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DAI GALLI INSUBRI AI ROMANI. DALL'EPOCA REPUBBLICANA A QUELLA IMPERIALE

 

 

 

 

MEDIOLANUM CAPITALE DELL'IMPERO ROMANO (285 d.C. - 476 d.C.) DA MASSIMIANO A TEODOSIO IL GRANDE

Ormai la città era diventata influente ed importante e gli imperatori, al varo della Tetrarchia voluta da Diocleziano allo scopo di consolidare strutture e confini di un impero sempre più vasto,decisero di farne capitale . Il confine nord in quel momento storico era a 400 chilometri e l'esistenza di un centro vasto come Mediolanum rispondeva perfettamente alle esigenze di difesa contro le invasioni barbariche sempre più frequenti.

 

IL PODEROSO SVILUPPO URBANISTICO TARDO-IMPERIALE

 

 

STORIA DELLA CANALIZZAZIONE DI MILANO

 

http://vecchiamilano.wordpress.com/2011/07/28/i-canali-di-milano-2-parte/

Dal Gottardo a Venezia. Ma in barca

di Franco Zantonelli

Manager svizzero rilancia l'idea di ripristinare l'"idrovia" usata da San Carlo Borromeo. Dai piedi delle Alpi elvetiche alla Laguna per via fluviale. "Neanche immaginate che effetto l'ingresso a Milano..."

 

Arte egizia

 

 

Una panoramica del salone dell'ala Sackler con sullo sfondo il ricostruito Tempio di Dendur.

Nonostante la maggior parte dei primi pezzi d'arte egizia acquisiti dal Met provenissero da collezioni private, attualmente quasi la metà della collezione è composta da reperti rinvenuti durante scavi archeologici condotti direttamente dal museo e realizzati nel periodo 1906 - 1941. Ne fanno parte più di 36.000 pezzi che vanno dall'età paleolitica fino all'epoca del dominio romano e quasi tutti sono permanentemente esposti nelle 40 gallerie che compongono la vasta ala del museo dedicata a questo periodo. Tra i pezzi più rappresentativi si segnalano 24 modellini di legno, scoperti nel 1920 in una tomba a Deir el-Bahari, che ritraggono con ricchezza di dettagli genuini scorci della vita egiziana nel periodo del medio regno: barche, giardini e scene di quotidiana vita casalinga. Il vero pezzo forte della collezione continua però ad essere il Tempio di Dendur. Dopo essere stato smontato dal governo egiziano per salvarlo dalle acque dopo la costruzione della diga di Assuan, il grande tempio in arenaria fu dato agli Stati Uniti nel 1965 e nel 1978 fu ricostruito nell'ala Sackler del Met. Ospitato da un vasto salone, parzialmente circondato da una vasca piena d'acqua e illuminato da una vetrata ampia come l'intera parete che si affaccia sul Central Park, il Tempio di Dendur è una delle principali attrazioni del museo.

 

 

 

 

 

http://www.skuola.net/storia-arte/medioevo/storia-arte-medievale.html

 

 

 

IL DISASTRO DELLE INVASIONI BARBARICHE E LA CADUTA DELL'IMPERO

 

 

L'IRRUZIONE DI ATTILA E DEI FEROCISSIMI UNNI:LE QUATTRO INVASIONI E LA DISTRUZIONE TOTALE DELL'ESERCITO ROMANO

L'invio di mercenari Unni a sostegno dell'Impero d'Occidente

Poco tempo dopo la sua ascesa al trono, in condivisione con il fratello Bleda, gli Unni ricevettero, intorno al 435, un'ambasceria da Flavio Ezio, generalissimo dell'Impero romano d'Occidente: i Romani d'Occidente chiedevano agli Unni sostegno militare contro le minacce nella Gallia, ovvero Burgundi, Bagaudi (ribelli separatisti CELTI) e Visigoti; in cambio dell'invio di truppe mercenarie in sostegno dell'Impero, gli Unni avrebbero ottenuto dall'Impero le province di Pannonia e Valeria.[4] Gli Unni, trovando conveniente l'accordo, accettarono e nel 436/437 contribuirono alla distruzione del regno dei Burgundi, che ispirò la saga dei Nibelunghi; sempre nel 437 truppe unne arruolate nell'esercito di Litorio, sottufficiale di Ezio, contribuirono alla repressione dei Bagaudi in Armorica e alla sconfitta dei Visigoti alle porte di Narbona, che costrinse i Goti a levare l'assedio: si narra che i vittoriosi Unni facenti parte dell'esercito di Litorio portarono ciascuno alla popolazione affamata un sacco di grano.[5]

L'impiego degli Unni come mercenari di Roma non mancò di provocare polemiche tra gli scrittori cristiani del tempo, in particolare Prospero Tirone e Salviano, Vescovo di Marsiglia: tali scrittori erano scandalizzati dal fatto che Litorio permettesse agli Unni di fare sacrifici alle loro divinità pagane e per il fatto che alcune bande di Unni saccheggiassero alcune regioni dell'Impero senza alcun controllo, sostenendo che se i Romani avessero perseverato a utilizzare un popolo pagano (gli Unni) contro un popolo cristiano seppur ariano (i Visigoti), avrebbero perso presto il sostegno di Dio.[6] Nel 439 Litorio, dopo alcune vittorie, era arrivato con i suoi Unni alle porte di Tolosa, intenzionato a conquistarla e a sottomettere definitivamente i Visigoti: nella battaglia che ne risultò, però, le sue truppe mercenarie unne subirono una grave sconfitta e fuggirono in disordine, mentre lo stesso Litorio fu catturato e giustiziato pochi giorni dopo. Secondo Salviano, la sconfitta degli arroganti Romani, adoratori degli Unni, contro i pazienti goti, timorati di Dio, confermava il passo del Nuovo Testamento, secondo cui «chiunque si esalta sarà umiliato, e chiunque si umilia sarà esaltato.» La sconfitta di Litorio spinse Ezio a firmare una pace con i Visigoti riconfermante il trattato del 418, dopodiché tornò in Italia,[7] per l'emergenza dei Vandali, che proprio in quell'anno avevano conquistato Cartagine.

Accordi di Margus e campagne del 441-442

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Campagne balcaniche di Attila.

LA PRIMA INVASIONE DI ATTILA (441-442 D.C.)

 

Litografia di Attila

Campagne balcaniche del 447

 

Galla Placidia con i due figli: Giusta Grata Onoria e Valentiniano III (Brescia, Museo di Santa Giulia). Onoria, costretta dal fratello a sposare un senatore che non amava, contattò Attila chiedendogli di salvarla dal matrimonio combinato. Ciò fu uno dei pretesti che Attila usò per invadere l'Occidente romano

 

 

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Campagne balcaniche di Attila.

LA SECONDA INVASIONE DI ATTILA E LA CONQUISTA DELLA PANNONIA (447 D.C)

Dopo la partenza degli Unni, la città di Costantinopoli attraversò un periodo di gravi calamità sia naturali sia causate dall'uomo: lotte sanguinarie tra le fazioni dell'Ippodromo, epidemie nel 445 e nel 446, quest'ultima a seguito di una carestia; quattro mesi di terremoti che distrussero gran parte delle mura causando migliaia di vittime, e dando origine, nel 447, ad una nuova epidemia, proprio quando Attila, consolidato il suo potere, si mise di nuovo in marcia verso il sud dell'impero attraverso la Mesia. Teodosio II aveva infatti interrotto il versamento del tributo, e di fronte alle proteste di Attila per le 6.000 libbre d'oro di arretrati non versati, si rifiutò di pagarli, causando una nuova offensiva per rappresaglia degli Unni nei Balcani.

L'esercito romano, capeggiato dal magister militum Arnegisclo, lo sfidò sul fiume Utus (attuale Vit) subendo una sconfitta, non senza aver inflitto pesanti perdite. Compiendo razzie lungo il Danubio gli Unni sottomisero i campi militari di Ratiera e si impossessarono di Sardica (Sofia), Philippopolis (Plovdiv), odierna Bulgaria, e Arcadiopolis, nell'odierna Turchia; affrontarono e sconfissero l'esercito romano alle porte di Costantinopoli e soltanto la mancanza di mezzi di combattimento in grado di far breccia nelle mura massicce della città li costrinse a fermarsi.

