenda anche in direzione Lega.
A questo servono i nemici esterni: a giustificare ritardi, contraddizioni, frenate, marce indietro, e anche rotture. L’Europa è il nemico perfetto, con la sua burocrazia sclerotizzata, con l’impossibilità di prendere posizione anche nel caso della procedura di infrazione nei confronti del governo italiano, degna di Bisanzio più che di Bruxelles. I giornalisti sono l’altro nemico perfetto di questo movimento che si abbevera di visibilità e prospera nelle polemiche mediatiche, ma che al tempo stesso vorrebbe mutilare il giornalismo del suo ruolo più essenziale: le inchieste, le critiche, le domande, la possibilità di dare all’opinione pubblica strumenti per giudicare più flessibili e meno definitivi di quelli di cui gode la magistratura, ma altrettanto importanti per il controllo del potere. La democrazia è quel sistema in cui la stampa controlla e critica il potere, in regimi di altro tipo succede l’opposto, il potere controlla la stampa e condiziona i giornalisti. Qui da noi, nell’Italia 2018, tutto questo avviene con la partecipazione e la complicità di altri giornalisti, i più anti, naturalmente. E si perpetua così un altro classico della tradizione italiana: fare opposizione dai vertici del potere, perché - naturalmente - il vero potere è sempre altrove: tra i centri finanziari, tra gli editori, sui giornali, in tv.
L’attacco ai giornalisti scatenato dai capi dei Cinque Stelle è il segno più fragoroso di una difficoltà, di un rischio implosione più vicino di quello che si pensi. Tutto questo dovrebbe spingere l’opposizione ad accelerare, a tenersi pronta per elezioni che potrebbero rivelarsi più vicine del previsto. Fino a poche ore prima della comunicazione della sua decisione, Marco Minniti è stato molto incerto se candidarsi o no alla segreteria del Pd. In queste settimane l’ex ministro dell’Interno ha spiegato ai suoi interlocutori di avere tutto da perdere e di aver valutato la possibilità di entrare nella corsa perché estremamente preoccupato per le sorti della democrazia italiana.
Una scena pesantemente condizionata da attori internazionali che si muovono da padroni in Italia, a partire da quel Vladimir Putin che è stato il vero protagonista nascosto della conferenza di pace sulla Libia di Palermo e che spesso dà l’impressione di muovere a suo piacimento i partiti del governo italiano sulla scacchiera continentale: uno sprazzo del potere di condizionamento che l’ex blocco sovietico esercita in Italia e nel resto d’Europa ce lo danno le inchieste di Paolo Biondani, Vittorio Malagutti, Stefano Vergine e Francesca Sironi. In questa situazione, l’Italia rischia di scivolare verso lande sconosciute, uno di quei paesi in cui l’opposizione politica non esiste o è affidata ad alcuni giornalisti e intellettuali coraggiosi e quasi sempre avversati dai governanti. Che un’analisi così cupa sia in gran parte condivisa da un uomo che ha gestito negli ultimi anni gli apparati di sicurezza e i servizi di intelligence è un motivo di preoccupazione in più.
Ora la scelta di Minniti è compiuta, così come quella di Nicola Zingaretti e di Maurizio Martina, e il congresso finalmente comincia. Resta l’esigenza di avere in tempi rapidi un leader riconosciuto per il principale partito di opposizione che avverte il pericolo della dissoluzione, con il suo ex leader Matteo Renzi che ormai visibilmente sta con un piede dentro e uno fuori. Ed è l’unico elemento che per paradosso avvicina M5S e Pd: il principale partito di governo e il principale partito di opposizione condividono la stessa situazione di possibile implosione. In un sistema impazzito.
Def, dal reddito di cittadinanza alle pensioni al condono: ecco cosa ci sarà nella manovra
Lega e 5 Stelle: deficit al 2,4% per tre anni. Secondo i calcoli sale dagli iniziali 33 a 40 miliardi, per finanziare l'avvio della flat tax, il reddito e la pensione di cittadinanza e il superamento della legge Fornero. Condono fino a 100mila euro, ma Garavaglia rilancia: "Sarà a 500mila"
IL MASSACRO DI RENZI, L'ANNIENTAMENTO STORICO DELLA SINISTRA IN ITALIA E LA NASCITA DEL GOVERNO GIALLO_VERDE, PRIMO DELLA STORIA D'ITALIA AL DI LA' DEL POSIZIONAMENTO IDEOLOGICO. Dalle ideologie al Sovranismo economico-Finanziario. Scompaiono le idee a fronte degli accelleratori di pagamento informatici.
