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  INTERNOTIZIE

Referendum Grecia, Tsipras e l’Ue hanno solo perso sei mesi

Nella notte del 25 gennaio ero ad Atene quando Alexis Tsipras teneva il suo primo discorso da primo ministro nella piazza dell’Università, era pieno di italiani che cantavano Bella Ciao. I greci erano molto meno allegri, accoglievano la vittoria di Syriza con una serenza rassegnazione: meglio la sinistra al potere che la grande coalizione corrotta e inetta tra socialisti del Pasok e la destra di Nea Democratia. Quelle sera Tsipras ha ricevuto un mandato preciso: stracciare il memorandum con la Troika, cioè il terzetto dei creditori Commissione Ue, Bce e Fmi. E ripartire i sacrifici considerati inevitabili con una maggiore equità. E l’obiettivo più grosso: ridurre il debito pubblico della Grecia arrivato al 175 per cento del Pil.

Con il referendum di ieri, Tsipras ha ottenuto di nuovo lo stesso mandato. Con una variazione significativa: nell’ultima proposta ai creditori – bocciata dai tedeschi che prima del referendum non volevano discutere nulla – la Grecia ha chiesto l’intervento del fondo salva Stati Esm, cosa che prevede anche il ritorno della Troika (incluso Fondo monetario) con funzione di monitoraggio. Anche se i greci non votavano su quella proposta ma su una precedente – del 25 giugno – poi ritirata dai creditori.

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Che bisogno c’è stato per il premier ellenico di chiedere un secondo voto a soli sei mesi dalle elezioni? Non stupisce più di tanto che un Paese che ha dato la maggioranza a Tsipras a gennaio torni a dargliela a luglio. Il referendum di ieri, che non risolve nessuno dei problemi della Grecia, è il frutto di una gestione assurda e arrogante del caso greco da entrambe le parti.

La linea di Atene è stata: se ci cacciate dall’euro e non trattate con noi, sarete voi a farvi più male. Dall’altra parte, sull’asse Bruxelles-Berlino, la risposta è stata: non crediamo al vostro bluff, se volete andarvene quella è la porta.

L’Eurogruppo, ma soprattutto la Germania, hanno deciso fin da gennaio che con il governo Tsipras non si poteva trattare e hanno fatto di tutto per umiliarlo e deleigittimarlo: niente conferenza sul debito, niente negoziati soltanto a Bruxelles ma anche in Grecia, niente abolizione della Troika ma semplice cambio di nome, ora si chiama Brussels Group, richieste impossibili come la cancellazione dei benefici fiscali per le isole (che sono la base elettorale degli alleati di Tsipras al governo, la destra dei Greci indipendenti).

Tsipras, da parte sua, ha affidato il tono dei negoziati al poco diplomatico Yanis Varoufakis. E, cosa sottovalutata all’estero e in Italia, si è mosso molto da leader nazionalista (come richiesto dal suo elettorato): nessuna ingerenza nella politica interna sarà tollerata. La scelta di convocare il referendum è stata una sorta di bis delle elezioni politiche che aveva l’unico scopo di assicurare la permanenza in carica del governo guidato da Syriza. Tsipras ha trasformato una crisi continentale in una questione di politica interna. E ha vinto, ma a metà: nella sua lettera di dimissioni Varoufakis dice di voler lasciare perché alcuni membri dell’Eurogruppo non lo vogliono al tavolo. Con lui non trattano. E Tsipras ha pensato che sacrificarlo fosse necessario per far ripartire il dialogo.

Si può considerare Tsipras e il suo governo l’ultimo baluardo della democrazia in Europa o come l’ultimo campione di una politica novecentesca che vive di spesa pubblica e promesse che non può mantenere, ma il fatto incontestabile è che negli ultimi sette mesi i negoziati tra Grecia e Bruxelles hanno prodotto un disastro: il sistema bancario ellenico sta collassando dopo aver assorbito 90 miliardi dalla Bce, Atene è insolvente verso il Fmi e presto lo sarà verso la stessa Bce, il Paese ha più di un piede fuori dall’euro, ogni soluzione prevede una sostanziale resa di uno dei due fronti. E il referendum di ieri rende più difficile ogni compromesso onorevole per entrambi i fronti (Berlino-Atene).