Gli Unni non trovarono più ostacoli e proseguirono le loro scorribande nei Balcani fino alle Termopili. La stessa Costantinopoli fu salvata dall'intervento del prefetto Flavio Costantino, che coinvolse la cittadinanza nella ricostruzione delle mura abbattute dal terremoto e nella costruzione di alcuni tratti di una nuova linea fortificata davanti alle antiche mura. Ecco un brano del racconto dell'invasione, tratto dalla Vita di San Ipazio di Callinico:

« La stirpe barbarica degli Unni in Tracia diventò talmente potente da conquistare oltre cento città, mettendo Costantinopoli quasi in ginocchio e facendo fuggire molti abitanti... Omicidi e spargimenti di sangue furono talmente numerosi da non riuscire a contare le vittime; occuparono chiese e monasteri e trucidarono monaci e giovani donne. »
(Callinico, Vita di Sant'Ipazio)

Teodosio ammise la sconfitta ed inviò l'ufficiale di corte Anatolio a negoziare le condizioni di pace, questa volta più pesanti del trattato precedente. L'imperatore acconsentì a cedere oltre 6.000 libbre d'oro romane (1.963 kg) come sanzione per non aver rispettato i patti durante l'invasione; il tributo annuale fu triplicato fino a 2.100 libbre d'oro (687 kg) e l'ammontare del riscatto di ogni prigioniero romano aumentò fino a 12 solidi. Come condizione per la pace, Attila pretese inoltre che i Romani continuassero a pagare il tributo in oro e lasciassero libera una striscia di terra che si estendeva per 480 km ad est di Sigindunum (Belgrado) e oltre 100 km a sud del Danubio.  (L'INTERA PARTE NORD DELLA DIOCESI PANNONIARUM DELLA PREFETTURA PER L'ILLIRICO)

 

LA TERZA INVASIONE DI ATTILA E LA SCONFITTA DEI CAMPI CATALAUNICI (450-451 D.C)

Carta storica che descrive l'invasione della Gallia da parte degli Unni nel 451 d.C., e la battaglia dei Campi Catalaunici. Sono mostrati i probabili itinerari, e le città conquistate o risparmiate dagli Unni

 

Invasione degli Unni in Italia

 

Exquisite-kfind.png Per approfondire, vedi Battaglia dei Campi Catalaunici.
 

La battaglia di Chalôn è stata definita da alcuni storici una delle quindici battaglie più decisive della storia: se avesse vinto Attila, la civiltà Europea per come la conosciamo non sarebbe esistita.[1] Secondo altri storici, invece, la vittoria fu di relativa importanza, perché non colpì Attila al culmine della sua potenza né gli impedì di compiere nuove scorriere.[18] La battaglia di Chalôn diventò famosa per la sua violenza. Scorsero fiumi di sangue: si racconta che i soldati assetati furono costretti a bere acqua tinta di rosso. A un certo punto della battaglia Attila credette di essere sul punto di venire sconfitto. Così ordinò che gli fosse preparata la pira funeraria. Tuttavia i Visigoti, comandati da Torismondo, abbandonarono sul campo di battaglia Ezio che così fu costretto a cessare i combattimenti e a ritirarsi. La ritirata dei Romani fu comunque così improvvisa che inizialmente Attila la considerò una stratagemma di Ezio per attirarlo in trappola, tanto è che invece di attaccare ordinò alle proprie truppe di mantenere una posizione difensiva.[1]

Durante la ritirata Attila non si astenne dal commettere atrocità. Fece massacrare ostaggi e prigionieri. “Duecento giovani fanciulle furono torturate con disumana ferocia: i loro corpi vennero legati a cavalli selvaggi e squartati, le ossa frantumate sotto le ruote dei carri e le membra abbandonate sulle strade in pasto ai cani”.[1]

Invasione dell'Italia e morte

LA QUARTA INVASIONE DI ATTILA (452 D.C.)

Attila tornò in Italia nel 452 per reclamare nuovamente le sue nozze con Onoria. Il suo esercito, composto soprattutto da truppe germaniche, avanzò su Trieste ma venne fermato ad Aquileia, città fortificata di grande importanza strategica: il suo possesso permetteva di controllare gran parte dell'Italia settentrionale. Attila la cinse d'assedio per tre mesi ma inutilmente. La leggenda racconta che proprio mentre era sul punto di ritirarsi, da una torre delle mura si levò in volo una cicogna bianca che abbandonò la città con il piccolo sul dorso. Il superstizioso Attila a quella vista ordinò al suo esercito di rimanere: poco dopo crollò la parte delle mura dove si trovava la torre lasciata dalla cicogna. Attila poté così impossessarsi della città, che rase al suolo senza lasciare più nessuna traccia della sua esistenza.[1]

Quindi si diresse verso Padova, che saccheggiò completamente. Prima del suo arrivo molti abitanti della città cercarono rifugio nelle paludi, dove avrebbero poi fondato Venezia. Dopo la presa di Aquileia l'avanzata di Attila fino a Milano avvenne senza difficoltà in quanto nessuna città tentò la resistenza ma tutte aprirono per paura le loro porte all'invasore.

Attila conquistò Milano e si stabilì per qualche tempo nel palazzo reale. Famoso è rimasto il modo singolare con cui affermò la propria superiorità su Roma: nel palazzo reale c'era un dipinto in cui erano raffigurati i Cesari seduti in trono e ai loro piedi i principi sciti. Attila, colpito dal dipinto, lo fece modificare: i Cesari vennero raffigurati nell'atto di vuotare supplici borse d'oro davanti al trono dello stesso Attila.[1]

 

 

 

 

 

 

 

I Regni germanici (476-774),Dinastia Carolingia (774-888)

  • Con la discesa in Italia degli Ostrogoti prima e dei Longobardi poi, i sovrani dei rispettivi popoli furono di fatto Re d'Italia, anche se il titolo formalmente ancora non esisteva. I titoli formali erano invece Re dei Goti (Rex Gothorum) e Re dei Longobardi (Rex Langobardorum). Individualmente, alcuni sovrani longobardi aggiunsero al loro un altro titolo, come Agilulfo, che si definì Rex totius Italiae, e Rachis, che invece si fece chiamare Princeps.
  • Durante l'epoca carolingia rimase in uso il titolo di Re dei Longobardi, sebbene già a partire da Carlo Magno il Regno cominciasse ad essere talvolta indicato ufficialmente come Regnum Italiae in luogo dell'antico nome di Regnum Langobardorum[5]. Durante il secolo dell'anarchia comincia ad emergere il nuovo titolo di Re degli Italici (Rex Italicorum), che dovette inizialmente affiancarsi a Re dei Longobardi, finendo infine per prevalere: Ottone I di Sassonia, infatti, sceso in Italia per combattere Berengario II d'Ivrea, si fece chiamare in un primo momento con il titolo di Rex Francorum et Langobardorum, salvo poi correggerlo molto presto in Rex Francorum et Italicorum[6]. Con la definitiva incorporazione del Regno nell'Impero degli Ottoni, entrambi i titoli caddero rapidamente in obsolescenza. Gli imperatori, infatti, almeno fino ad Enrico VI di Svevia usavano esclusivamente il titolo imperiale[7].

 

 

LA LIQUIDAZIONE DELL'IMPERO ROMANO (453-476 d.C.)

Continue congiure di corte finirono per eliminare il Generale Ezio e l'imperatore Valentiniano III, ovvero gli artefici in un qualche modo della sopravvivenza dell'Impero. Personaggi di spessore che articolarono tutta una serie di trattati ed alleanze capaci, seppur in un contesto di fortissima decadenza, di mantenere in vita una struttura morta. Non è un caso che alla loro scomparsa Roma subì il secondo sacco ad opera del re vandalo Genserico, saccheggio rivelatosi ancora più profondo rispetto a quello di Alarico. Presentatosi con la sua flotta al cospetto di una città completamente sguarnita,2 giugno 455,quasi senza colpo ferire caricò le sue navi di qualsiasi cosa arrivando addirittura ad affondarne qualcuna per l'eccessivo peso trasportato....Senza esercito, senza generali, senza imperatori carismatici, nei successivi venti anni si susseguirno tutta una serie di personaggi inetti che non mutarono le sorti di una istituzione che, con i Vandali in pianta stabile in Africa,con i Visigoti che si espandevano al di là dei Pirenei in Spagna,con i Burgundi nella Savoia, con i Franchi sconfinati al di là del basso Reno,venne definitivamente liquidata dal principe sciro Odoacre nell'estate del 476. Dopo aver deposto Romolo Augusto, ultimo imperatore romano d'occidente, nel 476, Odoacre, PRINCIPE SCIRO,signore degli eruli,RUGI E TURCILINGI, fu riconosciuto dall'imperatore Zenone e autorizzato a governare la Prefettura del pretorio d'Italia come Patrizio.

 

 

IL GOVERNO DI ODOACRE SULLA PREFETTURA D'ITALIA ED ILLIRICO (477-493 d.C.)

La prefettura d'Italia venne mantenuta da Odoacre che non volle sovvertire il sistema di governo romano accontentandosi solo dell'hospitalitas,Prefettura che dal 480 venne allargata alla Dalmazia per volontà dell'Imperatore d'Oriente Zenone (che faceva uccidere l'ultimo pretendente al trono d'Occidente Giulio Nepote,a cui Odoacre aggiunse il Norico Orientale liberato della presenza dei Rugi e la Sicilia, ceduta da Genserico al principe Sciro. Seppur Odoacre aveva stabilizzato in un ventennio la situazione italiana, gli imperatori d'Oriente non esitarono a scagliargli addosso gli Ostrogoti, o Goti dell'Est, di Teodorico in quanto ritenuti un problema da scaricare all'ovest secondo quella politica di alleggerimento inaugurata dall'Imperatore Arcadio durante l'invasione visigota di Alarico del 402-412 d.C.

 

 

TEODORICO IN ITALIA

 

 

 

 

535,scoppia la guerra greco-gotica.

