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Dl competitività, governo incassa fiducia. Ecco tutte le novità

Il testo è passato con 159 voti favorevoli e uno contrario. Le opposizione non hanno partecipato per cercare di far mancare numero legale, raggiunto grazie alla partecipazione dei ministri. Tra le modifiche dell'ultimo minuto c'è la cancellazione della norma sui diritti di segreteria dovuti alle Camere di commercio. Un emendamento elimina i limiti all'uso del contante per i cittadini stranieri. Dubbi della Ragioneria dello Stato sull'aliquota agevolata concessa ai buoni fruttiferi emessi da Cassa depositi

Primo via libera al decreto legge competitività. Il testo ha ottenuto la fiducia dall’aula del Senato con 159 voti favorevoli e un voto contrario e passa ora alla Camera per la seconda lettura. A porre la questione di fiducia sul maxi-emendamento del governo è stato il ministro per le Riforme e i rapporti con il Parlamento, Maria Elena Boschi. Le opposizioni non hanno partecipato al voto, che si è svolto per chiamata nominale, per cercare di far mancare il numero legale. Obiettivo mancato grazie alla partecipazione dei ministri alla votazione. Il decreto deve essere convertito entro il 23 agosto pena la decadenza.  

Cancellata la norma sui diritti di segreteria dovuti alle Camere di commercio – L’esame da parte delle commissioni Industria e Ambiente del Senato è stato chiuso giovedì notte con una maratona notturnaMa il maxi-emendamento dell’esecutivo, che ha sostituito interamente il Dl, non coincide del tutto con il testo modificato dalle commissioni competenti. Tra i cambiamenti dell’ultimo minuto c’è, per esempio, la cancellazione della norma sui diritti di segreteria dovuti alle Camere di commercio. L’articolo prevedeva che gli oneri dovuti dalle imprese per il deposito dei bilanci dovessero “tener conto delle spese sostenute dalle camere di commercio per la riscossione, la rendicontazione ed il versamento delle somme a favore dell’Organismo italiano di contabilità”. A chiedere di eliminarlo è stato il ministro della pubblica amministrazione Marianna Madia, che vuole accorpare tutte le misure sul sistema camerale nel decreto Pa. Sparite anche le agevolazioni per i “marina resort” (strutture ricettive nei porti turistici), a cui venivano concesse fino a fine anno le stesse agevolazioni riservate ai campeggi, con un costo previsto di 3 milioni di euro.

Eliminato taglio al fondo per il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione – Anche la commissione Bilancio del Senato, che ha dato il proprio parere sul testo, ha ottenuto che fossero espunte alcune norme e ne ha modificate altre. Eliminato per esempio il taglio da 1 milione di euro al fondo per il pagamento dei debiti della Pa, che era stato previsto per coprire l’esenzione delle società che emettono strumenti finanziari quotati o rilasciano titoli scambiati nei mercati regolamentati dalla norma sui tetti agli stipendi degli amministratori. Della materia dovrà occuparsi un decreto ad hoc della presidenza del Consiglio. La Bilancio ha anche detto no all’impignorabilità delle risorse destinate alla copertura del piano di rientro di Campania, Puglia e Basilicata e alla norma che impediva di “intraprendere o proseguire azioni esecutive, anche concorsuali, nei confronti delle società ferroviarie regionali” fino al 31 dicembre 2015. E’ stata poi modificata la ripartizione dei tagli ai fondi per il pagamento dei debiti della Pa con cui verranno coperti i 535 milioni di euro che lo Stato pagherà a Poste nel 2014: aumenta la sforbiciata al fondo che fa riferimento ai debiti di regioni ed enti locali (260 milioni di euro invece di 150 milioni chiesti inizialmente), diminuisce quella del tesoretto per pagare i debiti dei ministeri (150 milioni in meno invece di 260).  

Per i cittadini stranieri nessun limite a uso del contante – Tra le modifiche approvate durante l’iter nelle commissioni di Palazzo Madama c’è anche un emendamento che cancella i limiti all’uso del contante per i cittadini stranieri. Il tetto dei 1.000 euro introdotto dal governo Monti non si applicherà insomma per chi è residente fuori dall’Italia e non ha cittadinanza italiana. 

I dubbi della Ragioneria dello Stato sull’aliquota agevolata per i buoni fruttiferi di Cassa depositi – Una norma relativa a Cassa depositi e prestiti è passata nonostante le perplessità della Ragioneria dello Stato. Si tratta della revisione del regime fiscale applicato alle operazioni di raccolta della sua “gestione separata”, quella che utilizza il risparmio postale per gestire il finanziamento degli investimenti dello Stato e degli enti locali. Un emendamento di Forza Italia approvato dalle commissioni Industria e Ambiente ha ridotto l’imposizione prevedendo per i proventi dei buoni fruttiferi postali un’imposta sostitutiva uguale a quella applicabile sui titoli di Stato, cioè il 12,5%. Il dipartimento del Tesoro ha segnalato che questa equiparazione presenta “possibili profili di criticità sotto il profilo della compatibilità con al normativa europea in materia di aiuti di Stato”. 

