INTERNOTIZIE |
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Una colonna
di 19 mezzi, tra tir, autocisterne, escavatori.
Ecco la scena della fallita rapina a un Dicannove mezzi incolonnati dentro la
città. A bordo indossano un passamontagna. Procedono nelle loro auto
blindate, con i giubbotti antiproiettile e gli pneumatici ripieni di
silicone. Sfilano sotto i balconi. Al collo le ricetrasmittenti. E
in mano armi pesanti. E' il 25 giugno, e
solo un errore fa andare a monte una rapina
da 23 milioni di euro ALL'ISTITUTO DI TRASPORTO VALORI NP SERVICE.
Ecco il racconto di un territorio messo in ginocchio da una
criminalità di cui nessuno parla. Solo ora la promessa di una
sezione dell'Antimafia di Antonio Massari Foggia, il far west “invisibile”
delle cosche tra kalashnikov, bazooka e rapine in stile militare.
C’è “la Società” basata sull’assenza di collaboratori di giustizia.
Poi ci sono anche “i montanari” del Gargano, la cui principale
attività è l’estorsione. E infine i commandos di Cerignola.
Organizzano un attentato ogni tre giorni, ma nessuno ne parla. La
Bindi: “Apriremo una sezione distaccata dell’Antimafia” Immaginate 19 mezzi che incolonnati –
inclusi un caterpillar, un’autocisterna con rimorchio, due Tir –
procedono dentro la città. Immaginate di incrociarli e di notare che
a bordo, no, non c’è gente qualunque, e lo capisci
dall’abbigliamento, visto che tutti indossano un passamontagna e
qualcuno un cappello in cuoio a falde larghe. Li guardate sfilare
mentre procedono incollati l’uno all’altro, nelle loro auto
blindate, con i loro giubbotti antiproiettile e gli pneumatici
ripieni di silicone. Sfilano sotto i balconi del centro abitato. Al
collo portano delle ricetrasmittenti. E in mano hanno armi
pesanti. È la mezzanotte del 25 giugno, il gruppo si muove
in perfetto stile paramilitare, ma non siamo nella
periferia di Donetsk. “Presidente”, dice il
questore di Foggia Piernicola Silvis a Rosy
Bindi, durante una drammatica audizione dinanzi alla
Commissione parlamentare antimafia, “nessuno ha parlato di questa
vicenda. Nessuno lo sa. Neanche al cinema si vede una scena di
questo genere. S’è trattato di un vero e proprio atto di guerra: un
atto militare. Se un’autobomba esplode, qui non lo
viene a sapere nessuno, presidente, ma queste cose devono essere
dette, perché non possiamo aspettare il morto eccellente, che
ammazzino un procuratore della Repubblica, uno dei nostri o un
bambino, o che facciano una strage in cui muoia qualche innocente
per ricordarci che a Foggia c’è l’associazione
criminale di stampo mafioso. Questa città – continua il
questore dinanzi alla Bindi – oggi è economicamente in ginocchio,
strozzata dalle estorsioni e dal manto di silenzio che si coglie
ovunque. È necessario inceppare con urgenza l’escalation
dell’organizzazione, prima che sia tardi e che il livello delle sue
azioni omicide s’innalzi a sfida aperta alle istituzioni dello Stato
e agli uomini che le rappresentano”.
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“Non è un film” Dice bene il questore: “Nessuno lo
sa. Eppure neanche al cinema si vede una scena del genere”. La
notizia non ha trovato neanche lo spazio d’una breve di cronaca, nei
giornali nazionali, niente di niente neanche nelle
tv. E allora torniamo alla scena iniziale. Il
gruppo si ferma per un rifornimento al self service. Le immagini che
il Fatto Quotidiano è in grado di mostrarvi in esclusiva
mostrano l’uomo incappucciato che, affiancato il distributore,
estrae la pistola ed esplode un colpo: il benzinaio nel gabbiotto li
ha notati e l’uomo spara per intimorirlo, non per ucciderlo,
sfondando la vetrata mentre i compagni terminano il rifornimento. La
colonna riprende il cammino, siamo in viale Fortore, l’ultimo mezzo
incolonnato rallenta, si mette di traverso, l’autista scende e gli
dà fuoco. Il gruppo ha bloccato la prima via d’accesso. Parte il
cronometro: l’operazione è appena iniziata. Il resto della colonna
continua a procedere verso l’obiettivo, in viale degli Artigiani,
mentre altri due mezzi si dirigono nelle restanti vie d’accesso, per
occuparle incendiando altri due Tir. In linea d’aria siamo a 500
metri dalla stazione ferroviaria, 700 metri dalla Questura, un
chilometro dalla caserma dei Carabinieri: pieno centro abitato.
