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La Bce maschera il quantitive easing come prestiti alle famiglie

I mille miliardi promessi all'economia potrebbero essere dirottati dalle banche sull'acquisto di altri titoli di Stato, proprio come faceva la Fed acquistanto bond sul mercato secondario con l'obiettivo di indebolire l'euro e spingere la ripresa. L'unico vincolo è non ridurre il credito

Fino a mille miliardi di euro per un'economia assetata di credito, promette Mario Draghi da Francoforte. Un quinto di quei soldi, fino a 200 miliardi di euro in due anni - dice Visco da Roma - potrebbero essere utilizzati dalle banche italiane per le nostre industrie. In più, spiega il governatore della Banca d'Italia, le nuove regole sui collaterali da versare per i prestiti, potrebbero aggiungere altri 120 miliardi di euro ai fondi disponibili per la ripresa dell'economia reale. Le decisioni prese dalla Bce un mese fa, insomma, dovrebbero far piovere un fiume di prestiti su aziende e famiglie e non, come avvenne nel 2011, nelle casse degli Stati indebitati. Per questo si parla di operazioni di liquidità "mirate". Ma è così? Molti ne dubitano e concludono che anche questi soldi finiranno nell'acquisto di Bonos e Btp. Forse, però, non è il caso di strapparsi i capelli e gridare al flop. Potrebbe servire anche quello e qualcuno pensa che la Bce sappia benissimo ciò che fa.

Il problema non sono le misure prese a giugno, ma i meccanismi di adempimento tecnico che la Bce ha reso noti solo nei giorni scorsi. Che osservatori diversi come gli economisti di Lavoce.info, il Wall street journal, gli analisti della Royal Bank of Scotland definiscono tutti "assai generosi" per le banche. Due i punti contestati. Primo: la liquidità è pensata per arrivare a imprese e famiglie, ma da nessuna parte il manuale della Bce condiziona l'erogazione dei soldi

al fatto che, effettivamente, quegli stessi soldi vengano poi girati all'economia reale. Le banche possono farci ciò che vogliono. L'unica cosa che devono dimostrare è che, contemporaneamente, i loro prestiti ad entità non finanziarie, nel complesso, sono aumentati. Basta un refolo di ripresa perché i prestiti aumentino comunque, soldi della Bce o no.

Secondo: per evitare una penale, cioè l'obbligo di restituire i soldi avuti dalla Bce dopo due anni, anziché quattro (sanzione, peraltro, che non appare drammatica) le banche devono dimostrare di rispettare un parametro. Ovvero, il flusso dei nuovi prestiti all'economia deve essere superiore ad una crescita minima. Questo benchmark, però, non è uguale per tutti. Le banche che, negli ultimi dodici mesi, avevano già aumentato i finanziamenti erogati potranno limitarsi a mantenere invariato l'ammontare. Il benchmark da superare è, cioè, zero. Le banche che, invece, hanno diminuito nell'ultimo anno gli impieghi (come in Italia) potranno continuare a ridurli secondo il trend precedente per un anno e poi mantenerli per l'anno successivo. Il benchmark è meno di zero. La conclusione generale che gli esperti traggono dal documento tecnico della Bce è che agli istituti di credito basterà non razionare ulteriormente il credito nei prossimi mesi per avere diritto ai finanziamenti di Francoforte, al vantaggioso tasso dello 0,25 per cento. Con cui, se vogliono, possono comprare Btp italiani o Bonos spagnoli che rendono il 2,87 o il 2,75 per cento. Difficile che resistano alla tentazione di intascare, senza fatica, uno spread del 2,5 per cento.

Insomma, la stessa speculazione del 2012 che ha, probabilmente, salvato l'euro, ma a prezzo di rendere ancora più soffocante l'abbraccio tra banche e debito pubblico. E, tuttavia, gli effetti potrebbero non essere tutti negativi. Gli americani, che hanno l'occhio più esperto in materia, sottolineano che, in fondo, l'operazione lanciata dalla Bce, con le modalità tecniche appena specificate, è una sorta di versione europea del quantitative easing adottato dalla Fed negli Usa: soldi della banca centrale vengono utilizzati per comprare titoli (poco importa se pubblici o privati). La differenza è che, in Europa, gli acquisti vengono fatti dalle banche anziché dalla banca centrale.

Gli effetti? L'operazione gonfierà l'attivo della Bce e, probabilmente, indebolirà di conseguenza l'euro, soprattutto se, nel frattempo, si chiuderà il quantitative easing americano e la Fed alzerà i tassi. Un euro più debole significa più esportazioni e importazioni (per la svalutazione della moneta) più care, ciò che dovrebbe alimentare un po' d'inflazione. Insomma, il quantitative easing su cui il board della Bce litiga da mesi verrebbe realizzato attraverso la porta di servizio e senza dirlo a nessuno. Possibile che Draghi e il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, non se ne siano accorti, ma è difficile.

 

LE GRANDISSIME TESTE DI CAZZO IPER LIBERISTE CHE NON SI ACCORGONO CHE SE ESISTONO E' PERCHE' CI SONO STRADE ASFALTATE, FERROVIE, AEROPORTI FUNZIONANTI, SCUOLE PER PREPARARE I LORO SCHIAVI, OSPEDALI, FORZE DI SICUREZZA ED UNA MASSA DI SOLDATI DA SPEDIRE NELLE FOGNE REMOTE A FARE LA GUERRA SENZA DISTURBARE I MANOVRATORI DEL CAZZO!!!

Come era abbastanza prevedibile, il mio precedente articolo (‘Capitalismo, fa sempre più rima con egoismo‘) ha aperto un ampio seguito di dibattiti ed opinioni, tuttavia l’argomento, nonostante il semplicismo del titolo, era troppo vasto per poterlo comprendere nel breve spazio di un solo articolo da blog, così ho preso spunto dall’articolo “The failure of macroeconomics” (Il fallimento del macroeconomismo) che John H. Cochrane, professore di Economia finanziaria all’Università di Chicago, pubblicato sul Wall Street Journal del 2 luglio scorso, per svilupparlo ulteriormente.

Cochrane, in sintesi, pur concordando con i “keynesiani” sul fatto che per ridare slancio alla ripresa economica bisogna puntare sulla crescita, li critica però duramente perché a suo parere le ricette dei keynesiani contano troppo sugli stimoli monetari e finanziari per risolvere la crisi, ma in questo modo si crea solo una spinta provvisoria e un ulteriore indebitamento permanente. Lo si vede già ora (sempre a suo avviso): gli stimoli perdono presto di efficacia, il pesante indebitamento che ora grava in “pancia” alla Federal Reserve” avrà bisogno di tempi lunghi per essere “digerito”, quindi occorre pensare a interventi risolutivi che consentano la crescita insieme allo smaltimento del debito, non a soluzioni che lo incrementano. E nel dir questo chiama in causa anche Krugman, che invece ha sempre sostenuto gli incentivi.

Krugman però ha già smontato questa accusa sostenendo (fin dal 2009) che gli stimoli sono stati fatti, sì, ma sempre in ritardo e sempre limitati perché ostacolati dalla dura opposizione politica del partito conservatore. In questo modo, pur raggiungendo recentemente (dopo 6 anni!) un risultato di parziale soddisfazione, si è avuta tuttavia una sostanziale inefficacia degli stimoli. Se si fosse fatto tutto con tempestività adesso saremmo già del tutto fuori dalla crisi, è il suo parere (per esempio nel suo articolo “Why Economics Failed” del primo maggio scorso).

Comunque Cochrane si prolunga nel suo articolo, chiamando in causa altri economisti e facendo altri esempi, al fine di cercare di smontare le teorie dei “neo-keynesiani”. Lascio ai volenterosi l’onere di andarsi a leggere tutti i suoi ragionamenti. Per capire dove vuole arrivare basta leggere gli ultimi tre paragrafi.

“Distorcono il sistema della tassazione e avviano regole intrusive nel mercato. Questo vogliono i neo-keynesiani. Chi volete che investa il suo denaro in presenza di queste riforme? Logico che la ripresa tardi a venire!”. Queste, secondo Cochrane sono le vere cause della lentezza della ripresa economica.

Il “bello” viene però nel paragrafo successivo, dove alla diagnosi fa seguire la prognosi. Qual è la sua ricetta per la guarigione? Eccola qui di seguito nella sua versione integrale (segue la traduzione).

They require us to do the hard work of fixing the things we all agree need fixing: our tax code, our cronyist regulatory state, our welter of anticompetitive and anti-innovative protections, education, immigration, social program disincentives, and so on. They require “structural reform,” not “stimulus,” in policy lingo.”

“Siamo richiesti di compiere il duro lavoro di riparare ciò che necessita riparazione: il sistema della tassazione, la parzialità del nostro sistema regolatorio, la confusionarietà anti-competitiva e anti-innovativa del nostro protezionismo, il sistema educativo, le norme per l’immigrazione, la disincentivazione dei programmi sociali, e così via. Occorrono “riforme strutturali, non stimoli”, detto in parole povere.”

Mi sbaglierò, ma mi sembra la stessa musica che ci hanno proposto per tre anni i nostri austeri manovratori europei (col risultato che sappiamo!). La logica di Mr. Cochrane è quella dei neo-capitalisti iper-liberisti che ormai conosciamo bene. Essa parte dal presupposto che l’economia per funzionare bene deve essere completamente libera di muoversi a suo piacimento, senza regole (salvo quelle che proteggono loro stessi) altrimenti ne soffre la capacità di competere sui mercati.

Ovvio che se al centro del nostro sistema esistenziale politico ed economicocome elemento di massimo interesse, dovessimo veramente mettere la “capacità di competere sui mercati” tutta quella roba che ha messo Cochrane nella sua ricetta anticrisi sarebbe adeguata, ma è ovvio anche che parte dal presupposto sbagliato. Perché al primo posto per una società non ci può essere il mercato. La libertà che vuole Cochrane è la stessa di quel pugile che lamenta di essere meno competitivo perché non può picchiare dove vuole e non può tirare pedate. Se gliela concedi non è più pugilato, è lotta selvaggia.

Il mercato, e la società nel suo insieme, sono come la boxe, ci confrontiamo e ci tiriamo anche i pugni, ma ci devono essere regole precise che tutti devono rispettare. E le regole non possono essere solo quelle che consentono a qualcuno di far più soldi, ma quelle che consentono ad una società di crescere con equilibrio. Ovvero il rispetto della democrazia, che declama il potere del popolo non di qualche oligarca multimiliardario. Questi “economisti” tutti schierati a favore del capitale, sembra che se lo siano dimenticati.

Per fortuna c’è ancora chi, come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren che provvede a ricordare a costoro anche le altre priorità di una società evoluta.

“Nessuno diventa ricco per suo unico merito. Ha realizzato dal nulla una impresa? Buon per lui. Ma lui ha spostato le sue merci sulle strade che noi tutti insieme abbiamo pagato. Ha assunto lavoratori che noi tutti insieme abbiamo contribuito ad educare. Lui è sicuro e garantito nel suo ufficio o nelle sua fabbrica perché tutti noi abbiamo pagato per avere forze di polizia e vigili del fuoco efficienti. Questo è il contratto sociale che permette ad una società di funzionare per tutti”.

La Warren ha ragione da vendere. Senza giustizia ed equilibrio economico si può anche arrivare a realizzare il più potente sistema competitivo del mondo, ma quel cavallo presto scoppierà e lascerà tutti a piedi, neo-capitalisti compresi. Storicamente è già successo molte volte.

L’Eurozona sta male e potrebbe peggiorare di econoNuestra

L’Eurozona è un esperimento economico fallito e le conseguenze stanno toccando le strutture economiche più facili. Nel grafico qui sotto possiamo vedere il differenziale di crescita dell’Euroza e del resto del mondo.

Le politiche di austerità unite alla politica monetaria della Bce ci avvicinano pericolosamente ad una situazione di deflazione nell’Eurozona. I problemi nei quali ci imbattiamo, si possono riassumere in tre grandi blocchi, problemi di liquidità, di solvenza e gli squilibri macroeconomici interni all’Eurozona.

Liquidità

I problemi di liquidità si sono attenuati grazie ai pesanti programmi di acquisto del debito pubblico delle banche messi in campo dalla Bce, principalmente da quando nel 2012 la Bce ha annunciato che era disposta a prendere delle misure per sostenere l’euro.

Il credit crunch, che ha fatto sparire la liquidità dai mercati nel 2008, è stato risolto ad un primo livello, quello bancario. Per fare questo si è avuto bisogno di grosse iniezioni di liquidità, cioè di creazione di moneta da parte della Bce che è andata a finire alle banche private. Questo inusuale eccesso di liquidità è servito principalmente a liberare i bilanci bancarie da alcuni attivi pericolosi, ma non di tutti e non in sufficiente quantità. Le banche europee continuano ad essere sovraesposte – molto di più di quelle nordamericane – il che ha fatto in modo che non usino queste risorse per il sistema produttivo ma per il sostentamento dei propri bilanci. In questi tempi di incertezza e di magra economica, le banche private hanno incentivi per assicurare operazioni sui mercati del debito pubblico più che per rischiare investendo in progetti produttivi che l’austerity e l’incapacità delle istituzioni e dei governi europei di gestire la crisi stanno lasciando al margine.

In questo contesto Draghi ha annunciato un insieme di misure straordinarie per inondare di credito a buon mercato le banche private attraverso il programma di Tltro con 400 miliardi. A questo dobbiamo aggiungere la riduzione dei tassi di interesse marginali di deposito a tassi negativi, il che significa che le banche devono ‘pagare’ un interesse per i depositi di denaro nella Bce. L’accesso a questo credito a basso costo è legato alla clausola che le banche prestino denaro all’economia produttiva. Dato che la Bce non sterilizza attraverso il ‘Secondary Market Program’. (Smp) ci troviamo di fronte ad un ‘Quantitative Easing‘ (QE) camuffato che probabilmente si renderà esplicito e verrà potenziato nei prossimi appuntamenti. Questo cambiamento di opinione e di tendenza è sufficientemente importante al punto di concludere che le cose stanno molto peggio di quello che ci si augurava, visto che diversamente da così la Germania mai l’avrebbe accettato e avrebbe fatto pressioni come già aveva fatto fino ad allora perché il Quantitative Easing (Qe) non si mettesse in atto.

Ma la cosa realmente importante è: queste misure sono realmente necessarie in questo momento, o – che poi è la stessa cosa- la liquidità è davvero ancora il problema dell’Eurozona? La risposta è no, dato che le banche hanno restituito alla Bce il 65% dei prestiti del precedente programma di finanziamento (Ltro). Quest’ultimo ha avuto inizio in un momento di eccezionale mancanza di liquidità, da lì il suo successo tra le banche, che, con i mercati interbancari congelati trovarono nella Bce una fonte di liquidità straordinaria. Ora non esiste questo problema e la liquidità non è scarsa ma eccessiva sui mercati, il che significa che Tltro può non avere gli effetti sperati e alimentare la bolla sui mercati finanziari. Ma c’è di più, se il programma avesse il successo sperato per gli attraenti interessi offerti dal Tltro, 0,25%, questo non implica che si spostino a settori produttivi che hanno bisogno di finanziamento. La Bce si trova di fronte a questo: il problema sta nella scarsità di domanda come conseguenza degli alti livelli di disoccupazione dei paesi periferici.

Squilibri interni

Sebbene i problemi di liquidità siano stati risolti sui mercati interbancari, gli squilibri macroeconomici tra i paesi dell’Eurozona continuano ad estendersi e si situano nel centro della crisi. L’apertura di strutture produttive come quella spagnola o quella portoghese a strutture come quella tedesca o quella olandese, molto più radicate e sviluppate, ha avuto un impatto strutturale molto importante. La deindustrializzazione che hanno sofferto i paesi periferici del sud è stata spettacolare tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ‘90. Alla fine di questo decennio si instaurò l’euro, riducendo notevolmente il costo dei finanziamenti dei paesi del sud dal momento che approfittarono dei minori interessi associati ai paesi del nord, soprattutto alla Germania. Da allora i paesi hanno perso gli strumenti di politica economica come i tassi di interesse passati ad essere stabiliti dalla Bce, o gli interessi sul cambio.

La deindustrializzazione e terziarizzazione dell’economia spagnola ebbe come risultato la specializzazione produttiva verso un settore di servizi di basso valore aggiunto, dominato da un lato da un turismo predatore e richiedente mano d’opera a basso costo e poco qualificata, e dall’altro lato dalle costruzioni.

A questi fatti c’è da aggiungere un crollo nella partecipazione salariale al Pil. Il Pil non è altro che la valutazione monetaria della produzione totale in un’economia durante un periodo di tempo, normalmente un anno. Questa produzione di redditi salariali implica che da questo reddito una proporzione minore vada a finire a chi percepisce reddito da lavoro e che lo produce. Ma dato che sono questi che hanno sostenuto i consumi, per compensare questo crollo è apparso un indebitamento di massa che è quello che ha sostenuto la crescita degli anni precedenti alla crisi. Questo processo ha prodotto una struttura produttiva accelerata, il che, unito alle politiche di ‘austerity’, spiega la situazione di deflazione.

I paesi periferici, Francia inclusa, stanno distruggendo capacità industriale nella misura in cui i paesi centrali con la Germania in testa la stanno incrementando. Il settore dei servizi dall’altra parte ha una grande eterogeneità dato che sotto questa definizione si raccolgono le attività di complessi servizi finanziari offerti dai fondi di investimento così come di quelli offerti da un panettiere di quartiere. La produttività associata al settore dei servizi è inferiore a quella associata all’industria dato che una gran parte degli stessi sono a lavoro intensivo, il che rende più difficile l’incremento della produzione per lavoratore.

Ma la produttività si può associare al tasso di crescita potenziale, il che implica che la periferia sta riducendo il suo tasso di crescita potenziale, o – che poi è lo stesso: l’Eurozona sta condannando all’impoverimento la periferia del sud d’Europa.

Contro questa deindustrializzazione e depauperamento dei paesi periferici la Bce non solo non ha mezzi ma contribuisce a questo con la sua esigenza di tagli strutturali attraverso la Troika. Quest’ultimo punto ci porta a trattare il terzo degli squilibri contro cui si scontra l’Eurozona.

Solvenza

Il problema della deflazione è intimamente legato alla crescita del debito nei paesi periferici. In effetti, è risaputo che l’incremento dei debiti sovrani si è tradotto in problema già all’inizio della crisi, e non è l’origine della crisi stessa. Nonostante questo, le politiche di austerity che sono state applicate e insieme alla passività della banca centrale hanno provocato un incremento spettacolare dello stock di debito sovrano. Il problema nonostante questo non ha niente a che vedere con lo stock di debito sovrano, ma con il flusso del debito, in altre parole, con la accelerazione dell’accumulazione del debito sovrano principalmente nei paesi periferici del Sud, e in misura minore nei paesi centrali.

La crisi attraverso cui gli stabilizzatori automatici hanno aumentato il bisogno delle spese dello Stato (principalmente per i sussidi di disoccupazione) e le misure discrezionali si sono sommate a questo (salvataggio, aiuti e crediti alle banche private). A questo si aggiunge inoltre la depressione economica causata dall’austerity, il che toglie ogni possibilità di crescita e per tanto la possibilità di ridurre il rapporto debito/Pil. Infine, questo contesto di asfissia economica ha portato l’Eurozona al limite del processo di deflazione, il che incrementa la probabilità di una esplosione del valore nominale del debito. Siamo ad un passo dal disastro e da un’insolvenza generalizzata del debito. Da qui il pacchetto annunciato da Draghi e il disperato annuncio di ulteriori misure in un prossimo futuro. Nel grafico qui sotto possiamo osservare i tassi di crescita della zona euro, tutti al di sotto dell’1%. Basterebbe un crollo rilevante dei prezzi per alcune grandi compagnie dell’1 o 2% per far scatenare una tormenta perfetta.