 

 

 

 

 

MEDIASET COL FIATO CORTO : OLTRE UN MILIARDO DI EURO PER COMPRARE I DIRITTI TELEVISIVI DI CAMPIONATO E COPPA CAMPIONI, OLTRE MEZZO MILIARDO PER LA TRUFFA MONDADORI. FININVEST CON QUASI MEZZO MILIARDO DI ROSSO. CONTINUA LA CAMPAGNA CESSIONI

MEDIASET COL FIATO CORTO : OLTRE UN MILIARDO DI EURO PER COMPRARE I DIRITTI TELEVISIVI DI CAMPIONATO E COPPA CAMPIONI, OLTRE MEZZO MILIARDO PER LA TRUFFA MONDADORI. FININVEST CON QUASI MEZZO MILIARDO DI ROSSO. CONTINUA LA CAMPAGNA CESSIONI


Mediaset continua a fare cassa, dopo Digital Plus vende l’11% di Premium a Telefonica
Gli spagnoli azionisti di Telecom tendono un'altra mano a Cologno Monzese che incassa 100 milioni dalla Pay Tv. Ma siamo solo all'inizio: il saldo tra entrate e uscite dopo l'investimento nei diritti tv del calcio è ancora negativo
Prosegue la caccia a nuovi capitali freschi da parte di Mediaset che, chiusa la cessione da 365 milioni di Digital Plus in Spagna, si prepara ad incassare altri 100 milioni di euro dalla vendita dell’11,11% della pay tv italiana Premium. Scelte, del resto, pressoché obbligate a valle dei massicci investimenti che il gruppo televisivo ha effettuato quest’anno per accaparrarsi i diritti tv del calcio: l’ultima partita, quella per la Serie A, si è chiusa a fine giugno con un esborso di 373 milioni che si è andato ad aggiungere ai circa 700 milioni spesi in febbraio per la Champions League, per un totale di oltre 1 miliardo di euro.

Somma che però non è ancora stata compensata dalla campagna di dismissioni varata dal Biscione ad aprile con la vendita sul mercato del 25% delle torri di trasmissione di Ei Towers per 283,7 milioni di euro cui è seguita, venerdì scorso, la vendita della quota in Digital Plus e, ora, quella di Mediaset Premium, entrambe andate al primo azionista di Telecom Italia, la spagnola Telefonica che ha così teso una mano al gruppo televisivo della famiglia Berlusconi in fase di trasformazione per far quadrare i conti che, dopo il ritorno all’utile (per 8,9 milioni) a fine 2013, ha chiuso il primo trimestre in rosso per 12,5 milioni, mentre il debito si è ridotto ma è sempre pari alla ragguardevole somma di 1,378 miliardi.

Il tutto mentre a monte della catena di controllo di Cologno Monzese, la holding di famiglia, Fininvest, che oltre a Mediaset controlla Mondadori, il Milan e Mediolanum, ha archiviato un altro anno da dimenticare con un rosso di 428 milioni di euro. Ad ampliare le perdite che nel 2012 ammontavano a 285 milioni, è stato in particolare l’effetto della sentenza definitiva sul Lodo Mondadori che ha visto il Biscione rimborsare quasi 500 milioni alla Cir dei De Benedetti. Non secondario, poi, il ruolo di svalutazioni e oneri di ristrutturazione. Un mix che ha comportato un nuovo congelamento dei dividendi destinati alle holding dei Berlusconi che controllano la finanziaria.

Non sorprende, quindi, che Mediaset annunciando il nuovo accordo con Telefonica, lunedì mattina, abbia sottolineato come si sia solo all’inizio del “processo di allargamento internazionale del capitale di Mediaset Premium” che verrà conferita a una nuova società creata ad hoc e che, grazie alla somma pagata dagli spagnoli per l’11%, ha un valore di 900 milioni di euro. Questa partnership “segna un’importante alleanza tra Mediaset e Telefonica per prossime collaborazioni nelle rispettive attività pay in termini di tecnologia, know how e contenuti. L’ingresso in Premium di un partner di rilievo come Telefonica – ha fatto sapere Cologno in una nota – avvia il processo di apertura della pay tv italiana a ulteriori partner internazionali in una logica di sviluppo delle attività di produzione e distribuzione di contenuti su tutte le piattaforme a pagamento”. Nella nota, si fa infatti riferimento a “manifestazioni di interesse da parte di player esteri“.