Il commando ha isolato un triangolo
della città, nessun accesso è possibile, e s’è conservato una via di
fuga provvidenziale, che di questo triangolo immaginario taglia
l’ipotenusa, portando via verso le campagne. Il caterpillar seguito
da un camion e dalle auto blindate è ora davanti all’obiettivo: il
caveau di un istituto di trasporto valori, l’Np Service,
che protegge una cassaforte con 23 milioni di euro.
Ora immaginate l’escavatrice che sfonda il muro. Lo divelle. La
guardia giurata che all’improvviso vede la parete scomparire,
frantumata e sollevata dinanzi ai suoi occhi, e il commando che
inizia a sparargli addosso, sui vetri antiproiettile della cabina,
per terrorizzarlo, mentre il braccio meccanico è già pronto per
sollevare le casseforti e posarle nel camion.
“Non molliamo” “Nessuno poteva aspettarsi una rapina
di questo tipo”, dice Riccardo Serradifalco,
amministratore delegato della Np Service. “Non molliamo”, continua,
“anche se all’istante, quando ho pensato che fosse necessario
l’intervento della Protezione civile per liberarci
da quelle macerie, ho pensato che l’unica soluzione fosse andar via
da questa città. È stato un attimo. Ma quando ho visto arrivare sul
posto le guardie giurate, i nostri dipendenti, che sono 50, mi sono
chiesto: come si fa a lasciare 50 famiglie senza lavoro? Abbiamo
ripreso a lavorare immediatamente, quella stessa mattina, tra la
polvere e le macerie, trasferendo i caveau nella sede
foggiana della Banca d’Italia. Per rimettere a
posto le pareti ci abbiamo impiegato dieci giorni. A breve ci
trasferiremo in un’altra sede e devo ringraziare Bankitalia
perché ha riconosciuto che non era soltanto un problema della Np
Service, se ci fossimo fermati avremmo interrotto il flusso di
denaro che circola intorno alla provincia di Foggia, incluse le
pensioni”. Ma i foggiani, le loro pensioni, hanno potuto ritirarle
in tempo. Perché la notte del 25 giugno, il commando, ha un
problema.
Il “patto” criminale Il primo camion incendiato non ha
completamente bloccato la strada, una pattuglia della polizia riesce
a incunearsi nel triangolo del commando, inizia il conflitto a
fuoco, sull’asfalto non si conteranno né morti né feriti, ma circa
60 bossoli. “La volante – racconta il questore alla
Commissione – s’è trovata davanti un’automobile che ha esploso 30
colpi di calibro 7,62 Nato. C’erano due auto, con due
kalashnikov, i nostri due poliziotti hanno reagito con 38
colpi: una sparatoria violenta. Gli assaltatori sono andati via e il
caveau, con tutti i milioni di euro, è rimasto lì”. I rapinatori
s’infilano in quel varco provvidenziale, imboccano la via di fuga,
si dileguano nelle campagne. La rapina è fallita. “Il commando –
dice l’investigatore – arriva da Cerignola. Sono i
migliori professionisti d’Italia per operazioni di questo genere”.