Se il problema della liquidità in certa misura è stata risolto, i problemi degli squilibri produttivi interni e di solvenza non sono spariti e sono aumentati. Lontano dal distanziarci dalla crisi stiamo assistendo ad una crisi che va cambiando negli elementi che la definiscono ma che ha un sostrato economico e politico che si mantiene invariato: l’inoperatività delle istituzioni europee nell’incrementare le misure economiche rilevanti.

Gli europei ne sono coscienti e le ultime elezioni europee sono un esempio di questo. Staremo attenti a come evolve la questione.

Bce: le tre manovre politiche di Draghi-Houdini,palliativi per gli stupidi idioti. Il calo dei tassi non riversera' alcunche' e per gli overnight oggi le banche riescono a rifinanziarsi tranquillamente sul mercato perchè non siamo nel triennio 2008-2011. Ecco, queste misure arrivano con TRE anni di ritardo, per questo i merdosi tedeschi le hanno approvate senza battere ciglio....

L’ultima seduta del Comitato Direttivo della Bce ci lascia con una sola, granitica, certezza: se Houdini avesse un erede, si chiamerebbe Mario Draghi.

Come definire, altrimenti, un uomo che riesce a ipnotizzare i mercati e accumulare osanna dai governi di mezzo mondo senza fare assolutamente nulla?

Proprio non saprei.

Ma andiamo per gradi e vediamo di capire un po’ meglio quello che è accaduto.

La Bce ha annunciato 3 manovre:

  1. La riduzione generalizzata dei tassi e, in particolare, dei tassi sui depositi overnight (ovvero quelli a brevissima scadenza effettuati dalle banche sui conti della Banca Centrale);

  2. L’avvio di una nuova tipologia di finanziamento a lungo termine alle banche (Tltro), subordinata all’obbligo per gli istituti beneficiari di veicolare i fondi ai privati, ma non nella forma tecnica del mutuo immobiliare;

  3. La sospensione delle operazioni di “fine tuning (interventi con i quali in precedenza la Bce drenava dal mercato la liquidità in eccesso prodotta con le operazioni in titoli.

Accanto alle misure già adottate, la Bce ha inoltre promesso “l’intensificazione dei lavori preparatori per acquisti definitivi di Abs” ovvero l’accelerazione del percorso che dovrebbe portare alla creazione di un mercato secondario dei prestiti cartolarizzati cui partecipi anche la Banca Centrale.

La prima e la seconda misura, è bene esser chiari, sono pannicelli caldi il cui beneficio in termini di liquidità aggiuntiva non è (e non può essere) quantitativamente rilevante: questo a meno che non si speri che il sistema bancario europeo corra a inondarci di prestiti solo per non perdere 10 bps di rendimento (e d’altronde i precedenti interventi sui tassi non hanno sortito alcun effetto in questo senso); così come è piuttosto vano immaginare che le banche incrementino le esposizioni verso i privati solo per profittare del nuovo, inutile, Tltro: grazie a Dio non siamo nel 2008 né nel 2011 e le istituzioni finanziarie non hanno difficoltà significative a finanziarsi sul mercato interbancario in autonomia e a prezzi accettabili.  

Quanto alla terza misura, trattasi dell’unico intervento concretamente e immediatamente creativo di base monetaria: e tuttavia la sua effettiva dimensione dipenderà dall’ampiezza degli interventi della Banca Centrale sul mercato (se gli spread dovessero mantenersi bassi, così non obbligando la Bce a comprare altri titoli, non vedremmo nuova liquidità).

Ma allora come si spiega tutto il can-can sui giornali?

“It’s the politics stupid!”

Eh già!

Perché quella di giovedì più che una manovra di politica monetaria, è stata una manovra di politica e basta: una risposta al risultato elettorale delle europee e, in particolare, una pacca sulla spalla del malconcio Francois Hollande, volta a disincentivare la nascita di un asse diplomatico tra la Francia e gli sfigatissimi cugini italo/spagnoli.

Dietrologia dite?

Possibile, ma allora dovete spiegarmi il perché dell’esclusione del settore immobiliare dal nuovo Ltro. La mia teoria è che un intervento di sostegno che avesse incluso il mattone non avrebbe sortito effetti significativi per le economie “core” che negli ultimi tempi hanno cominciato a zoppicare (come la Francia, appunto), aiutando, al contrario, i (fetentissimi) “periferici” (notoriamente più danneggiati dal calo dei prezzi e dall’esplosione delle sofferenze).

Come noto Francoforte adora correre in soccorso del più forte: quale miglior occasione del meeting nel quale la Bundesbank fa marcia indietro per finta?

Già: la mitica BuBa…

Gli osservatori più attenti avranno notato la nonchalance con la quale Jens Weidmann ha votato a favore di misure che due anni fa avrebbe combattuto con la determinazione di Pietro Micca.

Come spieghiamo la miracolosa conversione?

La chiamerei difesa intelligente: siccome non intendo arretrare di un millimetro sugli Eurobond, sull’acquisto in asta dei titoli di stato e, più in generale, su qualsiasi strumento di politica monetaria rivolto ad alleviare in via privilegiata le pene dei Paesi periferici, ma al contempo temo che il mio peso politico venga annientato da una straripante maggioranza di cittadini europei stanchi di essere vampirizzati, che faccio? Ma è naturale!

Mi mostro disponibile e accetto finte manovre di finta espansione monetaria, pronto a rifiutare con ancora maggior determinazione quelle vere.

Bene! Bravo! Bis!

E la politica, ovviamente, ci casca con tutte le scarpe: il ministro delle Finanze francese Sapin (evidentemente ancora rintronato dagli schiaffoni rimediati da Marine Le Pen)  parla di misure “senza precedenti” e il povero Padoan fantastica di “una finestra di opportunità per l’Italia”

Proprio qui sta il gioco di Mario Draghi: convincere tutti di una svolta epocale, ributtare la palla delle “riforme strutturali” tra le mani degli Stati Membri e, contemporaneamente, proteggere il culto del solito, perdente, modello di austerity recessiva.

Complimenti vivissimi, la riunione del Comitato Direttivo del 5 giugno passerà alla storia come uno dei trucchi meglio riusciti dall’invenzione della prestidigitazione.

Bce pronta a "stampare" 1000 miliardi. Come funziona il QE anti-deflazione

La Banca centrale europea ha aperto all'ipotesi di lanciare un Quantitative Easing europeo, ovvero di acquistare titoli per contrastare i rischi di deflazione e far ripartire l'economia.

 

 

Fiat-Chrysler via da Torino per sempre. Marchionne,a quando la restituzione di 50 anni di cassaintegrazione a sbafo??

 

IL CAPITALISMO ITALIOTA SPAPPOLATO

Ansaldo Energia: il 40% a Shanghai Electric
"Obiettivo mercato asiatico e poi la Borsa"

 

Pirelli spolpata dal padrone delegato Tronchetti che comanda con soldi altrui

 

Uscita dall’euro: il metodo stamina della svalutazione

Tre le frange che propugnano l’uscita dall’euro, vale a dire il metodo Stamina per guarire dalla recessione, i supposti effetti miracolistico-salvifici della svalutazione costituiscono i bastioni retorici della propaganda.

Da un elemento semplice, che anche i meno istruiti credono di capire, nelle varie Lourdes “der webbe”, si imbastisce la mistica della guarigione ricorrendo ad un filo logico (si fa per dire) di questo tenore: i tedeschi sono efficienti, hanno un sistema Paese che funziona, un mercato del lavoro che crea occupazione, la scuola forgia competenze, si investe in ricerca, i politici pizzicati a copiare una tesi si dimettono, quelli corrotti sono una rarità, i grandi evasori fiscali finiscono in galera sul serio, non ad articolare riforme costituzionali. Noi italiani invece ci troviamo metà Paese in mano alle mafie, i leader di tre partiti sono pregiudicati, la corruzione è diffusa, la burocrazia è demenziale, la giustizia è una tragica barzelletta, la scuola è un somarificio, la ricerca langue, le tasse sono confiscatorie. Però noi Italiani, quintessenza della furbizia, fotteremmo tutti con svalutazioni a getto continuo. In tal modo sparirebbe d’incanto il divario con il mondo civile, l’economia si  risolleverebbe senza dover riformare alcunché, i ladri potrebbero continuare a rubare e governare senza conseguenze di sorta. Però i maledetti tedeschi per impedire il dispiegarsi di cotale sopraffina furbizia hanno ordito un subdolo complotto avvalendosi di complicità oscure tra banche, Bilderberg, Trilaterale, gnomi del signoraggio e WTO (mentre si indaga sul ruolo delle Sirene).

Inoltre se solo si potesse accumulare altro debito pubblico avremo un’economia da sogno e un futuro di bagordi tra Montecarlo e Acapulco con il reddito di cittadinanza finanziato da vagoni di moneta filosofale.

Contro la stamina eurexit purtroppo i Guariniello non possono intervenire, anche se – come le iniezioni di intrugli che non guariscono malattie incurabili – la flessibilità del cambio non influisce sulla produttività dell’economia reale (l’unico fattore di crescita sostenibile e di benessere).

Una spiegazione densa ed esaustiva in merito si trova in due articoli a questo link e a quest’altro. Se avete difficoltà con numeri e logica, un viaggio in Argentina, in Venezuela o in Yemen dovrebbe convincervi. Oppure basta un’occhiata ai dati giapponesi: dopo la svalutazione del 30% dello yen il deficit commerciale ha toccato livelli record quadruplicando in un anno e senza miglioramenti in vista.

Ma i Vannoni prestati all’economia e i negazionisti dell’euro insistono che il tasso di cambio dell’euro ha colpito il sistema manifatturiero italiano. Sicuro? Iniziamo dai concetti elementari.

1) Il tasso di cambio tra due monete (alcuni usano il termine valute), ad esempio euro e dollaro, è la quantità di una moneta necessaria per comprare un’unità dell’altra. Oggi per comprare un euro servono circa 1,38 dollari.

2) Ogni moneta ha almeno un centinaio di tassi di cambio, quante sono le altre monete in circolazione nel mondo. Quindi l’euro in un anno, può rivalutarsi rispetto al dollaro e svalutarsi rispetto allo yuan cinese.

3) Il tasso di cambio definito al punto 1) è il tasso di cambio NOMINALE. In realtà quello che davvero conta è il tasso di cambio REALE di cui non si fa cenno nei “toc sciò” per telelobotomizzati.

4) Il tasso di cambio REALE è il tasso di cambio nominale diviso per il livello dei prezzi nei due paesi. Che significa? Lo spiego con un esempio. Comprereste un’auto prodotta in Argentina, perché il tasso di cambio euro-peso si è dimezzato? Chi crede al metodo stamina forse risponderebbe di si. Ma se il prezzo in peso dell’auto prodotta in Argentina fosse triplicato, a dispetto della svalutazione, non vi sarebbe nessuna convenienza.

 5) Ergo va considerato il cambio REALE con tutti i paesi con cui l’Italia ha relazioni commerciali, cioè l’indice del tasso di cambio REALE EFFETTIVO. Che significa? Che se l’Italia, poniamo, esportasse per metà verso gli USA e per metà verso il Giappone, il tasso di cambio reale effettivo sarebbe una media dei tassi di cambio REALI tra euro e dollaro e tra euro e yen. Nella realtà il tasso di cambio reale effettivo è una media di decine di tassi di cambio reali. Questo articolo nel Bollettino Economico della Banca d’Italia spiega come viene calcolato per l’Italia, questo articolo della BCE spiega le varie differenze metodologiche. 

L’impero della finanza alla prova delle Europee

 | 27 aprile 2014

Notizie ed analisi contrastanti continuano a caratterizzare l’economia mondiale e quella italianain particolare ed a riempire le prime pagine dei giornali. Per l’agenzia Fitch la recessione in Italia si è conclusa e quindi venerdì ha rivisto al rialzo le prospettive (outlook) della Penisola portandole da una valutazione “negativa” “stabile. La capitalizzazione delle banche italiane è migliorata, sempre secondo Fitch, peccato che nel rapporto non si spieghi come ciò sia avvenuto, dando allaBanca d’Italia il potere di trasformare parte del patrimonio nazionale (di cui il popolo è proprietario) in capitale bancario, una mossa che ha prodotto una ricapitalizzazione ed il corrispondente aumento del valore dei pacchetti azionari di chi ne è proprietario, tra cui le grosse banche commerciali italiane.

Negli Stati Uniti intanto ha grande successo il libro di Thomas Pikkety, che non solo dimostra la fallacità delle teorie neo-liberiste in termini di benessere economico ma suggerisce un sistema di tassazione mondiale per alleviare a disgustoso sistema di sperequazione dei redditi prodotto dal sistema economico mondiale gestito in primis dall’alta finanza di cui le agenzie di rating come Fitch fanno parte

C’è poi chi parla addirittura di nuovo apartheid in relazione ai privilegi connessi con il censo. Come nel lontano Medioevo chi nasce ricco ha vantaggi che chi nasce povero o semplicemente all’interno di una famiglia della classe media non avrà mai. 

Alcuni dati sembrano contraddire l’entusiasmo per la ripresa europea: circa 26 milioni persone sono ancora disoccupate ed in molte nazioni, come la Grecia, salari e pensioni sono stati ridotti all’osso, infine il debito pubblico continua a salire. Nel 2013 quello italiano è aumentato raggiungendo quota 132,2 per cento del Pil, bastano questi numeri per farci dubitare della validità della formula lacrime e sangue applicata da Bruxelles.

Per chi poi voglia conoscere la verità si consiglia di andare a fare la spesa al supermercato e confrontare il potere d’acquisto odierno con quello di 10 anni fa, oppure mettere a confronto lebollette della luce e del gas o quanto costa un pieno di benzina. Ormai il benessere delle masse non interessa più a nessuno, neppure ai politici che da una parte usano i giudizi degli organi dell’alta finanza, come le agenzie di rating, o soprannazionali, come il Fondo monetario o l’Unione Europea, per legittimare il loro operato ed una abilissima propaganda verbale per convincere l’elettorato che sono dalla parte del popolo.

A ridosso delle elezioni europee è bene riflettere su tutti questi punti, chi ci dice che i candidati faranno ciò che promettono durante la campagna elettorale? Ancora più incerti sono iprogrammi d’azione. In fondo il ruolo del Parlamento europeo è molto limitato, può sì esprimere giudizi ma non governa; chi dirige l’Unione è la Commissione che certamente non è eletta dal popolo ma dalla macchina burocratica europea e dai leader dei paesi membri, a loto volta ‘aiutati’ economicamente nelle campagne elettorali dall’élite del denaro.

Forse la propaganda maggiore è proprio quella che ci vuole far credere nel funzionamento della macchina democratica nel regime imperiale dell’alta finanza.

Pil: crescere nonostante la deflazione sarchiaponica

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Al pari del Sarchiapone nell’indimenticabile scenetta di Walter Chiari, Carlo Campanini e Ornella Vanoni, la deflazione è un classico spauracchio per suscitare ad arte paure di sconquassi e incanalare acqua putrida verso mulini parolai che macinano argomenti senza costrutto.

Al pari del Sarchiapone, è sconosciuto il motivo plausibile per cui prezzi in discesa sarebbero una iattura. Qualcuno soffre perché la benzina non costa più due euro? O perché i cellulari valgono ormai come tre pacchetti di sigarette e due di caramelle? Misteri dei corto circuiti logico-cognitivi già illustrati, da un punto di vista speculare, nel post sulla “leggenda dell’inflazione stimolatoria“.

Al pari di Walter Chiari, che per impressionare i compagni di viaggio spacciava, con tono magniloquente e assertivo, il suo sapere in fatto di sarchiaponi (sia americani che asiatici, precisava), un’eccelsa scuola di pensiero sostiene che la gente in tempi di deflazione rimanda gli acquisti in attesa di affari più ghiotti e di conseguenza inevitabilmente il Pil collassa. Secondo le teorie sarchiaponiche si rinuncerebbe al ristorante perché fra 6 mesi la carbonara costerà l’1,35% in meno? Oppure non si mandano le camicie con patacche di unto e salsa in lavanderia in attesa del ritocco dei listini? E le signore si acconcerebbero a vestire tailleur sdruciti e collant smagliati? O magari si procrastina la visita dal medico tanto fra tre mesi la parcella sarà più lieve? 

Obnubilata dagli effetti stroboscopici dei millenarismi sarchiaponici, la logica si fa evanescente e lo scompartimento ferroviario assurge a cenacolo intellettuale. Eppure la deflazione l’abbiamo sperimentata per decenni in tanti settori, dai computer all’elettronica, alle telecomunicazioni. Non mi risulta che non si vendano smartphone o tablet, anzi per tali oggetti la gente fa la fila e si accampa la notte fuori dai negozi. Ne ho conoscenti in astinenza da cellulare perché il prossimo trimestre le tariffe saranno più convenienti o che reprimono il desiderio di vacanza pregustando il biglietto aereolowest cost. E che dire degli abbonamenti internet? Si segnalano milioni di aspiranti utenti in paziente attesa di sconti? 

Per prevenire il riflesso condizionato di quanti, in perenne conflitto con l’ovvio, invocano i mitici dati, esiste una ricerca pubblicata nel 2004, in tempi non sospetti, da Andrew Atkeson e Patrick Kehoe intitolata “Deflation and depression: is there an empirical link?” (Deflazione e depressione: esiste un legame empirico?). I dati esaminati coprono 17 paesi lungo quasi due secoli dal 1820 fino al 2000.

Tolto il periodo 1929-34 (su cui dirò in seguito) in circa il 90% dei casi in cui venne registrata una caduta generalizzata del livello dei prezzi non vi fu alcuna recessione. Solo in 8 casi su 73 la deflazione fu associata a una caduta del Pil. Inoltre, in 8 depressioni sulle 29 esaminate non vi fu alcuna deflazione. Insomma il legame tra deflazione e decrescita del Pil è fievole. Se poi si eliminano dal campione gli episodi di depressione senza deflazione legati alle due guerre mondiali e all’immediato dopoguerra, il legame svanisce in un tenue singulto statistico.

Allora da dove si alimenta lo spauracchio? In buona sostanza da ciò che avvenne durante la Grande Depressione in America. È  il caso menzionato e studiato ad libitum, su cui l’interpretazione considerata quasi universalmente definitiva si deve alla Storia Monetaria degli Stati Uniti (1867-1960) di Milton Friedman e Anna Schwartz. Al dilettantismo della Fed si aggiunse il protezionismo cialtrone e la Grande Depressione si propagò in tutto il mondo (a questo link, pag. 41, si trova un’esposizione in italiano). Le serie storiche a disposizione su quel periodo coprono 16 paesi. Tutti registrarono una deflazione, ma solo in 8 vi fu una depressione.

Conclusione di Atkeson e Kehoe (pag. 6): l’esperienza storica insegna che “ci sono stati molti più periodi di deflazione con crescita ragionevole che con depressione e molti più periodi di depressione con inflazione che con deflazione”.

Gli autori fanno notare che dall’immediato dopoguerra si è verificato un solo caso di deflazione: inGiappone. Tuttavia crescita ed inflazione erano su un trend decrescente sin dagli anni ‘60 e ’70, rispettivamente. Quindi è difficile attribuire alla politica monetaria un fenomeno strutturale dipanatosi lungo 40 anni. Se poi si attua un confronto internazionale, negli anni ‘90 la crescita del Giappone fu in media dell’1,41%, non troppo diversa da quella dell’Italia 1,61% (dove l’inflazione era sostenuta), o della Francia 1,84% dove rimase moderata.

Ad ogni modo oggi in Eurolandia l’inflazione annuale è bassa, non negativa, con l’eccezione di Grecia e Cipro e in misura lieve in Spagna, Portogallo e Slovacchia (insieme a paesi fuori della moneta unica, come la Svizzera o la Svezia, di certo non in crisi). Pur adottando politiche monetarie diverseEurolandia e Usa hanno tassi di inflazione simili (idem per i deflatori del Pil, nel 2013 rispettivamente 1,54% e 1,64%). La frenata dell’inflazione finora deve molto al fatto che i prezzi delle materie prime ristagnano, fenomeno per quale immagino nessuno si dolga. Le previsioni e le aspettative insite nei rendimenti dei titoli a reddito fisso indicano un’inflazione in risalita.