E in attesa che questi ultimi abbiano un nome e un volto, il titolo Mediaset ha imboccato la via del rialzo in Borsa e, dopo una fiammata del 2,7%, a metà seduta guadagna più dell’1 per cento a 3,73 euro. Altrettanto non si può dire per il compratore che a Madrid viaggià in perdita fin dall’apertura e cede lo 0,9% a 12,51 euro.
Nuovi affari tra Mediaset e il colosso spagnolo delle tlc Telefonica: dopo la vendita della spagnola Dts annunciata venerdì, oggi Mediaset Premium apre all'ingresso di soci internazionali. Telefonica acquisirà, si legge in una nota dell'azienda, l'11,1% delle attività della pay tv del Biscione con un investimento di 100 milioni di euro, che riflette un equity value di 900 milioni di euro della società di nuova costituzione nella quale le attività pay di Mediaset verranno conferite. Una notizia che spinge in Borsa il titolo della società di Cologno Monzese (segui in diretta).

Mediaset, che da tempo era in caccia di un partner per le sue attività a pagamento, sottolinea che questo è solo l'avvio del processo di apertura della pay tv italiana a ulteriori partner internazionali. In passato si era fatto in maniera insistente il nome di Al Jazeera come possibile socio industriale interessato, ma c'è in gioco anche Vivendi, e Mediaset conferma che l'annuncio odierno non chiude nessuna porta ad altri soggetti, "in una logica di sviluppo delle attività di produzione e distribuzione di contenuti su tutte le piattaforme a pagamento". Lo stesso presidente del Biscione, Pier Silvio Berlusconi, ha confermato che c'è l'apertura ad altri partner.

Premium, malgrado le promesse del management, ha sempre viaggiato in rosso. Perdendo 200 milioni tra il 2006 e il 2009, sfiorando il pareggio nel 2010 per poi tornare a bruciare quattrini (68 milioni) nel 2011, anno in cui a Cologno, per risolvere il problema, hanno sospeso la comunicazione dei risultati operativi delle attività nelle pay tv.

Con numeri così, e dopo il salasso per conquistare la Champions League e le partite degli otto big di Serie A nel triennio 2015-2018, un partner era più che necessario. Ma soprattutto il vento sembra essere cambiato. I grandi network mondiali e i big delle tlc hanno deciso che il futuro della tv si gioca nella vendita di contenuti privilegiati, lo sport su tutti, su piattaforme a pagamento. E in tutta Europa è scattata la caccia ai player che avevano merce in vendita. Con Premium in prima fila.

Alitalia-Etihad, l'accordo è fatto:  agli emiri il 49% della compagnia

Alitalia-Etihad, l'accordo è fatto:
agli emiri il 49% della compagnia

Il nuovo socio è un colosso da 18 mila dipendenti
Enac sospende la licenza di volo a New Livingston

Alitalia-Etihad, sindacati in rivolta
"No a trattativa al buio sugli esuberi per altre 2251 unità al carbonio.
Dall'entrata dei Capitani Coraggiosi di Dalemiana memoria ben 5000 persone sono state sbattute fuori a calci, oltre 5 miliardi di danaro pubblico gettato nel buco nero Alitalia nel 2008 grazie al delinquente di Arcore..."

 

L’Eurozona sta male e potrebbe peggiorare di econoNuestra

L’Eurozona è un esperimento economico fallito e le conseguenze stanno toccando le strutture economiche più facili. Nel grafico qui sotto possiamo vedere il differenziale di crescita dell’Euroza e del resto del mondo.

Le politiche di austerità unite alla politica monetaria della Bce ci avvicinano pericolosamente ad una situazione di deflazione nell’Eurozona. I problemi nei quali ci imbattiamo, si possono riassumere in tre grandi blocchi, problemi di liquidità, di solvenza e gli squilibri macroeconomici interni all’Eurozona.

Liquidità

I problemi di liquidità si sono attenuati grazie ai pesanti programmi di acquisto del debito pubblico delle banche messi in campo dalla Bce, principalmente da quando nel 2012 la Bce ha annunciato che era disposta a prendere delle misure per sostenere l’euro.

Il credit crunch, che ha fatto sparire la liquidità dai mercati nel 2008, è stato risolto ad un primo livello, quello bancario. Per fare questo si è avuto bisogno di grosse iniezioni di liquidità, cioè di creazione di moneta da parte della Bce che è andata a finire alle banche private. Questo inusuale eccesso di liquidità è servito principalmente a liberare i bilanci bancarie da alcuni attivi pericolosi, ma non di tutti e non in sufficiente quantità. Le banche europee continuano ad essere sovraesposte – molto di più di quelle nordamericane – il che ha fatto in modo che non usino queste risorse per il sistema produttivo ma per il sostentamento dei propri bilanci. In questi tempi di incertezza e di magra economica, le banche private hanno incentivi per assicurare operazioni sui mercati del debito pubblico più che per rischiare investendo in progetti produttivi che l’austerity e l’incapacità delle istituzioni e dei governi europei di gestire la crisi stanno lasciando al margine.