Nel corso di alcune perquisizioni, riferite ad altri rapinatori, gli
investigatori hanno rinvenuto lo schema per un’operazione in
autostrada, anche questa sventata. Lo schema è sempre lo stesso:
autotreni messi di traverso e incendiati, poi catene da un guardrail
all’altro per impedire l’accesso delle forze dell’ordine, e varchi
laterali per fuggire tra le campagne. “Ma nessuna rapina sarebbe mai
stata tentata – conclude l’investigatore – se non si fossero
accordati per pagare una quota alla ‘Società’, la mafia
foggiana, che altrimenti non l’avrebbe mai permesso”. È il
segno di un “patto”. La mafia foggiana vive un momento di equilibrio
nel quale può inserirsi la criminalità organizzata di Cerignola.
“L’intera provincia di Foggia – dice Rosy Bindi al Fatto – è
purtroppo prigioniera di questa situazione”.
La Società È una mafia poco conosciuta, la
“Società” di Foggia, ma può bastare un dato per descrivere la sua
forza: la totale assenza di collaboratori di giustizia. Praticamente
un record, nel panorama italiano, che dopo quelli di Cosa
Nostra e Camorra, ha visto crescere negli
anni anche i collaboratori affiliati alla ‘ndrangheta. Invece di
“pentiti”, nella Società foggiana, non se ne conta neanche uno. E
non si tratta di una mafia giovane, considerato che a battezzarla
con il 416 bis ci ha pensato una sentenza del 1999, dopo che a
riconoscerla, invece, ci pensò Raffaele Cutolo in
persona, nell’hotel Florio, sulla statale che porta da Foggia a San
Severo, in uno storico incontro del 5 gennaio 1979. La sua
pervasività è micidiale: “A Foggia – continua il questore davanti
alla Commissione – i nomi delle famiglie mafiose non si pronunciano
neanche in casa. Il punto è che ci sono omicidi, autobombe,
estorsioni dovunque”.
La terra dei fuochi Adesso immaginate un’altra scena. È
il 16 febbraio e sono le 7:40 di una domenica mattina quando esplode
un’auto imbottita di esplosivo. Siamo in via Grieco
– anche in questo caso pieno centro abitato – e non in
Afghanistan. Dell’auto resta solo la scocca, l’abitacolo è
completamente sventato, il tetto non c’è più. Qualcuno l’ha
parcheggiata all’esterno della sede legale di tre società
immobiliari, quelle della famiglia Zammarano, che
ha sempre negato di aver pagato estorsioni. Poteva essere una
strage: “L’attentato non ha fatto vittime soltanto per un caso –
dice l’investigatore – e perché erano le 7:40 di una
domenica mattina”. L’ultimo attentato incendiario
risale alla fine di agosto, un sabato notte, ai danni di una
pizzeria. Nei primi sei mesi del 2014, nella città di Foggia, se ne
contano 67. Nell’intera provincia ben 259: ogni 16 ore, qui, esplode
qualcosa. Poi c’è la microcriminalità: “Tra gennaio e febbraio –
continua il questore – nella sola città di Foggia sono state rubate
420 automobili”. In sostanza: un furto ogni tre ore.
“Ti massacriamo” Il proprietario dello Street Café ha
inaugurato il bar da appena sette mesi quando ad aprile, secondo gli
atti d’indagine, gli si parano davanti due esponenti della
famiglia Francavilla, e lo “convocano” per un appuntamento,
in un altro bar: vogliono 50 mila euro. Il 9 maggio
si ripresentano e gli propongono di scegliere: se non può pagare si
prendono direttamente il bar. Il proprietario prova a rivolgersi a
una finanziaria, usando le credenziali del figlio, ma il
finanziamento gli viene negato. Allora prova con gli usurai che, in
un primo momento, gli garantiscono il prestito. Poi però non
mantengono l’impegno. E così il proprietario dello Street Café si
presenta dai Francavilla a mani vuote: propone la cessione gratuita
del bar e delle autovetture, pur di essere lasciato in pace, ma
viene schiaffeggiato e minacciato: “Questo è solo l’acconto – gli
dicono – oggi alle 18 devi portare 20mila euro e tra una settimana
altri 30mila, altrimenti ti massacriamo”. Al proprietario non resta
che una via d’uscita: la denuncia in questura e la squadra mobile li
arresta. Ma si tratta di un caso piuttosto raro. Le denunce per
estorsione, nel 2012, sono state 11. Nel 2013 sono calate a 10. Nel
primo semestre del 2014 sono soltanto 2.
