Argentina, nuovo default dopo 13 anni: ecco perché non spaventa
quasi nessuno
A Buenos Aires nell'immediato non
ripagare il debito è stata ritenuta l'opzione più conveniente. Ma in
prospettiva il crac allontana ulteriormente il ritorno sui mercati
internazionali del Paese sudamericano, sempre più affamato di fondi
e finanziamenti. E i contraccolpi sull’economia reale, già stretta
tra recessione e inflazione, si faranno sentire
Si chiude come era cominciato l’ultimo capitolo
della triste storia economica argentina.
Dopo 13 anni un nuovo default da quasi 30 miliardi di dollari
che però non spaventa quasi nessuno. Da tempo l’Argentina
è assente dai mercati finanziari internazionali e non si segnalano
esposizioni significative verso il paese sudamericano. A conti fatti
il nuovo default (l’ottavo nella storia del Paese) potrebbe essere,
almeno nell’immediato, l’opzione più conveniente anche per
Buenos Aires. Nelle ore che lo hanno preceduto si sono
rincorse voci riguardanti un documento dello studio legale che
assiste la Casa Rosada nelle cause in corso in America in cui
l’ipotesi della bancarotta veniva considerata percorribile. I prezzi
dei titoli argentini sono rimasti finora su valori relativamente
alti, segno che qualcuno sta comprando. Secondo alcuni osservatori
potrebbe essere la stessa Argentina, che in questo modo riduce il
fardello del suo debito. Il default abbassa il valore dei titoli
rendendo questa operazione ancora più semplice. Alle parole della
presidenta Cristina Kirchner, che nelle ultime
settimane ha più volte affermato di non voler fare default sul
debito ristrutturato, sono seguiti ben pochi fatti, visto che fino
al penultimo minuto l’Argentina ha disertato il tavolo delle
trattative.
I risparmiatori, tra cui 400mila italiani, restano ancora
una volta con il cerino in mano – A restare con il
cerino in mano sono così, ancora una volta, i risparmiatori che
hanno in portafoglio titoli del Paese sudamericano passati
attraverso due ristrutturazioni (2005 e 2010) con allungamento delle
scadenze e il taglio delle cedole. Tra questi anche circa 400mila
italiani per cui si apre una nuova fase di attesa ed incertezza. La
miccia del default è stata accesa dalla decisione dello scorso
giugno del giudice statunitense Thomas Griesa,
competente in materia in quanto i titoli argentini furono emessi
sotto la legislazione dello stato di New York per attrarre più
investitori internazionali. Il giudice ha dato ragione ai fondi
Elliott Capital e Aurelius Capital
che non avevano aderito alle ristrutturazioni del debito e
chiedevano il rimborso integrale dei titoli coinvolti nel default.
Secondo la sentenza nessun altro pagamento può essere effettuato se
prima non vengono rimborsati i possessori dei titoli originari. Una
sentenza molto efficace da un punto di vista operativo poiché la
gran parte dei fondi argentini che servono per pagare i possessori
di titoli in tutto il mondo transitano per la Bank of New
York Mellon, ovviamente sottoposta alla giurisdizione Usa e
dunque obbligata a rispettare la sentenza. I fondi avrebbero dovuto
incassare circa 1,5 miliardi di dollari, ma se tutti i possessori di
titoli analoghi avessero avanzato la stessa richiesta l’esborso
sarebbe stato almeno di dieci volte tanto. A quel punto, in un
perverso effetto domino, i possessori di bond ristrutturati
avrebbero potuto pretendere a loro volta il rimborso integrale dei
loro titoli. Il diritto è previsto da un’apposita disposizione
(clausola Rufo, valida fino al primo gennaio 2015) secondo cui
l’accordo di ristrutturazione “salta” se altri obbligazionisti
ottengono condizioni migliori.
Si allontana il ritorno sui mercati internazionali
– A quel punto il conto per Buenos Aires sarebbe salito verso valori
assolutamente ingestibili per un Paese che ha riserve per appena 30
miliardi dollari e si trova a fronteggiare una situazione economica
tutt’altro che rosea, stretto tra recessione e inflazione intorno al
40%. Far saltare il banco potrebbe essere stata dunque l’opzione più
semplice, almeno nell’immediato. Molto meno in prospettiva. Il nuovo
default allontana infatti ulteriormente il ritorno sui mercati
internazionali del Paese sudamericano, che è sempre più affamato di
fondi e finanziamenti. I contraccolpi sull’economia reale si faranno
sentire. La decisione del tribunale Usa è stata peraltro accolta con
un certo fastidio da istituzioni internazionali e governi. Lo stesso
presidente Barack Obama aveva auspicato un diverso
esito della vicenda giudiziaria. Si stabilisce infatti un pericoloso
precedente per tutti i casi di ristrutturazioni del debito
orchestrati a livello istituzionale. Se la linea giurisprudenziale è
quella di riconoscere in toto i diritti del creditore, gli incentivi
ad aderire agli accordi vengono molto ridimensionati.
Un cammino intrapreso da tempo. Ma fondi e grandi banche ne
hanno approfittato – Tuttavia è probabile che nel
caso argentino quanto accaduto nelle aule dei tribunali abbia
solamente accelerato un cammino verso la bancarotta che il Paese
aveva già intrapreso da tempo. Come fanno notare molti osservatori,
gli errori di fondo sono sempre gli stessi: una politica fiscale
lasca e governi dalla spesa allegra che si finanziano stampando
moneta senza curarsi troppo delle leggi dell’economia. L’Argentina
insomma ci ha messo anche questa volta molto del suo. E’ però vero
che da anni fondi e grandi banche internazionali non perdono
occasione per approfittarne. Il fondo Elliot Capital che ha vinto la
causa è specializzato in questo tipo di operazioni: acquista a
prezzi irrisori titoli di paesi finiti in default e percorre poi la
via giudiziaria per ottenere rimborsi o costringere lo Stato a una
mediazione. Ci aveva già provato con successo nel 1996 con il Perù,
acquistando bond per 11 milioni e ottenendone alla fine 60 di
rimborsi. Secondo il governo argentino Elliot Capital avrebbe
comprato titoli dichiarati in default per 49 milioni di dollari e
ora potrebbe incassarne oltre 830 con un guadagno del 1600% in soli
sei anni. Guardando al passato vale la pena ricordare un episodio
tra tanti. Nel marzo del 2001 David Mulford in
rappresentanza di Credit Suisse convinse il governo
argentino, alle prese con una carenza di liquidità, ad aderire a
un’operazione di swap del debito. Le scadenze dei pagamenti venivano
posticipate ma gli interessi sui titoli diventavano ancora più
insostenibili. L’operazione fruttò all’istituto svizzero e alle
altre banche internazionali coinvolte commissioni per 90 milioni di
dollari, ma affossò definitivamente le già risicate chances di
ripresa del paese. Trappole da cui l’Argentina non sembra capace di
liberarsi.