In questo contesto Draghi ha annunciato un insieme di misure straordinarie per inondare di credito a buon mercato le banche private attraverso il programma di Tltro con 400 miliardi. A questo dobbiamo aggiungere la riduzione dei tassi di interesse marginali di deposito a tassi negativi, il che significa che le banche devono ‘pagare’ un interesse per i depositi di denaro nella Bce. L’accesso a questo credito a basso costo è legato alla clausola che le banche prestino denaro all’economia produttiva. Dato che la Bce non sterilizza attraverso il ‘Secondary Market Program’. (Smp) ci troviamo di fronte ad un ‘Quantitative Easing‘ (QE) camuffato che probabilmente si renderà esplicito e verrà potenziato nei prossimi appuntamenti. Questo cambiamento di opinione e di tendenza è sufficientemente importante al punto di concludere che le cose stanno molto peggio di quello che ci si augurava, visto che diversamente da così la Germania mai l’avrebbe accettato e avrebbe fatto pressioni come già aveva fatto fino ad allora perché il Quantitative Easing (Qe) non si mettesse in atto.

Ma la cosa realmente importante è: queste misure sono realmente necessarie in questo momento, o – che poi è la stessa cosa- la liquidità è davvero ancora il problema dell’Eurozona? La risposta è no, dato che le banche hanno restituito alla Bce il 65% dei prestiti del precedente programma di finanziamento (Ltro). Quest’ultimo ha avuto inizio in un momento di eccezionale mancanza di liquidità, da lì il suo successo tra le banche, che, con i mercati interbancari congelati trovarono nella Bce una fonte di liquidità straordinaria. Ora non esiste questo problema e la liquidità non è scarsa ma eccessiva sui mercati, il che significa che Tltro può non avere gli effetti sperati e alimentare la bolla sui mercati finanziari. Ma c’è di più, se il programma avesse il successo sperato per gli attraenti interessi offerti dal Tltro, 0,25%, questo non implica che si spostino a settori produttivi che hanno bisogno di finanziamento. La Bce si trova di fronte a questo: il problema sta nella scarsità di domanda come conseguenza degli alti livelli di disoccupazione dei paesi periferici.

Squilibri interni

Sebbene i problemi di liquidità siano stati risolti sui mercati interbancari, gli squilibri macroeconomici tra i paesi dell’Eurozona continuano ad estendersi e si situano nel centro della crisi. L’apertura di strutture produttive come quella spagnola o quella portoghese a strutture come quella tedesca o quella olandese, molto più radicate e sviluppate, ha avuto un impatto strutturale molto importante. La deindustrializzazione che hanno sofferto i paesi periferici del sud è stata spettacolare tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. Alla fine di questo decennio si instaurò l’euro, riducendo notevolmente il costo dei finanziamenti dei paesi del sud dal momento che approfittarono dei minori interessi associati ai paesi del nord, soprattutto alla Germania. Da allora i paesi hanno perso gli strumenti di politica economica come i tassi di interesse passati ad essere stabiliti dalla Bce, o gli interessi sul cambio.

La deindustrializzazione e terziarizzazione dell’economia spagnola ebbe come risultato la specializzazione produttiva verso un settore di servizi di basso valore aggiunto, dominato da un lato da un turismo predatore e richiedente mano d’opera a basso costo e poco qualificata, e dall’altro lato dalle costruzioni.

A questi fatti c’è da aggiungere un crollo nella partecipazione salariale al Pil. Il Pil non è altro che la valutazione monetaria della produzione totale in un’economia durante un periodo di tempo, normalmente un anno. Questa produzione di redditi salariali implica che da questo reddito una proporzione minore vada a finire a chi percepisce reddito da lavoro e che lo produce. Ma dato che sono questi che hanno sostenuto i consumi, per compensare questo crollo è apparso un indebitamento di massa che è quello che ha sostenuto la crescita degli anni precedenti alla crisi. Questo processo ha prodotto una struttura produttiva accelerata, il che, unito alle politiche di ‘austerity’, spiega la situazione di deflazione.

I paesi periferici, Francia inclusa, stanno distruggendo capacità industriale nella misura in cui i paesi centrali con la Germania in testa la stanno incrementando. Il settore dei servizi dall’altra parte ha una grande eterogeneità dato che sotto questa definizione si raccolgono le attività di complessi servizi finanziari offerti dai fondi di investimento così come di quelli offerti da un panettiere di quartiere. La produttività associata al settore dei servizi è inferiore a quella associata all’industria dato che una gran parte degli stessi sono a lavoro intensivo, il che rende più difficile l’incremento della produzione per lavoratore.