C’è però qualcuno a cui la bassa inflazione duole: i governi e in parte alcune banche. Senza inflazione i debiti non vengono erosi dall’illusione monetaria e il torchio del fiscal drag sui contribuenti si inceppa. Le tasse non aumentano più senza dover sfidare l’impopolarità di aliquote maggiorate e gli sprechi pubblici bisogna davvero ridurli, senza cortine fumogene nominali. Ecco da dove si amplifica la grancassa della deflazione sarchiaponica per continuare nei propri comodi, come faceva sul treno lo scaltro personaggio della scenetta a danno dei gonzi.

ANCORA SU FISCAL COMPACT E SIX PACK

Tutto ha un limite. Persino la severità di Berlino e Bruxelles in fatto di bilanci pubblici. Un fiscal compact che davvero contemplasse tagli annuali per decine di miliardi di euro sarebbe la pietra tombale su qualsiasi velleità di ripresa economica della zona euro. In realtà su questo accordo messo in cantiere ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi e poi siglato da Mario Monti sono fiorite interpretazioni inesatte che in alcuni casi sono sfociate in ipotesi da far accapponare la pelle. Come quella stando alla quale dovremmo fare 50 miliardi di tagli ogni anno per vent’anni. Una lettura attenta dei documenti suggerisce conclusioni più prudenti: la camicia di forza Ue – o la sana gestione dei conti, a seconda dei punti di vista – potrebbe costarci tra i 5 e i 7 miliardi di euro. Le critiche sull’eccesso di austerità imposto da Bruxelles sono legittime. Il continuo sovrapporsi e avvicendarsi di norme e trattati con dentro regole complesse crea oggettivamente confusione. E’ però sbagliato pensare che il fiscal compact, che sarà applicato dal 2015 e produrrà effetti dal 2016, comporti stravolgimenti. Le nuove regole possono diventare una zavorra, ma non una pietra al collo. Partiamo dall’inizio: giuridicamente il fiscal compact è un trattato internazionale che deve essere espressamente recepito dagli Stati membri. Non si tratta cioè di un atto normativo dell’Unione europea che come tale entra automaticamente (o quasi) nella legislazione nazionale. I contenuti sono in sostanza quelli previsti dal cosiddetto “Six Pack” della Commissione europea (il pacchetto di misure entrato in vigore nel 2011): un sentiero di riduzione del debito pubblico in eccesso e limiti ai deficit tarati sulle specificità dei singoli Paesi, ma un po’ più severi rispetto alla semplice regola del 3 per cento.

La regola del debito – E’ lo spauracchio di molti commentatori, ma si tratta di un vincolo molto più morbido di quanto possa sembrare. E, peraltro, già contemplato da tempo nei trattati europei. I Paesi con un debito che supera il 60% del Pil devono ridurre la parte eccedente di un ventesimoogni anno fino a riportarlo al di sotto di questa soglia. La regola può effettivamente generare confusione e ha dato origine all’equivoco più grande. Siccome l’Italia ha un debito di 2.107 miliardi di euro, più del 132% del Pil, si è pensato che dovesse ridurlo di circa mille miliardi (la parte eccedente il 60%, appunto) di un ventesimo l’anno: i famigerati 50 miliardi. In realtà la diminuzione che interessa è quella del rapporto tra il debito e il Pil, non del suo valore assoluto. Ossia: se il Pil cresce, il debito può restare comunque oltre i 2.100 miliardi (o persino salire) e in proporzione scendere comunque. Non solo. Il valore del prodotto interno lordo da utilizzare ai fini della regola del fiscal compact non è quello “reale”, di cui si legge abitualmente sui giornali (per esempio: nel 2014 il Pil italiano crescerà dello 0,7%) ma quello nominale, cioè non depurato dagli effetti dell’inflazione. Per esempio, se in un dato anno la crescita economica è pari allo 0,5% e i prezzi aumentano dell’1% il Pil nominale crescerà dell’1,5 per cento. Questo offre margini aggiuntivi per ridurre il quoziente debito/pil senza tagli alla spesa. Ovviamente i margini saranno più ampi in periodo di forte crescita economica e/o alta inflazione, minori se, come accade ora in Italia, la crescita è asfittica e l’inflazione è bassa. Inoltre, spiega Angelo Baglioni, economista dell’università Cattolica di Milano, il ritmo di discesa del debito (il famoso ventesimo, ndr) viene ricalcolato ogni anno sulla base del triennio precedente. Quindi, se il debito inizia a scendere la quota da ridurre si assottiglia via via: se ho un debito di 200 e lo riduco di un ventesimo arrivo a 190, quindi l’anno successivo il ventesimo richiesto non sarà più 10, ma 9,5. Inoltre, essendo calcolata come media annuale del triennio la riduzione può essere nulla se si prevede che l’anno successivo sarà di un decimo.

Per farsi un’idea, si consideri che alcune simulazioni hanno evidenziato come con un debito al 120% del Pil sarebbe sufficiente una crescita nominale (Pil reale + inflazione) del 2,6% per ottenere automaticamente una riduzione del debito pari al ventesimo richiesto dal fiscal compact. Si tenga presente poi che tra il 2000 e il 2007 la crescita nominale italiana è stata in media del 3,6% annuo. Prendiamo per buone le stime dell’Fmi, stando alle quali nel 2015 il Pil reale italiano salirà dell’1,1% e l’inflazione dell’1 per cento. L’incremento del Pil nominale dovrebbe essere quindi del 2,1 per cento. Mancherebbe quindi uno 0,5%-0,7% per ottenere una crescita sufficiente ad abbattere il debito di un ventesimo. Si parla insomma di 7-10 miliardi di euro, ammesso che il gap non venga compensato nei due anni successivi. Fin qui tutto bene, o quasi. Che cosa succederebbe, però, in una situazione come quella del 2013, quando per effetto del calo del Pil reale e della bassa inflazione il Pil nominale è addirittura arretrato? In teoria, ma solo in teoria, una puntuale applicazione della regola comporterebbe effettivamente esborsi nell’ordine di decine di miliardi di euro. Sono tuttavia previste una serie di circostanze attenuanti che sospendono l’applicazione del vincolo in situazioni di particolare difficoltà, precisa Giuseppe Pisauro, economista dell’universitàLa Sapienza. Tra queste tutti i fattori che condizionano il ciclo economico e allontanano l’economia di un paese dal suo potenziale di crescita.

Pareggio strutturale e deficit – Le nuove regole europee in materia di bilanci pubblici ribadiscono il limite del deficit al 3% del Pil ma aggiungono un nuovo parametro. Che è, questo sì, lavera novità del fiscal compact. Si tratta del fatto che il deficit strutturale non deve superare lo 0,5% del Pil (l’1% per i paesi più virtuosi). Il deficit strutturale è quello calcolato tenendo conto deglieffetti del ciclo economico: per esempio considera se il calo delle entrate dello Stato o l’aumento della spesa per sussidi di disoccupazione è temporaneo e legato a una fase di crisi. Detto in altri termini, un Paese è in deficit strutturale se le spese sono superiori alle entrate anche ipotizzando che l’economia marci al massimo delle sue potenzialità. Qui però sorgono non pochi problemi: quantificare l’ipotetica crescita potenziale è estremamente complesso e non mancano gli elementi diarbitrarietà. Un recente studio degli economisti Stefano Fantacone, Petya Garalova e Carlo Milani pubblicato su lavoce.info ha messo in luce come in tal senso stiano prevalendo orientamenti piuttosto penalizzanti nei confronti dell’Italia.

Le vere cifre – In condizioni normali (dove per normale si intende una crescita nominale del 2-2,5%) il pareggio strutturale, spiegano fonti dell’Unione europea, è in linea di massima sufficiente per garantire il ritmo di riduzione del debito richiesto dal fiscal compact. La regola sulla riduzione del debito diventerà pienamente operativa dal 2016 e fino a quella data il parametro che viene tenuto sotto sorveglianza è appunto il pareggio strutturale. Su questo fronte potrebbe emergere qualche difficoltà. Dalla Ue non si sbilanciano su quello che ciò potrebbe comportare in tema di aggiustamento dei conti (attraverso tagli o nuove tasse) negli anni a venire. Ricordano però come, rispetto a quanto previsto nell’ultima legge di stabilità, siano ritenuti opportuni interventi aggiuntivi di aggiustamento pari allo 0,4 – 0,5% del Pil, ossia tra i 5 e 7,5 miliardi di euro. Secondo Fedele De Novellis del centro Ref ricerche, le stime del governo sull’evoluzione dei conti pubblici partono da due assunzioni molto favorevoli ma contraddittorie. Si prevedono infatti sia un’accelerazione dellacrescita economica sia tassi di interesse sui titoli di Stato a livelli bassissimi, anche per effetto delle misure messe in campo dalla Bce proprio per sostenere la crescita. La vera difficoltà, continua De Novellis, non è tanto quella di raggiungere il pareggio di bilancio strutturale quanto il modo in cui ci si arriva. Farlo mentre si cerca di abbassare la pressione fiscale è ovviamente più complicato.

Le sanzioni – Che cosa succede se un Paese non rispetta i vincoli di bilancio? In teoria, se il debito in eccesso non scende può essere sanzionato anche se presenta un deficit “a norma” (entro il 3% del Pil). L’eventuale avvio della procedura viene però deciso tenendo conto dei fattori che influenzano il ciclo economico e valutando tre parametri: deviazione dal Pil potenziale, riduzione rispetto ai tre anni precedenti, prospettive per i tre anni successivi. Soltanto se lo Stato sotto esame è fuori dai parametri da tutti e tre i punti di vista possono scattare le sanzioni. Che devono comunque essere votate dal Consiglio europeo e precedute da una serie di avvertimenti. Un iter barocco e tortuoso il cui esito rischia di essere quello della montagna che partorisce il topolino.

Cina, la finanza ombra che droga la crescita

A quasi sette anni dal fallimento di Bear Stearns, la Sarajevo della Grande Recessione, mentre l’economia globale arranca su un impervio sentiero di normalizzazione, la coltre di silenzi ufficiali non riesce a ovattare sussurri e grida provenienti dai grattacieli di Shanghai e dai corridoi di Pechino su un “sistema bancario ombra”, composto da trust companies (fiduciarie) opache, senza controlli e malgestite. Dato che i depositi bancari offrono tassi irrisori perché compressi dalla Banca centrale, queste fiduciarie promettono rendimenti allettanti in tempi di inflazione persistente.

 

I fondi – raccolti da risparmiatori convinti di godere di garanzie statali – spesso finanziano palazzinari in bolletta, aziende pubbliche alla canna del gas (ad esempio miniere di carbone o acciaierie) e direttamente o indirettamente autorità locali disinvolte. Sul fenomeno governo e Banca centrale avevano sostituito saracinesche alle palpebre, illudendosi che la crescita impetuosa, a cui le fiduciarie fornivano propellente, avrebbe mondato le conseguenze nefaste. In cinque, ruggenti, anni il debito totale in Cina, secondo l’agenzia Fitch, si è gonfiato fino a raggiungere il 220 per cento del Pil a fine 2013, dal 130 per cento nel 2008, un aumento che in valore assoluto risulta pari all’intero settore bancario degli Usa. Metà di questo aumento andrebbe attribuito alla finanza ombra.

Purtroppo gli steroidi macroeconomici da investimenti sballati (pubblici o privati) si sciolgono sempre in una valle di lacrime e la Cina del laissez-faire comunista non fa eccezione. Persino ilFmi (di solito tenero con la Cina) ha avvertito che gli attivi marcescenti vanno rimossi e le catene di Sant’Antonio spezzate. Le autorità da qualche mese hanno intrapreso l’ingrato compito. Seguendo il dettato maoista sul colpirne uno per educarne cento hanno lasciato fallire alcuni pesci piccoli, effetti scenici ribattezzati “Potemkin defaults” dalle avanguardie della blogosfera che hanno sostituito quelle del proletariato. Gli squali grossi invece vengono neutralizzati con cautela e circospezione attraverso salvataggi coordinati, ad evitare un corto circuito stile Lehman. Inoltre i nuovi investimenti nelle trust companies non possono essere più utilizzati per pagare i rendimenti di quelli vecchi  e ad ogni investitore va assegnato un  conto segregato che fornisca dettagli sulle singole esposizioni piuttosto che il riferimento opaco ad un portafoglio di titoli malamente assemblato. 

Questo desiderio di ramazza però confligge con un vincolo psico-politico pavloviano. Appena lacrescita del Pil si sgonfia verso il 7% per cento (cifra ufficiale, quella reale sarebbe sotto il 5) ai ministri cinesi appare minaccioso lo spettro delle rivolte. Quindi parte un’altra ondata di credito allegro che genera altri prestiti dubbi, altri immobili vuoti, altra capacità industriale obsoleta, altre infrastrutture costose. A fine 2013 si stimava a 1800 miliardi di dollari il totale degli attivi delle fiduciarie. Per quanto la cifra sia astronomica, la Cina, oltre a misure emergenziali di politica monetaria, mantiene riserve valutarie per 4 mila miliardi di dollari e potrebbe in teoria affrontare una crisi di questa portata. Ma il grosso di queste riserve sono detenute in titoli del debito pubblico Usa. Se da Pechino a New York può deflagrare il battito d’ali di una farfalla, figuriamoci una tale batosta.

La riscossa di Grecia e Portogallo:
Atene in surplus, Lisbona torna sui mercati

L'economia ellenica ha anticipato i target di avanzo primario, con 1,5 miliardi nel 2013. Lisbona emette bond decennali al 3,5% di rendimento, raccogliendo una grande domanda e spianando la strada all'uscita dal piano di salvataggio, prevista per il 17 maggio

 

MILANO - Conti pubblici in miglioramento e riconoscimento internazionale, attraverso il test delle aste di titoli di Stato. Le economie "salvate" di Grecia e Portogallo fanno passi avanti in direzione della normalizzazione, se così si può definire quella dei mercati finanziari. Resta infatti tesissima la situazione sociale, con i principali indicatori (dal crollo dei consumi al volo della disoccupazione) a dimostrare quanto la popolazione viva ancora i lacci della crisi economica.

Ma oggi si registra una doppietta di notizie incoraggianti, sia da Atene che da Lisbona. La Grecia è riuscita a raggiungere un avanzo primario (esclusi gli interessi sul debito e gli oneri una tantum) nel 2013 pari a 1,5 miliardi di euro. Lo ha annunciato ad il vice ministro delle Finanze, Christos Staikouras. La Commissione europea ha, poi, confermato questa informazione parlando di "un avanzo primario dello 0,8% del Pil". "Sono trascorsi esattamente quattro anni da quando il Paese ha richiesto il salvataggio" ha osservato il ministro nel corso di una conferenza stampa "e la Grecia è riuscita oggi ad avere un avanzo primario prima delle stime che sono state fatte. Gli sforzi del governo sono stati riconosciuti e anche i sacrifici del popolo greco".

I creditori internazionali di Atene, rappresentati Talla troika (Ue, Bce e Fmi), avevano affermato che un avanzo primario della Grecia avrebbe dato al Paese il diritto di procedere ad un ulteriore sollievo del peso del debito. Le discussioni in merito

tra governo e creditori dovrebbero concludersi nella seconda metà del 2014. Molti analisti si aspettano che l'Eurozona possa abbassare i tassi di interesse che la Grecia paga sui prestiti ricevuti o che ad Atene possa essere concesso più tempo per onorare gli impegni con i creditori.

Altre notizie di distensione arrivano dal Portogallo: ha collocato titoli decennali per 750 milioni con tassi di interesse al 3,575%, alla sua prima emissione a lungo termine regolare, senza un sindacato di banche, dal piano di salvataggio finanziario nel 2011. L'operazione, caratterizzata da una forte domanda degli investitori (per 2,6 miliardi) e tassi ai minimi da otto anni, è stato un test cruciale nei mercati in vista della conclusione, il 17 maggio, del piano di salvataggio negoziato tre anni con l'Unione europea e il Fondo monetario internazionale. Certo, a favore di questo successo gioca anche la sovrabbondanza di liquidità in cerca di rendimenti sul mercato. Ma intanto Lisbona incassa il dividendo dei suoi piani lacrime e sangue.

 

Boeri e Zingales: un po’ debolucci in storia economica o matematica

Boeri e Zingales: un po’ debolucci in storia economica o matematica

L’articolo di Tito Boeri “Quanto costa uscire dall’euro” su la Repubblica di lunedì scorso (7-4-2014 pag. 1 e 23) s’è subito attirato i giusti strali di Alberto Bagnai.

Ma a ben vedere non c’è solo l’assurdità di presentare come monetizzazione del debito pubblicol’emissione di assegni circolari o addirittura bancari. Come con le ciliege, qui un errore ne tira l’altro. Scrive infatti Boeri:

“…abbondiamo di esempi storici di monetizzazione del debito. Basti pensare ai mini-assegni sul finire degli anni ’80 scambiati in fretta e furia prima che perdessero valore, un surrogato di una moneta che ogni giorno vedeva erodersi il proprio potere di acquisto, con un’inflazione a due cifre”.

Ebbene:

1.   Non è vero che a fine anni ’80 l’inflazione fosse a due cifre prima della virgola: era a una sola, per es. al 4,5% nel 1987 o al 7% nel 1989; e rimase anche dopo sotto il 10%;

2.   I miniassegni non circolarono allora, bensì dieci anni prima negli anni 1976-77.

3.   Non erano surrogati di una moneta che vedeva erodersi il potere d’acquisto, bensì semplicemente delle monete metalliche da 50 e 100 lire, in numero insufficiente;

4.   Non vennero scambiati “in fretta e furia”, ma versati tranquillamente in banca all’arrivo di monete in misura sufficiente nel 1978-79 (salvo quelli conservati dai collezionisti, vedi tre esempi).

Certo che questi sommi economisti, onnipresenti sulla carta stampata o in televisione, potrebbero fare un po’ più d’attenzione. Vedi Luigi Zingales che – sempre riguardo all’uscita dall’euro – affermava riguardo al debito per esempio della società Terna:

“Siccome la lira si svaluterebbe del 30-40% rispetto all’euro, questo equivarrebbe a un aumento effettivo del debito di Terna del 30-40%” (l’Espresso, 5-5-2012 pag. 35).