CON RENZI DALL'ISONZO AL SESIA, e DAL SESIA ALL'arno IMMENSA AREA NO LEFT!!!Psicodramma Pd, Zingaretti: ‘Un ciclo è chiuso’
Ma i renziani: ‘Visto? Si perde anche senza di lui’PD verso lo sfascio totale, non si sogna di espellere il Giglio di Merda che ha disintegrato una intera epoca storica di lotte e sacrifici massimi.
Pisa, Massa e Siena, addio alla Toscana rossa (leggi). Risultati – Terni alla Lega, Avellino e Imola a M5s
Matteo Orfini: “Su migranti e antipolitica abbiamo inseguito il racconto della destra” (video di M. Lanaro). Le amministrative comunali certificano l'annientamento di un partito liquefattosi all'indomani del fallimento del Referendum Costituzionale, 24 giugno 2018. L’elettorato di centrosinistra, invece, riesce a tenere serrati i ranghi quando il proprio candidato è al ballottaggio, mentre quando non c’è (come nel caso di Terni) si divide tra astensione (prevalente) e M5s. Anche in questi tempi di grandissima volatilità elettorale, insomma, si conferma solida la barriera fra centrodestra e centrosinistra. Per quanto riguarda il comportamento complessivo degli elettori, si nota “l’involontario mutamento che sta attraversando il il Pd, non più dominante al Nord”. Ma soprattutto: il centrodestra “sta mettendo solide radici nelle zone centrali del Paese”. Quindi il consenso per la Lega non è “episodico”. Diversa invece la situazione per i 5 stelle: da una parte si confermano i principali catalizzatori delle “seconde preferenze degli elettori” (hanno vinto 5 ballottaggi su 7), ma la “perdurante disorganizzazione a livello territoriale lo rende un partito d’opinione su scala nazionale” che “produce tensioni e incertezze nell’intero sistema politico, lacerato tra un faticoso tripolarismo nazionale e un più o meno imperfetto bipolarismo municipale”.
Grazie, Oettinger
Dobbiamo essere grati al tedesco Gunther Oettinger (CDU) per aver detto apertamente una spiacevole verità: “I mercati… insegneranno agli italiani a non votare per i partiti populisti”. I veri amici sono quelli che ti mettono di fronte la realtà. La verità ci farà liberi. Angela Merkel aveva ricordato il giorno prima: “Anche con la Grecia di Tsipras all’inizio fu difficile, poi ci accordammo”. Poi… dopo che gli spread avevano piegato i greci ribelli, e consegnato al Consiglio Europeo un Primo Ministro greco in ginocchio. Piangendo implorò pietà per il suo popolo, e salvò il posto, ma dovette ingoiare condizioni durissime. Una scena che ricorda quando Marco Aurelio (179) o Costanzo II (369) ricevevano i capi germani sconfitti.
Il significato delle parole di Oettinger è questo. “Gli italiani non sono un popolo libero, sono in una gabbia; e quanto più si lanciano contro le sbarre, tanto più si fanno male; i colpi che si infliggono sono il migliore modo per indurli a non riprovarci più”. Rimuovere questa semplice realtà per noi è disastroso. Tutti i politici italiani hanno protestato, ma con motivazioni diverse. Per il Pd (e alcuni eurocrati): “Sono dichiarazioni soprattutto stupide”. Ovvero: “molto meglio evitare, oltre il danno, anche le beffe”, per non aizzare gli italiani, complicando il lavoro ai secondini.
Mai più, si chiude una delle legislature più di merda della storia repubblicana del cazzo
L’incontro a casa Boschi tra i vertici di Etruria e Veneto Banca ci fu. E tra i presenti c’era anche Maria Elena Boschi, ministra del governo Renzi. A confermare lo scoop del Fatto (leggi) è uno dei protagonisti, Vincenzo Consoli. “Il ministro partecipò a un incontro nella casa di famiglia nella Pasqua del 2014, per un quarto d’ora, nel quale non proferì parola”, ha detto l’ex ad di Veneto Banca davanti alla Commissione. Non solo, l’ex numero uno della banca veneta ha portato documenti e testimoni per suffragare la tesi delle ingerenze di via Nazionale (articolo di P. Fior) nel tentativo di imporre il matrimonio con Pop Vicenza
di F. Q.
Il cerchio si stringe attorno a Maria Elena Boschi e alla sua fragile difesa, audizione dopo audizione. Dice il ministro del Tesoro Padoan: "Io non ho autorizzato nessuno e nessuno mi ha chiesto un'autorizzazione, la responsabilità del settore bancario è in capo al ministro delle Finanze che ne parla col presidente del Consiglio". Traducendo in maniera un po' grossier dal linguaggio formale, significa: la Boschi non agiva nel mio conto. Concetto reso ancora più esplicito quando il senatore Augello, in commissione" chiede a Padoan: ma almeno l'allora ministro delle Riforme riferiva degli incontri con Consob, Bankitalia e l'ad di Unicredit Ghizzoni? Risposta: "Ho appreso di specifici incontri dalla stampa".
