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Renzi: "Polizia pagata dai club di calcio"
Ma nel Dl Stadi del governo le società
metteranno solo un terzo del costo totale
Esposto Consob e interrogazione a Padoan
Juventus-Roma diventa un affare di Stato. Calciopoli è un
lontanissimo ricordo:tutto è ritornato all'anno 2005.
Le condanne in sede penale ai personaggi di
allora,Moggi,Pairetto,Mazzini,De Santis,Bertini,Giraudo(rito abbreviato),NON
HANNO INSEGNATO NULLA E LA PALUDE MALEODORANTE TORINESE HA RIAMMORBATO UN
CAMPIONATO SEMPRE PIU' SCADENTE E SVALUTATO. Il caso più ECLATANTE DI UN
CAMPIONATO VERAMENTE POVERO STA NELLA FIGURA DI LUIS ENRIQUE, ATTUALE
ALLENATORE DEL BARCELLONA. Giunto alla Roma nell'estate 2011 dura solo una
stagione per poi essere rispedito in Spagna con la patente di DEFICENTE. Bene,
oggi il DEFICENTE è allenatore di UNO DEI CLUB PIU' POTENTI DEL MONDO, mentre
la Roma è costretta a fare a pugni con i padroni di Torino. Per molti risulta
chiaro come Calciopoli abbia completamente fallito il compito di svincolare
gli arbitri dal dominio economico-politico di un club in un determinato
periodo storico.
Juve-Roma,
Travaglio: “Andrea Agnelli? Ha superato anche il ‘maestro’ Moggi”
“Andrea Agnelli? Ha superato anche
il suo ‘maestro’ Moggi”. Così lo juventino Marco
Travaglio, giornalista, scrittore e condirettore de il Fatto
Quotidiano, che oggi su Rai Radio2, a ‘Un Giorno da
Pecora’, ha dato il suo giudizio sulla
partita Juventus-Roma di domenica: “Ho visto la partita e
devo dire, da juventino, che non mi vergognavo così tanto dai tempi di
Luciano Moggi. A me piace vincere, ma non rubando”. Quindi ieri la
Juve ha rubato? “Sì, su tutto. Non c’è
uno dei tre gol che sia regolare”. Peggio dei tempi di
Moggi? “Credo che Moggi avesse i lucciconi agli occhi perché i suoi allievi
hanno superato il maestro”. E chi sarebbero gli allievi di Moggi nell’attuale
Juventus? “Andrea Agnelli”, risponde Travaglio." Travaglio
non solo non è juventino, continua, “ma è proprio contro la Juve”. Moggi tiene
a ricordare al co-fondatore de Il Fatto Quotidiano che “le
motivazioni dei vari processi, da quello sportivo a quello ordinario recitano:
“Campionato regolare, nessuna partita alterata, sorteggio
regolare”. Sarà, ma lui, vertice di quella che veniva definita “La
Triade” juventina, per lo scandalo che ha colpito il calcio italiano
nel 2006 è stato condannato in appello a una pena di 2 anni e 4 mesi
di detenzione. Dalla giustizia sportiva, inoltre, è stato
inibito per 5 anni e ha subito la preclusione alla permanenza
in qualsiasi rango e categoria della Figc. Moggi sostiene dalle
colonne di Libero la regolarità dei campionati svolti durante la sua
permanenza all’interno della dirigenza della Juventus, ma la sentenza
dei giudici parla di una “peculiare capacità di Moggi di avere una
molteplicità di rapporti a vario livello con i designatori arbitrali fuori
dalle sedi istituzionali, ai quali riusciva a imporre proprie decisioni e
proprie valutazioni su persone e situazioni coinvolgendoli strettamente così
nella struttura associativa e nel perseguimento della comune illecita
finalità. Appaiono eclatanti le diverse incursioni di Moggi, assieme a
Giraudo, negli spogliatoi di arbitri e assistenti“.
Avevo qualche perplessità a intervenire
sull’argomento. L’ultima volta che ho parlato di faccende che riguardavano la
Juventus ho raggiunto il record personale di commenti
negativi, per usare un eufemismo. Ma il dibattito che si è creato attorno
alle vicende della partita di domenica scorsa mi sembra troppo
interessante per restarne fuori e quindi vorrei dire la mia, non tanto su
quello che si è visto in campo ma sui commenti che ha ispirato.
Ci sono, in questi commenti, due atteggiamenti che trovo irritanti, inutili e
alla fine dannosi.
Il primo è quello “alla Tavecchio” che
sposta il problema sul versante delle tecnologie.
Introduciamo supporti tecnologici, la moviola in campo e così aiutiamo gli
arbitri a non sbagliare valutazioni. A parte il fatto che in una partita ricca
di episodi dubbi, come quella di domenica, il ricorso alla moviola sarebbe
stato quasi continuo, con spezzettamenti del gioco all’infinito, c’è un altro
problema che questa richiesta tace. Siamo proprio certi che la moviola
potrà definire senza ombra di dubbio il punto in cui Pogba è stato atterrato?
Di un’altra cosa, invece, siamo certi, del fatto che nessuna moviola potrà mai
stabilire se un attaccante bianconero ostacolava la visuale del
portiere della Roma sul tiro di Bonucci.
Se e quanto lo dovrà stabilire qualcuno e la moviola non eliminerà la presenza
di un’interpretazione e di un interprete che dovrà assumersi la
responsabilità della decisione. Sperando che sia oculato, imparziale,
alieno da sudditanze.