Ebbene no, l’aumento sarebbe del 43-66%, che fa già una certa differenza. Se la valuta A perde il 40% rispetto alla valuta B, dopo ce ne vuole dopo il 66% in più per comprare la stessa quantità di B. Lo si capisce subito pensando a una perdita del 50%: dopo ce ne vuole il doppio ovvero in 100% e non solo il 50% in più.

 di Beppe Scienza

La paralisi deflattiva della BCE guida Italia, Francia e Spagna nelle trappole "morse" del debito Movimento 5 Logge alla luce del sole

Da The Telegraph del 2 aprile 2014
La paralisi deflattiva della BCE guida Italia, Francia e Spagna nelle trappole del debito. Francoforte potrebbe in qualsiasi momento rimettere in carreggiata l'euro, mostrando una ferma volontà di reagire alla situazione attuale, ma ha scelto di non farlo.
E la Banca Centrale Europea gliel'ha consentito. Negli ultimi cinque mesi, la deflazione è avanzata a un tasso annuo pari a -1.5% nell'Eurozona, in conseguenza delle tasse imposte dalle misure di austerity.
In base ai miei calcoli approssimativi (annualizzati), partendo dai dati mensili di Eurostat, da settembre i prezzi sono calati al ritmo del 6.5% in Grecia, del 5.6% in Italia, del 4.7% in Spagna, del 4% in Portogallo, del 3% in Slovenia e quasi del 2% in Olanda.
Il rialzo dell'euro rispetto a dollaro, yen, yuan e alle valute di Brasile, Turchia e paesi asiatici in via di sviluppo, è in parte responsabile di questa deflazione importata. Il trade-weighted index di Eurolandia è salito del 6% in un anno.
Ma questa non può essere una scusante: si tratta di una conseguenza diretta della politica monetaria della BCE. Francoforte potrebbe in qualsiasi momento rimettere in carreggiata l'euro, mostrando una ferma volontà di reagire alla situazione attuale. Ha scelto di non farlo, nella speranza che qualche parola di pace pronunciata senza convinzione possa in qualche modo invertire la tendenza globale.
È arduo stabilire quale sia il punto in cui la deflazione si inserisce nel sistema. Dalla metà del 2012, i prezzi alla produzione si sono notevolmente ridotti e la tendenza si è velocizzata a febbraio, raggiungendo una percentuale pari a -1.7%:il declino più vertiginoso dalla crisi Lehman. Ma questa volta non si tratta della diretta conseguenza di un crac finanziario: il fenomeno è cronico, e più insidioso.
Il professor Luis Garicano, della London School of Economics, ha affermato che i modelli economici utilizzati per prevedere l'inflazione appaiono fuorvianti e comportano una serie di errori di valutazione. "Sono necessari interventi molto seri," ha dichiarato.
Laurence Boone e Ruben Segura-Cayuela, della Bank of America, affermano che il loro indice di "sorpresa inflattiva" continua a scendere man mano che l'eurozona viene scossa da uno shock dietro l'altro, mentre il loro misuratore della "vulnerabilità deflazionistica" ha cominciato a lampeggiare in rosso per la maggior parte dei paesi della UEM.
L'effetto è pesantemente corrosivo, anche se la regione non è mai entrata in deflazione tecnica. La “lowflation” (bassa inflazione), vicina allo 0,5%, può scombinare le traiettorie del debito, se prolungata, portando nuovamente l'Europa verso una crisi debitoria. "La più pericolosa minaccia per le dinamiche del debito pubblico è un'inflazione inferiore alle aspettative. Anche solo un'inflazione più bassa del previso, non una deflazione, comporterebbe un significativo deterioramento delle finanze pubbliche dei paesi”, ha affermato.
Secondo la banca, una “lowflation” prolungata potrebbe provocare un aumento dei rapporti di indebitamento entro il 2018, il che comporterebbe un aumento di 10 punti percentuali del debito sul PIL in Francia (105%), di 15 in Italia (148%), e di 24 punti in Spagna (118%).
Questi paesi hanno di fronte un'impresa di Sisifo: qualsiasi risultato ottengano dall'austerità verrà sbaragliato dalla forza maggiore della deflazione del debito. Lo stesso "effetto denominatore” – con il peso del debito che aumenta più velocemente del PIL nominale – ingolferà anche il settore privato, che è ancora il tallone di Achille in Spagna, Portogallo e Irlanda.
Secondo Moody's , la "bassa inflazione" (dallo 0.5 all'1% fino al 2018) "rinnoverebbe la preoccupazione sulla sostenibilità del debito”, serrando lamorsa sulle famiglie e sulle aziende con debiti a tasso fisso. Eroderebbe, inoltre, gli asset bancari, comportando nuovi fallimenti delle banche, e colpirebbe gli assicuratori sulla vita per discrepanze sulle scadenze. "Evitando una decisa deflazione non si proteggerà completamente l'eurozona da uno shock: la combinazione di bassa crescita e bassa inflazione ha un impatto significativo su tutti i settori dell'economia", ha affermato.
Secondo l'affermazione di Reza Moghadam, del Fondo Monetario Internazionale, anche l'inflazione allo 0.5% minaccia di "soffocare la nascente ripresa" dell'Europa. Aggrava, inoltre, il divario nord-sud, rendendo ancora più difficile al Club Med il recupero della competitività persa. Gli stati indebitati dovranno apportare svalutazioni interne ancora più drastiche per riguadagnare terreno, ma ciò spingerà in alto i loro rapporti di indebitamento. "Ogni punto di aggiustamento relativo dei prezzi dovrà essere perseguito a costo di una maggiore deflazione del debito", ha dichiarato.
Un'inflazione molto bassa può avvantaggiare importanti segmenti della popolazione, principalmente i risparmiatori netti, ma nel contesto odierno dei problemi dovuti al diffuso indebitamento, va a detrimento della ripresa dell'eurozona, soprattutto nei paesi più fragili, dove vanifica gli sforzi per ridurre il debito", ha affermato.
Una volta compreso questo aspetto fondamentale, e cioè che “vanifica” gli sforzi per controllare il debito, la spettacolare idiozia della politica dell'UEM diviene palese. L'austerity così concepita è controproducente. Il fallimento principale è stato il rifiuto della BCE di controbilanciare le conseguenze della contrazione con uno stimolo monetario sufficiente per fare in modo che il PIL nominale crescesse più rapidamente dello stock del debito in Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia, ma non solo in questi paesi.
Ancora una volta, la BCE avrebbe potuto agire in modo diverso, ma ha scelto di non farlo perché ciò avrebbe consentito che la sua politica monetaria venisse contaminata dai giudizi su rischi morali che esulano dal suo ambito, dalle dottrine premoderne delle banche centrali o dalla paura di quello che potrebbe dire o non dire la Germania.
Il suo fallimento è evidente soprattutto in Italia, dove il debito è saltato dal 119 al 133% dal 2010, malgrado la stretta fiscale draconiana e un avanzo primario di bilancio. Il premier rockstar Matteo Renzi ha preso possesso della sua carica come un ciclone, portando un New Deal dei primi 100 giorni che ha stracciato il copione dell'austerità, rischiando il tutto per tutto con le riforme dal lato dell'offerta e una scossa fiscale per far partire la crescita.
Antonio Guglielmi, di Mediobanca, ha riferito che i mercati stanno scommettendo che Renzi possa essere un "catalizzatore di discontinuità " capace di tirare fuori l'Italia dall'apparentemente implacabile trappola della bassa crescita, attivando un circolo virtuoso cha alla fine possa aumentare il limite di velocità dell'economia e tagliare i rapporti di indebitamento. Ma anche questo scommettitore fiorentinoalla fine può fare ben poco contro la follia granitica della costruzione UEM.
Mediobanca ha dichiarato che la sua missione ultima di salvare l'Italia è destinata al fallimento se la BCE non lancerà un Quantitative Easing per impedire la deflazione del debito, e se dovrà adempiere al Fiscal Compact dell'UE, costringendo così il paese a un surplus primario di bilancio del 6% del PIL per il prossimo anno. Secondo la banca, "Spetta a Renzi dare un messaggio chiaro e deciso a Francoforte sull'alleggerimento dell'austerità".
Scopriremo giovedì se la BCE è pronta ad affrontare la questione del QE, o qualsiasi altra questione. I prestiti alle imprese si stanno contraendo al ritmo del 3%. La BCE ha mancato il suo obiettivo di inflazione del 2% per 150 punti base, e continuerà a mancarlo di parecchio nel 2015 e nel 2016, in base alle sue stesse previsioni. Si potrebbe dire che stia violando pesantemente il suo mandato, per non parlare dei più vasti obblighi del Trattato per sostenere la crescita e gli obiettivi economici dell'Unione, ma ancora se ne sta con le mani in mano.
I critici hanno evidenziato che da anni la crescita dell'aggregato M3 tedesco si attesta costantemente tra il 4 e il 5% all'anno, ma non riescono a dire che la BCE imposta la sua politica monetaria esclusivamente sugli interessi di un paese, indipendentemente dal grado di devastazione degli altri paesi, devastazione che ora sta toccando anche Finlandia e Olanda. Se gli altri governatori sono così inerti o intimiditi dalla supremazia della Bundesbank da sopportare tutto questo, allora si meritano questo destino.
Forse ci sarà un leggero taglio dei tassi di interesse, o un tasso negativo sui depositi, o la fine dello sterilizzazione degli acquisti di obbligazioni; o un po' di polvere negli occhi che arriva con un anno di ritardo, che sarà gravemente insufficiente e che non farà alcuna differenza. Quando la deflazione si velocizza, ci vogliono iniziative più radicali per gestirla. Jens Weidmann, dalla Bundesbank, ha aperto le porte al QE in modo davvero tiepido, apparentemente per ragioni tattiche, ma le conseguenze politiche di una simile azione sono davvero punitive in Germania.
La Bundesbank non ebbe voce in capitolo nel piano di salvataggio della BCE del 2012 (OMT), ma la Germania sì, e tale circostanza spesso non è ben non compresa dagli analisti anglosassoni. Lo schema è stato progettato di concerto con il ministro tedesco delle finanze, con il pieno supporto della Cancelliera Angela Merkel. A una cena privata tre settimane prima dell'OMT, ho udito un alto funzionario tedesco dichiarare che "non vola una mosca nell'eurozona senza l'approvazione di Berlino", e non ho dubbi che ne fosse convinto. Così funziona l'UEM. Non ci sono segnali che lascino pensare che la signora Merkel sia pronta per un QE.
La BCE insiste nel dire che l'ultimo calo dell'inflazione sarebbe dovuto alla diminuzione dei costi dell'energia, e che pertanto sarebbe transitorio. Si tratta di un alibi sospetto. La BCE ha dimostrato l'opposto nel 2008, alzando i tassi in uno shock petrolifero basato sull'affermazione secondo cui gli effetti dell'energia non sarebbero passeggeri.
In ogni caso, alcuni dei principali analisti energetici mondiali affermano che il prezzo del petrolio ha appena iniziato a scendere, visto l'aumento della produzione di greggio. La produzione dell'Iraq ha raggiunto il suo massimo da 35 anni. Le esportazioni della Libia saliranno quando le milizie ribelli termineranno il blocco. Gli Stati Uniti potrebbero aggiungere 1 milione di barili al giorno per quest'anno, toccando gli 11 milioni. Un calo a 80 dollari del prezzo del barile sarebbe un toccasana per i redditi reali che sono in calo in mezza Europa, ma potrebbe anche liberare “aspettative inflattive”, un effetto simile a quello che colpì il Giappone negli anni '90.
I timori per la deflazione in Europa si placherebbero se fosse vero che siamo giunti all'apice di un nuovo ciclo di crescita economica globale. Se ciò sia vero, proprio mentre Cina e Stati Uniti si avvicinano, rimane da vedere. "Potremmo avere di fronte a noi anni di crescita lenta e inferiore alla attese", ha dichiarato questa settimana Christine Lagarde del FMI.
"Il rischio è che, senza una sufficiente ambizione politica, il mondo possa cadere in una trappola di bassa crescita a medio-lungo termine. L'area dell'euro ha bisogno di altro monetary easing, anche attraverso misure non convenzionali".
Potremmo anche essere vicini alla fine di un ciclo quinquennale globale, che Eurolandia ha ampiamente mancato a causa dei suoi errori. Se così fosse, la regione è solo a un passo dal precipitare in una piena deflazione, che porterà matematicamente l'Italia e altri paesi verso l'insolvenza, velocizzando una crisi del debito sovrano troppo grande per essere arginata. È una scelta politica. Ci sono ventiquattro uomini e donne che vogliono che tutto questo accada." Ambrose Evans-Pritchard

 

 

 

Microsoft, scade il sistema operativo Xp 
Panico nella pubblica amministrazione 

Dall'8 aprile non ci saranno più aggiornamenti automatici del software. La paura è che migliaia di computer diventino vulnerabili ai virus. A rischio soprattutto ministeri, comuni e ospedali. Ma anche le famiglie...

La data da segnare in rosso sul calendario è martedì 8 aprile. Da quel giorno il sistema operativo Windows XP non avrà più aggiornamenti automatici. Con la paura evidente che migliaia di computer diventino, nel giro di una notte, vulnerabili ai virus: la stima del rischio è difficile, ma è facile immaginare che un sistema che perde il supporto della casa madre non avrà più protezione contro falle di sicurezza  scoperte in futuro.

Il software lanciato da Microsoft nel lontanissimo 2001 è di un’altra era tecnologica, ma resta uno dei più diffusi in Italia, specialmente tra le imprese e nelle famiglie. Un parco pc aziendale con un sistema operativo ormai datato e superato, che nella pubblica amministrazione ha raggiunto la più alta diffusione: quasi l’80 per cento degli uffici hanno installato questo sistema operativo. Xp, nonostante lo sviluppo iniziato alle fine degli anni novanta, domina nei ministeri e nei comuni ed è usato da molti ospedali per gestire macchinari di analisi e terapia. Gli attacchi alla privacy e al sistema dei pagamenti è lo scoglio da superare per garantire la sicurezza ad Asl, ospedali e regioni che ogni giorno smistano milioni di dati sensibili.

UN ALTRO MILLENNIUM BUG?

«Dal 9 aprile ci sarà indubbiamente un rischio maggiore. Gli hacker si sono già dati appuntamento perché è questo è il momento da sfruttare»,  spiega Paolo Lezzi, esperto di sicurezza informatica e capo di Maglan Europe, multinazionale israeliana specializzata in materia di information security: «Ci aspettiamo una concentrazione di attacchi perché durante questa migrazione sono più vulnerabili».

Una chiamata alle armi via Web con obiettivo le work station di Xp. Sono il ventre molle dell’infrastruttura tecnologica, perché attaccando anche una sola postazione la si può usare come testa di ponte per distribuire un codice malevolo, mettendo fuori uso l’intero sistema di raccolta dati.

I cyber malintenzionati possono sfruttare l’occasione per prendere il controllo dei macchinari con poche mosse. La pubblica amministrazione ha difese standard: sono i Municipi di dimensione maggiore e la sanità che rischiano di più. È un potenziale nuovo Millennium bug (il difetto informatico scatenato dal cambio di data al capodanno del 2000 con il possibile crac mai avvenuto), con le società di protezione che sfruttano il momento moltiplicando gli annunci per rinforzare le difese: «Esistono oltre venti vulnerabilità non risolte da Microsoft e altrettante potrebbero saltare fuori con il pensionamento», conclude Lezzi.

«Abbiamo una politica standard di assistenza che dura 10 anni - commenta Claudia Bonatti, direttore di Windows Client di Microsoft Italia - la fine di questo glorioso sistema si conosceva da tempo e per tempo abbiamo fatto partire l’avviso grazie ad un sito ad hoc (windowsxp.it), un numero di telefono e formando più di 400 partner. Purtroppo gli enti locali hanno una gestione di budget “complicata”: la migrazione in sé ha dei costi ma se valuto i benefici mi ripago tutto in un anno».

I processi di migrazione dal vecchio al nuovo sono complessi e la domanda di partenza è sempre la stessa: l’hardware potrà supportare un sistema nuovo? Le soluzioni adottate sono diverse. Ecco cosa succederà a Milano e Genova.

PALAZZO MARINO CORRE AI RIPARI

A Milano sono cinquemila i computer che il Comune ha deciso di sostituire al più presto, per evitare disservizi negli uffici e rischi per la privacy dei cittadini. Sono tante le macchine che funzionano con il vecchio sistema prossimo alla pensione e solo ora si è deciso di programmarne la sostituzione.

«Circa metà dei computer installati negli uffici comunali montano sistemi operativi Windows 7 o superiori – confermano dalla direzione generale di Palazzo Marino, responsabile per i sistemi informativi - la sostituzione delle altre cinquemila macchine è in corso e sarà completata in tre mesi».

Meglio cambiarli che aggiornali: la soluzione più economica rispetto all'adeguamento delle vecchie macchine agli standard necessari per l'installazione di Windows 8. Perché nel frattempo è cambiato il mondo informatico e ora le nuove postazioni si comprano con poche centinaia di euro. Gli ultimi bandi per l'acquisto di modelli base sono stati assegnati a 219 euro per pezzo. Però cinquemila computer sono tanti. E non risulta che il Comune avesse previsto nell'ultimo bilancio questa spesa aggiuntiva da 1,1 milioni di euro, più l'aggiornamento dei software collegati: da quelli per la contabilità fino a quelli per la gestione delle multe.

In queste ore gli uffici dei Servizi informativi stanno verificando la compatibilità dei software in uso con il nuovo sistema operativo che andrà installato. Per ora l'indagine sembra dare risultati "non buoni". Il software che fa funzionare la macchina comunale è obsoleto, al punto che per i cittadini con sistemi operativi nuovi (Windows 7 o superiore) è spesso impossibile autenticarsi sul portale del Comune. Mentre il mondo cambiava con l’arrivo del wi-fi, smartphone e cloud nessuno si accorgeva che la macchina comunale rimaneva indietro.

CHI PRIMA CAMBIA

A Genova l’azienda ospedaliera universitaria San Martino è un centro di riferimento in Italia per la ricerca oncologica e una dei più grandi ospedali italiani con oltre 5 mila dipendenti.
Nei reparti di questa città nella città ligure (100mila ricoveri all’anno e 12 chilometri di strade interne) sono installati circa 2.500 computer e  10.000 identità digitali diverse. Per superare le complessità di un parco hardware estremamente disomogeneo ed obsoleto, con alti costi di manutenzione e bassa sicurezza, già nel 2010 si è deciso di abbandonare XP a favore del più moderno Windows 7 Enterprise.

«Grazie alla migrazione a un sistema operativo moderno, abbiamo ottenuto significati vantaggi in termini di efficienza, continuità e qualità del servizio reso ai nostri utenti e cittadini. Abbiamo aumentato il numero di macchine installate in rete ed il livello di qualità e sicurezza del servizio, riducendo le spese annuali di circa 100.000 euro grazie a meno guasti e pochi interventi per la manutenzione» dice Dario Padrone, direttore dei sistemi Informativi del San Martino.
Ancor più importante è migliorata la qualità dei servizi diagnostici, il sistema di gestione dei laboratori e delle varie radiologie e il Pronto Soccorso che accoglie 80 mila cartelle cliniche ogni dodici mesi. Qui i lungimiranti sono partiti per tempo e il 9 aprile non sarà un incubo.

La resilenza da Bristol, un nuovo modo di fare "resistenza" abbandonando i canovacci novecenteschi. Il voto in ciò che si compra, l'attacco all'economia corporate "neo-cons",lo smantellamento dei grossi gangli a favore del tessuto connettivo locale.