 

 

 

LA PRIMA FASE: L'assedio di Roma, ma questa volta l'Urbe non cade (537-538 D.c.)

L'assedio di Roma fu una delle battaglie più importanti della prima fase della guerra gotica, ed è la parte che conosciamo meglio, grazie all'opera scritta dal consigliere giuridico di Belisario, Procopio. Questa battaglia sancisce la straordinaria bravura del generalissimo Belisario, che con poche truppe sconfiggerà gli ostrogoti, usando la superiore tecnologia dell'Impero bizantino, in confronto a quella degli ostrogoti che non avevano le capacità di combattere a disposizione dei bizantini. Belisario a Roma usò la sua tattica prediletta, che consisteva nella cosiddetta "guerra di logoramento", cioè nell'evitare il più possibile lo scontro in campo aperto con il nemico, ma nel continuare a infastidirlo con scaramucce eseguite quasi interamente da arcieri a cavallo. Una tecnica che in questo frangente si rivelò ottima, visto che gli ostrogoti avevano solo arcieri appiedati e non riuscivano ad addestrare truppe che sapessero montare a cavallo e scoccare frecce mentre galoppavano; quindi arcieri ostrogoti non potevano mai rispondere al fuoco nemico, perché in confronto a un arciere a cavallo erano lenti, e i bizantini si potevano divertire come in un tiro al bersaglio mirando ai soldati o ai cavalieri ostrogoti. Belisario per le sue guerre di logoramento aveva bisogno sempre di trincerarsi in un posto ben fortificato: Roma era il luogo adatto per condurre una guerra del genere, e gli ostrogoti avevano sbagliato a far in modo che Belisario potesse tranquillamente impossessarsi di Roma, visto che ora poteva applicare la sua tecnica di guerra più terribile per i suoi nemici.

Fu totalmente colpa degli ostrogoti, se il loro assedio fallì, vista la loro incapacità di condurlo, nonostante la loro superiorità numerica. Quest'ultima, tuttavia, veniva annullata dai catafratti bizantini quando scendevano in campo; il blocco navale fatto dagli ostrogoti e un tentativo di costruzione di una flotta furono poi vanificati del tutto dalla potentissima Marina bizantina, che affondò la piccola flotta ostrogota e riuscì a portare i viveri a Roma.

 

 

Le mura aureliane, da Porta san Sebastiano a Porta Ardeatina RESISTONO AGLI ATTACCHI DI VITIGE

 

 

La conquista di Porto e i problemi arrecati ai Romani

 

 

LO SCONTRO IN CAMPO APERTO E LE PESANTI PERDITE SUBITE DAGLI IMPERIALI:RE VITIGE TUTTAVIA TOGLIE L'ASSEDIO PER PAURA DI ESSERE TAGLIATO FUORI DAL NORD D'ITALIA

 

 

L'ASSEDIO E LA DISTRUZIONE DI MILANO DEL 539-540 d.C.: I GOTI PORTANO LA GUERRA NEL NORD

La sempre più precaria situazione politica e militare causò però alla città diverse ferite e Milano conobbe, nel 539, la sua prima distruzione: l'imperatore romano d'Oriente Giustiniano I, deciso a riconquistare i territori imperiali d'occidente, attaccò il re goto Teodato inviando in Italia al comando delle sue truppe il generale Belisario, iniziando quella che diventerà la lunga Guerra gotica; durante l'assedio di Roma del 537-538, durante l'inverno del 537-538, Belisario ricevette a Roma il vescovo di Milano, Dazio, con alcuni tra i cittadini milanesi più illustri: questi chiesero al generalissimo di inviare nell'Italia nord-occidentale (provincia di Liguria) un piccolo esercito; se l'avesse fatto, loro avrebbero consegnato all'Impero non solo Milano, ma tutta la provincia romana di Liguria (grossomodo corrispondente all'Italia nord-occidentale).[4]

Belisario mantenne le promesse: mandò via mare un esercito 1.000 uomini per intraprendere la conquista della Liguria. L'esercito bizantino sbarcò a Genova e riuscì in breve tempo a occupare Milano, Bergamo, Como, Novara e a tutti gli altri centri della Liguria ad eccezione di Pavia. La reazione di Vitige, tuttavia, non si fece attendere: inviò Uraia con un consistente esercito per cingere d'assedio Milano, e sollecitò il re dei Franchi, Teodeberto I, a intervenire in suo sostegno. Teodeberto, però, avendo stretto dei trattati di alleanza con Giustiniano (che non aveva rispettato), decise prudentemente di non intervenire direttamente nel conflitto, inviando a dar manforte ai Goti non guerrieri franchi ma 10.000 guerrieri burgundi, sudditi dei Franchi.

Belisario decise di inviare soldati alla liberazione di Milano, ma la divisione in due fazioni dell'esercito bizantino in seguito all'arrivo in Italia del generale Narsete, fece sì che la parte dell'esercito dalla parte di Narsete disubbedì agli ordini di Belisario di accorrere alla liberazione di Milano se non l'avesse autorizzato prima esplicitamente Narsete. Quando arrivò l'autorizzazione di Narsete era troppo tardi: gli stenti subiti dai Milanesi assediati si aggravarono a tal punto «per la mancanza di cibo che molti non disdegnavano di mangiar cani, sorci ed altri animali abborriti prima per cibo dell’uomo»[5] e la guarnigione imperiale decise quindi di arrendersi. Milano fu distrutta:

« Milano quindi fu agguagliata al suolo, e massacrato ogni suo abitatore di sesso maschile, non risparmiandosi età comunque, e per lo meno aggiugnevane il numero a trecento mila; le femmine custodite in ischiavitù spedironsi poscia in dono ai Burgundioni, guiderdonandoli con esse del soccorso avutone in questa guerra. Oltre di che rinvenuto là entro Reparato prefetto del Pretorio lo fecero a pezzi e gittaronne le carni in cibo ai cani. Gerbentino, pur egli quivi di stanza, poté co’ suoi trasferirsi per la veneta regione e pe’confini delle vicine genti nella Dalmazia, e passato in seguito a visitare l’imperatore narrogli a suo bell’agio quell’immensa effusione di sangue. Quindi i Gotti, occupate per arrendimento tutte le altre città guernite dalle armi imperiali, dominarono l’intera Liguria. Martino ed Uliare coll’esercito si restituirono in Roma. »
(Procopio, La Guerra Gotica, II, 21.)

In realtà la cifra di Procopio di 300.000 milanesi maschi massacrati è esagerata e va perlomeno divisa per dieci (30.000).

Al termine della guerra gotica, che durò fino al 553/554, ma si protrasse in alcune zone dell'Italia settentrionale fino al 561/562, l'Italia fu conquistata dai Bizantini e Milano, secondo la Cronaca di Mario Aventicense, fu ricostruita per opera di Narsete:[6]

(LA)
« Hoc anno Narses ex praeposito et patricio post tantos prostratos tyrannos, ... Mediolanum vel reliquas civitates, quas Goti destruxerant, laudabiliter reparatas, de ipsa Italia a supra scripto Augusto remotus est.» »
(IT)
« In quest'anno [568] Narsete ex proposito e patrizio, dopo aver abbattuto tanti tiranni... e ricostruite lodevolmente Milano e le città rimaste, che i Goti avevano distrutto, fu destituito dal governo dell'Italia dal suddetto Augusto [Giustino II]. »
(Mario Aventicense, Chronica, Anno 568.)

Sembra che nel breve periodo bizantino potrebbe essere stata elevata a capitale della diocesi italiana (Italia del Nord), anche se ciò non è certo.[7] Infatti, intorno alla fine del VI secolo, Genova risulta essere la sede dei vicarii del prefetto del pretorio d'Italia, che potrebbero essersi trasferiti, insieme all'arcivescovo di Milano, a Genova dopo la conquista longobarda di Milano (3 settembre 569).

 

L'ASSEDIO DI RAVENNA DA PARTE DI BELISARIO E LA CADUTA DI VITIGE,540 d.C.

Una volta espugnata Milano, Vitige col suo esercito si diresse immediatamente verso sud, a Ravenna, cercando da lì di bloccare l'avanzata verso nord di Belisario. All'arrivo dei Goti la città venne cinta d'assedio dagli imperiali.

Assedio

L'assedio si rivelò però difficile per la resistenza delle mura. Durante l'assedio poi arrivarono all'accampamento due senatori inviati come ambasciatori da Giustiniano che informarono Belisario che Giustiniano avrebbe concesso la pace ai Goti alle seguenti condizioni:

« ...Vitige, serbatasi la metà del regio tesoro, signoreggerà la traspadana regione e l’ imperatore avrà l’altra parte delle ricchezze, ed un tributo annuo da tutti i Cispadani. »
(Procopio, La Guerra Gotica, II, 29.)