Etruria, il capo della Consob sconfessa la Boschi
Si è occupata da ministro della
Significa che Maria Elena Boschi non porta il risultato di cotanto attivismo e interessamenti né in colloqui informali col ministro competente né nella sede formale del cdm. Un ministro, giova ricordare, giura sulla Costituzione di "esercitare le proprie funzioni nell'interesse esclusivo della nazione". E dunque, si ripropone la domanda: a che titolo la Boschi si occupava del dossier banche, la cui responsabilità è "in capo al ministro delle Finanze che ne parla col presidente del Consiglio?". O meglio: si occupava di banche nell'interesse del paese e dunque avrebbe dovuto riferire a Padoan degli incontri, o della banca di cui è vicepresidente il padre, animata da una preoccupazione privata?
Ricapitolando. Di quella banca parlò con il presidente di una autorità indipendente come la Consob Giuseppe Vegas, in più occasioni. In una per informarlo che il padre sarebbe diventato vicepresidente di Etruria; in un'altra per esprimergli, non si sa a che titolo dopo le parole di Padoan, "preoccupazione per il futuro del settore orafo perché a suo avviso c'era la possibilità che Etruria venisse incorporata dalla banca di Vicenza". La preoccupazione per il settore dell'oro, argomento degno di un confronto collegiale in cdm però non viene portato all'attenzione del ministro del Tesoro.
banca del padre(14-12-17)
In Parlamento negò ogni intervento (leggi). Ora è smentita da Vegas audito in commissione: “Mi anticipò
anche la nomina a vicepresidente”. M5s e Liberi e Uguali: “Ha mentito. Ora si dimetta e non si ricandidi”
Maria Elena Boschi si è occupata eccome dei problemi di Banca Etruria. Contrariamente a quanto affermò in Parlamento il 18 dicembre 2015. Giuseppe Vegas, ex parlamentare di Forza Italia oggi presidente (uscente) della Consob da un paio d’anni in rotta di collisione con il renzismo, gioca nella sua deposizione sui coni d’ombra temporali e lo dice senza mezzi termini: su Banca Etruria “ho avuto modo di parlare della questione con l’allora ministro Boschi”, che espresse “un quadro di preoccupazione perché a suo avviso c’era la possibilità che Etruria venisse incorporata dalla Popolare di Vicenza”
di F. Q.
•VIDEO – “NON SO, NON MI RICORDO, SONO VECCHIO E SMEMORATO”. AUDIZIONE SURREALE DI GIANNI ZONIN (DI M. LANARO)
Quando i gufi erano Renzi, Confindustria e Fitch
Il disastro dopo la vittoria del No? Non si è visto
In caso di bocciatura della riforma costituzionale avevano profetizzato caos politico e fuga di capitali
Nonché crollo dell’occupazione e spread alle stelle. Ora festeggiano crescita del pil e dei posti di lavoro
Per dirla con Matteo Renzi, hanno perso i “gufi” e i “profeti di sventura”. Ma stavolta il gufo è lui. Insieme ai suoi fedelissimi e a centri studi, agenzie di rating e banche d’affari che, prima del referendum del 4 dicembre 2016 sulla riforma costituzionale, avevano evocato scenari di caos politico e apocalisse economica in caso di vittoria del No. Un anno dopo, con il pil a +1,5%, l’Italia resta in coda alla classifica Ue ma ben lontano dal -0,7% paventato nel luglio 2016 da Confindustria. Ed è lo stesso Renzi a rivendicarlo. Negli ultimi 12 mesi, poi, non si sono registrate fughe di capitali né la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro
di Chiara Brusini
•VIDEO – UN ANNO DOPO. CUPERLO: “40% ALLE PROSSIME ELEZIONI? COME IL BENEVENTO IN CHAMPIONS”
•DALLE PROVINCE NEL LIMBO AI CENTRI PER L’IMPIEGO: TUTTI I NODI IRRISOLTI DOPO LA SCOMMESSA PERSA DA RENZI
•LA CATASTROFE ANNUNCIATA DA RENZI CON LA VITTORIA DEL NO? È L’IMPLOSIONE DEL ‘SUO’ PD (DI M. LANARO E A. SOFIA)
Trattativa Stato-Mafia, sentenza storica: Mori e Dell’Utri condannati a 12 anni. Di Matteo: “Ex senatore cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e Berlusconi”
Ai vertici del Ros inflitta la stessa pena del fondatore di Forza Italia. Otto anni a De Donno, ventotto a Bagarella, dodici a Cinà: sono stati tutti riconosciuti colpevoli di violenza o minaccia a un corpo politico dello Stato. Prescritto Brusca, assolto Mancino per falsa testimonianza. Otto anni a Ciancimino per calunnia a De Gennaro. Il pm: "Mentre i giudici saltavano in aria qualcuno nelle Istituzioni aiutava i boss a ottenere i risultati chiesti da Riina"