L’Europa ha perso sette mesi, il referendum di ieri è l’ultima chiamata a risolvere in fretta un dramma che dura – con colpe da ripartire su tutti i protagonisti – da cinque anni. Tagliare il debito della Grecia, come auspica il Fmi, è il primo passo. Ma non basterà: lo stesso Fondo monetario critica Syriza perché ha rallentato il processo di riforme, non soltanto le cose socialmente dolorose ma anche le privatizzazioni. Il problema della Grecia non sono gli interessi pagati sul debito. Ma l’assurda pretesa che un Paese dall’economia così fragile si trasformi in un land tedesco nel giro di cinque anni.

I greci devono cambiare, in fretta. Ma la Troika, l’Eurogruppo, la Germania e tutti gli altri devono guidare il cambiamento, non limitarsi a reclamarlo a qualunque costo, anche a quello di cacciare il Paese dalla moneta unica.

Il tifo ormai fanatico che si riscontra in Italia per uno dei due schieramenti (Davide o Golia) è forse l’embrione della nascita di un’agorà europea, di una politica davvero continentale, ma per ora non aiuta a trovare compromessi onorevoli.

 

Grecia, storia di una crisi (e delle responsabilità)

Mentre i greci votano è forse giunto il momento di abbandonare la retorica neo-liberista e neo-socialista per fare il punto della situazione usando invece delle parole i numeri per raccontare la moderna tragedia Greca.

Cominciamo dal lontano 1981. “Nel 1981 quando la Grecia entrò nell’UE, aveva un surplus di bilancio, esisteva l’industria manifatturiera, possedeva una grossa industria navale, il settore minerario contribuiva per il 5 per cento al Pil e naturalmente esistevano una fiorente agricoltura e un discreto turismo,” racconta Yannis Halikias, professore di economia applicata presso l’università di Atene e consulente dell’associazione Panellenica degli esportatori.

All’inizio degli anni Ottanta la Grecia aveva un modesto debito pubblico, pari al 28 per cento del Pil, poi questo è cresciuto a dismisura» aggiunge Antonis Antonakos, economista e professore emerito presso l’università di Atene. “Man mano che l’importazione dalle economie forti del Nord metteva fuori gioco la produzione nazionale, lo Stato ne assorbiva i disoccupati tanto da diventare in un paio di decenni il più grosso datore di lavoro del Paese”. I dati della Banca mondiale evidenziano questo trend, con gli occupati nel settore industriale che scendono dal 29 per cento della forza lavoro nel 1981 al 19,2 del 2010, mentre il contributo dell’industria al Pil cala in parallelo dal 30,5 per cento del 1981 al 18,1 del 2010.
L’indebitamento diventava uno strumento per ottenere consensi: se mi voti ti garantisco un impiego pubblico, questa la logica dei politici.

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I greci hanno dunque sbagliato ma anche l’Unione Europa ha commesso gravi errori. Invece di promuovere l’impresa privata e il libero mercato e di incentivare la produzione, come volevano i padri fondatori, l’Europa ha ottenuto in Grecia esattamente il contrario. Si è fatta promotrice di una concorrenza sleale e, allo stesso tempo, ha messo in mano ai politici greci uno strumento potente per corrompere l’elettorato; un processo, questo, che a lungo andare ha impoverito l’economia nazionale. “Nel 2009, quando è scoppiata la crisi, ci si è accorti che in Grecia molti dei settori produttivi non esistevano più e che l’80 per cento del PIL proveniva dal consumo, e cioè dal turismo e dai fondi strutturali comunitari. L’economia dei servizi dava da mangiare al 70 per cento della popolazione attiva, a gente che negli anni Ottanta lavorava nelle manifatture, nell’industria navale e in quella mineraria. Ma non basta, l’esportazione rappresentava appena il 10,3 per cento del Prodotto interno Lordo,” conclude Yannis Halikias.

A prescindere dai risultati del referendum chi esce sconfitto da questo voto sono la Grecia e l’Unione Europea perché è chiaro che l’esperimento di integrazione economica e monetaria applicato dalla seconda nella prima è fallito.