Ma Belisario, intenzionato a sottomettere tutta l'Italia, annientando totalmente il regno ostrogoto, e a condurre prigioniero Vitige a Costantinopoli, andò su tutte le furie.[1] Gli ambasciatori parlarono poi con Vitige e i Goti si trovarono disposti ad accettare le condizioni di pace, che del resto erano migliori di quanto si aspettassero, ma, temendo una frode da parte dei "Romani" (ovvero dei Bizantini), accettarono solo a patto che gli accordi fossero firmati anche da Belisario.[1] Gli ambasciatori tornarono dunque da Belisario per spingerlo a firmare.

Le lunghe trattative di pace

Nel frattempo i Goti, oppressi dalla fame e scontenti del loro re Vitige, offrirono a Belisario di diventare Imperatore romano d'Occidente in cambio della sottomissione; Belisario finse di accettare l'offerta, non perché volesse usurpare il trono a danni di Giustiniano, ma per ottenere con l'astuzia la resa di Ravenna.[1] Allora, Belisario parlò con gli ambasciatori di Giustiniano chiedendo loro se non fosse anche per l'oro un'impresa grande e meritevolissima di lunga fama il sottomettere Vitige e i Goti, impossessarsi di tutte le loro ricchezze, e conquistare tutta l'Italia. Essi risposero di sì e lo pregarono di trovare un modo per raggiungere questi scopi.[1] Belisario allora spedì alcuni dei suoi famigliari a Vitige e ad alcuni ottimati dei Goti invitandoli a mantenere la promessa. I Goti, oppressi dalla fame, inviarono allora messi all'accampamento di Belisario con l’ordine di non dire a nessuno del popolo per quale motivo vennero mandati all'accampamento, e, parlando con Belisario, accettarono la resa a condizione che non avrebbe per niente molestato i Goti e sarebbe diventato signore degli Italici e dei Goti.

Belisario entra a Ravenna e fa arrestare Vitige. I Goti eleggono un nuovo re: ILDIBADO

Belisario, con il resto dei suoi uomini, partì con gli ambasciatori alla volta di Ravenna, dopo aver imposto ai vascelli riempiti di grano e di altro di sbarcare a Classe, il porto di Ravenna.[1] L'esercito di Belisario entrò a Ravenna, e all'entrata le mogli dei Goti sputarono in faccia ai mariti, tacciandoli di vigliaccheria.

Belisario fece prigioniero Vitige, trattandolo tuttavia bene, e depredò il tesoro dei Goti, pur guardandosi bene dallo spogliare barbaro alcuno, e stando attento a far sì che l’intero esercito imitasse l’esempio suo.[1] Dopo la caduta di Ravenna, molte guarnigioni gote spedirono ambasciatori a Belisario annunciando la loro resa; Belisario marciò allora per occupare Treviso e altre fortezze nella Venezia, ottenendo anche la resa di Cesena, l'unica città dell'Emilia ancora in mani nemiche.[1]

Successivamente però alcuni generali sembra abbiano calunniato Belisario, accusandolo di volere usurpare la porpora, e Giustiniano, anche perché aveva bisogno di Belisario in Oriente contro i Persiani, lo richiamò a Costantinopoli.[2] Belisario obbedì, generando l'ira dei Goti che ancora pensavano che Belisario sarebbe diventato loro re. I Goti ancora in armi nell'Italia transpadana allora elessero re Ildibado, continuando la resistenza armata contro i Bizantini.

Belisario richiamato a Costantinopoli. I Goti riprendono la guerra

I Goti ancora in armi nell'Italia transpadana allora elessero re Ildibado, continuando la resistenza armata contro i Bizantini. Belisario, ritornato a Costantinopoli, fu accolto freddamente da Giustiniano, che non volle conferirgli l'onore del trionfo.

 

 

DALLA PESTE DI GIUSTINIANO (542) AL SECONDO ASSEDIO DI ROMA (546-547) TOTILA OCCUPA LA CITTA' ETERNA

Il re ostrogoto Totila, dopo aver riconquistato varie città, si apprestò ad assediare Roma, con l'intento di riprenderla ai Bizantini.[1] All'indomani del fallimento della presa di Roma da parte di Vitige, i Bizantini guidati da Belisario erano riusciti ad occupare tutto il centro-sud della penisola apprestandosi ad invadere la Pianura Padana occupata dai Goti. La vittoria dell'esercito di Giustiniano sembrava a portata di mano quando l'Impero fu colpito da una SPAVENTOSA EPIDEMIA PESTILENZIALE CHE DETERMINO' UNA FORTE DIMINUZIONE DEMOGRAFICA, TALE DA INDEBOLIRE FORTEMENTE GLI ESERCITI IMPERIALI che a quel punto non riuscirono a portare il colpo di grazia ai Goti che in questo modo si riorganizzarono sotto Totila iniziando la RICONQUISTA della penisola assalendo il Centro Italia portandosi nel Lazio allo scopo di conquistare Roma. La Città Eterna era difesa da 3.000 soldati bizantini condotti dal generale Bessa. Mentre una parte dei Goti si era accostata alle mura della Città Eterna, Bessa ordinò ad alcune truppe sotto il comando di Artasire e Barbacione di uscire fuori dalle mura per combatterli: dopo averne uccisi molti, le truppe bizantine si misero all'inseguimento dei fuggitivi, ma caddero in un'imboscata subendo molte perdite, con i due comandanti che a stento riuscirono a salvarsi insieme a pochi altri; di conseguenza i Bizantini, nonostante le continue provocazioni, non osarono più tentare sortite fuori le mura.[1]

Nel frattempo la fame dentro le mura cominciò ad essere sofferta dagli abitanti, e non era possibile ricevere provviste, essendo la città circondata e bloccata dall'esercito ostrogoto.[1] Inoltre, gli Ostrogoti, sotto il comando di Totila, avevano potenziato di molto la loro flotta, rendendola abbastanza potente da poter competere quasi alla pari con quella imperiale, e la impiegarono per impedire alle navi bizantine di portare provviste a Roma, attaccandole, distruggendole o catturandole.[1] Totila, inoltre, comandò alle truppe ostrogote in Emilia di occuparne la capitale Piacenza, l'unica in quella regione rimasta in mano bizantina.[1] L'esercito ordinò al presidio di arrendersi, e ricevendone il rifiuto, formò il campo e la cinse d'assedio, ben sapendo della carenza di provviste dentro le mura.[1] Il patrizio Cetego, primo del senato romano, e sospettato dai generali bizantini di tradimento, fuggì dunque a Centumcelle.[1]

Nel frattempo, Belisario, essendo impossibilitato da Ravenna di inviare rinforzi agli assediati, avendo ben poche truppe egli stesso, decise di lasciare Ravenna, affidando la città alla difesa di Giustino e di pochi soldati, e, costeggiando la Dalmazia, giunse ad Epidanno, dove rimase in attesa dei rinforzi dall'Imperatore, a cui scrisse una lettera informandolo sugli sviluppi della guerra.[1] Giustiniano poco tempo dopo gli inviò Giovanni, nipote di Vitaliano, Isacco, armeno e fratello di Arazio, e Narsete con un esercito di truppe bizantine e barbare.[1] Inviò inoltre l'eunuco Narsete presso i capi degli Eruli per convincerli di inviare, in qualità di alleati dei Bizantini, truppe in Italia: Narsete riuscì nella missione e numerosi soldati Eruli, comandati da Filimuto e da altri loro comandanti, partirono alla volta dell'Italia, svernando in Tracia in attesa di raggiungere Belisario a Epidanno la primavera successiva; tra di essi vi era Giovanni Faga.[1] Gli Eruli, durante il viaggio, sconfissero degli invasori sclaveni (slavi) ponendo fine alla loro incursione e liberando gli abitanti dell'Impero che erano stati fatti prigionieri dagli invasori slavi.[1]

 

Il tentativo fallito di Belisario

 

Entrata,Saccheggio,occupazione di Roma da parte di Totila:547 dopo Cristo

Nel frattempo Bessa, intento più che mai ad accumulare ricchezze vendendo il frumento sempre a più caro prezzo, approfittando della fame che affliggeva i Romani, e tutto occupato ad arricchirsi, continuava a trascurare la difesa e la sicurezza delle mura della città, che secondo Procopio era l'"ultimo de' suoi pensieri": cosicché, secondo Procopio, non retti da freno, i soldati a difesa delle mura vagavano oziosi, e spesso si addormentavano senza che il comandante le rimproverasse; inoltre, mancavano i cittadini a cui affidare la difesa delle mura, essendone rimasti pochissimi entro le mura e tutti ridotti in stato pietoso dalla fame.[7]

