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  INTERNOTIZIE

Renzindustria

Ma chi le fa le leggi? La domanda sorge spontanea dopo l’ennesimo buco scoperto nell’ennesima norma – quella sul falso in bilancio – che sortisce il risultato esattamente opposto a quello annunciato. Non che i legislatori dell’ultimo ventennio, cioè i governi attraverso i decreti e le maggioranze parlamentari tramite i disegni di legge, abbiano mai brillato per competenza. Ma neppure la scalcinata tradizione legislativa nazionale aveva mai conosciuto una stagione così cialtronesca e ciabattona. Non c’è legge o decreto che, una volta approvato, non venga seguito da polemiche sugli effetti indesiderati (almeno a parole) che produce all’insaputa (così assicurano lorsignori) da chi l’ha firmato e votato, col contorno di sospetti sulle manine o manone che hanno inserito emendamenti last minute e sulle teste vuote che non li hanno notati. Segue, immancabile, la promessa di rimediare riformando la riforma appena varata. Il tutto da parte di chi sostiene la “riforma del Senato” spiegando che due Camere sono ormai un lusso e ne basta una sola, quando per correggere tutte le cazzate che fa questa gente ne servirebbero almeno sei o sette.

L’Italicum è legge dello Stato da poco più di un mese dopo quattro letture, e già Ncd e mezzo Pd (che l’han votato fino all’ultimo) chiedono di modificarlo. Il nuovo falso in bilancio, contenuto nella legge Anticorruzione presentata nel febbraio 2013 da Pietro Grasso e poi emendata e riemendata fino a sfigurarla, è rimbalzato da una Camera all’altra per due anni e mezzo: l’esito è che anche i pochissimi che venivano condannati con la vecchia norma – la giustamente vituperata legge Berlusconi-Ghedini del 2002 – vengono assolti con quella nuova, che è ancora peggio. Non lo dicono i gufi: lo dice la Cassazione, supremo giudice dell’interpretazione delle leggi. In un Paese normale governo e maggioranza che han combinato il disastro si cospargerebbero il capo di cenere e correrebbero subito ai ripari: sempreché, è ovvio, il loro scopo fosse davvero quello che sbandierano da due anni, cioè punire più severamente chi falsifica i bilanci. Invece tocca leggere le corbellerie degli innumerevoli responsabili giustizia del Pd, che fanno i pesci in barile per non assumersi le proprie responsabilità. Sentite Donatella Ferranti, che faceva addirittura il giudice e ora per fortuna non lo fa più, ma purtroppo fa la deputata del Pd e la presidente della commissione Giustizia della Camera: “L’allarme è strumentale: è indubbio che la nuova legge abbia reintrodotto il delitto di falso in bilancio, ma la giurisprudenza, come sempre, si deve assestare tenendo conto dei lavori parlamentari preparatori”.

Una supercazzola in piena regola: intanto “allarme strumentale” rispetto a chi e a che? La Cassazione ha annullato senza rinvio la condanna di Luigi Crespi proprio perché il nuovo falso in bilancio targato Renzi-Orlando è addirittura più blando di quello vecchio targato B.-Ghedini: quindi la giurisprudenza è già bell’e “assestata”, e dà torto marcio alle Ferranti e agli altri geni che hanno partorito l’aborto. E di quali “lavori preparatori” va cianciando la signora, visto che nei lavori preparatori le valutazioni societarie erano comprese nel nuovo delitto, ma sono state poi cancellate in zona Cesarini da un emendamento del governo? Qui di “strumentale” c’è solo quell’emendamento, che le solite voci di corridoio attribuiscono al ministero dello Sviluppo Economico, dove siede Federica Guidi, quinta colonna di Confindustria dentro il governo.

Non è un mistero che gl’industriali vedono come il fumo negli occhi il reato di falso in bilancio (che è una delle specialità della casa) e che all’ultimo momento il ministro Orlando dovette inghiottire l’emendamento imposto dalla nota lobby per vanificare il nuovo reato e le nuove pene regalando una scappatoia – quella che esclude le false valutazioni dall’area penale – a chi vuole continuare a truccare i conti e a farla franca. Come prima, anzi più di prima.