Ciao, sono Rob Hopkins, uno dei fondatori del movimento “Transition Town Transition Network”. Uno dei progetti che abbiamo in atto è proprio la Transition Town, la Totnes. Sono a Milano per un paio di eventi che hanno a che fare con Transition. 
Transition è un processo bottom up, parte dal basso verso l’alto per rendere la comunità locale resiliente. Non è un movimento politico, non è una cosa di destra odi sinistra, non è verde, non è contro la crescita né a favore della crescita, ma mira semplicemente a coinvolgere tutte le persone, la popolazione locale, nel creare questa forma di resilienza come forma di sviluppo economico. 
Come forma di sviluppo abbiamo la creazione di società energetiche, di piccole società agricole, l'agricoltura urbana, il tentativo di rivitalizzare a livello locale le comunità, dare supporto a agli imprenditori locali. Nella città di Bristol, una delle Transition Town, c’è la valuta locale, hanno fatto la Sterlina di Bristol con il supporto dell'amministrazione comunale. 
Se la crescita globale e globalizzata andava bene per il ventesimo secolo, quando c’erano combustibili fossili a basso prezzo, ora non è più fattibile, bisogna utilizzare la resilienza e far sì che siano le persone normali a fare accadere il cambiamento. 
Io viaggio per tutto il mondo e vedo che queste cose stanno accadendo. 
I governi possono fare delle cose, le aziende e le imprese possono farne altre, ma per superare la crisi ci vuole la gente normale, che rappresenta la grande riserva di risorse, di energia, non sfruttata. 
Uno dei progetti realizzato recentemente da Transition Network è “The New Economy in Twenty Enterprises”, la nuova economia in venti imprese. Abbiamo mappato tutto il territorio del 
Regno Unito e scelto venti imprese rappresentative dell’economia di transizione, che potevano essere replicate ovunque, non dipendenti perciò da una particolare situazione geografica o altro. Abbiamo scelto una banca della comunità, la comunità che aveva la propria valuta, piuttosto che il proprio sistema di trasporti, gestito dalla comunità, l’agricoltura, le aziende agricole della comunità, fonti energetiche, etc.. Alcune di queste iniziative nascono e si sviluppano in modo del tutto spontaneo, la differenza che fa Transition è creare un collegamento tra tutte queste cose. 
Infatti dalla natura, dall’ecologia, abbiamo imparato che la cosa potente è il collegamento tra i vari elementi che vanno così a formare un sistema.Transition fa questo: tesse il tessuto che collega l’economia locale consentendo a queste iniziative di parlare le une con le altre facendo sì che la resilienza della comunità diventi una forma di sviluppo economico. 
Transition è nata nel Regno Unito nel 2005, e da allora si è diffusa in tutto il mondo, siamo presenti in 44 paesi e ci sono migliaia di iniziative Transition in tutto il mondo, che è un movimento che si auto-organizza, nel senso che noi non siamo come un franchising della Coca Cola, che è sempre uguale ovunque esso si trovi, il nostro modello è diverso a seconda di dove nasce. C’è un movimento Transition, un’organizzazione, un Network Transition anche in Italia, che è stato uno dei primi posti a replicarlo, con grande successo, nel paese di Monte Veglio, in provincia di Bologna.C’è questa storia molto positiva, dove l’amministrazione locale ha promulgato una risoluzione per rendere il paese più resiliente, quindi esiste Transition Italy, se c’è qualcuno che sta ascoltando ed è interessato sappiate che ci sono a disposizione possibilità di training, di collaborare a dei progetti, c’è una rete molto attiva, molto vitale, in Italia, cui ci si può collegare se si è interessati a Transition. 
Spesso pensiamo che il cambiamento possa accadere soltanto attraverso le proteste, i picchetti con i cartelli, le dimostrazioni, etc., e sottovalutiamo quello che è il potere di ritirare il nostro supporto a ciò che non ci piace. 
C’è un movimento negli Stati Uniti che si chiama Divest, cioè disinvestite, che invita e incoraggia a disinvestire dal combustibile fossile per investire invece nelle rinnovabili. 
Si può disinvestire in un modo molto semplice, cioè con la spesa che facciamo ogni giorno, invece di fare delle scelte di acquisto che vanno a privilegiare l’economia corporate, quella delle grandi aziende, si scelgono prodotti che stimolano la resilienza locale, una economia locale, più inclusiva. 
Oogni giorno possiamo scegliere dove depositare i nostri risparmi, se dare supporto alle aziende locali o meno. 
Ho letto, per esempio, che negli Stati Uniti, prima che scoppiasse la guerra con l’Iraq,l’amministrazione Bush aveva previsto, le dimostrazioni, ma era anche altrettanto sicuro che questa protesta non si sarebbe tradotta in cambiamento di modello del consumo, infatti non le persone non hanno smesso di comprare benzina. 
Quindi il sistema è concepito proprio per lasciare sfogo a questo rumore, a queste dimostrazioni, perché tanto questo non corrisponde a un cambiamento delle azioni delle persone. 
Oggi dare supporto all’economia locale rappresenta una delle scelte più radicali che si possano fare.

acquisto WhatsApp per
19 miliardi di dollari

 

 

Lactalis, dopo Parmalat francesi vogliono
chiudere fabbrica Galbani a Caravaggio

Lactalis, dopo Parmalat francesi vogliono chiudere fabbrica Galbani a Caravaggio

Dopo lo smantellamento di tre impianti dell'ex polo di Tanzi, il gruppo transalpino che controlla le filiere ha dato il via a una nuova razionalizzazione degli stabilimenti

 

 

 

 

 

O si cambia tutto o fra 9 anni il nostro tenore di vita sarà il 60% di quello statunitense, come negli anni’60

 

 

Banche, così il governo anticipa di un anno il regalo da 4 miliardi di euro

 

IL MASSACRO SORGENIA: 1,7 MILIARDI DI DEBITI PER LA SOCIETA' DI DE BENEDETTI,TESSERA NUMERO UNO DEL PD E MASSACRATORE DI OLIVETTI.

 

Il muro delle Sparkassen tedesche:417 CASSE DI RISPARMIO LOCALI CHE TRATTENGONO 1000 MILIARDI DI EURO FUORI CONTROLLO BCE, DI QUESTI , 67 MILIARDI SONO ANDATI A COPRIRE I BUCHI DELLE LANDESBANKEN SPROFONDATE SOTTO I COLPI DEI SUBPRIME
contro una piena unione bancaria

La Germania è riuscita a tenere le sue 417 casse locali, di proprietà pubblica, fuori dai meccanismi di supervisione della Bce. Ma nel complesso questa rete di istituti ha attivi per mille miliardi. Trascurata così la lezione delle Landesbanken, le casse regionali: per salvarle Berlino ha speso più soldi (67 mld) di quelli a disposizione dell'intero fondo di salvataggio Ue

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La Bce taglia a sorpresa i tassi 
nuovo minimo storico allo 0,25%

Draghi: "Usiamo ogni strumento possibile"
Le borse festeggiano tranne

Milano in caduta libera, in calo lo spread 
Euro giù. Il Pil Usa sale del 2,8 per cento

 
L'EUROPA DEL FRANCO/SUD CONTRO L'EUROPA DEL NORD??


ESTERI

 

STORIA DI LIBIALIA

Tango bond, l'Argentina a New York cerca l'intesa con i fondi,

 VERSO IL SECONDO DEFAULT IN 15 ANNI???


Il ministro dell'Economia, Axel Kicillof, è negli Usa per incontrare Daniel Pollack, lo "special master" nominato dal giudice per seguire la trattativa sul pagamento di 1,3 miliardi di dollari agli hedge fund che non hanno accettato la ristrutturazione del debito
MILANO - Il ministro argentino dell'Economia, Axel Kicillof è arrivato a New York con una delegazione ufficiale per incontrare Daniel Pollack, lo "special master" nominato dal giudice Thomas Griesa per seguire la trattativa sul pagamento di 1,3 miliardi di dollari agli hedge fund che non hanno accettato la ristrutturazione dei bond argentini. La Corte Suprema americana, però, ha dato ragione ai fondi obbliganto l'Argentina a pagare.

Secondo fonti ufficiali citate dalla stampa di Buenos Aires, Kicillof non avrà incontri diretti con gli hedge fund - che il governo definisce "fondi avvoltoio"- nè presenterà un'offerta di pagamento a Pollack, bensì confermerà la volontà del suo governo di arrivare a un accordo "giusto, equo e legale" che soddisfi le esigenze del 100% dei detentori di bond, che abbiano o no accettato il concambio e spiegherà la difficili situazione nella quale è rimasto dopo la sentenza di Griesa.

Il giudice, infatti, ha respinto la richiesta argentina di pagare solo gli obbligazionisti che hanno aderito agli swap e ha esortato il governo a trattare con gli hedge fund. Per l'Argentina adesso è cominciato un conto alla rovescia che potrebbe portarla a nuovo default sul suo debito sovrano: entro il prossimo 31 luglio deve pagare oltre 800 milioni di dollari ai detentori di bond che hanno accettato il concambio,
ma Griesa ha bloccato qualsiasi pagamento finchè non si arriverà a un accordo con i hold out. Il giudice ha, inoltre, sequestrato i fondi depositati da Buenos Aires presso la Mellon Bank di New York per pagare gli obbligazionisti.

Con quasi 29 miliardi di dollari in riserve estere, Buenos Aires dovrebbe essere in grado di onorare il suo debito; ma non si tratta di soldi facili da utilizzare. Alcuni di questi fondi sono infatti depositati presso il Fmi, altri riguardano crediti verso altri Paesi. L'Argentina avrebbe a portata di mano soltanto 16 miliardi di dollari. Adesso il Paese rischia la seconda bancarotta in 13 anni.

Gas, il progetto South Stream serve a Mosca ma spaventa l’Europa
Il gasdotto che dalla Russia dovrebbe raggiungere l'Europa centrale aggirando l'Ucraina è fondamentale per il Cremlino. Che dipende dai ricavi dell'export più che la Ue dal suo gas. Bruxelles ha sempre avversato l'opera, mentre l'Italia la ritiene strategica. Nonostante Gazprom, socia del South Stream come Eni, abbia deciso di spostare l'approdo da Tarvisio a Baumgartner, in Austria

Nel braccio di ferro politico e diplomatico tra Europa e Russia, che si è inasprito con l’accordo di libero scambio tra Unione europea e Ucraina, le infrastrutture energetiche come il South Stream sono diventate pedine chiave. Ma a chi serve il nuovo maxi-gasdotto? In certa misura proprio all’Europa, più di quanto Bruxelles voglia ammettere. Oltre naturalmente alle imprese partecipanti, tra cui le italiane Eni e Saipem. Ma più di tutti serve alla Russia, che dipende dai ricavi dell’export più che l’Europa dal suo gas. L’Europa copre con il metano quasi un quarto del suo fabbisogno di energia primaria. Il 30% del gas che consuma viene dalla Russia e una metà di questo, circa 80 miliardi di metri cubi all’anno, transita per l’Ucraina. Negli ultimi anni le dispute Mosca-Kiev sul gas hanno portato all’interruzione dei flussi all’Europa nel 2006 e nel 2009. La risposta russa è stata tentare di aggirare l’Ucraina, a Nord con il gasdotto North Stream con approdo in Germania, capacità 55 miliardi di metri cubi all’anno, inaugurato nel 2011-12, e a Sud con il South Stream, 63 miliardi di metri cubi all’anno, invece ancora da costruire.

I soci del tratto offshore del progetto, che attraverserà il Mar Nero per poi proseguire via Balcani fino in Europa centrale, sono la russa Gazprom con il 50%, Eni con il 20, la francese Edf con il 15 e la tedesca Wintershall, controllata di Basf (15). La decisione finale di investimento sul tratto sottomarino è stata presa nel 2012. L’avvio della prima linea è atteso a fine 2015 e dell’ultima nel 2018. Con lo scoppio della crisi russo-ucraina, la tensione sul progetto è cresciuta. Se Bruxelles, da sempre sostenitrice del progetto rivale Nabucco, oggi tramontato, non aveva mai guardato South Stream con simpatia, da febbraio è passata a un aperto ostruzionismo. Arrivando di recente a chiedere e ottenere dalla Bulgaria, paese di transito del gasdotto, l’interruzione dei lavori sul tratto locale avviati a fine 2013.

Il bluff di Bruxelles - Nella linea europea non mancano le contraddizioni. Incoraggiando Kiev a spostare il suo asse verso Ovest, l’Europa ha contribuito a innescare una transizione politica dal futuro incerto. Conseguenza immediata e certa però è stata una nuova disputa sul gas tra Mosca e Kiev che la Ue fatica a gestire e che minaccia la sua stessa sicurezza energetica. Nella partita con Mosca, Bruxelles insiste inoltre nel mostrare una carta che non ha: la possibilità di rinunciare dall’oggi al domani al gas russo. In realtà è vero che col calo dei consumi degli ultimi anni e la crescita delle rinnovabili il potere contrattuale della Russia si è fortemente ridimensionato. E che una limitata interruzione dei flussi sarebbe gestibile. Ma tutt’altra cosa è pensare di fare di colpo a meno di 130 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Nessuna delle alternative ipotizzabili, infatti – dall’impostazione dagli Stati Uniti dello shale gas (quello estratto dalle rocce) alle forniture dal Mar Caspio – può coprire l’ammanco almeno nel medio termine. Nella migliore delle ipotesi gli Stati Uniti esporteranno circa 20 miliardi di metri cubi annui dal 2015 e altrettanti dal 2018, e per averli l’Ue dovrà competere con i prezzi dell’Asia. Quanto al Caspio, se il gasdotto Albania-Puglia TAP riuscirà a superare le opposizioni locali, porterà 10 miliardi di metri cubi annui di gas azero dal 2019. Infine, l’Europa può certo ridurre il peso del gas nel proprio mix energetico ma anche questo richiede tempo e risorse. Non a caso, in conclusione, secondo il think tank Oxford Institute for Energy Studies, da un punto di vista puramente commerciale la scelta migliore per l’Ue sarebbe di sostenere South Stream.

Meglio l’Austria che Tarvisio - Al maxi-gasdotto, che oltre a Eni vede in campo Saipem nella posa della prima linea, non mancano del resto neppure i sostenitori. Nato nel 2007 proprio in seno alla partnership tra Eni e Gazprom, South Stream ha sempre goduto dell’appoggio dei governi italiani, sia con l’ex premier Romano Prodi – a cui, come racconta lui stesso, il Cremlino offrì perfino la presidenza del consorzio dopo la fine del suo governo – sia con Silvio Berlusconi, fino ad arrivare all’attuale governo. Ciò non ha impedito tuttavia a Gazprom di spostare dall’Italia all’Austria all’Italia il punto di arrivo europeo della pipeline. Interpellato dal Il Fatto Quotidiano l’ufficio stampa di Gazprom conferma che con gli accordi perfezionati con l’austriaca OMV – per anni sul fronte opposto come capofila del Nabucco – “l’approdo di South Stream in Europa diventa Baumgarten e non più Tarvisio”, come previsto negli ultimi anni. Lo hub austriaco è oggi il più importante dell’Europa centrale e da qui il gas potrà proseguire per l’Italia attraverso il già esistente gasdotto TAG, controllato dalla Cassa depositi e prestiti, ha rimarcato nei giorni scorsi il numero due di Gazprom Alexander Medvedev.

In ogni caso il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro dello Sviluppo Federica Guidi ribadiscono spesso la strategicità dell’opera per il nostro Paese. E d’altra parte l’Italia non è l’unica voce “stonata” con le posizioni di Bruxelles verso la Russia. Ci sono i paesi di transito del South Stream, come la Bulgaria o l’Ungheria. Costretti alle esportazioni Altri Paesi sono legati a Mosca da una forte interdipendenza commerciale. Oltre alla stessa Italia è il caso della Germania, in prima linea (almeno fino a poco fa) nell’auspicare una soluzione negoziale alla crisi ucraina. O della Francia, che partecipa a South Stream con Edf e con la Russia ha in ballo una fornitura di navi porta-elicotteri per 1,2 miliardo di euro. In ogni caso la più interessata alla realizzazione di South Stream resta la Russia. Negli ultimi anni con la crisi dei consumi e l’aumento della concorrenza sul mercato Ue, la leadership di Mosca come fornitore di gas dell’Europa è finita sotto pressione. E in questo contesto di domanda già debole le politiche Ue su efficienza e rinnovabili hanno progressivamente eroso spazi di mercato al gas e il processo è destinato a proseguire. Per l’economia russa invece l’esportazione di gas rimane vitale per far quadrare i conti. Come emerge da un’analisi di Federico Pontoni e Antonio Sileo pubblicata sul sito lavoce.info, ad esempio, Gazprom realizza la stragrande maggioranza dei propri margini con l’export in Europa. Numeri che i recenti accordi russi con la Cina, pur aprendo prospettive di diversificazione nel medio termine, non bastano per ora a riequilibrare.

 

 

Fracking e danni alla salute, il Texas condanna le trivelle per la prima volta

Ci sono voluti tre anni, ma alla fine la signora Lisa Parrha avuto la meglio sui signori della Aruba Petroleum. Una giuria popolare il giorno 22 Aprile 2014 le ha assegnato 3 milioni di dollari come risarcimento dei danni da fracking subiti dalla sua famiglia.

E’ questo il primo caso di causa da fracking negli Usa con regolare processo, dove i fraccanti vengono multati. Spesso infatti, spaventati dalle lungaggini burocratiche e dai costi legali, le famiglie firmano accordi privati con i petrolieri, fuori dal tribunale, dove in cambio di soldi i residenti accettano dei “gag orders” – cioè di tacere e non rendere pubblico l’inquinamento e i danni subiti. La signora Parr e la sua famiglia invece ha avuto il coraggio di denunciare, nel 2011, la Aruba Petroleum che aveva trivellato decine di pozzi di gas naturali attorno la loro casa.

Siamo a Wise County, nel nord del Texas. Lisa e Bob Parr ci si trasferirono appena sposati nel 2008, in un ranch di loro proprietà. Erano appena iniziate le operazioni di fracking. Subito Lisa e Bob iniziarono ad avere problemi di salute. All’inizio pensavano che fosse influenza. Lisa si lamentava di problemi respiratori, nausea, eczemi e mal di testa. I suoi linfonodi erano infiammati e doloranti. Bob iniziò ad avere frequenti casi di perdite di sangue dal naso – anche tre volte la settimana. Anche per la piccola Emma, figlia di Lisa, sangue dal naso, eczemi, nausea ed asma. Ovviamente l’acqua di casa un tempo potabile diventò imbevibile.

Dopo varie cure iniziali, e visto che nessuno dei sintomi migliorava, i dottori pensarono che potesse esserci qualcosa nell’ambiente che stava avvelenando la famiglia Parr. E così, su suggerimento dei dottori, Lisa iniziò a chiedere ai suoi vicini se avevano visto o se sapevano qualcosa su quei pozzi dietro le loro case. Uno dei residenti, quasi per caso, aveva tenuto un registro di tutti i giorni in cui aveva visto o sentito di perdite e sversamenti di materiale da fracking nell’ambiente circostante. Lisa prese nota e fece il paragone con le date in cui era stata al pronto soccorso. Le date erano identiche. Ogni volta che i pozzi avevano avuto un problema, lei o sua figlia o suo marito erano stati ricoverati.

E così, i Parr fecero causa alla Aruba Petroleum. Il processo non è stato per niente facile perché i signori del petrolio hanno cercato il più possibile di mettere in cattiva luce i comportamenti e le abitudini della famiglia Parr, pur di provare che non era colpa del fracking. Non ci sono riusciti: alla fine il buonsenso e la giustizia hanno prevalso.

L’impatto di questa causa va ben oltre i 3 milioni di dollari della famiglia Parr. Si è infatti pronunciato un tribunale che ha deciso che i danni erano veri e significativi “beyond a reasonable doubt”. E questo potrebbe essere usato in molte altre cause contro i petrolieri e dare coraggio ad altre famiglie nella stessa situazione.

E’ per questo che i signori del petrolio non vogliono che questi tipi di denunce vadano a processo. Hanno paura delle conseguenze sul lungo termine e preferiscono questi “gag orders” in cambio di silenzio grazie al quale possono continuare a riepetere il mantra illusorio che non ci sono prove che il fracking causa danni alla salute.

La Aruba Petroleum farà appello. Dicono che siccome ci sono molti altri pozzi nella zona non è possibile sapere se sono state proprio le loro trivelle a causare i problemi della famiglia Parr. Notare che danno la colpa ad altri pozzi ma non hanno potuto negare l’esistenza dei danni da fracking alla salute di Lisa, Bob ed Emma Parr.

Qui le immagini della famgilia Parr e dei pozzi texani

Conti in rosso per Linkedin: deludono le stime sul futuro

A Wall Street i titoli del gruppo sono cresciuti dell'89% solo lo scorso anno, ma la fase di espansione della società sta rallentanto. Il social network dei professionisti sta aumentando gli investimenti in Cina per allargare la base utenti

 

MILANO - Primo trimestre in perdita per LinkedIn, il social network dei professionisti, tra gennaio e marzo, ha perso 13,4 milioni di dollari, pari a 11 centesimi per azione, in calo rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, quando aveva guadagnato 22,5 milioni di dollari, pari a 20 centesimi per azione. Si tratta della perdita trimestrale più ampia da quando LinkedIn è sbarcato a Wall Street a maggio del 2011. I ricavi sono aumentati invece del 46% rispetto all'anno scorso a 473,2 milioni di dollari, circa 7 milioni di dollari al di sopra delle attese degli analisti.

A preoccupare i mercati però sono le previsioni per il secondo trimestre che sono inferiori alle stime degli analisti. I ricavi saliranno tra i 500 e 505 milioni di dollari: più lento del previsto. Abbastanza per far crollare il titolo che solo lo scorso anno aveva guadagnato l'89%. Per tornare a spingere sulla crescita il gruppo ha accelerato sui servizi per mobile e sta investendo sulla crescita della base utenti in Cina. 