Nel frattempo, quattro Isauri, posti a difesa della porta Asinaria, durante la notte, osservati i compagni addormentarsi, e, intenzionati a tradire Bisanzio, decisero di agire: calarono dai merli al suolo parecchie funi e con esse scesero fuori dalla città per recarsi da Totila promettendogli di introdurlo agevolmente in città con tutto l'esercito ostrogoto.[7] Re Totila, promettendo loro grandi ricompense una volta conquistata la città, inviò con essi due Ostrogoti ad esaminare il luogo indicatogli come idoneo all'espugnazione della città: questi scalarono le mura con le funi ed ebbero la conferma dagli isauri traditori di quanto fosse agevole scalare le mura con le funi di notte senza pericolo alcuno; scesi giù dalle mura con le funi, i due ostrogoti esposero al loro re gli sviluppi della faccenda, ma Totila, sebbene provasse un piacere sommo, sospettoso degli Isauri, non volle prestarvi molta fede.[7] Pochi giorni dopo, i quattro traditori, quindi, ritornarono da Totila cercando di nuovo di convincerlo: Totila inviò di nuovo con loro due altri ostrogoti perché tornassero ad osservare meglio ogni cosa; questi confermarono le prime notizie.[7] Nel frattempo degli esploratori bizantini catturarono dieci guerrieri ostrogoti conducendoli prigionieri a Bessa, il quale, interrogatili sui piani di Totila, venne a sapere che egli sperava di impadronirsi della città grazie al tradimento di alcuni Isauri, ma Bessa e Conone, non prestatovi per nulla fede, non presero provvedimenti, né tennero sotto controllo gli Isauri, che così visitarono per la terza volta il re ostrogoto, finalmente convincendolo.[7]

Ora Totila, condusse tutte le sue truppe presso la porta Asinaria ingiungendo a quattro dei suoi di scalare con le funi le mura in compagnia degli Isauri, approfittando del fatto che erano le ore notturne in cui, dormendo gli altri tutti, la difesa delle mura era affidata proprio agli Isauri traditori.[7] Gli Ostrogoti, dunque, preso possesso delle mura, pervennero alla porta ed a colpi di scure fecero a pezzi la spranga di legno, permettendo a Totila con tutto l'esercito ostrogoto di entrare in città; Totila, tuttavia, sospettando ancora di un tranello, tenne i suoi soldati in atteggiamento prudente affinché non sbandassero.[7] Quando l'esercito ostrogoto entrò in città, i soldati bizantini e i loro comandanti, Bessa e Conone, fuggirono dalla città per le varie uscite, e i rimasti cercarono disperatamente rifugio nei luoghi di culto.[7] Tra i patrizi, Basilio, Demetrio e coloro che avessero cavallo, seguirono il fuggente Bessa; mentre Olibrio, Massimo, Oreste ed altri cercarono rifugio nella basilica dell'apostolo Pietro.[7] In ogni modo, in quella notte, secondo Procopio, si trovavano in città non più di cinquecento individui, i quali ebbero appena il tempo di rifugiarsi nelle chiese, essendo il resto della popolazione o fuggita o deceduta per la fame e per gli stenti.[7] Totila, quando seppe che Bessa e il presidio bizantino erano fuggiti, si mostrò soddisfatto, ma non permise il loro inseguimento dicendo: « E qual maggior contento spereremmo del vedere il nemico in fuga ? »[7]

Era l'alba quando Totila si recò a pregare nella basilica dell'apostolo Pietro, quando gli Ostrogoti avevano già ucciso di spada venti soldati e sessanta cittadini.[7] All'entrata in chiesa, venne incontro al re ostrogoto il diacono Pelagio con i Vangeli in mano, e in atteggiamento supplichevole, supplicando Totila di perdonare i Romani ponendo fine ad ogni strage.[7] Totila, piegatosi alle istanze di Pelagio, ordinò ai suoi guerrieri di cessare ogni strage, permettendo però loro di mettere a sacco liberamente il resto: gli Ostrogoti si impadronirono quindi delle ricchezze custodite nelle case dei senatori, in particolare del denaro illecitamente accumulato da Bessa vendendo a carissimo prezzo il frumento, e i senatori romani si videro ridotti alla condizione di mendicare dagli stessi nemici la vita, con servile e grossolana veste indosso e picchiando d'uscio in uscio.[7] Gli Ostrogoti volevano uccidere la senatrice Rusticiana, vedova di Boezio, la quale aveva distribuito ai poveri ogni suo avere, accusandola di aver fatto distruggere, con larghi doni ai comandanti dell'esercito bizantino, la statua di Teodorico per vendicarsi dell'uccisione di Simmaco e Boezio, padre e consorte suoi.[7] Totila, tuttavia, impedì che fosse in conto alcuno oltraggiata, né permise agli Ostrogoti di violentare né vergini né vedove, dimostrando dunque come virtù, secondo Procopio, la continenza.[7]

Il fallimento delle Trattative di pace con Bisanzio

Il giorno successivo Totila, radunate le sue truppe, rivolse loro un discorso, riportato in dettaglio da Procopio, sostenendo che gli Ostrogoti avevano avuto inizialmente la peggio nella guerra, non perché militarmente inferiori, bensì perché avversati dal Nume, il quale, per punire i barbari per i mali commessi ai danni dei loro sudditi romanici, fece prevalere i "Greci", malgrado fossero in inferiorità numerica; raccomandò dunque i suoi soldati di non commettere atti iniqui in modo da non perdere di nuovo il favore del Nume, e dunque rischiare di perdere di nuovo la guerra.[8]

Totila rimproverò poi il senato romano rimproverandolo per il fatto che, nonostante avesse ricevuto grandissimi benefici dai re ostrogoti, li aveva traditi, aprendo le porte ai "Greci", divenendo così traditore di sé stesso: chiese poi quali vantaggi e benefici avessero ricevuto dall'Imperatore Giustiniano, rammentando che i senatori furono privati di quasi tutte le onoranze dai cosiddetti logoteti (esattori delle tasse bizantini), costretti a colpi di bastone al rendimento dei conti delle cariche sostenute durante la loro dominazione, e a pagare tasse esosissime.[8] Si rivolse poi ad Erodiano e agli Isauri, grazie al cui tradimento si era impossessato della città : « Voi, in fé di Dio, aggiunse, cresciuti coi Gotti non ci voleste accordare sino a questo giorno neppure un luogo deserto, e la costoro merce signoreggiamo Roma e Spoleto; siate dunque voi servi, ed eglino, stretti di amicizia e di benevolenza con noi, suppliranno di pieno diritto le vostre magistrature».[8] Mentre i patrizi udivano silenziosi tali invettive, Pelagio continuò ad implorare al re perdono, e Totila rispose accomiatandoli con la confortante promessa che sarebbe stato clemente con loro.[8]

Totila decise quindi di inviare Pelagio ed il senatore romano Teodoro come ambasciatori all'Imperatore Giustiniano, incaricando loro di comunicare all'Imperatore che, se non avesse accettato la pace, Totila avrebbe raso al suolo Roma e, annientato il senato, avrebbe devastato l'Illiria, minacciando apertamente la stessa Costantinopoli.[8] La lettera di Totila che gli ambasciatori consegnarono a Giustiniano, secondo Procopio, era la seguente:[8]

« Nella credenza che sienti ben noti i romani avvenimenti ho risoluto di passarli con silenzio; quindi comprenderai di leggieri a che tenda la mia mandata. Chiediamo con lei che vogli tu stesso accogliere il bene della pace, ed accordarlo egualmente a noi, del che memorie bellissime ed illustri esempi lasciaronti Anastasio e Teuderico, i quali in epoca ben vicina alla nostra compierono regnando con somma pace e felicità i giorni loro. Che se par tali saranno i tuoi desiderj potrai meritamente nomarti mio padre; e quindi ovunque bramerai ti saremo compagni d'armi. »
(Procopio di Cesarea, La Guerra Gotica, III,21.)

Giustiniano Augusto, letto il foglio, ed ascoltati gli oratori, li licenziò immediatamente, rispondendo loro a voce, e per iscritto al re, che era Belisario "l'imperatore della guerra", per cui dovevano discutere con lui, e non con l'Imperatore, della pace.[8]

Roma a rischio distruzione: dal rovescio di Lucania, Totila decide di iniziare a smantellare le mura aureliane e gli acquedotti di Roma. La Città Eterna viene svuotata

Mentre gli ambasciatori inviati a Costantinopoli erano sulla via del ritorno, in Lucania Tulliano, armati gli agricoltori della regione, aveva deciso di sorvegliare delle angustissime gole per impedire ai nemici di portar danno al paese; aveva con sé, non solo gli agricoltori già citati, ma anche trecento Ante lasciativi, a sua inchiesta, qualche tempo prima da Giovanni.[9] Totila, informato di ciò, inviò un esercito formato da Ostrogoti e contadini contro l'esercito di Tulliano, dando loro l'ordine di superare ad ogni costo quei passi: ma l'esercito ostrogoto fu vinto dall'armata di Tulliano, venendo messo in fuga con grandissime perdite.[9] Quando Totila fu informato del rovescio in Lucania, il re ostrogoto decise di radere al suolo Roma, e, una volta messovi a quartiere il più dell'esercito, andare con il resto a combattere Giovanni ed i Lucani.[9] Su suo ordine, gli Ostrogoti cominciarono a sfasciarla di muro in parecchi punti, progettando di "mandarne i più belli e magnifici edifizi in fiamme, e ridurla pascolo di armenti", e già un terzo delle mura era stato distrutto, quando Belisario, avvisato delle intenzioni di Totila, gli inviò degli ambasciatori, che consegnarono al re ostrogoto la seguente lettera:[9]

Così adunque esaminando le cose vorrei che tu bene considerassi i futuri destini cui dovremo piegare il capo, vo' dire, o l'imperatore uscirà vittorioso della presente guerra, o ben anche tu stesso. E sia pure de' casi il secondo, o uomo illustre, in allora col distrugger Roma non avrai manomesso un altrui dominio, ma un proprio, e coll'aver salvato sì nobile acquisto addiverrai in fe mia ben più possente. Che se meno propizia ti sia la sorte, il vincitore non ti avrà piccol obbligo della serbata città quando atterratala indarno spereresti una via alla clemenza, senza pro alcuno del tuo misfatto. Sì operando in fine ti procaccerai da tutti viventi stima, cui ora è in tua balia di far dare il crollo o dall'una o dall'altra parte; conciossiaché nulla, delle azioni in fuori, può improntare nei grandi il nome. »
(Procopio di Cesarea, La Guerra Gotica, III,22.)

