Successivamente, gli Imperiali, boriosi
delle riportate vittorie, erano smanianti di combattere coll'intero
esercito ostrogoto, convinti di esserlo in grado di vincerlo in
una decisiva giornata campale.[10]
Belisario, al contrario, constatando il grandissimo divario
esistente ancora tra Bizantini e Ostrogoti, esitava di continuo
a cimentarsi con tutte le truppe, e, con maggiore attenzione
cercava di scontrarsi sempre con loro con piccole sortite, con
azioni di guerriglia, ma mai scontrandosi con il nemico in campo
aperto.[10]
Furono tante le voci di protesta contro la tattica prudente e
accorta adoperata da Belisario, e tanta l'insistenza
dell'esercito di scontrarsi con il nemico in campo aperto,
Belisario alla fine cedette, e diede loro il permesso di
scontrarsi con gli Ostrogoti in campo aperto.[10]
Dopo una esortazione, Belisario condusse fuori
l'esercito attraverso la porta Pinciana e la Salaria, facendone
uscire un piccolo reggimento da quella Aurelia con ordine di
giungere al campo di Nerone in sostegno di Valentino, comandante
della cavalleria, senza cominciare battaglia, né accostarsi al
steccato gotico; avrebbe piuttosto dovuto dato mostra di volere
senza indugio assalire il nemico, e impedire che i Goti non
corressero, valicato il vicino ponte, a rafforzare gli altri
corpi.[10]
Alcuni del popolo romano si erano uniti all'esercito bizantino
come volontari, ma Belisario decise di non schierarli perché
temeva, che essendo inesperti nella guerra, fuggissero impauriti
all'avvicinarsi del pericolo, creando scompiglio e
compromettendo la battaglia.[10]
Formatone pertanto un corpo separato, li mandò alla porta
Pancraziana di la dal Tevere, dove sarebbero rimasti in attesa
di nuovi suoi ordini.[10]
Belisario era intenzionato inoltre a battagliare in quel giorno
con la sola cavalleria, essendo molti dei suoi fanti, avendo
tolto i cavalli ai nemici, divenuti cavalieri, mentre
considerava i rimanenti fanti, pochi di numero, non idonei al
combattimento conseguente.[10]
Ma Principio, la sua lancia preferita, e Termuto isauro,
fratello di Enna capitano degli Isauri, convinsero Belisario a
disporre che parte della plebe romana vegliasse alla difesa
delle porte, dei merli e delle macchine, e schierare i fanti in
battaglia con ordine di obbedire a Principio e Termuto,
acciocché intimoriti dal pericolo non sgomentassero il rimanente
esercito, o se qualche drappello de' cavalieri voltasse le
spalle non potesse vie maggiormente dilungarsi, ma fattovi corpo
tornasse a respingere il nemico.[10]
LO SCONTRO IN CAMPO
APERTO E LE PESANTI PERDITE SUBITE DAGLI IMPERIALI:RE VITIGE
TUTTAVIA TOGLIE L'ASSEDIO PER PAURA DI ESSERE TAGLIATO FUORI DAL
NORD D'ITALIA
Nel frattempo, Vitige, comandato ai Goti di
armarsi, lasciando nelle trincee i soli cagionevoli, impose alle
truppe di rimanere nel campo di Nerone, e custodissero con
diligenza il ponte per non venire da quel fronte molestati dal
nemico.[11]
Vitige pose quindi in ordinanza l'esercito collocando nel centro
le coorti dei fanti e nei due corpi i cavalieri; né tenne lo
schieramento lontano dagli steccati, ma quanto più vicino poté,
bramando che, non appena volto in fuga il nemico, i suoi lo
avrebbero inseguito e annientato senza incontrare nemmeno un
istante di resistenza a causa della grandissima disparità di
forze tra i due eserciti.[11]
Al sorgere dell'alba, dunque, cominciò la
battaglia tra Imperiali e Ostrogoti: la fortuna, sulle prime,
arrise agli imperiali, ma, sebbene molti Goti cadessero vittime
delle frecce nemiche, continuavano tuttavia a resistere, potendo
essi, essendo in quantità immense, supplire prontamente i feriti
con nuove truppe di qualità.[11]
Gli Imperiali, di gran lunga in inferiorità numerica, venuto il
pomeriggio, decisero di tornare in Roma, approfittando della
prima buona occasione.[11]
In quella battaglia tre soldati dell'esercito
bizantino si segnalarono per le loro gesta individuali in
battaglia: Atenodoro (di stirpe isaurica e lancia di Belisario),
Teudorito e Giorgio (lance di
Martino ed originari della
Cappadocia), i quali uccisero con l'asta molti barbari.[11]
Nel campo di Nerone, nel frattempo, per lungo tempo, entrambi le
fazioni si stettero a rimirarsi a vicenda, mentre gli alleati
dell'Impero Mauri molestavano continuamente i Goti a suon di
dardi, né gli assaliti ardivano farsi loro addosso, «per tema
non le turbe della romana plebe, collocate a breve distanza e
presupposte schiere di fanti, rimanessersi cola di pie fermo a
macchinare insidie, e ad attendere l'ora d'inseguirli dalle
spalle, per distruggere quanti ne avessero intercettati con