E qui arriviamo al secondo atteggiamento
fastidiosamente fuorviante che si è manifestato nella contesa
giornalistica, quello che, affrontando le dichiarazioni post-partita
di Totti, ha cercato di salvare capra e cavoli, ponendosi come al di sopra
delle “fazioni” ma eludendo la sostanza del problema. E’ l’atteggiamento che
potremmo definire “alla Sconcerti”, il quale, dall’alto della sua saggezza,
sostiene che la Roma è stata danneggiata dagli errori arbitrali, ha buon
motivo di essere arrabbiata ma non ha nessun diritto di evocare complotti.
Nessuno, però, ha parlato di complotti. Le
cose sono andate ben diversamente dall’evocazione vaga di un complotto. Totti
si è presentato davanti alle telecamere e con un tono molto pacato, persino
un po’ malinconico, educatissimo – quasi un piccolo lord, un
campione di galateo in confronto alle sguaiatezze di certe signore – ha detto
di avere l’impressione che
la Juventus goda di un trattamento speciale, che gli arbitri
risolvano sempre i casi dubbi a suo favore. Nessun complotto, nessuna
macchinazione, una semplice costatazione.
Alla quale si può rispondere in mille modi. Si può, seguendo l’indicazione
della signora Agnelli, procedere alla delocalizzazione del pupone (dove?
magari a Detroit, affidando la pratica a Marchionne), lo si può deferire e
squalificare, come accadde moltissimi anni fa a Gianni Rivera che, per un caso
simile, si prese dieci giornate di sospensione e lasciò il Milan in piena
lotta per lo scudetto privo del suo capitano e campione (indovinate chi vinse
poi quel campionato):
Inter,
Thohir come la troika: di soli numeri l’antropos si spegne
“Questo vuol dire
libertà – scrive Nikos Kasanzikis in
Zorba il Greco – avere una passione, raccogliere
monete d’oro e all’improvviso vincere la passione e gettare al
vento tutto quello che possiedi”. Nessun uomo sano, nei tempi
moderni fagocitati dalla globalizzazione
coatta, pensa di poter vivere senza il valore materiale del
denaro o di quei pezzi color cemento che affollano le nostre
vite. Ma fermarsi qualche momento e ragionare sull’importanza
dell’antropos piuttosto che di numeri e spread,
forse è ciò che occorre a società paralizzate da deficit
(culturali prima che finanziari), sempre pronte al potente di
turno e incapaci di rialzare la testa e ricominciare a costruire
una polis.
L’esempio sportivo interista,
di un past president messo ai margini (anche da un
allenatore modesto, tecnicamente e comportamentalmente) senza
rispetto per il pathos dell’uomo, è in questo senso
calzante e potrebbe spalancare gli occhi di molti (compresi
amministratori o pseudo analisti dediti al manuale Cencelli) che
non hanno ancora focalizzato un passaggio essenziale. La storia
ci aiuta nel ricordare che al centro di un’agorà che produce
società, comunità, polis e imperi ci deve essere l’antropos.
Con i suoi difetti, le sue imprecisioni, le sue debolezze, ma al
contempo con i suoi scatti di entusiasmo, la volontà di mettere
in discussione la propria tasca. Con tutte le debite
proporzioni, è quello che è capitato all’Italia del dopoguerra
con i piccoli artigiani che, rischiando in proprio, hanno
rifatto l’Italia.
Il modus operandi
da “troika” non è scientificamente applicabile
all’antropos, semplicemente perché, pur consapevoli che
i numeri vanno rispettati e che se si spende più di quello che
si incassa si fallisce, l’uomo non è un essere speculare ad un
numero. A maggior ragione in un calcio dove è la
passione dei tifosi a riempire gli stadi e a far
crescere gli abbonamenti alle pay tv. Per cui un
magnate che fino ad oggi non ha messo sul tavolo una lira
propria pur
acquisendo il 70% dei cammelli nerazzurri, deve capire che
la passione di chi nell’anima sarà sempre il presidente va
rispettata. E dopo, ovviamente, anche confrontata e/o confutata
con ciò che la quotidiana amministrazione societaria impone.
Ma senza quel piglio da “troika”, con forbici
gelidamente in mano e senza guardare in faccia i dipendenti che
si sceglie di licenziare come fatto dall’indonesiano. Perché
così si continuerebbe con l’ignorare che la polis e i
mercati le hanno fatte gli uomini imperfetti. E non il
contrario.
Alla guida della società per 19 anni, Moratti
non ha mai centellinato le spese per provare a seguire le orme
del padre, che portò l’Inter sul tetto di
tutto. Ci è riuscito solo nel 2010 dopo aver collezionato una
sfilza di campioni, presunti tali e scelte
errate. Ma subito dopo la storica stagione del Triplete
l’Inter si è nuovamente infilata in un tunnel di risultati e i
suoi conti sono peggiorati di anno in anno. Fino alla vendita
della maggioranza a Thohir, che proprio in
settimana ha chiuso il suo primo bilancio con una perdita di 103
milioni di euro e si ritrova ora a dover organizzare nel giro di
tre anni la ristrutturazione del debito, grazie
a un prestito sottoscritto con Goldman Sachs
International e Unicredit. Un piano
salatissimo che comporterà il pagamento di una pesante rata fino
al marzo 2019 e un maxisaldo finale da 184
milioni da rimborsare il 30 giugno 2019. I sogni, i grandi
campioni, Vampeta e Pacheco,
la Coppa Uefa, gli scudetti, Mourinho e la
notte di Madrid. Assieme a tutto questo,
Moratti lascia quel pericoloso buco.

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