Totila esce da Roma e si accampa nell'Agro Algido, la città viene svuotata completamente con la DEPORTAZIONE

Lo scopo era quello di sospendere lo smantellamento per venire incontro alla supplica di Belisario, ma contemporaneamente il Re Goto intendeva esser sicuro di non avere nemici alle spalle e soprattutto di avere focolai pestilenziali a falcidiargli le truppe

Totila, dopo aver letto più volte la lettera ed averci riflettuto bene, alla fine convinto dalle argomentazioni di Belisario, cambiò idea, fermando all'istante la distruzione di Roma.[9] Fatti quindi partecipi della sua determinazione gli ambasciatori di Belisario ed una volta accommiatati, ordinò che il maggior numero delle sue truppe ponessero gli accampamenti presso l'agro chiamato Algido, posto a centoventi stadi dalle mura, e da qui impedissero agli imperiali di osteggiare da Porto la campagna.[9] Totila, invece, col resto dell'esercito, avrebbe mosso contro Giovanni e i Lucani.[9] Totila ordinò poi, per rendere la città di Roma deserta, condusse i senatori romani tra le genti del suo corteo, mandando nella Campania i cittadini con le donne e la prole, né permise a nessuno di rimanerci entro.[9]

Inizialmente la controffensiva ostrogota in Lucania ebbe la meglio, riconquistando le regioni dell'Italia meridionale; ma di fronte alla controffensiva bizantina, gli Ostrogoti subirono un altro rovescio, e, Totila, temendo di peggio, radunò il suo esercito e fissò come accampamento il monte Gargano.[9]

Belisario riprende Roma ripopolandola e riarmandola, Totila si ritira a Tivoli dopo aver fatto terra bruciata:la Città Eterna passa da una popolazione di UN MILIONE di abitanti a soli 30.000 cittadini

Belisario, nel frattempo impadronitesi di Spoleto con l'inganno, decise di rioccupare Roma approfittando della partenza di Totila: vinto un debole esercito ostrogoto in battaglia, l'esercito di Belisario, affidato Porto a un debole presidio, rioccupò la Città Eterna.[10] Essendo intenzionato a riparare il tratto di mura fatto demolire da Totila, ma non potendolo fare in breve tempo, trovò il seguente stratagemma: radunate le pietre giacenti, sovrappose frettolosamente le une alle altre senza né ordine né cemento per collegarle insieme, non avendo a disposizione né calce o materiali simili; mirò solo a dare apparentemente forma di muro al suo lavoro rafforzandolo in pari tempo al di fuori con fitte palizzate: aveva inoltre fatto costruire intorno alle mura un profondo fossato.[10] Dopo venticinque giorni di duro lavoro, le mura sembravano essere tornate come erano prima, e Roma cominciò ad essere ripopolata dei suoi antichi abitanti, per il desiderio di ripopolare nuovamente la loro patria, e di sottrarsi dalla carestia sin qui tollerata, avendovi il duce imperiale introdotto in città moltissime navi cariche di annona.[10]

Informato della nuova perdita di Roma, re Totila mosse di subito con tutto l'esercito, sperando di riuscire a riconquistarla prima che Belisario avesse fatto assicurare gli ingressi con nuove porte, essendo state le antiche distrutte dai barbari.[10] Le truppe di lui, posti gli accampamenti sul fiume Tevere per consumarvi quella notte, l'alba del giorno successivo assalirono le porte della città: Belisario reagì allora ponendo alla difesa degli ingressi, in luogo delle porte, dei soldati, comandando al resto dell'esercito di adoperarsi a respingere con ogni messo gli assalitori dai merli.[10] Nella battaglia che ne seguì, gli Ostrogoti ebbero nettamente la peggio.[10] Gli assalti successivi furono respinti anch'essi.[10]

Fu in quel frangente che alcuni guerrieri ostrogoti rimproverarono Totila per l'imprudenza commessa non radendo al suolo Roma dopo averla conquistata, perché se l'avesse fatto, il nemico non avrebbe avuto più mezzo di ripararvi, né di presidiarla.[10] Il re ostrogoto e il suo esercito ripararono nella città di Tivoli, distruggendo quasi tutti i ponti eretti da Tiberio, ad eccezione del solo Ponte Milvio.[10]

Totila assale Perugia,Capua e la Lucania: Belisario, senza uomini, costretto a rientrare a Costantinopoli

La sconfitta inflitta loro da Belisario demoralizzò i Goti, che dovettero dunque essere rincuorati con un'orazione da Totila. Il re goto con il suo esercito si diresse ad assediare Perugia, mentre in Lucania continuavano le operazioni militari del generale bizantino Giovanni: questi, dopo aver assediato Acerenza, si diresse in Campania con il proposito di liberare i senatori romani tenuti in ostaggio dai Goti; grazie a una vittoria sui Goti a Capua, Giovanni riuscì a liberare i senatori tenuti in cattività in quella regione e li inviò in Sicilia.[71] Quando Totila seppe dell'impresa di Giovanni, decise di affrontarlo: lasciò un piccolo reggimento a continuare l'assedio di Perugia e si diresse in Lucania, dove attaccò l'esercito di Giovanni nel cuore della notte: Totila uscì complessivamente vincitore nello scontro ma le tenebre favorirono la fuga dei Bizantini, che subirono in questo modo meno perdite di quanto ne avrebbero potuto subire se si fosse combattuto di giorno. Giovanni riuscì quindi a rifugiarsi a Otranto.[72]

Nel frattempo Belisario scrisse numerose lettere a Giustiniano chiedendo rinforzi, ed alla fine l'Imperatore decise di accontentarlo inviando truppe in Calabria sotto il comando del generale Valeriano (dicembre 547).[73] Belisario partì quindi per raggiungere i rinforzi a Taranto, dopo aver selezionato 900 tra i suoi uomini migliori, 700 cavalieri e 200 fanti;[73] la difesa di Roma venne affidata al generale Conone con il resto dell'esercito.[73] Il cattivo tempo costrinse però Belisario a sbarcare a Crotone per poi ripiegare a Messina.[74]

Nel giugno 548 arrivarono i rinforzi guidati da Valeriano; Belisario quindi, sapendo quanto Antonina e Teodora fossero amiche, inviò sua moglie a Costantinopoli per ottenere dall'Imperatrice ulteriori aiuti: tuttavia al suo arrivo Antonina scoprì che Teodora era morta (28 giugno 548).[75] Con i rinforzi Belisario tentò di liberare Rossano dall'assedio dei Goti ma il suo sbarco venne impedito dal nemico.[75] Il generale decise quindi di tornare a Roma, affidando l'esercito a Giovanni e a Valeriano; una volta in città venne richiamato a Costantinopoli dall'Imperatore, persuaso a farlo da Antonina[75] (secondo la Storia Segreta invece fu Belisario stesso a chiedere di ritornare a Costantinopoli).[66]

Questo fu il giudizio di Procopio sulla seconda campagna in Italia di Belisario:

« Belisario fece un ben vergognoso ritorno dalla sua seconda missione in Italia. In cinque anni non riuscì mai, come ho detto nei precedenti libri, a sbarcare su un tratto di costa che non fosse controllato da un suo caposaldo: per tutto questo tempo continuò a bordeggiare le coste. [...] »

TERZO ASSEDIO DI ROMA, 550 d.C.: TOTILA OCCUPA ROMA PER LA SECONDA VOLTA

 

 

 