La prima volta Giovanni Panunzio
era un imprenditore edile e fu ammazzato la sera del 6 novembre
1992: s’era rifiutato di pagare il “pizzo”. È il
primo omicidio eccellente, a Foggia, legato a un’estorsione.
Sono trascorsi ben 22 anni, eppure, in questa città non s’è ancora
mai costituita un’associazione anti-racket. È nata un’associazione a
Vieste, nel Gargano , dov’è presente la mafia dei
“montanari”, anch’essa riconosciuta da una sentenza con 416
bis, ma a Foggia ancora no. O meglio: la prima sarà
inaugurata il 22 settembre, da Tano Grasso in
persona, fondatore della Federazione anti-racket italiana.
“Poche volte, in questi 25 anni, mi sono trovato dinanzi a una
sottovalutazione così radicata del fenomeno mafioso” – dice Grasso
–. “Per costituire la prima associazione anti-racket a Foggia è
stato decisivo il sostegno del prefetto Luisa Latella
e del questore Silpis. Qui c’è un livello di omertà
più radicata che in territori calabresi in mano alla
‘ndrangheta. È stato più difficile costituire
un’associazione anti-racket qui, oggi, che a Palermo
o a Gela negli anni 90. E abbiamo avuto
difficoltà persino con la magistratura che, in una sentenza
depositata a febbraio, considera la nostra presenza in aula, quella
dei nostri associati, come un tentativo d’influenzare il
processo. Dimenticando che, se ci presentiamo in aula, è proprio per
dimostrare che chiunque denunci un’estorsione non sarà mai solo”.
“Tentano d’influenzarci” Nella sentenza firmata dalla prima
sezione collegiale del Tribunale di Foggia, si
legge dell’intervento “di associazioni che nelle loro finalità
perseguono la ‘lotta’ al racket, mafioso o no che sia” e si parla di
un “assetto” che ha “in qualche modo tentato, ma vanamente, di
influenzare il lungo e articolatissimo dibattimento”. Il processo
riguarda una serie di estorsioni commesse a Vieste, sul Gargano,
terra dominata dalla mafia dei “montanari”. Quella dei “montanari” è
la seconda organizzazione mafiosa che attanaglia la provincia
foggiana e, anche in questo caso, l’attività principale è
l’estorsione. È una mafia radicata dagli anni 70, nata come
“agro-pastorale”, ma poi evolutasi anche nel traffico di
stupefacenti fino al territorio di Manfredonia. La
storica faida tra i clan Li Bergolis e
Romito, negli ultimi decenni ha provocato decine di
vittime, mentre i Li Bergolis – secondo gli atti della Commissione
parlamentare antimafia – negli anni 90 hanno stretto rapporti con
esponenti apicali delle ‘ndrine calabresi De Stefano
– Tegano – Libri e con la camorra
legata al clan Zaza – Mazzarella
di Napoli. Oggi – come per la criminalità di
Cerignola – i “montanari” hanno stretto “patti” o “alleanze” con le
“batterie” della Società Foggiana. È in questo contesto che, a
Vieste, nasce l’associazione anti-racket legata a Tano Grasso e, nel
2012, il proprietario di un ristorante denuncia l’estorsione. Gli
estorsori non sono affiliati ai clan, ma avendo minacciato e
incendiato il ristorante, i pm chiedono l’aggravante del metodo
mafioso che i giudici, però, non hanno invece ravvisato, ma il punto
è un altro: l’idea che l’associazione anti-racket si presenti in
aula per influenzare i processi, a Tano Grasso, proprio non va giù:
“Significa disconoscere un quarto di secolo di storia e di cultura
del Paese: aver rotto la solitudine del commerciante che denuncia,
nel tribunale, durante i processi, è il modello che abbiamo creato
nel 1990 a Capo d’Orlando”.