Ma la produttività si può associare al tasso di crescita potenziale, il che implica che la periferia sta riducendo il suo tasso di crescita potenziale, o – che poi è lo stesso: l’Eurozona sta condannando all’impoverimento la periferia del sud d’Europa.

Contro questa deindustrializzazione e depauperamento dei paesi periferici la Bce non solo non ha mezzi ma contribuisce a questo con la sua esigenza di tagli strutturali attraverso la Troika. Quest’ultimo punto ci porta a trattare il terzo degli squilibri contro cui si scontra l’Eurozona.

Solvenza

Il problema della deflazione è intimamente legato alla crescita del debito nei paesi periferici. In effetti, è risaputo che l’incremento dei debiti sovrani si è tradotto in problema già all’inizio della crisi, e non è l’origine della crisi stessa. Nonostante questo, le politiche di austerity che sono state applicate e insieme alla passività della banca centrale hanno provocato un incremento spettacolare dello stock di debito sovrano. Il problema nonostante questo non ha niente a che vedere con lo stock di debito sovrano, ma con il flusso del debito, in altre parole, con la accelerazione dell’accumulazione del debito sovrano principalmente nei paesi periferici del Sud, e in misura minore nei paesi centrali.

La crisi attraverso cui gli stabilizzatori automatici hanno aumentato il bisogno delle spese dello Stato (principalmente per i sussidi di disoccupazione) e le misure discrezionali si sono sommate a questo (salvataggio, aiuti e crediti alle banche private). A questo si aggiunge inoltre la depressione economica causata dall’austerity, il che toglie ogni possibilità di crescita e per tanto la possibilità di ridurre il rapporto debito/Pil. Infine, questo contesto di asfissia economica ha portato l’Eurozona al limite del processo di deflazione, il che incrementa la probabilità di una esplosione del valore nominale del debito. Siamo ad un passo dal disastro e da un’insolvenza generalizzata del debito. Da qui il pacchetto annunciato da Draghi e il disperato annuncio di ulteriori misure in un prossimo futuro. Nel grafico qui sotto possiamo osservare i tassi di crescita della zona euro, tutti al di sotto dell’1%. Basterebbe un crollo rilevante dei prezzi per alcune grandi compagnie dell’1 o 2% per far scatenare una tormenta perfetta.

Se il problema della liquidità in certa misura è stata risolto, i problemi degli squilibri produttivi interni e di solvenza non sono spariti e sono aumentati. Lontano dal distanziarci dalla crisi stiamo assistendo ad una crisi che va cambiando negli elementi che la definiscono ma che ha un sostrato economico e politico che si mantiene invariato: l’inoperatività delle istituzioni europee nell’incrementare le misure economiche rilevanti.

Gli europei ne sono coscienti e le ultime elezioni europee sono un esempio di questo. Staremo attenti a come evolve la questione.

DA AMAZON A JUNKER IL PASSO PURTROPPO E' BREVE.....
IL COLONNELLO DELLA TEDESCONA MERKEL PER CHIUDERE L'EUROPA ENTRO IL RECINTO GERMANICO. L'INGLESE CAMERON SCONFITTO, LA GRAN BRETAGNA MEDITA DI USCIRE DALLA UE