Caldo record nel 2015. El Niño farà salire la colonnina di mercurio

Analizzando i dati climatici l’Istituto Internazionale di Ricerca della Columbia University ha confermato che la probabilità di un evento di questo tipo è salito di quasi il 60 per cento

ANCHE se è ancora presto per pensare alle vacanze 2015 sarà bene tenere in considerazione quanto rilevato da un gruppo di scienziati statunitensi, convinti che il 2015 sarà un anno davvero bollente. A portare le temperature elevate  la massiccia influenza del fenomeno climatico conosciuto come El Niño che interessa il Pacifico modificando la temperatura dell’aria al di sopra della superficie oceanica portando siccità, inondazioni e perturbazioni atmosferiche particolarmente intense.

 Contemporaneamente, Eric Blake, specialista in uragani presso il National Hurricane Center National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) di Miami, ha specificato che le condizioni stanno cambiando rapidamente nel Pacifico e che El Niño e La Niña stanno influenzando le fluttuazioni delle temperature.

Anche se El Niño tendenzialmente funge da freno dell’attività degli uragani nel Nord Atlantico, ricordano gli esperti, quando i suoi effetti si combinano con il riscaldamento globale causato dalle emissioni di gas serra aumenta notevolmente la probabilità che un determinato anno, in questo caso il 2015, segni un nuovo record di temperatura globale, come è accaduto nel 1998.

Iraq, l’Occidente e quel vizio del petrolio

Le violenze degli ultimi giorni testimoniano che dopo la (ri)presa delle città irachene di Falluja e Ramadi da parte di cellule qaediste il Paese vive ancora nell’inquietante ricordo del decennio passato. L’invasione americana del 2003 ha aperto un vuoto di potere destabilizzante, di cui da diversi anni traggono beneficio soprattutto le multinazionali petrolifere. Perché sì, possiamo dirlo: in Iraq c’è stata una guerra per l’oro nero.

Nel 2011, anno in cui si chiuse formalmente il conflitto, le truppe statunitensi e le compagnie mondiali del greggio hanno fatto staffetta, si sono date il cambio con l’obiettivo di avviare unrestyling completo dell’industria petrolifera nazionale. Prima della guerra il comparto era totalmente chiuso all’ingresso delle società occidentali. I margini di trattativa erano bassisssimi. Dopo dieci anni di sangue e migliaia di vittime il mercato del petrolio iracheno, oggi, è gestito esclusivamente da privati come ExxonMobil, Chevron, British Petroleum e Shell.

Ognuna di queste compagnie possiede filiali importanti nel Paese. Anche la texana Halliburton, dove lavorò Dick Cheney, ex vicepresidente degli Stati Uniti, oggi mantiene diverse attività redditizie. In molti negli anni hanno sostenuto che il petrolio fosse il primo motivo (anche se non il solo) alla base di una guerra per cui i cittadini iracheni stanno pagando ancora il loro prezzo.

“Non possiamo negare che di mezzo ci sia il petrolio”, confessò il generale John Abizaid, ex capo del Comando Centrale degli Stati Uniti e delle operazioni militari in Iraq, nel 2007. “Sono rattristato che sia politicamente sconveniente riconoscere quello che tutti sanno, ovvero che la guerra in Iraq è stata aperta per il petrolio”, si legge su un libro di memorie scritto dall’ex segretario del Comitato dei Governatori della Federal Reserve, Alan Greenspan.

Il risultato è che per la prima volta in 30 anni le compagnie petrolifere occidentali hanno cominciato ad esplorare la via dei giacimenti iracheni, tra i più grandi al mondo, raccogliendo ingenti profitti. Dal canto suo Washington ha mantenuto un alto livello d’importazioni a seguito dell’invasione, anche se l’approccio commerciale degli States non è servito in alcun modo a rilanciare l’economia nazionale di Baghdad.

Nel 1998 Kenneth Derr, allora amministratore delegato di Chevron, disse che “l’Iraq possiede enormi riserve di petrolio e di gas“. Ammise che gli sarebbe piaciuto accedervi. Oggi lo fa. Nel 2000 sono state la Exxon, Chevron, BP e Shell a promuovere George W. Bush e il suo vice Cheney alla Casa Bianca. Dopo nemmeno una settimana dalle elezioni il loro sforzo venne ampiamente ripagato con la creazione della National Energy Policy Development Group (NEPDG), una task force energetica affidata, guarda caso, proprio a Dick Cheney, con il compito di sviluppare una politica energetica nazionale in supporto del comparto privato.

La circostanza naturalmente accompagnò l’amministrazione americana e le multinazionali mondiali del greggio a un tavolo comune; nel mese di marzo furono rivisti gli elenchi e le mappe che delineavano l’intera capacità produttiva irachena nel comparto. E’ in quel momento – secondo diversi analisti dell’industria petrolifera – che si apre la pianificazione di un invasione militare contro Saddam Hussein. L’allora primo segretario al Tesoro Paul O’Neill nel 2004 confessa che il progetto era già stato pensato nel febbraio 2001, ben 6 mesi prima degli attentati dell’11 settembre.

Tant’è che un mese più tardi la NEPDG, in una delle sue numerosi relazioni, sostiene che i paesi del Medio Oriente vanno sollecitati “ad aprire le aree dei loro settori energetici agli investimenti esteri”. Questo, precisamente, è ciò che è stato realizzato in Iraq.

Trascorsi un paio d’anni e iniziato il conflitto, il governo di Baghdad, già fortemente condizionato da Washington, decise infatti che il suo mercato petrolifero avrebbe dovuto accogliere l’interesse degli investitori internazionali. Per questo venne costituito un comitato ad hoc che guidasse le operazioni commerciali. I membri non sono mai stati resi pubblici, ma è noto che vi facesse parte Ibrahim Bahr al-Uloum, poi nominato ministro del Petrolio iracheno dal governo americano di occupazione. Da quel momento i rappresentanti di ExxonMobil, Chevron, ConocoPhillips e Halliburton, mantennero incontri di routine con lo staff di Cheney agendo come dei veri e propri consulenti dell’esecutivo iracheno.

Prima dell’invasione erano due i fattori che ostacolavano l’attività delle compagnie petrolifere occidentali: Saddam Hussein e la legislazione nazionale. Ucciso il primo e by-passata la seconda, con la ferma opposizione dell’opinione pubblica irachena e del Parlamento, tutto cambiò. Le imprese occidentali cominciarono a firmare contratti su contratti che agevolassero l’accesso al trattamento del petrolio nel Paese aprendo, nel tempo, un vortice di privatizzazioni inarrestabile.

Il meccanismo portò la produzione petrolifera irachena ad aumentare di oltre il 40 per cento in cinque anni, per 3 milioni di barili di greggio al giorno, ma l’80 per cento del prodotto ancora oggi viene esportato lasciando la popolazione locale in una paradossale precarietà energetica. Il Pil pro capite è aumentato significativamente, ma rimane ancora tra i più bassi al mondo e ben al di sotto delle stime vantate dagli altri vicini arabi. I servizi di prima necessità come l’acqua e l’elettricità rimangono un lusso, mentre il 25 per cento della popolazione vive in uno stato di assoluta povertà.

La promessa di nuovi posti di lavoro legati allo sviluppo del comparto energetico deve ancora materializzarsi. I settori del petrolio e del gas oggi rappresentano meno del 2 per cento dell’occupazione totale, mentre le società straniere si affidano a una manodopera importata. Ebbene sì, in Iraq c’è stata una guerra per il petrolio. A poco più di una decina di giorni dall’anniversario dell’aggressione americana (il 20 marzo 2003) è sempre un bene ricordarlo.

Ungheria: vittoria scontata di Orban, padrone anti-Ue

Da un lato c’è lui, Viktor Orban: nazionalista anti-europeista, leader indiscusso del partito populista e conservatore Fidesz. Il premier magiaro in carica dal 2010 sarà riconfermato senza problemi nelle elezioni del 6 aprile, anche grazie alla riforma elettorale maggioritaria e uninominale disegnata a sua immagine e somiglianza. Dall’altro l’opposizione -una coalizione variegata, composta da socialisti, liberali, centristi e verdi- che candida il 39enne socialista Attila Mesterhazy, ma è data per sconfitta. Gli ultimi sondaggi accreditano Orban addirittura al 47% mentre il suo sfidante sarebbe fermo a un misero 20% (con la coalizione comunque sotto il 30%). In gioco c’è il futuro dell’Ungheria, un Paese di quasi 10 milioni di abitanti dove da anni si diffondono pericolose tendenze autoritarie associate ad un rinascente antisemitismo: quello incarnato dal partito di estrema destra Jobbik (una formazione ideologicamente non lontana dalla greca Alba Dorata), che domenica potrebbe volare oltre l’inquietante soglia del 15%.

“Orban rimane forte, ma almeno stavolta l’opposizione ha provato ad unirsi. Certo, la sfida elettorale in un solo round (prima della riforma c’era un sistema a doppio turno, ndr) non aiuta”. Isvan Hegedus, ex parlamentare ungherese, è una delle più autorevoli voci critiche del premier in carica. Militante di Fidesz “quando era un partito conservatore e liberale” negli anni post-sovietici, ne è uscito non appena il partito ha iniziato la virata a destra. Lo abbiamo incontrato a Bruxelles, dove dirige un centro studi sulla politica ungherese, poco prima della partenza alla volta di Budapest. Perché, gli chiediamo, Orban rimane così popolare se ha fatto una legge bavaglio per la stampa, riformato la costituzione a colpi di maggioranza accentrando su di sé moti poteri e messo a rischio l’autonomia della magistratura? “In realtà il Paese è più diviso di quello che si crede, e molta gente è stanca di Orban”. Ma la verità è che manca una vera alternativa. “Molte sono le colpe della coalizione che sfida il premier. Innanzitutto i partiti non hanno una chiara strategia comune, incerti tra competizioni e cooperazione. E poi c’è la corruzione”. Il numero due socialdemocratico Gabor Simon è stato recentemente coinvolto in un grosso scandalo per aver depositato 800.000 euro al fisco depositandoli in una banca austriaca.

Insomma, la domanda non è se Orban sarà riconfermato premier, ma con quale percentuale. E se porterà il suo Paese più lontano dalla democrazia nei prossimi quattro anni. “Possiamo solo augurarci che non stravinca. Già perdere con un margine aiuterebbe”, conclude amaro Istvan.

 

Corea del Nord "come apartheid, nazismo, khmer rossi". Duro rapporto dell'Onu sui diritti umani

Una commissione di giuristi incaricata dalle Nazioni Unite relaziona a Ginevra. Il rappresentante di Pyongyang lascia la sessione per protesta. Anche la Cina critica: "Critiche su informazioni non di prima mano"

GINEVRA - I crimini commessi dal regime Nordcoreano sono paragonabili a quelli dei nazisti, del regime dell'apartheid e dei khmer rossi e devono essere fermati. Lo ha dichiarato a Ginevra il presidente di una commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite.

"Affrontare le piaghe del nazismo, dell'apartheid dei khmer rossi ha richiesto coraggio da parte delle grandi nazioni", ha dichiarato Michael Kirby, di fronte al consiglio dei diritti umani dell'Onu. "E' nostro dovere" affrontare "le violazioni dei diritti umani e i crimini contro l'umani commessi nella repubblica popolare di corea", ha aggiunto. Siamo nel 21mo secolo e ci troviamo di fronte ad un altro flagello vergognoso che tocca il mondo di oggi. Non possiamo più permetterci di vederlo", ha insistito. Nel rapporto pubblicato il 17 febbraio i giuristi incaricati dall'Onu hanno stilato una lista documentata di accuse per crimini contro l'umanità su larga scala.

Il rapporto ha provocato la dura reazione sia della Cina sia della stessa Corea del Nord. Il rappresentante nordcoreano presso l'Onu a Ginevra, Se Pyong So, ha abbandonato il dibattito mentre prendeva la parola il rappresentante del Giappone. Shigeo Lizuka, a nome dell'associazione delle vittime rapite in Corea è intervenuto durante il tempo concesso al Giappone in sede di dibattito, e l'ambasciatore nordcoreano ha inizialmente presentato una mozione d'ordine e interrotto il discorso di Lizuka. Quest'ultimo ha ripreso la parola su richiesta del presidente del consiglio. L'ambasciatore nordcoreano si è allora alzato in silenzio e ha lasciato la sala, seguito da una decina di fotografi. Anche la Cina ha protestato, sostenendo che il rapporto non ha legami con la realtà, perché non si basa su informazioni di prima mano, e che formula accuse contro la Cina non corroborate. Il rapporto, sostiene Pechino, getta ombre sulla credibilità dell'organismo dell'Onu.

 

 

 


 

Malesia, cade aereo: 239 a bordo  trovate scie carburante in mare

Malesia, cade aereo: 239 a bordo
trovate scie carburante in mare

L'italiano dato per disperso non c'era audio 
"Papà sto bene". Passaporto era stato rubato

Videoricostruzione Così è sparito dai radar 
Foto L'angoscia dei parenti in attesa video
 

Il velivolo della Malaysia Airlines era in volo da Kuala Lumpur a Pechino

Lo spot con il David armato di fucile  un  fotomontaggio  scatena le polemiche  Interviene Franceschini: "Ritiratelo"

 

 

 

 

 

Lo spot con il David armato di fucile
un fotomontaggio scatena le polemiche 
Interviene Franceschini: "Ritiratelo"

E la soprintendente vuole chiedere i danni

 

 

Le mani unte di Putin sull’ex Urss. “In Transnistria può capitare lo stesso”

Dopo la Crimea "potrebbe continuare un’ulteriore disgregazione dello spazio post-sovietico", spiegano alcuni esperti a ilfattoquotidiano.it. Nel mirino di Mosca, l'ipotesi dello Stato de facto che si è staccato dalla Moldavia a seguito del crollo dell'impero sovietico

“Oggi la Georgia, domani l’Ucraina, dopodomani i Paesi baltici. E poi, chissà, magari toccherà anche alla Polonia”. Parole del presidente polacco Lech Kaczyński scomparso nel 2010 in un incidente aereo, pronunciate durante una manifestazione antirussa a Tbilisi, in pieno conflitto russo-georgiano del 2008. Il leader polacco era noto per la sua antipatia verso la Russia, ma aveva previsto che le ambizioni geopolitiche di Mosca si sarebbero allargate sempre di più sui Paesi dell’ex “blocco sovietico”. La galassia degli Stati non riconosciuti che si spande dal Caucaso(Nagorno Karabakh) all’Europa dell’Est (Transnistria) potrebbe ora includere anche laRepubblica autonoma di Crimea.

Il governo presieduto dal nuovo capo, il filorusso Sergey Aksyonov, si è affrettato ad anticipare al 30 marzo il referendum sullo status della repubblica. A prescindere da un intervento ufficiale dell’esercito russo sulla penisola, non cambierà il risultato del voto che sembra già volgere in favore di Mosca. Mentre il senatore americano John McCain si dice pronto ad una nuova “guerra fredda” con la Russia, e la “cortina di ferro” sembra alzarsi di nuovo per dividere il mondo a metà tra ilblocco filorusso e pro-americano, alcuni esperti dell’Ucraina frenano questa retorica. “La Crimea è un caso a parte”, spiega a ilfattoquotidiano.it Alexey Vlasov, tra i massimi esperti della materia e vice preside della facoltà di Storia dell’Università statale di Mosca. All’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), da dove è appena tornato, molti colleghi concordano con lui sul fatto che la questione della Crimea esiste e andrebbe risolta. “I diritti dei cittadini russofoni della Crimea che sono stati promessi dopo il crollo dell’Urss, in realtà non sono mai stati garantiti”, osserva lo studioso.

L’autonomia della repubblica è stata sancita dalla Costituzione del 1998, ma Vlasov sostiene che valga “solo sulla carta”. La soluzione, secondo l’esperto, potrebbe essere quella di creare una commissione ad hoc che coinvolga tutte le parti in causa per garantire l’autonomia effettiva della Crimea, sia sul piano economico, sia su quello linguistico. Nell’ipotesi in cui la Russia cercasse solo una sua maggiore autonomia, il risultato sarebbe un’entità territoriale in bilico, come lo sono già l’Abcasia e l’Ossezia del Sud, ai confini con la Georgia. Queste due repubbliche autoproclamate sono riconosciute ad oggi soltanto dalla Russia, dal Venezuela e da alcuni una manciata di altri stati minori, mentre la comunità internazionale si schiera con la Georgia che li considera territori occupati.

La storia post-sovietica dei due territori, diversamente della Crimea, è stata segnata da conflitti sanguinosi con Tbilisi in seguito alla disgregazione dell’Urss. Le due repubbliche hanno cercato protezione sotto l’ala della “Madre Russia”. Ma se il primo presidente della Federazione russa,Boris Eltsin, ha respinto la richiesta per sostenere il suo alleato, l’allora presidente georgianoEduard Shevarnadze, la svolta è arrivata con Putin. Nel 2006 ha usato il precedente del Kosovoper dettare il nuovo corso della politica estera russa. Secondo il Cremlino, il principio dell’autodeterminazione dei popoli applicato ai kosovari doveva valere anche per gli Stati non riconosciuti sullo spazio dell’ex Urss. Anche se la posizione di Mosca sul Kosovo è rimasta immutata: in una sorta di doppio gioco si è sempre schierata a favore dell’integrità territoriale della Serbia.

“La Russia ha garantito l’integrità territoriale della Georgia per 18 anni, finché Tbilisi non ha scatenato la guerra contro di noi uccidendo i nostri caschi blu nell’Ossezia del Sud”, commenta Andrei Suzdaltsev, vicepreside della facoltà dell’Economia e politica mondiale dellaHigh School of economics di Mosca. A ilfattoquotidaino.it illustra la dinamica del conflitto russo georgiano scoppiato nell’agosto del 2008 (per la Georgia, è stata la Russia a muovere guerra). Proprio in seguito di quella crisi, con una disposizione dell’allora presidente Dmitry Medvedev, la Russia ha riconosciuto l’indipendenza dell’Ossezia del Sud e dell’Abcasia, “tenendo conto della volontà degli osseti e degli abcasi”. Infatti sia l’Ossezia del Sud col referendum del 1991, sia l’Abcasia con l’iniziativa del parlamento del 1995 avevano già bussato alla porta di Mosca.

“Con il caso della Crimea potrebbe continuare un’ulteriore disgregazione dello spazio post-sovietico”, nota Suzdaltsev, che comunque più che una Crimea indipendente vede, in futuro, una specie di confederazione tra l’Ucraina e la Repubblica autonoma. Il nuovo governo della Crimea ha detto che spera di poter contare su un sostegno economico russo, seguendo l’esempio di alcuni Stati non riconosciuti della galassia russa che costituiscono una voce significativa del bilancio federale. Ciò è vero soprattutto per l’Ossezia del Sud, che nel 2009 contava una popolazione di 50mila persone (secondo i dati dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa). Infatti, soltanto con “i decreti di maggio”della terza presidenza Putin, sono stati stanziati 669 milioni di rubli(circa 14 milioni di euro) alla repubblica del Caucaso. Risolta la crisi in Crimea, sullo spazio dell’ex blocco sovietico se ne potrebbe presentare subito un’altra.

La Moldavia, a differenza dell’Ucraina, non ha rinunciato alla firma dell’accordo di associazione con l’Unione europea. Anzi, al vertice di Vilnius a novembre scorso ha fatto un’ulteriore passo versoBruxelles. Mosca non ha visto di buon occhio questo gesto, rivolgendo la sua attenzione sullo Stato non riconosciuto della Transnistria, territorio con una vasta popolazione russa che si è staccato dalla Moldavia dopo il crollo dell’impero sovietico. Anche la repubblica autoproclamata è stata luogo di un conflitto sanguinoso tra Chisinau e i separatisti, placato nel 1992 dalle forze russe dislocate in Transnistria. “Conflitto che è stato congelato, ma che potrebbe riaccendersi ora che Chisianau si sta avvicinando all’Ue”, sostiene a ilfattoquotidiano.it Vladimir Solovyev, giornalista che segue la Moldavia per il giornale russo Kommersant. Minaccia che si legge nelle parole pronunciate di recente dall’inviato speciale di Putin per la Transnistria, Dmitry Rogozin. “Il ‘treno Moldavia’ che corre verso l’Europa potrebbe perdere qualche carrozza”. Proprio in questi giorni allaDuma è stata presentata una proposta di legge per facilitare l’ingresso nella Russia di nuovi soggetti territoriali. Questo provvedimento potrebbe essere funzionale non solo al caso della Crimea, ma anche della Transnistria.