“Uccidere fa sentire potente” Veronica De Donato è
una ragazza bruna, rientrata a Foggia dopo anni trascorsi fuori
città, dove la mafia le ha ammazzato i genitori e fatto sparire un
fratello. Non è tornata per nostalgia. È tornata per vendetta. E
uccide. “Purtroppo – dice Veronica – uccidere è anche una cosa che
ti fa sentire potente, molto potente. (…) Disporre del destino di un
altro essere – continua – è un’estasi che, provata una volta, poi
non se ne può più fare a meno”. Parole che hanno suscitato le ire di
don Ciotti e l’associazione Libera
quando, a febbraio, Veronica è andata in tutte le edicole: è la
protagonista di un fumetto, il suo nome è “Lady mafia”,
e le storie sono ambientate a Foggia. Il marketing sta funzionando:
distribuzione nazionale e un video – “Lady mafia… no more rain” –
che vede protagoniste, con immancabile scena lesbo, Veronica
Ciardi e Sarah Nile, note per aver
partecipato al Grande Fratello. È solo un fumetto, spiega sul suo
blog il direttore Loris Castriota Skanderbegh, che
alle critiche risponde così: “È un fumetto che registra la realtà,
non la esalta. È una amara realtà, che deve essere combattuta e
cancellata: perché l’Antimafia e “Libera” non si concentrano su
questi compiti, piuttosto che combattere contro un fumetto?”. Resta
il fatto che, in una città dove, per la nascita di un’associazione
anti-racket, s’è dovuto attendere 22 anni dalla morte
dell’imprenditore Panunzio, abbiamo un altro primato: il primo
fumetto italiano che vede, come protagonista, seppure in veste
vendicativa, Lady Mafia, una donna intenta a scalare le gerarchie
mafiose per farsi giustizia. Nella realtà, invece, qui esiste un
comune denominatore tra le organizzazioni criminali: l’uso costante
della violenza e un incredibile potenza di fuoco. Ed è in corso il
salto di qualità.
Infiltrazioni nelle istituzioni “La commissione parlamentare è stata
a Foggia – dice Rosy Bindi – perché è necessario accendere una luce:
è impressionante che situazioni periferiche così allarmanti siano
ignorate. Qui c’è una caratteristica: l’incrocio tra mafie, in tre
aree molto vaste, che hanno siglato un patto con la criminalità
comune. C’è aggressività, violenza e spavalderia che fanno pensare:
forse si ritengono non punibili. Di certo il Prefetto, il Questore e
tutte le forze dell’ordine non stanno sottovalutando la situazione,
anzi, ma va rafforzato l’ambito della magistratura: bisogna creare
una sezione distaccata della Direzione distrettuale antimafia. Sono
certa che la maggioranza della società foggiana intende reagire, ma
va sostenuta: Foggia è vittima della sottovalutazione, e della
difficoltà di ammettere che si tratta di mafia, a volte anche dalla
magistratura giudicante”. Si contano infiltrazioni nelle
amministrazioni? “Posso soltanto dire che ci sono realtà sotto
osservazione”, conclude la Bindi. Di certo, c’è che nel Foggiano, di
armi se ne trovano davvero a iosa.
L’arsenale della Capitanata Il primo aprile la squadra mobile di
Foggia perquisisce l’abitazione del cerignolano Francesco Russo. E
gli investigatori non riescono a credere ai propri occhi: la stanza
è enorme ed è piena zeppa di armi. “Armi lunghe e corte – racconta
il questore a Rosy Bindi – e decine di pistole, fucili
mitragliatori, fucili a canne mozze, kalashnikov, abbiamo trovato
addirittura una mitragliatrice con il treppiedi da terra, da
combattimento in guerra, bombe a mano, giubbetti antiproiettile,
18.000 proiettili di tutti i calibri”. Non è l’arsenale del clan, ma
il supermarket di Francesco Russo: “Si era persino
fatto un book – continua il questore – con le fotografie delle armi
che bisognava sfogliare con il prezzario. Lei vuole sapere quanto
costava un kalashnikov? Costava 3.300 euro: c’era scritto! Sa cosa
mi ha preoccupato, presidente? Ho visto nel book che è stato venduto
un bazooka, ma per ora non lo abbiamo trovato. Chi ce l’ha questo
bazooka adesso?”. |