Mark Twain scriveva che "il giornalista è colui che distingue il vero dal falso... e pubblica il falso". I media italiani si impegnano quotidianamente a confermarlo e il racconto dell'ultimo Consiglio europeo ne è l'ultima dimostrazione. Gianluca Luzi su Repubblica arriva ad indicare Renzi come uno dei due "protagonisti" della vita europea con Angela Merkel. Sulla Stampa leggiamo: "Sull’agenda, l’Italia di Matteo Renzi porta a casa un buon pacchetto: l’accordo ad aiutare gli stati impegnati nelle riforme assume maggiore «solennità» e diventa «vincolante» per poter ottenere maggiore flessibilità". Quello che percepisce il lettore è che le prossime decisioni di Bruxelles passeranno ora anche da Roma e l'ignaro alla ricerca di "informazione" crederà che 'anche l'Europa sta cambiando verso grazie al nostro Renzi-Roosevelt'.
Nulla di più lontano dalla realtà, ma viviamo in tempi orwelliani si sa. Il vertice europeo ha preso la decisione di nominare Jean-Claude Juncker alla presidenza della prossima Commissione e ha adottato un documento programmatico su linee guida molto vaghe per i prossimi cinque anni. Ma di cosa parla questo documento, a cui è legato il famigerato nome del presidente del Consiglio europeo uscente, noto come Agenda Van Rompuy? ”Fare il miglior uso della flessibilità già contenuta nelle regole esistenti del Patto di Stabilità e crescita". Gli stati dichiarano poi: "Rispettiamo il Patto di Stabilità e crescita, tutte le nostre economie devono continuare a perseguire le riforme strutturali“. Parole. Ma del resto erano stati chiari, prima di quel vertice, i diktat di Angela Merkel al Bundestag - "le regole fiscali all'interno dell'Unione Europea offrono ringhiere di protezione e limiti, da un lato, e diversi strumenti che permettono flessibilità dall'altro. Dobbiamo usare entrambi come abbiamo fatto in passato" - e di Wolfgang Schäuble, che ha rigettato categoricamente una "reinterpretazione" del patto di Stabilità e di crescita, affermando come "più debiti porta solo ad un acuirsi dei problemi e non alla loro soluzione".
In pochissimi hanno scritto poi come la proposta di Padoan alla Commissione di rinviare il pareggio di bilancio di un anno è stata respinta al mittente e addirittura i capi di governo, incluso il nostro, hanno approvato un documento ufficiale che raccomanda all'Italia il pareggio già nel 2015. Sarà, in poche parole, un autunno di tagli, lacrime e sangue per mantenere gli impegni presi.
Chissà se i giornali cambieranno poi atteggiamento. Per ora preferiscono portare in trionfo solamente le dichiarazioni di Renzi: “Ho votato Juncker perché il suo nome era legato a un documento, a un accordo politico ben preciso focalizzato sulla crescita e la flessibilità. Abbiamo deciso prima che cosa deve fare l'Europa nei prossimi cinque anni e poi chi la guiderà.". E ancora: "per la prima volta il focus è sulla crescita e sulla flessibilità. Insistere sulla crescita è una svolta per l'Europa. E in quel documento c'è l'idea che parlare di crescita non è un optional ma un elemento costitutivo dell'Ue". E' incredibile come queste dichiarazioni del premier italiano coincidano con quest'altre, di cui non vi sveliamo subito l'autore. "La crescita non dev'essere solo una parola. Voglio ridiscutere il patto fiscale. Tutte le opzioni devono essere sul tavolo ai prossimi incontri europei, compresi gli investimenti e gli eurobond. Si dovrà trovare la forma legale per aggiungere gli aspetti sulla crescita a quelli sul rigore, una formula che apre la porta a un compromesso in cui le regole di bilancio non vengono ridefinite, ma ad esse si possa aggiungere un'appendice con le misure per la crescita condivise". Era il maggio 2012 e Francois Hollande incontrava per la prima volta Angela Merkel come neo presidente della Francia alla guida di una "rivoluzione culturale per la crescita". La storia la conosciamo e la germanificazione dell'Europa è a un livello per cui la leadership di Angela è ancora meno scalfibile oggi.
A cosa serve tutto questo inutile e vuoto frastuono mediatico su crescita e flessibilità? A nascondere la prima gravissima sconfitta di Renzi: vi avevano detto – rivolto a quel 41% di elettori che si sono recati alle urne il 25 maggio – che il voto al Pd sarebbe stato un voto a Schulz e invece è servito a nominare alla guida della Commissione europea Jean Claude Juncker, per 18 anni primo ministro di un paradiso fiscale, il Lussemburgo, l'uomo scelto da Angela Merkel nel PPE come suo fidato colonnello, nonché uno dei responsabili principali delle politiche criminali scelte nella gestione della crisi della zona euro come presidente dell'Eurogruppo (fino al gennaio 2013). Il voto al Pd, in poche parole, è stato un voto alle peggiori politiche neo-liberiste che si incarnano alla perfezione nella figura di Juncker. Adesso l’indicazione dell'ex premier lussemburghese sarà sancita dal Parlamento europeo nella seduta plenaria di metà luglio. Servirà un voto a maggioranza assoluta e anche in quell’occasione, come avviene in diversi paesi, popolari e socialisti dovranno votare insieme. Ma non avranno nessuna difficoltà a mercificare le cariche da spartirsi, è il lavoro che gli riesce meglio.
Per chi non avesse ben chiaro chi sarà a decidere dopo Barroso il livello di disoccupazione, i diritti sociali da negare e le privatizzazioni selvagge da imporre a milioni di greci, spagnoli, portoghesi, italiani... vi segnaliamo come Juncker, alla guida del Lussemburgo per 18 anni – ha sfiorato il classico ventennio dittatoriale – fu costretto alle dimissioni nel 2013 per il rapporto di una commissione parlamentare in cui fu presentato il quadro di una "struttura di polizia segreta", che aveva compiuto migliaia di intercettazioni illegali, organizzato missioni fuori dal suo mandato, spiato politici, acquistato automobili per uso privato con denaro pubblico e accettato soldi in cambio di favori. Un curriculum che deve avere convinto subito il Pd di Renzi. Ma Juncker è noto anche per la sua democraticità e l'ampio rispetto delle volontà popolari. Allo Spiegel, in un'intervista del 1999 disse: "Prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere che succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno". E da presidente dell'Eurogruppo il 20 aprile 2011 disse: "Le politiche economiche della zona euro dovrebbero essere prese nelle buie e segrete stanze per evitare turbamenti nei mercati finanziari. Sono pronto ad essere insultato per essere insufficientemente democratico, ma voglio essere serio. Sono per dibattiti segreti, al buio". E così che l'Europa agisce e continuerà ad imporre le decisioni ai suoi valvassori alla Renzi.
Nel 2007, infine, Juncker ha ottenuto l'onorificenza di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito da parte di Giorgio Napolitano. Bisogna aggiungere altro?