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  • Il 13 agosto 554, con la promulgazione a Costantinopoli da parte di Giustiniano di una Pragmatica sanctio (pro petitione Vigilii) (Prammatica sanzione sulle richieste di papa Vigilio), l'Italia rientrava, sebbene non ancora del tutto pacificata, nel dominio romano.[2] Con essa Giustiniano estese la legislazione dell'Impero all'Italia, riconoscendo le concessioni attuate dai re goti fatta eccezione per l' "immondo" Totila, e promise fondi per ricostruire le opere pubbliche distrutte o danneggiate dalla guerra, garantendo inoltre che sarebbero stati corretti gli abusi nella riscossione delle tasse e sarebbero stati forniti fondi all'istruzione.[3] Narsete avviò inoltre la ricostruzione di un'Italia in forte crisi dopo un conflitto così lungo e devastante, riparando anche le mura di varie città ed edificando numerose chiese, e fonti propagandistiche parlano di un'Italia riportata all'antica felicità sotto il governo di Narsete.[4] Secondo la storiografia moderna tali fonti sono però esageratamente ottimistiche, in quanto, nella realtà dei fatti, Roma faticò, nonostante i fondi promessi, a riprendersi dalla guerra e l'unica opera pubblica riparata nella Città Eterna di cui si ha notizia è il ponte Salario, distrutto da Totila e ricostruito nel 565.[5] Nel 556 Papa Pelagio si lamentò in una lettera delle condizioni delle campagne, «così desolate che nessuno è in grado di recuperare.»[6] Anche il declino del senato romano non fu fermato, portando alla sua dissoluzione agli inizi del VII secolo.
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    LA DECADENZA  all'indomani della PRAMMATICA SANZIONE E SOTTO IL PRIMO PERIODO LONGOBARDO . LA COSTRUZIONE DEL TICINELLO COME BARRIERA CONTRO LE INVASIONI DA PAVIA (568-590 d.C) DA ALBOINO ALL'ANARCHIA DEI DUCHI LONGOBARDI. IL RUOLO DI TEODOLINDA,REGINA DEI BAVARI

     

    LA LUNGA GUERRA LONGOBARDO-GEPIDA (551-567 d.C.), LA VITTORIA DEGLI AVARI E LA SMOBILITAZIONE VERSO L'ITALIA. CON LA SCOMPARSA DI GIUSTINIANO (565 d.C.) VIENE MENO L'ULTIMO BASTIONE PER IL CONTROLLO DEI LONGOBARDI

     

     

    LA FINE DELLA PREFETTURA D'ITALIA (584 d.C.):nasce l'Esarcato con capitale Ravenna ed i Ducati di Roma,Calabria,Amalfi

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    la suddivisione provinciale dell'Italia bizantina dal 554 al 580

     Cartina politica dell'Italia nel 600 dopo Cristo. La linea rossa delimita la prima occupazione Longobrda estremamente frammentata

    Decade la Prefettura del Pretorio e nascono le Eparchie di Maurizio,584 d.C. Nel 629, con il decaduto titolo di Imperatore Romano e la nascita del Basileus,voluta dall'imperatore Eraclio,scompare anche il Senato Romano
    Costruzione del fossato del Ticinello all'interno dell'Eparchia Aemilia che doveva tutelare tutto il territorio compreso tra l'emissario del Lago Maggiore-Lambro Meridionale e Adda, un cuneo di territorio che divideva l'iniziale penetrazione longobarda nel nord d'Italia
     
    Maurizio, nel 584, riformò l'organizzazione dell'esarcato ripartendone i territori in sette distretti, strettamente controllati e governati dall'esarca di Ravenna:
     

    Le città dell'Esarcato e della Pentapoli.

    1. l'Esarcato propriamente detto (dal fiume Panaro a Ravenna);
    2. la Pentapoli;
    3. il Ducato romano;
    4. la Liguria;
    5. la Venezia e l'Istria;
    6. il Ducato di Napoli
    7. il Ducato di Calabria (comprendente il Bruzio e la parte meridionale dell'Apulia).

    La popolazione locale fu tenuta a concorrere alla difesa del territorio, che andava ad affiancare i soldati di professione.[21] Veniva così a formarsi un'efficiente macchina difensiva dei territori rimasti, principalmente situati sulle coste, dove maggiori potevano farsi sentire il potere imperiale e la flotta bizantina.

    Essendo impegnato in altri fronti contro nemici temibili come Avari e Sasanidi, Maurizio non poté far altro che combattere i Longobardi tramite l'alleanza con i Franchi, che istigò a invadere la Longobardia. Il re dei Franchi Childeberto II invase una prima volta il territorio longobardo nel 584, ma i Longobardi riuscirono ad ottenere il suo ritiro pagando un tributo.[22] Fu proprio a causa di questa incursione che i Longobardi si risolsero a eleggere un nuovo re in Autari dopo dieci anni di interregno e di anarchia («periodo dei Duchi»)

     

    (il regno longobardo alla massima espansione, 770 d.c.)

     

    LONGOBARDIA E ROMANIA DAL TRATTATO DEL 603 d.C. tra l'imperatore Niceforo Foca ed il re dei Longobardi Agigulfo. Decade la Prefettura d'Italia e nasce l'Esarcato. I re longobardi si definiscono Gratia Dei rex totius Italiae ("Per grazia di Dio, re dell'Italia intera") e non più soltanto Rex Langobardorum ("Re dei Longobardi")

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    DALLE LUNGHISSIME GUERRE LONGOBARDO-BIZANTINE ALLA STABILIZZAZIONE DEL REGNO. L'IMPERATORE ERACLIO DICHIARA DECADUTO IL SENATO DI ROMA. LA CITTA' ETERNA PERDE IL SUO RUOLO CENTRALE TRALASCIATA INIZIALMENTE ANCHE DAI LONGOBARDI

    L'iniziale incoerenza dell'occupazione longobarda,con duchi e fare che gestivano in proprio la dominazione del territorio,aveva ceduto via via alla creazione di un potere centrale stabile in grado di garantire la sicurezza sia all'interno che all'esterno. All'interno la stabilizzazione avvenne attraverso una lunghissima guerra contro i possedimenti bizantini che piano piano vennero incorporati nel regno longobardo. Una lunghissima opera di assimilazione contraddistinse il Regno Longobardo per tutto il VII secolo, opera che ebbe il merito di realizzare un tessuto sociale ed etnico abbastanza uniforme con l'iniziale suddivisione tra Germani e Romani via via sempre più mitigata da politiche di integrazione tanto da portare i Re Longobardi ad inserire nell'esercito anche i cittadini di stirpe romana, cosa prima proibita in quanto le armi erano esclusiva dei Germani. Non solo etnicamente ma anche giuridicamente i Re Longobardi iniziarono una vasta e paziente opera di codificazione giuridica degli usi Germani all'interno dell'impalcatura civile Romana. Reati, delitti e pene vennero codificati e sanzionati seguendo la legge scritta e non la semplice consuetudine orale tramandata. La lunghissima stabilizzazione territoriale del Regno altresì diede modo al risorgere di una attiva mobilità sociale con ceti artigiani e commercianti che ripresero vigore ed espansione grazie anche a conflitti che non interessavano più l'intera penisola come in epoca gotica, ma sempre più localizzati in territori specifici e periferici: la Romagna,l'Istria,l'alto Lazio,l'estremo meridione. Una vasta opera di razionalizzazione che risultò favorevolissima alle invasioni Franche dell'VIII secolo in quanto essi si ritrovarono un territorio ben costituito e non depresso e sfilacciato come all'indomani della lunghissima guerra greco-gotica del VI secolo.
     

     

     

    DALLA CONQUISTA DI RAVENNA I LONGOBARDI AD UN SOFFIO DALL'UNITA' NAZIONALE

     

    RACHIS ASSALE RAVENNA , ASTOLFO MINACCIA DA VICINO ROMA,753 D.c.

    Liutprando morì nel 744: gli succedettero prima Ildeprando e poi Rachis. Quest'ultimo sospese le campagne di conquista dei suoi predecessori e firmò una pace con l'esarcato.[75] Nel 749, tuttavia, invase la Pentapoli e assediò Perugia. Convinto a ritirarsi dal Papa, al suo ritorno a Pavia venne deposto dalla fazione longobarda contraria alla pace con Bisanzio, che elesse re Astolfo.[75] Questi, riorganizzato e rafforzato l'esercito,[76] passò immediatamente all'offensiva contro i territori italiani ancora soggetti (anche se più di nome che di fatto) all'Impero bizantino. Nel 750 invase da nord l'Esarcato occupando Comacchio e Ferrara; nell'estate del 751 riuscì a conquistare l'Istria e poi la stessa Ravenna, capitale e simbolo del potere bizantino in Italia.[75] Si insediò nel palazzo dell'esarca, che venne parificato al palazzo regio di Pavia come centro del regno longobardo.[77] Il 4 luglio di quell'anno Astolfo promulgò il suo primo documento dal palazzo dell'esarca, intitolandosi «re dei Langobardi cui Dio affidò il popolo dei Romani, traditium nobis a Domino populum Romanorum».[14]Inizialmente Astolfo colse notevoli successi, culminati nella conquista di Ravenna (751); qui il re, risiedendo nel Palazzo dell'esarca e battendo moneta di tipo bizantino, espose il suo programma: raccogliere sotto il suo potere tutti i Romanici fino ad allora soggetti all'imperatore, senza necessariamente fonderli con i Longobardi. L'Esarcato non fu omologato agli altri possedimenti longobardi in Italia (non fu cioè eretto a ducato), ma mantenne la sua specificità come sedes imperii: in questo modo Astolfo si proclamava erede diretto, agli occhi dei Romanici italiani, dell'imperatore bizantino e dell'esarca, suo rappresentante.[27] Le sue campagne portarono i Longobardi a un dominio quasi completo dell'Italia, con l'occupazione (750-751) anche dell'Istria, di Ferrara, di Comacchio e di tutti i territori a sud di Ravenna fino a Perugia. Con l'occupazione della roccaforte di Ceccano accentuò la pressione sui territori controllati dal papa Stefano II, mentre nella Langobardia Minor riuscì a imporre il suo potere anche a Spoleto e, indirettamente, a Benevento.