Ma andiamo avanti. Man mano che il settore pubblico si gonfia scende la produttività del lavoro. Oggi per ogni ora lavorata da un greco e da un tedesco il contributo al Pil del primo è la metà del secondo. A coprire lo scarto tra settore produttivo e spesa pubblica è il debito, elargito a tassi vantaggiosissimi dalle banche europee, con in prima fila quelle francesi e tedesche.

La crisi del debito sovrano greco scoppia nel 2010: alla Grecia mancano i soldi per pagare gli interessi su un debito ormai superiori ad una volta e mezza il Pil. L’Unione Europea non risponde prontamente ed il mondo si accorge dell’esposizione delle banche europee nei confronti di tutta la periferia dell’Unione. Al 31 dicembre 2010 questi dovevano alle grandi banche tedesche e francesi, circa 500 miliardi di euro, di cui il 17 per cento erano titoli di Stato. Le cifre sono da capogiro, difficile immaginare quantità di denaro così grandi.
Ma il problema vero è la Grecia, vicinissima alla bancarotta per problemi di illiquidità, mancano proprio i soldi nel sistema. Mandare in bancarotta la Grecia significa far saltare le grandi banche francesi e tedesche. Stando alle cifre pubblicate il 6 giugno 2011 dalla Bri, la
Banca dei regolamenti internazionali, le banche tedesche alla fine del 2010 avevano circa 15,3 miliardi di euro di debito pubblico greco, contro i 10,5 miliardi di quelle francesi.

Soluzione del problema: concedere alla Grecia piani di salvataggio finanziario ed usare questi soldi per ripagare il debito delle banche e sostituirlo con il debito nei confronti delle istituzioni preposte al salvataggio, la Troika. Ecco chi oggi ha in mano il debito greco.

Ma sostituire il debito delle banche con quello della Troika significa far ripagare il debito greco agli Stati membri dell’Unione. “Quando è esplosa la crisi della Grecia l’esposizione delle banche italiane verso quel paese ammontava a circa 1,9 miliardi. Oggi l’esposizione dello Stato italiano verso Atene è di 40 miliardi. Anche per la Spagna, con cifre un po’ diverse, è andata nello stesso modo”. 

Per chi vuole rivedere l’iter delle trattative tra Grecia e Troika un video del Wall Street Journal lo espone bene.  Per chi vuole rivedere le condizioni economiche attuali della Grecia c’è un altro video della BBC.

Ma ciò che forse dovremmo domandarci noi cittadini di Eurolandia è se forse un referendum vero doveva essere un altro nel 2011. Forse era giusto chiedere a noi contribuenti se volevamo pagare di tasca nostra, con le nostre tasse, il debito accumulato dalle banche europee a seguito di una politica scellerata perseguita da loro e dalla classe politica. Certo l’alterativa era la bancarotta del sistema bancario più grande al mondo (40 per cento del sistema bancario mondiale), ma almeno avremmo saputo cosa facevamo e di chi era la responsabilità di questa catastrofe.

Ed invece dovremmo aspettare che i libri di storia alla fine del secolo raccontino ai nostri nipoti questa triste storia.

Calciomercato, Milan punta Romagnoli e la Roma vuole Dzeko – Tutte le trattative AL 12 LUGLIO 2015

Calciomercato, Milan punta  Romagnoli e la Roma vuole Dzeko – Tutte le trattative

 
La Lazio incassa 6 milioni come indennizzo per l'affare Zapata: Borini sempre più vicino. Galliani non smette di sognare Ibra, Sabatini deve vendere prima di comprare. Inter tra Salah e Jovetic mentre il Liverpool ha un problema: nessuno vuole Balotelli

I soldi del Monaco per strappare Alessio Romagnoli alla Roma e continuare a sognare Zlatan Ibrahimovic. Il volo di Sabatini per portare Edin Dzeko nella Capitale, mentre sull’altra sponda del Tevere si punta a chiudere per Fabio Borini. É un puzzle di tessere concatenate quello che sta andando in onda tra Monaco, Milano e Roma. Nel frattempo all’estero il Liverpool non trova acquirenti per Mario Balotelli e il Boca Junior si prepara a presentare Carlos Tevez.