"Il declino dell'economia italiana, sopratutto nel Sud, ha avuto luogo da 15 anni a questa parte, con l'avvento dei Super e Ipermercati. La miopia della politica che ha permesso l'insediamento di queste piovre economiche e finanziarie, ha distrutto la micro impresa e lo'artigianato: colonna portante dello sviluppo del Paese.
Nel mio piccolo paesino di 4.000 abitanti, Lazzaro, c'erano 23 alimentari, 7 macellerie, 3 officine meccaniche, 5 falegnamerie, 3 sartorie, 2 calzolai e 2 negozi di elettrodomestici. Nell'arco di 20 anni sono rimasti: 1 alimentare, 1 macelleria,1 officina meccanica, 2 serramentisti e 1 sartoria gestita da una immigrata.
Facendo il calcolo delle persone espulse dalle attività, dirette (70) e indirette (70), siamo a 140.
I due supermercati che operano occupano circa 30 persone più i titolari. Mentre le persone occupate percepiscono attorno a 5-600 € al mese, i 70 esercizi scomparsi davano da mangiare ai titolari ed ai loro figli e nipoti. Si sono costruite chi 4 chi 5 appartamenti ciascuno, facendo da volano all'economia. Dando lavoro a muratori, carpentieri, ferraioli, alle tre fabbriche di laterizi, ai falegnami, agli elettricisti e idraulici.
Il paesino si è spopolato. Sono rimasti anziani e i pochi impiegati pubblici, sopravvissuti alle ristrutturazioni, seguite alle privatizzazioni di Poste, Ferrovie, telefonia ecc. ecc.
I supermercati hanno distrutto l'economia locale e i produttori di generi alimentari. Questi ultimi costretti a vendere a prezzi stracciati e incassi a 90,120, 150 gg.
Tutti i prodotti vengono da fuori Calabria così, per completare l'opera è morta, anche, l'agricoltura.
La politica ha pensato bene di fare bandi per i finanziamenti studiati per agevolare gli speculatori che, normalmente, arrivano da fuori. lasciando le briciole agli operatori locali. L'opera di distruzione è compiuta con l'avvento delle cineserie! E Renzi porta in Cina stuoli di imprenditori-prenditori. Ma Vaff..."

Bce, Draghi taglia tassi a 0,15%. Quelli su depositi delle banche vanno a -0,1%

La sede della banca centrale europea a Francoforte

Internotizie

I banchieri centrali riuniti a Francoforte, come da attese, hanno preso provvedimenti per contrastare la spirale recessiva in cui l'Eurozona rischia di avvitarsi, stretta tra inflazione troppo bassa, euro troppo forte e insufficiente offerta di credito all'economia reale. Ora gli istituti che parcheggiano liquidità presso la Bce di fatto pagano una tassa. L'obiettivo è indurli a usare quei soldi per concedere prestiti alle imprese

I banchieri centrali riuniti a Francoforte sotto la guida di Mario Draghi hanno rotto gli indugi e preso provvedimenti per contrastare la spirale recessiva in cui l’Eurozona rischia di avvitarsi, stretta tra inflazione troppo bassa, euro troppo forte e insufficiente offerta di credito all’economia reale. Come da attese, dopo sette mesi di blocco la Bce ha deciso infatti di tagliare i tassi di interesse: quello di riferimento scende dallo 0,25%, che era già un minimo storico, allo 0,15%, mentre quello per il rifinanziamento marginale scende allo 0,40%. La misura in cui la Bce ripone più aspettative è però la sforbiciata del tasso sui depositi che le banche commerciali fanno presso l’Eurotower: Draghi ha deciso di portarlo sottozero, a -0,1%. Risultato: gli istituti che parcheggiano liquidità a Francoforte d’ora in poi di fatto pagheranno una tassa. L’obiettivo, chiaramente, è indurli a usare quei soldi per concedere prestiti alle imprese. Mossa che però potrebbe non bastare, visto che a portata di mano c’è una comoda alternativa: comprare altri titoli di Stato, magari quelli dei Paesi “forti” come la Germania.