     

    La donazione effettuata da Pipino il Breve delle terre dell'Esarcato di Ravenna al papa Stefano II: questo momento è considerato la nascita dello Stato della Chiesa.

    L'Imperatore Costantino V tentò di recuperare l'esarcato con la forza della diplomazia inviando ambasciatori presso Astolfo nel tentativo di spingerlo a restituire i territori conquistati all'Impero. Ma l'ambizioso re longobardo non era disposto a rinunciare alle sue conquiste e ambiva a conquistare anche Roma, minacciando apertamente il Papa Stefano II, da cui pretendeva che il Ducato romano pagasse un tributo quantificato in tanti soldi d'oro quanti erano gli abitanti del ducato. Quando nel 753 il re longobardo occupò la fortezza di Ceccano, in territorio romano, il Pontefice, visto il fallimento di ogni negoziazione e constatato che l'Impero d'Oriente non poteva fornirgli concreti aiuti militari, decise di rivolgersi ai Franchi, all'epoca governati da Pipino il Breve (Maggiordomo di Palazzo, ovvero primo dei nobili di Francia).[78] Nel gennaio del 754 il Papa si recò in Francia, incontrandosi con Pipino a Ponthion. Questi accettò la richiesta di aiuto del pontefice e s'impegnò a convincere la nobiltà franca.

     

    IL PONTEFICE DI ROMA ROMPE IL LEGAME POLITICO CON COSTANTINOPOLI E SI RIVOLGE AI FRANCHI DI PIPINO IL BREVE

    Ottenuto l'assenso alla spedizione da parte dei nobili franchi nel corso di una dieta a Quierzy (Carisium in latino) il 14 aprile del 754 (giorno di Pasqua), nell'agosto dello stesso anno Pipino discese una prima volta in Italia, sconfiggendo Astolfo nei pressi di Susa e costringendolo a cedere alcuni territori.[79]

     

    I LONGOBARDI OCCUPANO NARNI ED ASSEDIANO ROMA

    Astolfo, tuttavia, non recedette dai suoi piani bellicosi e nel 756 invase di nuovo il ducato romano, espugnando Narni e assediando Roma: Papa Stefano II sollecitò di nuovo l'aiuto di Pipino, che discese in Italia nello stesso anno, sconfisse di nuovo i Longobardi e costrinse Astolfo a cedere Esarcato e Pentapoli al Papa invece che all'Impero (Promissio Carisiaca).[80]

     

    ANNO 756: NASCE LO STATO DELLA CHIESA, FALLISCE IL TENTATIVO LONGOBARDO DI UNITA' NAZIONALE. L'IMPERO D'ORIENTE VIENE RIDOTTO ALL'ESTREMO MERIDIONE D'ITALIA RIUNITO NEL X SECOLO NEL CATEPANATO D'ITALIA CHE SEGNA LA FINE DELL'ESARCATO

    I Bizantini ovviamente protestarono e, tramite due messi inviati presso il re franco, lo pregarono di restituire l'Esarcato al legittimo padrone, ovvero l'Impero d'Oriente; ma Pipino rispose negativamente, congedando i due ambasciatori.[81] Nacque così uno Stato della Chiesa indipendente da Bisanzio e protetto dai Franchi.

    Astolfo morì poco dopo questa grave umiliazione, nel 756.

    Il fratello Rachis uscì dal monastero e tentò, inizialmente con qualche successo, di ritornare sul trono. Si oppose Desiderio, messo da Astolfo a capo del Ducato di Tuscia con sede a Lucca; non apparteneva alla dinastia friulana, malvista dal papa e dai Franchi, e riuscì ad ottenere il loro appoggio. I Longobardi gli si sottomisero per evitare un'altra discesa dei Franchi e Rachis fu convinto dal papa a ritornare a Montecassino.

     

    La basilica di San Salvatore a Brescia

    Desiderio con un'abile e discreta politica riaffermò poco a poco il controllo longobardo sul territorio facendo di nuovo leva sui Romanici, creando una rete di monasteri governati da aristocratici longobardi (sua figlia Anselperga fu creata badessa di San Salvatore a Brescia), trattando col successore di papa Stefano II, Paolo I, e riconoscendone il dominio nominale su molti territori in realtà in suo potere, come i riconquistati ducati meridionali. Inoltre attuò una disinvolta politica matrimoniale, dando in moglie sua figlia Liutperga al duca di Baviera, Tassilone (763), avversario storico dei Franchi e, alla morte di Pipino il Breve, facendo sposare l'altra figlia Desiderata (che nella tragedia Adelchi Alessandro Manzoni immortalò dandole il nome di Ermengarda) al futuro Carlo Magno, offrendogli un utile appoggio nella lotta contro il fratello Carlomanno.

    Nonostante le alterne fortune del potere politico centrale, l'VIII secolo rappresentò l'apogeo del regno, periodo di benessere anche economico. L'antica società di guerrieri e sudditi si era trasformata in una vivace articolazione di ceti e classi, con proprietari fondiari, artigiani, contadini, mercanti, giuristi; conobbero grande sviluppo, anche economico, le abbazie, soprattutto benedettine, e si espanse l'economia monetaria, con la consuegente creazione di un ceto bancario[28]. Dopo un primo periodo durante il quale la monetazione longobarda coniava esclusivamente monete bizantine d'imitazione, i re di Pavia svilupparono una monetazione autonoma, aurea e argentee. Il ducato di Benevento, il più indipendente dei ducati, ebbe anche una propria monetazione autonoma.

    La caduta del regno

     

    Adelchi, sconfitto da Carlo Magno, opta per l'esilio

    Proprio quando, nel 771, Desiderio stava per cogliere i frutti della sua abile politica riuscendo a fare accettare al nuovo papa, Stefano III, la sua protezione, la morte di Carlomanno lasciò mano libera a Carlo Magno che, ormai saldo sul trono, ripudiò la figlia di Desiderio. L'anno successivo un nuovo papa, Adriano I, del partito avverso a Desiderio, ne ribaltò il delicato gioco di alleanze, pretendendo la consegna dei territori mai ceduti da Desiderio e portandolo così a riprendere la guerra contro le città della Romagna. Carlo Magno, nonostante avesse appena cominciato la campagna contro i Sassoni, venne in aiuto del papa, temendo la conquista di Roma da parte dei Longobardi e la perdita di prestigio conseguente. Tra il 773 e il 774 scese in Italia - ancora una volta la difesa delle Chiuse fu inefficace, per colpa delle divisioni fra i Longobardi[29] - e, avendo la meglio contro una dura resistenza, conquistò la capitale del regno, Pavia. Il figlio di Desiderio, Adelchi, trovò rifugio presso i Bizantini; Desiderio e la moglie furono deportati in Gallia. Carlo si fece chiamare da allora Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum ("Per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi"), realizzando un'unione personale dei due regni; mantenne le Leges Langobardorum, ma riorganizzò il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi.

    « Così finì l'Italia longobarda, e nessuno può dire se fu, per il nostro Paese, una fortuna o una disgrazia. Alboino e i suoi successori erano stati degli scomodi padroni, più scomodi di Teodorico, finché erano rimasti dei barbari accampati su un territorio di conquista. Ma oramai si stavano assimilando all'Italia e avrebbero potuto trasformarla in una Nazione, come i Franchi stavano facendo in Francia.
    Ma in Francia non c’era il Papa. In Italia, sì. »
    (Indro Montanelli - Roberto Gervaso, L'Italia dei secoli bui)

    Tra il 773 e il 774 il successore di Pipino sul trono di Francia, Carlo Magno, scese in Italia e conquistò la capitale del regno longobardo, Pavia. Carlo si fece chiamare da allora "Re dei Franchi e dei Longobardi per Grazia di Dio" (Gratia Dei rex Francorum et Langobardorum), realizzando un'unione personale dei due regni. Il sovrano mantenne le Leges Langobardorum ma riorganizzò il regno sul modello franco, con conti al posto dei duchi[82].

    Per quanto riguarda l'Italia meridionale, la Puglia, la Lucania e la Calabria restarono ancorate in mano imperiale per ancora tre secoli; altri territori, come Napoli e Gaeta, si sganciarono, a poco a poco, dalla dominazione di Costantinopoli mentre la Sicilia fu conquistata dagli Arabi.[83]

    Nell'876 i Bizantini, sconfitti definitivamente i Saraceni, ristabilirono il proprio dominio su Bari. Costituito come Thema di Longobardia, questo territorio fu governato per mezzo di un funzionario a cui venne attribuito inizialmente il titolo di strategos o patrizio, dal 970-976 lo strategos fu posto alle dipendenze di un Catapano (o Catepano, traducibile come "sovrintendente", dal termine greco katapános è derivato poi quello di "capitano") a cui rispondevano anche gli strateghi di Calabria e di Lucania: l'insieme dei territori controllati da questo funzionario divenne dunque noto come Catepanato d'Italia.

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