 

Venezuela, proteste contro Maduro. “Paese in crisi, diritti umani a rischio”

International Crisis Group pubblica un'analisi sugli scontri a Caracas, che hanno già provocato dieci morti. E punta il dito contro il successore di Chavez, incapace di fermare le violenze. Stati Uniti accusati di finanziare quello che il governo definisce “golpe fascista”Le manifestazioni di sabato in Venezuela, con da una parte i sostenitori e dall’altra gli oppositori del presidente Nicolas Maduro, sono state l’immagine della spaccatura politica del Paese. Decine di migliaia di venezuelani hanno manifestato a Caracas e in altre città. Maduro deve fronteggiare la più grave protesta dall’elezione, contestata dall’opposizione, a capo di Stato lo scorso aprile. I morti nelle violenze e negli scontri sono già almeno dieci. La situazione “rischia di erodere ulteriormente la stabilità e la tutela dei diritti umani in una nazione già polarizzata alle prese con un grave crisi economica e con uno dei tassi di omicidio più alti al mondo”, si legge in un’analisi dell’International Crisis Group

Edimburgo contro Londra

: “Senza sterlina non ci accolleremo nostra quot

a debito”. La Scozia può

 rendersi indipendente

a 3 secoli dall'Union

 Act. Il 6 dicembre

del 1922 il Regno Un

ito perdeva l'Irlanda

 

 

Ucraina, riesplodono scontri a Kiev   dir tv   Almeno 9 morti, uccisi 2 agenti   foto   /   vd

DIR TV

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ucraina, riesplodono scontri a Kiev dir tv 
Almeno 9 morti, uccisi 2 agenti 
foto / vd 
18-02-2014

Battaglia in piazza. Mosca: colpa della Ue video 
Germania verso la svolta: "Possibili sanzioni" 

 

 

Stop a comunitari, l'Ue avvisa la Svizzera "A rischio firma trattato al vertice del 12"

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stop a comunitari, l'Ue avvisa la Svizzera
"A rischio firma trattato al vertice del 12"

Bonino: effetti referendum preoccupanti foto vd 
Tetto a ingressi lavoratori dell'Unione europea 
I timori dei pendolari / Rep Tv Salvini (Lega) 

 

Sochi 2014 non solo sport  in casa Russia

Sochi is located in Krasnodar Krai
Sochi
Sochi
Sochi

Location of Sochi in Krasnodar Krai

 

Ucraina, di nuovo battaglia a Kiev   video   Scontri dimostranti- polizia, due morti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ucraina, di nuovo battaglia a Kiev video 
Scontri dimostranti- polizia, due morti

E la Timoshenko dice: "Sarei con voi" 
I giornalisti picchiati dagli agenti video 
Fuochi d'artificio contro la polizia - foto - video 
La Casa Bianca: stop a violenze o sanzioni 
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Il Movimento Cinque Stelle si prepari a governare

I deludenti dati sulla produzione industriale di Maggio stanno spingendo molti Uffici Studi a rivedere le previsioni: quest’anno il PIL non andrà oltre il +0,3. Nell’Aprile 2013 il governo Letta prevedeva +1,3%: da allora la stima è andata gradualmente calando. Comme toujours.

Le nuove stime hanno due implicazioni, cariche di conseguenze politiche:

  1. il rapporto fra il Debito pubblico e il Pil continua a crescere, a ritmi notevoli;

  2. i disoccupati non scendono… scendono i loro risparmi familiari.

Questo non è quanto era stato promesso. È perciò in atto una revisione delle aspettative.

Sui mercati ci si chiede se il debito italiano sia sostenibile: date le tendenze attuali, molti concludono di no. Ci si chiede se qualcosa in futuro farà ripartire la crescita; si esamina più da vicino il Renzismo. Si osserva che – seppure gli attuali andamenti economici non sono imputabili al Governo in carica – Renzi si occupa di altro: di riforme istituzionali, secondo i sostenitori; di smantellare la democrazia, secondo i critici. Ma non sta imprimendo nessuna svolta alla politica economica: che resta essenzialmente quella dei governi precedenti. I conti del 2015 non quadrano. Occorrerà fare altra austerità: è dunque possibile che la situazione economica si deteriori ulteriormente.

Gli investitori allargano lo sguardo a Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda, ecc. Notano che anche qui il rapporto Debito/Pil continua a salire. Chi pagherà il conto? Gli investitori si volgono verso la Bce. Riconsiderano la promessa del 26 Luglio 2012 che fermò gli spread: “Faremo tutto il necessario per salvare l’Euro”. Partorì gli OMT: una garanzia ambigua! La BCE si accollerà davvero le perdite sui titoli pubblici? Nel 2012 la situazione era diversa. La BCE fronteggiava una ‘crisi di liquidità’ di quelle che si auto-avverano. Per rendere i debiti sostenibili era sufficiente offrire una garanzia, senza spendere un solo Euro. Ma l’ipotesi sottostante era: la crescita ripartirà. Non è così. Perciò il rischio dell’instabilità finanziaria torna concreto. Berlusconi cadde così.

Renzi gode ancora di ampi consensi. Ma quanto dureranno? Considerato il suo populismo, molti rispondono: “Vent’anni! Come Berlusconi!”, che mai fu scalfito dal declino italiano. I due adottano la stessa tecnica: additare al popolo sempre nuovi ‘nemici del cambiamento’ (Europa, P.A., CGIL…), su cui scaricare i fallimenti… Ma le circostanze sono mutate. La gente oggi soffre; perciò bada molto più alla sostanza. Renzi non ha più riserve di spesa pubblica da regalare per occultare i fallimenti. Se i risultati non arrivano, il consenso calerà. Inoltre, la gente sembra oggi accettare di perdere antichi diritti (eleggere i senatori, selezionare i deputati, l’uguaglianza dei politici di fronte alla legge, ecc.) in cambio della promessa ripresa economica. Ma domani?

E arrivo al M5S. Per raccogliere il malcontento provocato dai fallimenti altrui, adesso occorre dimostrare di essere portatori di soluzioni superiori. Nei mesi scorsi ho spesso rivolto critiche al M5S per stimolarne la crescita. Per esempio quando nel Marzo 2013 non ha proposto al Pd un ‘governo di cambiamento’ di alto profilo. O quando si è abbandonato al cupio dissolvi (tutto crollerà, ecc.). O quando sulla Costituzione ha assunto un atteggiamento ambiguo (i partiti sono superati; la democrazia rappresentativa è superata; il Parlamentare deve avere un mandato vincolato; ecc.). I balordi che vogliono un giornalismo schierato, incapaci di autocritica, se ne dolevano. Ma il M5S sta crescendo. Sta passando da una cultura da movimento – con un’Agenda limitata – a una cultura da partito – capacità di affrontare tutti i problemi. Sta organizzando i rapporti interni in maniera più tollerante, ma abbastanza coesa. Ecc.

La domanda cruciale è se M5S stia sviluppando una cultura di governo adeguata ai problemi: e questo è oggi uno standard altissimo. Si consideri il Ministro dell’Economia, Padoan. È possibile sostenere che sia il miglior Ministro dell’Economia degli ultimi anni, e al tempo stesso che sia inadeguato. Una malattia grave richiede medici non solo di alto livello, ma anche con la giusta specializzazione; per vincere la crisi occorrono non solo bravi economisti, ma che siano anche esperti di politiche della domanda. (Padoan è un esperto delle politiche dell’offerta). Auspicherei pertanto che M5S proponesse un governo di alto profilo senza parlamentari dentro. I parlamentari facciano i parlamentari, cioè i controllori del governo. Controllino i risultati, inclusi gli ‘obiettivi intermedi’ (per vedere se la strategia funziona). E se il Governo non sta portando i risultati concordati, via, si cambia!

M5S potrebbe annunciare per ogni ministero una terna (in evoluzione) di nomi che ‘tiene in considerazione’ come potenziali Ministri. Per dissipare i timori, alzare gli standard, segnalare che un’altra politica è possibile. C’è, sotto, un’idea paradossale: il M5S può diventare la formazione politica più moderata. E un equivoco da dissipare: Pd e Pdl fanno una politica economica moderata, quando essa spinge in povertà assoluta il 10% degli italiani? Fanno una politica istituzionale moderata, quando cancellano conquiste storiche della democrazia… e ‘i treni finalmente arriveranno in orario’? Gli italiani vogliono un buon governo, che risolva davvero la crisi. L’apparente radicalismo della ‘rottamazione’ è solo una protesta di moderati contro l’estremismo dell’incompetenza e della disonestà. Se il M5S abbandonerà i sogni palingenetici, l’arroganza del “sappiamo tutto noi”, e impegnerà umilmente – nel confronto con tutti – i migliori italiani a ristabilire la civiltà economica e democratica, potrà raccogliere l’eredità del Governo prima di quanto si pensi. In non so più quale western, dice Henry Fonda dopo una sparatoria: “Ragazzo, ti consiglio di crescere; in fretta!”. Chi ha orecchi intenda.

Colle, gli 11 presidenti – Ciampi, banchiere grigio che sognava la “moral suasion”

Già premier e ministro dell'Euro. Passa al primo turno: come De Nicola. E' scelto fuori dal Parlamento

Il decimo Presidente, come il primo Enrico De Nicola, i partiti lo vanno a prendere fuori dal Parlamento. È Carlo Azeglio Ciampi, il tecnico di pronto intervento che nel 1993 è divenuto premier e ha salvato per pochi mesi la reputazione della politica screditata da Tangentopoli e da Mafiopoli; e che nel 1996-’98, come ministro del Tesoro del primo governo Prodi, ha salvato il Paese dalla deriva verso il Terzo Mondo, agganciandola miracolosamente all’Europa della moneta unica. L’Italia che nel 1999 saluta il presidente Scalfaro dopo sette anni di Quirinale ha appena visto naufragare la Bicamerale, tentativo maldestro e suicida del centrosinistra di giungere alla “normalità” tanto cara a Massimo D’Alema con un compromesso al ribasso sulla riforma della Costituzione con l’eversore incostituzionale per antonomasia: Silvio Berlusconi.

 Il quale, subito dopo aver perso rovinosamente le sue seconde elezioni nel ‘96 e aver ottenuto dal Conte Max l’insperata legittimazione di padre costituente, anzi ricostituente, ha portato a spasso il centrosinistra per due anni, costringendolo a snaturarsi in “patti della crostata” in casa Letta e in progetti neocraxiani sul presidenzialismo e contro l’indipendenza della magistratura. Poi, sul più bello, li ha mollati a metà del guado e ha fatto saltare il tavolo della Bicamerale, avendo capito che il suo vero obiettivo finale – l’amnistia per salvarsi dai processi – non glielo può regalare nemmeno la sinistra più masochista del pianeta, terrorizzata dalla rivolta dei suoi elettori. In compenso ha ottenuto un risultato mica da ridere: indebolire il governo Prodi, che insieme a Scalfaro alla Bicamerale ha sempre guardato con sospetto, fino a farlo cadere per mano di Bertinotti e a rimpiazzarlo nell’ottobre ’98 con una parodia di governo D’Alema sostenuto dai ribaltonisti al seguito di Cossiga e Mastella. Il viatico ideale per una riscossa che solo due anni prima pareva follia.

Ma se la controriforma della seconda parte della Costituzione va in fumo dopo due anni di inutile lavoro, l’asse D’Alema-Berlusconi resta in piedi per eleggere il nuovo capo dello Stato, che i due compari vogliono scegliere insieme, convinti ciascuno di poterlo usare per mettere nel sacco l’altro. Max e Silvio non hanno dubbi: il nuovo capo dello Stato deve descalfarizzare il Quirinale, dunque non può essere un politico abile nella manovra di palazzo come lo era il Presidente uscente. Occorre – come scriverà Marzio Breda ne La guerra del Quirinale (ed. Garzanti) – “un defibrillatore istituzionale, un dissuasore” che spenga gli ardori della battaglia politica. Un anestesista, un emolliente che consenta ai partiti di riprendere in mano il pallino della politica, troppo a lungo commissariata. “Una figura istituzionale all’insegna della terzietà”, auspica Gianni Letta col suo linguaggio alla vaselina.

L’inciucio tra B. e D’Alema

Dunque è subito chiaro a tutti che i candidati di bandiera ai blocchi di partenza, nella primavera ‘99, sono specchietti per le allodole. Berlusconi pronuncia due nomi: Amato, l’ex craxiano che fino a due anni prima è stato presidente dell’Antitrust da lui stesso nominato e perfetto garante del trust Mediaset; e Bonino, eletta con Forza Italia nel ’94 e sempre rimasta nell’orbita del centrodestra, anche perché lo stesso Cavaliere l’ha scelta come commissario europeo insieme a Monti. Il centrosinistra non gradisce: Amato è ancora sotto scacco di Craxi, che ogni tanto distilla veleni sul suo passato socialista con i famosi fax da Hammamet; e la Bonino non è ancora ascesa nell’Olimpo progressista.

Così il centrosinistra ribatte con le candidature di tre ex democristiani: Rosa Russo Iervolino, ex presidente del Ppi, fedelissima di Scalfaro, dunque vista come il fumo negli occhi dal Cavaliere; Nicola Mancino, presidente del Senato, ex sinistra Dc e ora Ppi; e Franco Marini, ex leader della Cisl, poi passato alla politica attiva con Andreotti, anche lui confluito nel Ppi. Ma nessuno dei tre incontra i favori della destra. E Prodi, altro papabile, viene spedito alla Commissione Ue. Ciampi invece va bene a tutti. Tant’è che il 13 maggio, quando le Camere iniziano a votare, viene eletto plebiscitariamente al primo scrutinio. Come Cossiga. Lo votano centrodestra e centrosinistra, tranne la Lega Nord e Rifondazione comunista. Con 707 voti su 1010, contro i 72 del lumbard Luciano Gasperini e i 21 del rosso antico Ingrao (scelto dai rifondatori). Raccolgono consensi anche la Iervolino (16), la Bonino (15), l’imputato per mafia Andreotti (10) e persino il latitante Craxi (6).

Sul Corriere, Montanelli saluta con sollievo non tanto il nuovo Presidente, quanto lo scampato pericolo di veder eletti i suoi concorrenti demo-cristiani e dunque rinascere la Balena Bianca: il “mostro senza volto che m’incalza con la logorrea del presidente uscente (Scalfaro, ndr), aggravata dall’accento irpino di Mancino e dalle corde vocali della signora Iervolino”. L’idea di un capo dello Stato più taciturno, dopo le intemperanze di Per-tini, le picconate di Cossiga e le omelie di Scalfaro, rassicura più di un italiano. E Ciampi – scrive il vecchio Indro – promette bene almeno da questo punto di vista: “Non è di un grande statista che stiamo parlando, ma di un ‘commesso dello Stato’, come si chiamano in Francia gli alti e ringhiosi guardiani della pubblica amministrazione, allergici alle manovre politiche… Impacciato parlatore, in aula non brilla. Ma non brillava nemmeno Einaudi, come non aveva mai brillato Giolitti”. Il quale, “quando non aveva più nulla da dire, aveva finito di parlare”.

Chissà, forse in un altro contesto Ciampi avrebbe davvero tenuto fede a queste attese. Di sé quest’uomo in grigio, anzi in bianco e nero con le sopracciglia folte ad accento circonflesso, dice: “Soffro di agorafobia, prendere la parola in una piazza o davanti a platee troppo vaste mi blocca”. Ma dovrà fare violenza a se stesso. Perché, dopo poco più di un anno di tregua, si ritrova subito in mezzo a un’infuocata campagna elettorale: quella del 2001, col ritorno di fiamma di Berlusconi. Seguita da un quinquennio terribile fatto di leggi vergogna, norme ad personam, attacchi alla Costituzione e alla magistratura, scontri con la “sua” Europa e incidenti internazionali. Ed è costretto, lui che non ama parlare in pubblico, men che meno a braccio, a esternare quasi ogni giorno: se non come i tre precedessori, quasi.

Nato a Livorno nel 1920 da un negoziante di ottica e una insegnante di musica, sposato con Franca Pilla, Ciampi ha studiato dai gesuiti e poi alla Normale di Pisa. Ha due lauree, in Filologia classica e in Giurisprudenza. Credente ma laico (e, secondo qualche maligno, anche massone), si definisce un “liberale crociano”: combattendo in guerra come sottotenente degli autieri in Albania e poi in Abruzzo, ha conosciuto il suo maestro Guido Calogero, filosofo antifascista e liberalsocialista, che l’ha avvicinato al Partito d’azione. È questa l’unica militanza politica del giovane Ciampi, insieme all’iscrizione alla Cgil. Nel 1946, dopo aver insegnato per un po’ Lettere al liceo, dà il concorso per la Banca d’Italia, dove resterà 47 anni percorrendo tutto il cursus honorum, da impiegato a governatore (per 14 anni, dal 1979 al 1993). È lì che matura uno stile sobrio ed essenziale e un metodo di lavoro fondato sulla “squadra”, che metterà a frutto sul Colle con un’équipe di consulenti esterni (i “Ciampi boys”) di cui fanno parte Andrea Manzella, Sabino Cassese, Mario Draghi, Maurizio Viroli, Tommaso Padoa-Schioppa e il solito, eterno Tonino Maccanico.

 Sì e no alle leggi vergogna

Una sobrietà tecnica che non gli impedirà qualche concessione alla retorica patriottarda, senza plateali baci alla bandiera e lacrime in pubblico, con giuste campagne come quella per rivalutare la festa del 2 giugno. Ma pure con qualche indulgenza di troppo al nazionaltrombonismo. Tipica, in questo senso, la battaglia per far cantare l’inno di Mameli ai calciatori della Nazionale. E anche un’esternazione nel giorno dell’ottantesimo compleanno: “Nel ’93, da presidente del Consiglio, andai in visita di Stato in Germania. Ero sul palco al fianco del cancelliere Kohl, e fu issato il tricolore mentre la banda suonava l’inno di Ma-meli. Lo confesso, un brivido mi corse lungo la schiena e mi tremarono le gambe”. Figurarsi la faccia di Ciampi, sul palco della prima alla Scala, quando il maestro Riccardo Muti rifiuta di eseguire l’inno nazionale “perché si tratta di una marcetta incompatibile con Beethoven”.

Il suo primo atto politico è, nel 2000, la nomina di Giuliano Amato per rimpiazzare D’Alema, dimissionario dopo la rovinosa disfatta alle elezioni regionali. Poi, appunto, torna Berlusconi. Sulle prime Ciampi si illude di fronteggiare i suoi continui strappi istituzionali, costituzionali e internazionali con la moral suasion: qualche fervorino in via riservata. Come quello che consiglia al Cavaliere di rinunciare a nominare ministro della Giustizia Roberto Maroni, condannato in via definitiva per aver picchiato un poliziotto durante una perquisizione nella sede della Lega, e dirottato al Welfare.

Ma ben presto deve cambiare registro: sin da quando, a fine 2001, il Cavaliere dichiara guerra all’Europa con la legge sulle rogatorie e il rifiuto di ratificare la legge sul mandato di cattura europeo, perdendo per strada il ministro degli Esteri, il tecnico, Renato Ruggiero e assumendo su di sé l’interim della Farnesina. Ciampi fa buon viso a cattiva sorte anche con la legge sul falso in bilancio e con la Cirami sul legittimo sospetto, mentre le piazze si riempiono di girotondini , scudi umani contro il bombardamento alle procure. Ma nel 2003 deve rassegnarsi: la moral suasion, con un tipaccio come il Caimano, non serve a nulla. Del resto, agli scenari di guerra è abituato: non solo per la sua esperienza di sottufficiale, ma anche perchè porta ancora le stimmate della notte fra il 27 e il 28 luglio ‘93, quando le bombe mafiose polverizzavano a suon di bombe il Pac di Milano, le basiliche romane del Velabro e del Laterano, e i centralini di Palazzo Chigi andavano in tilt, facendogli temere il golpe.