Sette minuti e cinquanta secondi. Tanto ci ha impiegato il giudice Alfredo Montalto per dire che non solo la Trattativa tra Cosa nostra e pezzi dello Stato c’è stata, ma che ad averla fatta sono stati i boss mafiosi, tre alti ufficiali dei carabinieri e il fondatore di Forza Italia. Mentre la piovra assassinava magistrati come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inermi cittadini nelle stragi di Firenze e Milano, uomini delle istituzioni hanno cercato un contatto: sono diventati il canale che ha condotto fino al cuore dello Stato la minaccia violenta dei corleonesi. Che alla fine hanno ottenuto un riconoscimento grazie a Marcello Dell’Utri, uomo cerniera di Cosa nostra quando s’insedia il primo governo di Silvio Berlusconi.
È una sentenza che riscrive la storia della fine della Prima Repubblica e l’inizio della Seconda quella emessa dalla Corte di Assise di Palermo. E che il sostituto procuratore Nino Di Matteo, unico pm titolare dell’inchiesta sin dall’inizio, spiega così: “Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. E il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico“. Parole per le quali Forza Italia annuncia di querelare il magistrato della Direzione nazionale antimafia.
Condannati boss, carabinieri e Dell’Utri – Il commento del pm, però, è legato allo storico dispositivo appena letto dai giudici che hanno condannato a dodici anni di carcere gli ex vertici del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Stessa pena per l’ex senatore Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina. Otto gli anni di detenzione inflitti all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno, ventotto quelli per il boss Leoluca Bagarella. Per il cognato dei capo dei capi, dunque, una pena superiore rispetto ai sedici anni chiesti dai pm Di Matteo, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia e Francesco Del Bene, che invece per Mori volevano una condanna pari a 15 anni. Prescritte, come richiesto dai pubblici ministeri, le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci.
La minaccia allo Stato – Sono stati tutti riconosciuti colpevoli del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice di penale: quello di violenza o minaccia a un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. Hanno cioè intimidito il governo con la promessa di altre bombe e altre stragi se non fosse cessata l’offensiva antimafia dell’esecutivo. Anzi degli esecutivi, cioè i tre governi che si sono alternati alla guida del Paese tra il giugno del 1992 e il 1994: quelli di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi alla fine della Prima Repubblica, quello di Silvio Berlusconi, all’alba della Seconda. L’assoluzione di Mancino – Assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché il fatto non sussiste l’ex ministro della Dc Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro. Il figlio di don Vito, uno dei testimoni fondamentali del processo, è stato invece assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. I giudici hanno inoltre condannato Bagarella, Cinà, Dell’Utri, Mori, Subranni e De Donno al pagamento in solido tra loro di dieci milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri che si era costituita parte civile. Riscritta la storia della Seconda Repubblica – La parte lesa del processo sulla Trattativa è infatti il governo, intimidito dall’escalation di terrore intrapresa dai corleonesi dopo che diventano definitivi gli ergastoli del Maxi processo istruito da Falcone e Borsellino. C’è una data che cambia per sempre la storia d’Italia: il 30 gennaio del 1992. Quel giorno a Roma la Cassazione condanna i boss mafiosi al carcere a vita: è la prima volta che succede, nonostante i politici avessero assicurato il contrario. È il “fine pena mai” lo spettro che scatena la furia di Riina, capo dei capi di un’organizzazione criminale all’epoca titolare di un’enorme potenza di fuoco. Già dalla fine del 1991 il boss corleonese aveva cominciato a riunire periodicamente i suoi in un casolare in provincia di Enna per dettare la linea: in caso di pronuncia sfavorevole bisognava “pulirsi i piedi“. Bisognava, cioè, massacrare tutti quei politici che non avevano rispettato i patti. Il primo è Salvo Lima: la sua chioma bianca riversa nel sangue di Mondello il 12 marzo del 1992 è l’atto numero zero della guerra allo Stato. Ma è anche un messaggio diretto ad Andreotti nel giorno in cui iniziava la campagna elettorale per le politiche di aprile. “Il rapporto si è invertito: ora è la mafia che vuole comandare. E se la politica non obbedisce, la mafia si apre la strada da sola”, scrive su La Stampa Falcone, poche settimane prima di saltare in aria nella strage di Capaci.