Il taglio ai minimi storici ha fatto calare in pochi attimi lo spread fra Btp e Bund di tre punti da 158 a 155. Effetto immediato anche sull’euro che scende rispetto al dollaro a 1,3575 ai minimi degli ultimi quattro mesi.

Deflazione, debito e tassi d’interesse: i problemi di Eurolandia (e di Draghi)

Messe da parte le elezioni europee ed il populismo dei nuovi leader dell’opposizione si ritorna a dipendere dagli indicatori economici. Questa volta però invece dello spread tutti gli occhi sono puntati sul tasso d’inflazione che continua a scendere. A maggio quello di Eurolandia è arrivato allo 0,5 per cento contro lo 0,7 di aprile. Più ci allontaniamo dall’obiettivo ottimale del 2 per cento, suggerito dalla Banca centrale europea, e più la minaccia della deflazione si concretizza.

Se l’Europa scivola sotto lo 0 per cento allora non è da escludere che ciò che sta succedendo in Grecia diventi l’anteprima del nostro futuro. Da almeno due anni, infatti, il tasso d’inflazione è negativo e da quattro l’economia non fa che contrarsi. In questi anni più di un quarto è svanita, fagocitata dai meccanismi della deflazione.

Risultati positivi? Nessuno perché l’economia greca si trascina dietro un fardello che la deflazione fa aumentare di giorno in giorno: il debito. Dal 2010, quando è scoppiata la crisi del debito sovrano, ad oggi il rapporto tra Pil e debito è passato da 130 a 175 per cento. Facile intuirne i motivi: se il Pil si contrae del 25 per cento ed il debito resta invariato la proporzione aumenta. Con i numeri non si scherza!

Naturalmente la deflazione fa scendere i salari, quindi riduce il costo del lavoro, in Grecia sempre dal 2010 ad oggi il salario medio è passato da 17 a 13,6 euro l’ora. Ma i costi più bassi non si sono tradotti in maggiore competitività perché è aumentata la pressione fiscale. Se l’economia si contrae diminuisce anche il gettito fiscale, per compensare questa contrazione lo Stato aumenta le tasse su chi ancora le può pagare. Gli industriali greci oggi pagano il 23 per cento di Iva ed il 20 per cento di tassa energetica, costi che l’impresa non può assorbire senza tagliare ulteriormente quelli di produzione o mantenere quelli di vendita a livelli superiori dei concorrenti stranieri.

Il pericolo della deflazione è serio ed infatti Mario Draghi ha ammesso di valutare alcune strategie eccezionali quali l’ulteriore taglio dei tassi d’interesse e l’imposizione di un tasso negativo nei confronti dei depositi della banche presso la Bce. Basterà questa strategia per far ripartire l’inflazione e con questa tutta l’economia?

A riguardo è illuminate l’esperienza della Danimarca che dal luglio del 2012 fino allo scorso aprile ha introdotto tassi negativi sui depositi degli stranieri denominati in corona danese, lo ha fatto per tenere alla larga dalla propria economia gli speculatori. Sotto questo aspetto la manovra ha funzionato ed infatti la pressione al rialzo della moneta prodotta dall’afflusso di capitali è scomparsa e l’esportazione non ne ha risentito.

Ma la Danimarca è una nazione con 5 milioni di abitanti ed un sistema bancario solido mentre Eurolandia è composta da 18 Stati con 330 milioni di persone ed un sistema bancario che fatica a generare profitti. I tassi negativi colpirebbero duramente le banche. C’è poi un altro fattore da prendere in considerazione: la politica dei tassi negativi in Danimarca non ha dato un grosso impeto all’economia, e cioè non ha spinto le banche ad investire nell’economia reale.

Anche l’esperienza giapponese alla fine degli anni Novanta, quando politiche simili sono state introdotte, conferma l’effetto limitato dei tassi d’interesse negativi quale stimolo alla crescita ed antidoto della deflazione.

Nonostante negli ultimi due anni lo spread sia sceso per l’Italia grazie alle parole rassicuranti di Mario Draghi, che si è impegnato a fare di tutto per salvare l’euro, i problemi dell’euro zona rimangono in gran parte irrisolti ed è possibile che presto su questa questione tutti i nodi vengano al pettine. C’è sola da sperare che i politici, Bruxelles e Draghi siano siano più bravi da parrucchieri che da statisti.

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