Addio al Faraone per fare sognare il Milan
L’arrivo di El Shaarawy nel principato di Monaco è un’operazione da 16 milioni di euro: tre arriveranno subito nelle casse rossonere come indennizzo per il prestito secco, 13 sono quelli che Leonardo Jardim dovrà sborsare alla fine della prossima stagione per riscattare il Faraone. Un’opzione che il Monaco dovrà esercitare obbligatoriamente se l’esterno italo – egiziano giocherà almeno 15 partite: una clausola inserita a causa dei continui infortuni del calciatore azzurro. Che se tornerà in condizione ottimale, sarà una pedina fissa dell’undici del Principato. Col Monaco El Shaarawy ha firmato un quinquennale da 3 milioni a stagione, cioè 600mila euro in più rispetto allo stipendio rossonero: il trasferimento, in pratica è convenuto e tutti. Soprattutto al Diavolo che adesso torna prepotentemente a bussare alla Roma: dopo averlo lanciato nella Sampdoria, Sinisa Mihajlovic vuole Alessio Romagnoli al centro della difesa del nuovo Milan. Il giocatore è valutato sui venti milioni di euro, ma Walter Sabatini è stato chiaro: il talentino ventenne non è in vendita. Adriano Galliani dovrà lavorare duro, dato che nel frattempo i tifosi non hanno smesso d’invocare il ritorno di Zlatan Ibrahimovic: le trattative si sono bloccate alcuni giorni fa, ma il contante fresco arrivato dal sacrificio del Faraone potrebbe far riaprire il dialogo con il Paris Saint Germain.

Dzeko e Borini per la Capitale
Quei venti milioni di euro di Romagnoli, però, alla Roma potrebbero fare molto comodo. Lo sa bene il d.s. Sabatini che ha bisogno proprio di quella cifra per trasformare Edin Dzeko in un calciatore giallorosso. In realtà il Manchester City chiede 28 milioni per la punta bosniaca, ma i capitolini possono trattare avendo già un accordo da 4 milioni e mezzo con il calciatore. Problema: c’è prima da sfoltire la rosa, che da Doumbia a Gervinho, passando per Matteo Destro ed Ashley Cole, annovera ancora troppe pedine dagli stipendi pesanti ormai fuori dal progetto tecnico. Prima di comprare, insomma, Sabatini dovrà vendere, e per ottenere denaro fresco da reinvestire su Dzeko ( e magari Baba) dovrà capitalizzare al massimo le cessioni. Compito molto difficile: in alternativa bisognerà sbloccare il baby talento dell’Under 21. Non erano previsti, invece, i sei milioni di euro arrivati nelle casse della Lazio: Oltretevere infatti hanno brindato dopo la decisione della Camera di risoluzione della Fifa. Nel 2013 Mauro Zarate ha risolto il suo contratto con i biancocelesti senza giusta causa: con l’indennizzo, gli Aquilotti adesso accelerano per portare l’ex enfant prodige Borini in Italia, dove ha già vestito le maglie di Roma, Parma e Bologna.

Nessuno vuole Balotelli, l’Inter tra Salah e Jovetic
Dopo averlo escluso dalla tournée estiva il Liverpool cerca acquirenti per Mario Balotelli: solo che nessuno sembra disposto a farsi avanti per l’ex talento dell’Inter. Ai mondiali di un anno fa era la punta di diamante della nazionale azzurra, poi era stato acquistato dai Reds per più di venti milioni di euro, adesso dopo 17 presenze ed una sola rete nell’ultima Premier League non ha acquirenti: una parabola da fine carriera anche se Balotelli ha ancora “solo” 25 anni. Stessa età di Steven Jovetic, che invece è pronto a tornare in Italia dopo l’esperienza da dimenticare al City. Il futuro dell’ex viola è legato a quello di un altro Faraone: domani infatti Mohamed Salah dovrà presentarsi alle visite mediche della Fiorentina. L’Inter però rimane alla finestra: in alternativa Mancini si butterebbe proprio su Jovetic. Ma anche la Juventus potrebbe tornare a farsi sotto, mentre nelle prossime ore Tevez sarà presentato dal Boca Juniors. Tragitto inverso, da Buenos Aires a Torino, per Guido Vadalà, talento classe ’97, attaccante considerato una delle migliori promesse argentine che sarà aggregato alla Primavera bianconera.

 

 

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