Carabinieri e Forza Italia: il nuovo patto – Nel frattempo i carabinieri del Ros hanno già tentato di aprire un dialogo con la Cupola, agganciando Massimo Ciancimino e usando il padre Vito comeinterlocutore: per questo motivo Mori, De Donno e Subranni sono stati condannati per i fatti commessi fino al 1993. Con la loro condotta hanno cioè veicolato la minaccia di Cosa nostra fino al cuore dello Stato. La stessa cosa che ha fatto Dell’Utri, riconosciuto colpevole per i fatti commessi nel 1994. Come dire: la Trattativa tra mafia e Stato la aprirono i carabinieri, ma la portò avanti e la chiuse il fondatore di Forza Italia.
Di Matteo: “Sentenza storica” – “Che la trattativa ci fosse stata non occorreva che lo dicesse questa sentenza. Ciò che emerge oggi e che viene sancito è che pezzi dello Stato si sono fatti tramite delle richieste della mafia. Mentre saltavano in aria giudici, secondo la sentenza qualcuno nello Stato aiutava Cosa nostra a cercare di ottenere i risultati che Riina e gli altri boss chiedevano. È una sentenza storica“, è commento del pm Di Matteo, che ha abbracciato il collega Tartaglia mentre i giudici leggevano il dispositivo. “La sentenza – ha aggiunto il pm – dice che Dell’Utri ha fatto da cinghia di trasmissione tra le richieste di Cosa nostra e l’allora governo Berlusconi che si era da poco insediato. La corte ritiene provato questo. Ritiene provato che il rapporto non si ferma al Berlusconi imprenditore ma arriva al Berlusconi politico”. “Il verdetto – ha detto invece Tartaglia – dimostra che questo era un processo che doveva necessariamente essere celebrato. La procura ha lavorato bene, svolgendo con serietà e professionalità il proprio lavoro. Le polemiche e le critiche sono state esagerate: ma le abbiamo superate”.
Totò Riina morto, dalla scalata a Cosa nostra alle stragi: tutti i misteri del capo dei capi che dichiarò guerra allo Stato(17-11-17)
Dalla conquista della piovra, al biennio al tritolo, fino alla mancata perquisizione del covo. Tutte le domande senza risposta che il boss mafioso si è portato nella tomba dopo avere terrificato un intero Paese all'apice di un'escalation di violenza senza precedenti. Nato poverissimo in una famiglia di contadini, viddano sanguinario e analfabeta è rimasto irredibimibile fino alla fine. Stava scontanto 26 ergastoli per circa 200 omicidi
POLITICA | Di F. Q.Pd. Ancora una Waterloo fragorosa per il Diversamente Statista Renzi, che dal 2014 non ne indovina una e se giocasse a ramino da solo perderebbe pure lì. D’Alema e Veltroni si dimisero per molto meno. Patetico il suo non averci voluto mettere la faccia. Micari, nonostante i discorsi dal pulpito, è riuscito a farsi votare meno del Poro Asciugamano. Come sempre ridicoli gli scaricabarile post-voto. Cerasa, non per nulla stimatissimo da Renzi, ha dato la colpa a Crocetta e Faraone a Grasso: una prece. Nel frattempo, il Pd muore per sua stessa mano. Ma vedrete che da domani torneranno a dirvi che “Renzi è un vincente”.Siciliani. Si dice che gli elettori abbiano sempre ragione. Ne prendo nuovamente atto. Anche se, più che un voto, quello di ieri mi è parso da parte loro un desiderio – più o meno consapevole – di eutanasia.Ventitré. Dopo 23 anni, questo paese vota ancora Berlusconi e derivati. C’è bisogno di aggiungere altro? C’mon meteorite.
Grasso, addio al veleno: ‘Pd senza futuro
mina le istituzioni, deriva imbarazzante’
La freddezza dei vertici: ‘E’ giusto così’
IL MERDELLUM ( dopo il crollo del Merdalicum nella disfatta referendaria, dopo l'affondamento della consulta del Porcatum, ecco un'altra Merdata....)