sorpresa di schiena e di fronte».[11]
Era giunto il pomeriggio quando l'esercito bizantino si scagliò
contro i Goti, i quali, sopraffatti dall'urto improvviso ed
inopinatamente messi in fuga, non potendo riparare nelle proprie
trincee, salirono le vette dei colli vicini, dove erano
abbondantissime le truppe di Belisario, che tuttavia non erano
tutte esperte delle armi, anzi il più di esse erano la plebe di
Roma arruolatosi come volontari; per cui, essendo Belisario
assente, molti nocchieri e bagaglioni alla coda dell'esercito,
bramosi di prender parte nel combattimento, si erano mescolati
con le truppe, e pur costoro riuscirono a mandare in fuga gli
Ostrogoti.[11]
Sennonché, la confusione creata nell'esercito bizantino, a causa
della mescolanza dei nocchieri e dei bagaglioni, fu deleteria
per l'esercito imperiale, perché i soldati non udivano più la
voce di
Valeriano, che cercava di incoraggiarli, né cercavano di
uccidere i nemici, né venne loro in mente di tagliare il vicino
ponte in modo da impedire che Roma, tolta ai Goti l'opportunità
di trincerarsi di qua dal fiume Tevere, fosse poi dall'una e
dall'altra parte assediata.[11]
Non venne loro nemmeno l'idea, una volta valicato il ponte, di
prendere alle spalle coloro che, sull'opposto lido, combattevano
contro Belisario: e, secondo Procopio, se avessero avuto quest'idea,
avrebbero mandato in fuga gli Ostrogoti.[11]
Al contrario, gli Imperiali, impadronitesi del campo nemico,
volsero ogni loro premura al saccheggio del bottino nemico,
causando la reazione dell'esercito ostrogoto, che, dopo aver
rimirato da sopra le alture per qualche istante gli imperiali
mentre erano dediti a saccheggiare la loro roba, si fiondarono
sul nemico, arrestando il depredamento delle robe loro,
uccidendone molti e scacciandone il resto.[11]
Al succedere di tali faccende nel campo di
Nerone, un altro esercito ostrogoto, che si trovava vicino ai
suoi steccati e protetto dagli scudi, respingeva coraggiosamente
il nemico, infliggendogli enormi perdite sia per quanto riguarda
gli uomini che per i cavalli.[11]
Costretti pertanto ad abbandonare l'ordinanza, i soldati
imperiali, disperati per l'enorme disparità di forze a tutto
loro svantaggio, subirono l'assalto nemico: i cavalieri
ostrogoti del corno destro lo assalirono furiosamente con le
aste costringendolo a riparare verso i fanti; sennonché, rotti
con eguale impeto i fanti, anch'essi fuggirono insieme ai
cavalieri, per cui tutto l'esercito bizantino cominciò a
ripiegare in ritirata, inseguito e molestato dal nemico.[11]
Principio e Termuto, con la loro piccola schiera di fanti, si
comportarono in modo davvero coraggioso, continuando a
combattere fino alla fine contro il nemico nonostante la
notevole disparità di forze: Principio si spense dopo aver
ucciso ben quarantadue guerrieri nemici; Termuto, invece,
armatesi entrambe le mani con due dardi isaurici, continuò a
combattere fino alla fine nonostante le numerose ferite subite,
anche perché confortato dall'arrivo del fratello Enne con
parecchi cavalieri, prima di ritirarsi verso la porta Pinciana.[11]
Varcata tuttavia la soglia della porta Pinciana, Termuto cadde
per le numerose ferite ricevute, e, ritenuto deceduto dai suoi
compagni, fu condotto a Roma sopra uno scudo, dove, dopo due
giorni, perì per davvero.[11]
I Romani, avviliti per la sconfitta e intenti unicamente alla
difesa della città, serrate le porte, negavano di accogliere i
fuggitivi per il timore che così potesse entrare anche il
nemico.[11]
I Goti, in principio, incoraggiati dallo scarso numero di
guerrieri a difesa dei merli, continuavano la battaglia nella
speranza di uccidere tutti coloro che erano rimasti fuori dalla
città, e mandare in fuga l'interno presidio: ma, una volta
notato successivamente che le mura erano in realtà cinte da una
folta corona di soldati e di cittadini, si scoraggiarono, e
abbandonarono i loro piani bellicosi, ponendo fine alla
battaglia.[11]
Per Vitige sembrava fatta di fronte
alla riduzione della consistenza di una guarnigione già
ampiamente rimaneggiata ma non fu così. Via mare Roma riceveva
ulteriori rinforzi da Costantinopoli tali da indurre il re Goto
prima ad intavolare trattative con Belisario, poi,di fronte alla
occupazione di un altro esercito bizantino dell'intero Piceno,
col rischio di tagliare fuori tutte le vie a nord di Roma,di
togliere completamente l'assedio dopo un anno di combattimenti.
Col Piceno occupato, il nord d'Italia rischiava seriamente di
capitolare per Vitige e così si rese necessario muovere guerra a
settentrione.