La stessa lobby ha ottenuto un Jobs Act copiato pari pari da un documento dell’ufficio studi di Confindustria: raso al suolo l’art.18 e addirittura legalizzato lo spionaggio sui lavoratori. Per non parlare della riforma della scuola, che ricalca pedissequamente i desiderata delle grandi imprese, come il Fatto ha subito documentato. Grazie a un blitz dei 5Stelle votato anche dal Pd, due settimane fa è passata la legge che finalmente rende possibile la class action: ma è bastato che Squinzi protestasse perché la Boschi annunciasse l’immediata retromarcia. Un po’ com’era accaduto col decreto fiscale di Natale, quando la solita “manina” infilò in extremis il condono su frodi ed evasioni fino al 10% del fatturato dichiarato e solo la scoperta (grazie a Libero e al Fatto) delle conseguenze assolutorie sulla condanna definitiva di B. costrinse Renzi ad assumersi la responsabilità dell’inguacchio e a fermare le bocce. Senza che peraltro se ne sia più saputo nulla.

Neppure ai tempi di B. la Confindustria aveva potuto fare il bello e il cattivo tempo come oggi. E mai come ora la trasparenza legislativa era stata oscurata da interventi sotterranei, clandestini, inconfessati e inconfessabili che nessuno rivendica e dunque restano in cerca d’autore.

A costo di ripeterci, la domanda al governo e alla maggioranza è molto semplice: chi è il mandante e chi è l’autore dell’emendamento del governo che salva i truccatori di bilanci? Il ministro Orlando ne era al corrente o l’ha scoperto a cose fatte e s’è voltato dall’altra parte? I partiti, Pd in testa, che hanno approvato la solenne porcata se n’erano accorti (bastava leggere il Fatto e il Corriere), o votano le leggi senza leggerle o senza capirle? E soprattutto: ora che la Cassazione li ha messi in mutande, cosa intendono fare per tappare il buco nella nuova legge e per allontanare dal governo chi ha fatto il furbo danneggiando i cittadini e gli imprenditori onesti? In attesa di cortese riscontro, porgiamo distinti saluti. Con una postilla: vergognatevi.

Maria Elena Boschi, Bankitalia multa il papà vicepresidente di Banca dell’Etruria

Maria Elena Boschi, Bankitalia multa il papà vicepresidente di Banca dell’Etruria

 

Luigi Boschi è vicepresidente dell'istituto. Tra le accuse "carenze nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza”. Il totale della sanzione per cda e collegio sindacale è di 2,54 milioni di euro

Al termine di due ispezioni avviate nel 2012 e nel 2013, Banca d’Italia ha multato la popolare dell’Etruria e del Lazio per 2,54 milioni di euro. La maxi sanzione è a carico di 18 tra componenti ex componenti del collegio sindacale e del cda, tra cui Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme nonché direttore generale della fondazione Open, la cassaforte che finanzia l’attività politica di Matteo Renzi e ha coperto, tra l’altro, l’esborso di circa 300mila euro per la recente Leopolda.

 

 

Il padre di Boschi è vicepresidente di Banca dell’Etruria dal maggio 2014 e componente del cda dal 3 aprile 2011. Gli ispettori di via Nazionale a lui hanno comminato una multa di 144mila euro per “violazioni di disposizioni sulla governance, carenze nell’organizzazione, nei controlli interni e nella gestione nel controllo del credito e omesse e inesatte segnalazioni alla vigilanza”. Da inizio 2013, inoltre, la sua posizione, come quella degli altri amministratori dell’istituto di credito, è al vaglio di due procure, Arezzo e Firenze.

L’inchiesta della magistratura ipotizza i reati di false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei creditori, ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza e di falso in prospetto. Il padre del ministro però non sarebbe indagato, a differenza degli ex vertici della banca il presidente Giuseppe Fornasari, il direttore generale Luca Bronchi e David Canestri, dirigente centrale con deleghe alla pianificazione e al risk e compliance. Lo scorso 21 marzo gli uomini del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza hanno perquisito gli uffici dei dirigenti dell’istituto su richiesta del procuratore di Arezzo, Roberto Rossi. L’inchiesta ha preso avvio, così come in tutti i casi simili a partire da Mps, dalle ispezioni svolte da Banca d’Italia.

E se la magistratura, a quanto si apprende, è ancora in piena fase investigativa, via Nazionale ha invece completato i propri rilievi e, come detto, emesso la multa. I rilievi segnalati dalla Vigilanza sono molteplici: “Violazioni delle disposizioni sulla governance”, “carenze nell’organizzazione e nei controlli interni” “carenze nella gestione e nel controllo del credito”, “violazioni in materia di trasparenza” nonché “omesse e inesatte segnalazioni all’Organismo di Vigilanza”. La multa, complessivamente, ammonta a 2,54 milioni di euro. La sanzione maggiore, 202.500 euro, è stata comminata all’ex direttore generale Bronchi, seguito, fra gli altri, da Massimo Tezzon (84mila euro), ex direttore generale di Consob e attuale presidente del collegio sindacale.

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