Approfittando dello sfinimento generale, il Merdellum pudicamente ribattezzato Rosatellum-bis avanza a passo di carica in commissione Affari costituzionali della Camera. Tg e giornaloni tengono fermi gli elettori, distraendoli col solito teatrino dei pupi (Pisapia attacca D’Alema, Vendola attacca Pisapia, Salvini attacca il telefono a Berlusconi, la Meloni attacca il telefono a Salvini, Delrio si attacca al tram sullo Ius soli e fa lo sciopero della fame contro il suo stesso governo, la Boldrini si attacca alla dieta Delrio, cose così). Intanto, nell’indifferenza-ignoranza dei più, il Quartetto Casta – Renzi, B., Salvini e Alfano – ci scippa ogni giorno un pezzo di sovranità. Per fermarli, il Fatto ha raccolto oltre 60 mila firme in cinque giorni all’appello dei costituzionalisti. Vi chiediamo di passare parola sui social: se qualcuno vi chiede perché, spiegategli come funziona – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 07 ottobre 2017, dal titolo “Il Merdellum-bis”.
2 nominati su 3.
Per 10 anni abbiamo avuto una legge elettorale che faceva nominare i parlamentari dai capi-partito su liste bloccate anziché farli eleggere dai cittadini con la preferenza (proporzionale) o nei collegi (uninominale). Siccome per la Consulta il Porcellum era incostituzionale, il Quartetto Casta ne ha escogitato un altro che prevede due terzi di nominati e un terzo di eletti. Due parlamentari su tre usciranno da circoscrizioni proporzionali, dove ogni partito presenta un listino bloccato da 2 a 4 candidati, scelti dai capi e dunque nominati perché non c’è preferenza e conta l’ordine di apparizione in lista. Uno su tre invece è scelto col maggioritario in collegi uninominali dove vince chi arriva primo, dunque conviene coalizzarsi col maggior numero di liste (vere o “civetta”) per raccattare almeno un voto più degli altri.
I supernominati.
Il primo Merdellum prevedeva 75-77 circoscrizioni proporzionali (8-9 eletti in media per ciascuna: totale 600, cioè 2/3 del Parlamento) e tanti collegi uninominali quanti sono i seggi assegnati con quel sistema (330, 1/3). Ma il Quartetto Casta s’è fatto due conti e ha scoperto che le circoscrizioni sono troppo piccole e numerose per garantire l’elezione ai candidati nei listini. Ecco dunque un emendamento per allargarle riducendone il numero: così più nominati avranno la poltrona assicurata.
I supermeganominati.
Due problemi. 1) I partiti, a parte il capo supremo, hanno poche facce spendibili sul territorio. 2) I vecchi politici sono così sputtanati che rischiano di non essere eletti nemmeno se si fanno nominare in un listino bloccato. Soluzione prêt-à-porter: ogni candidato può correre in un collegio e in 5 circoscrizioni.
Poi, se viene eletto in più posti, deve optare per il collegio uninominale; e, se è stato trombato in quello ma eletto in più circoscrizioni proporzionali, passa in quella dove la sua lista ha avuto più voti (nelle altre scatta il primo dei non eletti). Così è ancor più facile far passare chi vuole il capo, all’insaputa degli elettori.
Voto forzato.
Nei sistemi misti proporzional-maggioritari, tipo il tedesco a cui finge di ispirarsi il Rosatellum, c’è il voto disgiunto: voto il candidato che preferisco nel maggioritario e, nel proporzionale, posso scegliere un’altra lista che mi soddisfa di più. Col Rosatellum no: se voto un candidato uninominale, devo scegliere una delle liste che lo sostengono, e non altre.
Sbarramento col trucco.
Per evitare la dispersione dei partitini, c’è lo sbarramento del 3%: chi non lo raggiunge sta fuori dal Parlamento e i suoi voti se li dividono quelli che ci entrano. Ma Renzi e B. vogliono inventare liste civetta per fare massa nei collegi. Ed ecco il trucco: le liste coalizzate nei collegi che superano l’1% possono regalare i loro voti agli alleati, anziché disperderli. Così i cacicchi e capibastone, forti nel loro territorio ma deboli o sconosciuti nel resto d’Italia (Mastella nel Beneventano, De Luca nel Salernitano, Crocetta in Sicilia ecc.) potranno fondare una miriade di liste civiche per portare acqua in cambio di posti sicuri con gli alleati.
Sbarramento con truffa.
Gli alfaniani di Ap hanno due grane. 1) Il 3% se lo scordano, ma i loro ministri e parlamentari sono affezionatissimi alla cadrega, dunque non si accontentano di portare voti agli alleati col trucchetto dell’1%. 2) Sono divisi fra gli alfaniani filo-Pd e i lupiani (da Maurizio Lupi, con rispetto parlando) filo-FI. Detto, fatto. Un emendamento consente di eleggere senatori anche alle liste che non arrivano al 3% nazionale, purché lo superino almeno in tre Regioni (secondo i sondaggi l’Ap, con le sue clientele, è sopra il 3% in Sicilia, Calabria e Puglia). Così gli alfaniani potrebbero correre da soli e tornare in Parlamento con una pattuglia di senatori che poi si danno al miglior offerente: Renzi, B. o meglio Renzusconi.
Coalizioni finte.
Nel proporzionale i partiti corrono da soli. Nell’uninominale invece si coalizzano (volendo e potendo), ma per finta. Il Pd fa un Ulivetto bonsai con Pisapia e altri àscari; FI va con Lega, FdI, Rivoluzione Italiana (la bad company di B.) e un centrino (Fitto, Costa, Parisi, Verdini, Quagliariello…). Ma già sanno che non avranno il 50% per governare, quindi le alleanze serviranno solo per sbaragliare nell’uninominale i partiti solitari (M5S e Mdp), anche se valgono più di loro (M5S). Poi, la sera delle elezioni, Renzi e B. saluteranno i rispettivi alleati allergici all’inciucio (Salvini, Meloni e forse Pisapia, ma non è detto) e tenteranno di abbracciarsi in un bel governissimo. La prova? FdI presenta un emendamento per dare il premio di maggioranza a chi raggiunge il 40%. Ma Pd e FI lo bocciano: segno che non vogliono vincere per governare coi propri alleati, ma scaricarli subito dopo il voto e mettersi insieme alle spalle degli elettori. Firmiamo per fermarli.
Legge elettorale, un obbrobrio chiamato Rosatellum
Il Rosatellum-2 è peggio dell’Italicum, che era peggio del Porcellum
Tracollo PD ed M5S alle amministrative 2017
5 Stelle, le regole del suicidio perfetto
Diciamolo: l’impresa di restare fuori da tutti i ballottaggi che contano(tranne Carrara, ma nessuno è perfetto e qualcosa sfugge sempre) non era facile. Ma i 5Stelle – tutti, da Grillo in giù – ce l’hanno messa tutta e hanno centrato l’obiettivo. Litigare dappertutto, polverizzarsi in scissioni e sottoscissioni, infilare un autogol dopo l’altro fino a scomparire da tutte le grandi e medie città al voto e, non contenti, persino resuscitare il ripugnante bipolarismo centrodestra-centrosinistra, con particolare riguardo per il duoBerlusconi (vedi alla voce Graviano) – Salvini (vedi alla voce Le Pen). Questa è roba da professionisti. Chapeau.
Grillo se lo sentiva e infatti nel comizio semideserto a Genova se ne vantava, con una voluttà alla sconfitta quasi poetica, come se la disfatta fosse uno schema lungamente provato in allenamento: “Resteremo fuori da tutto, così nessuno verrà sotto casa a rompermi i coglioni perché il nostro sindaco non piace”. Di questo passo passerà alla storia, mutatis mutandis, come l’erede inconsapevole di quell’altro grande sconfittista che era Riccardo Lombardi, nel ritratto di Indro Montanelli: “Più che il potere, amava la catastrofe, per la quale sembrava che madre natura lo avesse confezionato… con un volto che il Carducci avrebbe definito ‘piovorno’, e di cui nessun pittore sarebbe riuscito a riprodurre le notturne fattezze senza ritrarlo su uno sfondo di cielo livido, solcato da voli di corvi e stormi di procellarie: questo era Lombardi, e così sempre mi apparve. In cosa consistesse il suo alto pensiero politico, non so. Ma non credo che sia la cosa, di lui, più importante”.
Ora che il capolavoro, almeno per questa tornata amministrativa, è compiuto, è bene riepilogarne le tappe, in quello che già si annuncia come un prezioso manuale di istruzioni per la Caporetto perfetta.
Mossa n. 1. Hai un sindaco, Federico Pizzarotti, che 5 anni fa ti ha fatto conquistare il primo capoluogo: Parma. Non ruba, governa benino, fa quel che può e annuncia solo quel poco che fa, sottovoce. È anche un gran rompicoglioni, refrattario agli ordini di scuderia. Tenerselo stretto e coprirlo di attenzioni, oltre a levargli ogni alibi per la fuga, sarebbe la migliore smentita ai detrattori che dipingono il Movimento come una caserma agli ordini di Grillo&Casaleggio. Ergo lo scaricano con una sospensione disciplinare di un anno, lo attaccano un giorno sì e l’altro pure, non lo chiamano mai, lo regalano agli avversari e candidano al suo posto un carneade che non mette in fila due parole in croce. Risultato: 3,18%.
Mossa n. 2. Genova è la città del fondatore, segnata dai disastri del Pd e poi della sinistra. Il luogo ideale per tentare il colpaccio. Che fare? Una bella rissa fra il capogruppo in Comune, Paolo Putti, e la capogruppo in Regione,Alice Salvatore. Il primo se ne va con tutti i consiglieri pentastellati e si associa alla sinistra. La seconda tenta di imporre il direttore d’orchestra Luca Pirondini. Che però alle Comunarie perde con tal Marika Cassimatis. Onde annientare le residue possibilità che questa ce la faccia, si annullano le Comunarie (spiegazione di Grillo: “Fidatevi di me”) per rifarle con un solo candidato: Pirondini. Che stavolta riesce a vincerle. Il Tribunale dà ragione alla Cassimatis e i 3 candidati di area si dividono i voti. Risultato: ballottaggio tra centrodestra e centrosinistra.
Mossa n. 3. Palermo è il capoluogo della prima Regione che potrebbe andare ai 5Stelle, ma il sindaco Leoluca Orlando pesca anche nel territorio di caccia grillino. I locali deputati pentastellati si mettono subito d’impegno e si fan beccare nello scandalo delle firme false: migliaia di nomi veri ricopiati in una notte per sanarne uno con la residenza sbagliata, il tutto nel 2012, quando il M5S non piazzò nemmeno un consigliere. I geni vengono indagati e interrogati dai pm, ma pensano bene di non rispondere. Grillo li sospende, quelli polemizzano pure. Le Comunarie le vince l’avvocato Ugo Forello, ex Addiopizzo, che si porta dietro una scia di sospetti sulle cause dei commercianti antiracket. Segue immancabile faida interna, con denunce in Procura e diffusione di un audio che spiega perché Forello non va bene. Risultato: Orlando sindaco per la quinta volta davanti a un suo ex fedelissimo passato a destra con la benedizione di Cuffaro.
Mossa n. 4. Taranto è l’ideale per i 5Stelle: il governo annuncia il “salvataggio” dell’Ilva che avvelena la città, con 6mila esuberi. Difficile mancare il ballottaggio. Ma si trova il modo: il vertice cittadino sostiene un candidato, ma altri Meetup si mettono di traverso con altri nomi (esattamente come a L’Aquila, a Piacenza, a Padova ecc.). Da Roma si pensa di non presentare il simbolo, magari appoggiando l’ex procuratore anti-Ilva Sebastio, sostenuto da liste civiche. Idea troppo brillante: si rischierebbe di vincere. Infatti subito accantonata. Le Comunarie last minute le vince con ben 107 voti l’avvocato Francesco Nevoli. Che inizia la campagna elettorale alla vigilia del voto. Risultato: solito ballottaggio destra-sinistra.
Mossa n. 5. Incassata la débâcle, si dà la colpa alle liste civiche coi partiti dietro; si vanta la “crescita lenta, ma inesorabile”; si esulta per i trionfi di Sarego e Parzanica; si fanno sparate anonime sui giornaloni contro i pochi volti noti e vincenti (Di Maio, Raggi, Appendino), in vista della grande, spettacolare, definitiva disfatta nazionale.
Prossima mossa. Vista la strepitosa riuscita del sistema di selezione a caso o a cazzo, si completa l’opera passando direttamente dall’“uno vale uno” al “l’uno vale l’altro”. Al posto delle Comunarie, sorteggio dei candidati dagli elenchi telefonici.
Pa, Madia: “Blocco turnover ingiusto ma la crisi pesa”. Pin per i servizi dal 2015
Il ministro spiega le linee guida del disegno di legge delega sulla riforma della Pubblica amministrazione: "Stop alle carriere automatiche: si andrà avanti solo per merito". Sul piano dei contenuti, un solo ufficio territoriale del governo per uscire "dall'idea della frammentazione"
Allarme demografico in Italia: nascite restano al minimo dall'Unit� d'Italia. Picco dei decessi dal dopoguerra
I dati dell'Istat. La popolazione residente in Italia si riduce di 139 mila unit�. Al 1 gennaio 2016 i residenti erano 60 milioni 656 mila. Centomila italiani (+12,4%) hanno lasciato Paese
DIARIO DELLA POLITICA ITALIANA DAL 2014 FINO AL 01 MARZO 2016
..Tutta la politca interna dalle amministrative regionali della primavera 2015, passando per le riforme delle banche popolari,al decreto milleproroghe, all'esplosione di forza italia,alla nuova responsabilita delle toghe,l'uscita di lupi,il veneto razzista, il reddito di cittadinanza finendo a pietro ingrao