I soliti dossier

Dunque, dal 2003, il Presidente comincia a rispedire al mittente le leggi più incostituzionali: quella sui tribunali minorili e soprattutto quelle sulla tv (la Gasparri) e contro la giustizia (la Castelli sull’ordinamento giudiziario e la Pecorella che abolisce l’appello contro le assoluzioni). E così diventa anche lui, come Scalfaro, un nemico da abbattere, un “ribaltonista”, un “comunista mascherato”. Gli house organ di Arcore e dintorni estraggono i dossier pronti da tempo: allusioni al figlio scavezzacollo e ai suoi pasticci finanziari; e soprattutto all’operazione Telekom Serbia, il controverso acquisto della compagnia telefonica di Belgrado dalle mani di Milosevic ai tempi del governo Prodi, quando Ciampi era al Tesoro. Il centrodestra istituisce una commissione parlamentare ad hoc, trasforma un truffatore (il celebre Igor Marini) in supertestimone, raccoglie accuse false a Prodi, Fassino e Dini.

Ma Claudio Scajola e Carlo Taormina fanno sapere che sono pronti a tirare in ballo anche il Presidente, se farà lo schizzinoso sulle leggi del Capo. Lui non si lascia intimidire (anche se poi firmerà senza batter ciglio altre vergogne come la Bossi-Fini, il lodo Schifani, la ex-Cirielli e le guerre in Afghanistan e in Iraq). Così come quando un’orda di leghisti guidati dagli “onorevoli” Borghezio, Salvini e Speroni, accoglie la sua visita al Parlamento europeo al grido “Basta euro, Padania libera, Italia vaffanculo”. Sul momento, Ciampi minimizza, anche per non enfatizzare la figuraccia italiana in Europa. Ma si prenderà una sonora rivincita il giorno dopo le sue dimissioni, nella primavera del 2006, annunciando da semplice senatore a vita il suo No al referendum confermativo sulla controriforma costituzionale della “devolution” targata Carroccio e centrodestra. Qualcuno dirà: troppo poco, troppo tardi. Ma solo perché non ha ancora visto all’opera il suo successore.

 

Crisi: l'Italia ha perso un quarto del prodotto industriale, la Germania ha già recuperato
Secondo i dati dell'Istat gli impatti maggiori della doppia ondata recessiva dal 2008 a oggi si sono fatti sentire su Italia e Spagna più che in ogni altra circostanza. In due terzi dei settori economici del Belpaese si sono registrati cali produttivi superiori al 20%. Estero e tagli dei costi sono state le uniche scialuppe di salvataggio
MILANO - La doppia ondata di recessione che ha colpito l'Italia e tutto l'Occidente tra il 2008 e il 2013, della quale ancora si fatica a vedere la fine, ha lasciato sul tappeto la capacità produttiva italiana. Proprio il Belpaese, insieme alla Spagna, è in cima alla graduatoria di chi ha perso livelli produttivi: ha lasciato sul terreno un quarto del prodotto industriale, mentre l'economia iberica ne ha perso addirittura un terzo. Se la Germania ha quasi recuperato i livelli produttivi antecedenti la crisi, Francia e Regno Unito si collocano nel mezzo tra questi estremi.

L'attuale fase recessiva si sta così rivelando "particolarmente lunga e intensa", nonostante la progressiva attenuazione osservata negli ultimi mesi dello scorso anno. In Italia tra il 2007 e il 2013 sono stati registrati cali produttivi di oltre il 20% in ben due terzi dei settori. Sono i dati frortemente negativi contenuti nel rapporto dell'Istat sulla competitività dei settori produttivi. La caduta ciclica del 2011-2013 è stata contrassegnata "dall'eccezionale divaricazione" delle due componenti del fatturato industriale: quello nazionale è diminuito di circa il 17%, posizionandosi a un livello inferiore rispetto al punto minimo della prima recessione; quello estero ha registrato un rallentamento, facendo segnare comunque una lieve crescita (+3%).

Eurobarometro: Italia al tappeto, potenziale di crescita a zero

A differenza delle crisi precedenti, in Italia la caduta dell'output si è manifestata con "un'ampiezza maggiore rispetto a quella osservata in molti tra i partner dell'Unione economica e monetaria", si osserva nel rapporto. Nel confronto con gli altri partner europei la peggiore performance del fatturato complessivo italiano ha riguardato in particolare i beni intermedi e di consumo, mentre le vendite dei beni d'investimento hanno mostrato una maggiore uniformità.

Il crollo della domanda interna, si legge nel dossier dell'Istat, "dovrebbe aver determinato impatti differenziati sul tessuto produttivo del nostro paese". Tra i settori vincenti emergono alcuni di quelli tipici del modello di specializzazione italiano: gli articoli in pelle, l'industria delle bevande e quella alimentare. Al contrario, i comparti che evidenziano le più forti contrazioni di fatturato sono: il settore della fabbricazione di mobili, la confezione di articoli di abbigliamenti, le industrie del legno.

Tra il 2010 e il 2013, secondo i dati dell'Istat, solo in quattro comparti si è verificata una variazione negativa del fatturato estero: produzione di mobili, legno, stampa e abbigliamento. Mentre solo nel settore alimentare è stato registrato un incremento di fatturato nel mercato interno. Di conseguenza si è registrato un "generalizzato incremento della propensione all'export" rispetto al fatturato totale. Ripartendo le imprese sulla base della propria quota di fatturato estero in quattro classi di uguale ampiezza, emerge che tra il 2010 e il 2013 si sono delineati "spostamenti netti di imprese verso classi più elevate".

A questi passaggi, si spiega nel rapporto, si associano generalmente "variazioni di fatturato totale positive e strategie prevalentemente aggressive, orientate all'espansione all'estero attraverso l'ampliamento della gamma di prodotti e servizi offerti". Al contrario, a passaggi verso classi meno elevate di propensione all'export "si accompagnano aumenti di fatturato nazionale e riduzione del fatturato totale, guidate da forti cadute dei ricavi sui mercati esteri".

Tra le leve competitive si segnala l'importanza assunta da: l'intensità delle relazioni con altre imprese o istituzioni, l'attività innovativa, l'investimento in formazione di personale. Mentre in un'ottica settoriale le strategia trainanti del sistema sono: l'investimento in capitale umano, il raggiungimento di un elevato grado di connettività produttiva e l'innovazione. In particolare, nel rapporto si evidenzia che l'investimento in capitale umano "accomuna settori molto eterogenei".

Le aziende sopravvissute alla crisi del biennio 2012-2013 presentano delle caratteristiche messe in luce nel rapporto: più di un'attività su due ha conservato invariata la propria dotazione fiscale, mentre l'occupazione netta complessiva è diminuita. Per contrastare la recessione, le aziende manifatturiere hanno fatto principalmente ricorso a orientamenti strategici interni di difesa della propria competitività, come: la riduzione dei costi di produzione, il miglioramento qualitativo dei prodotti, l'ampliamento della gamma, il contenimento dei prezzi e dei margini di profitto. Tra le strategie esterne si segnala un rafforzamento delle politiche di commercializzazione.

Analizzando gli effetti delle due ondate recessive, del 2008-2009 e del 2011-2013, sulla produzione industriale, si evidenzia chiaramente come l'impatto sulle economie europee sia stato notevolmente differenziato. La Germania, spiega l'Istat, è l'unico paese ad avere recuperato quasi pienamente i livelli produttivi precedenti alla crisi; Italia e Spagna hanno perso, rispettivamente, quasi un quarto e un terzo del prodotto industriale; Francia e Regno Unito si situano in un ambito intermedio tra questi due poli.

RENZI RIMANDATO A SETTEMBRE (dopo i Mondiali e le Vacanze (dicono che siamo in crisi...), si scateneranno gli aumenti a catena

Istat: la disoccupazione ai massimi dal 1977:12,6%
il tasso tra i giovani è balzato al 46%
, PIL - 0,1%,l'annuncio dello "sblocca stronzate" non basta...

Dati sul primo trimestre: quasi 3 milioni e mezzo senza lavoro

IL LUNGO DOCUMENTO EUROPEO CHE CI MASSACRA

Ma nel corso delle trattative notturne è saltata la parte più pesante della pagella: la bocciatura della richiesta italiana di poter rimandare di un anno il pareggio di bilancio strutturale. Nel testo iniziale veniva respinta "a causa del rischio di non conformarsi con gli obiettivi di riduzione del debito". In compenso Bruxelles detta a Renzi una minuziosa agenda in otto punti: dal rafforzamento delle misure di bilancio al trasferimento del carico fiscale dal lavoro ai consumi. Passando per il potenziamento delle misure anticorruzione, il riequilibrio della spesa sociale e la rimozione degli ostacoli alla concorrenza.

Lo schiaffo vero, quello che Matteo Renzi temeva e che nei giorni scorsi – al di là dell’ostentata tranquillità – lo ha fatto stare sulla graticola, è stato evitato per un pelo. Perché, all’ultimo minuto, dalle nove pagine di testo che contengono le attese “raccomandazioni” di Bruxelles all’Italia è stata eliminata la parte più scottante: quella che bocciava la richiesta italiana di uno slittamento di un anno – dal 2015 al 2016 – del pareggio strutturale di bilancio. E la cui immediata conseguenza sarebbe stata la necessità di una manovra di rientro. Salvi in extremis, dunque? Si fa per dire: quel che rimane, anche al netto della “sbianchettatura” finale, è tutt’altro che una bella pagella. Il giudizio (leggi qui il documento) sulle diverse parti del Documento di economia e finanza (Def) inviato alle istituzioni Ue a fine aprile non è per nulla tenero e anche se la parola manovra non c’è, il concetto è piuttosto chiaro: “Servono sforzi aggiuntivi, anche nel 2014, per rispettare i requisiti del Patto di stabilità e crescita”. E la ”deviazione dal percorso di aggiustamento verso l’obiettivo a medio termine”, su cui per ora la Ue ha deciso di chiudere un occhio, “se si ripetesse l’anno successivo potrebbe essere valutata come significativa”. Per di più lo scenario macroeconomico su cui il governo si è basato per disegnare le proprie proiezioni di bilancio è “leggermente ottimistico” e il raggiungimento degli obiettivi “non è totalmente suffragato da misure sufficientemente dettagliate“.

Segue una dettagliata agenda in otto punti, in qualche caso accompagnati anche dall’orizzonte temporale considerato ottimale. Oltre a prescrivere il rafforzamento delle misure di bilancio, il documento invita Palazzo Chigi a muoversi rapidamente sul fronte dell’efficienza della pubblica amministrazione e della buona gestione dei fondi europei, a rafforzare il settore bancario e a usare in modo diverso gli ammortizzatori sociali puntando all’effettivo reinserimento dei lavoratori. Non solo: nel mirino di Bruxelles finiscono anche la qualità del sistema scolastico con le sue ricadute sul capitale umano, la corruzione, la giustizia civile, la ripartizione della spesa sociale, gli ostacoli alla concorrenza che ancora ingessano molti settori e l’efficienza degli appalti pubblici.

PERICOLO SCAMPATO. SOLO FORMALMENTE - “L’esenzione richiesta dall’Italia di deviare dal percorso verso gli obiettivi di medio termine non può essere concessa a causa del rischio di non conformarsi con gli obiettivi di riduzione del debito”. Suonava così, stando a una bozza, la frase incriminata che avrebbe inchiodato il governo agli impegni presi con Bruxelles sul fronte del pareggio strutturale di bilancio. Pareggio che Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan hanno deciso di rinviare al 2016, scrivendo nel Def che si tratta di una “deviazione temporanea” e invocando le “circostanze eccezionali” previste dai regolamenti europei. Quel paragrafo, nel corso della notte tra domenica e lunedì o forse addirittura durante l’ultima riunione di lunedì mattina, è stato espunto dal testo finale. Pericolo scampato. Anche se la realtà dei fatti resta quella: “Le previsioni di primavera 2014 della Commissione”, scrive il Consiglio al punto 9 delle sue considerazioni preliminari, “indicano una non conformità con il parametro di riferimento della riduzione del debito nel 2014 poiché l’aggiustamento strutturale prospettato (soltanto 0,1 punti percentuali del Pil) è inferiore all’aggiustamento strutturale richiesto di 0,7 punti percentuali”. Il quotidiano La Stampa ha fatto i conti stimando in 9 miliardi lo sforzo aggiuntivo che sarebbe stato richiesto per correggere la deviazione dall’obiettivo. Al governo, però, non viene imposto di rientrare subito.

DEBITO SOTTO OSSERVAZIONE - In compenso vanno rispettati – e su questo non ci sarà flessibilità – altri paletti per nulla trascurabili: oltre a provvedere per il 2015, l‘Italia già quest’anno deve adottare provvedimenti per “rafforzare le misure di bilancio alla luce dell’emergere di uno scarto rispetto ai requisiti del patto di stabilità e crescita, in particolare alla regola della riduzione del debito”. Debito che in aprile ha toccato il 135,2% del Pil, già due punti sopra quello che in base al Def dovrebbe essere il livello medio per quest’anno.

SPENDING REVIEW, MA CON CRITERIO - Per Bruxelles, l’Italia nell’immediato dovrà “portare a compimento l’ambizioso piano di privatizzazioni” e “attuare un aggiustamento di bilancio favorevole alla crescita”, cioè basato non su nuove tasse ma sulla riduzione delle uscite grazie a “un miglioramento duraturo dell’efficienza e della qualità della spesa pubblica a tutti i livelli di governo”. Preservando però la spesa “atta a promuovere la crescita”, ossia quella “in ricerca e sviluppo, innovazione, istruzione e progetti di infrastrutture essenziali“. Sempre in vista del rispetto dei parametri di bilancio, vanno garantite “l’indipendenza e la piena operabilità dell’Ufficio parlamentare di bilancio“, l’organismo indipendente incaricato di vigilare sul pareggio di bilancio introdotto in Costituzione che le Camere sono riuscite a eleggere solo a maggio dopo quattro mesi di tira e molla. Adesso basta ritardi, chiede in pratica il Consiglio Ue: l’ufficio deve essere operativo “il prima possibile” e comunque “entro settembre 2014, in tempo per la valutazione del documento programmatico di bilancio 2015″.

TASSARE DI PIU’ I CONSUMI E MENO IL LAVORO - Il giudizio sul bonus fiscale di 80 euro è di parziale sufficienza. Il fatto è che va garantito anche per il 2015 e da comunque da solo non basta: occorre “trasferire ulteriormente il carico fiscale dai fattori produttivi ai consumi, ai beni immobili e all’ambiente, nel rispetto degli obiettivi di bilancio” e “valutare l’efficacia della recente riduzione del cuneo fiscale assicurandone il finanziamento per il 2015″. Seguono altre prescrizioni: la delega fiscale va attuata “entro il marzo 2015″, approvando anche i decreti che riformano il sistema catastale per garantire l’equità e “l’efficacia della riforma sulla tassazione dei beni immobili“, “sviluppare ulteriormente il rispetto degli obblighi tributari, rafforzando la prevedibilità del fisco, semplificando le procedure, migliorando il recupero dei debiti fiscali e modernizzando l’amministrazione fiscale”, “perseverare nella lotta all’evasione fiscale e adottare misure aggiuntive per contrastare l’economia sommersa e il lavoro irregolare”. Più nel dettaglio servono poi misure sulle agevolazioni fiscali dirette (la cui portata deve essere “riesaminata”), sulla base imponibile (che va appunto “allargata”, soprattutto sui consumi) e sulle accise sui carburanti, in particolare l’”adeguamento delle accise sul diesel a quelle sulla benzina” e l’eliminazione delle “sovvenzioni dannose per l’ambiente“.

CORRUZIONE, PRESCRIZIONE E L’EFFICIENZA DELLA GIUSTIZIA CIVILE - La terza raccomandazione riguarda l’efficienza della pubblica amministrazione: al governo viene chiesto innanzitutto di “precisare le competenze a tutti i livelli di governo” e “garantire una migliore gestione dei fondi dell’Ue con un’azione risoluta di miglioramento della capacità di amministrazione, della trasparenza, della valutazione e del controllo di qualità a livello regionale, specialmente nelle regioni del Mezzogiorno”. Ma il prerequisito è ridurre la corruzione che “continua a incidere pesantemente sul sistema produttivo dell’Italia e sulla fiducia nella politica e nelle istituzioni”. Per questo occorre anche “potenziare ulteriormente l’efficacia delle misure anticorruzione, in particolare rivedendo l’istituto della prescrizione entro la fine del 2014 e rafforzando i poteri dell’Autorità nazionale anticorruzione”. Ogni riferimento al caso Expo è puramente casuale e arriva proprio mentre si attende il decreto ad hoc, mirato soprattutto a dare all’authority e al suo presidente Raffaele Cantone pieni poteri per vigilare sugli appalti dell’Esposizione Universale di Milano. Bisogna poi “monitorare tempestivamente gli effetti delle riforme adottate per aumentare l’efficienza della giustizia civile, con l’obiettivo di garantirne l’efficacia, e attuare interventi complementari, ove necessari”.

PIU’ VIGILANZA SU BANCHE POPOLARI E FONDAZIONI - Ce n’è anche per le banche, e in questa fase non poteva essere altrimenti. Sotto osservazione i prestiti dalla riscossione incerta e, più in generale, il governo societario, sia degli istituti sia delle fondazioni che ne detengono quote. Va garantita “la capacità di gestire e liquidare le attività deteriorate per rinvigorire l’erogazione di prestiti all’economia reale“. Ma “gli interventi attuati finora in materia di accesso ai finanziamenti sono stati principalmente imperniati su misure di agevolazione dell’accesso delle imprese al credito”. Mentre ora va promosso anche “l’accesso delle imprese, soprattutto di quelle di piccole e medie dimensioni, ai finanziamenti non bancari“. Poi un nuovo ammonimento sull’attuazione effettiva delle regole: ”Benché siano lodevoli le iniziative relative al settore del governo societario delle banche, tra cui i nuovi principi recentemente stabiliti dalla Banca d’Italia, l’impatto di questi ultimi dipenderà dalle banche che dovranno applicarli correttamente e dal fatto che vengano effettivamente fatti rispettare”. Occorre “continuare a promuovere e monitorare pratiche efficienti di governo societario in tutto il settore bancario, con particolare attenzione alle grandi banche cooperative (banche popolari) e alle fondazioni, al fine di migliorare l’efficacia dell’intermediazione finanziaria”. 

LIMITARE LA CASSA INTEGRAZIONE - Per quanto riguarda il mercato del lavoro, Bruxelles invita il governo a “valutare gli effetti delle riforme” su salari, creazione di posti, procedure di licenziamento e dicotomia tra garantiti e precari. E a considerare, se sarà il caso, l’opportunità di varare “ulteriori interventi”. Gran parte del paragrafo, però, si concentra su chi il lavoro l’ha perso o non lo trova. Sul primo fronte le parole d’ordine sono “piena tutela sociale dei disoccupati”. Per garantirla occorre limitare l’uso della cassa integrazione guadagni “per facilitare la riallocazione della manodopera”, “rafforzare il legame tra le politiche del mercato del lavoro attive e passive, a partire dalla presentazione di una tabella di marcia dettagliata degli interventi entro settembre 2014″ e “potenziare il coordinamento e l’efficienza dei servizi pubblici per l’impiego“.

Quanto a chi sul mercato del lavoro deve entrarci, bisogna “intervenire concretamente per aumentare il tasso di occupazione femminile, adottando entro marzo 2015 misure che riducano i disincentivi fiscali al lavoro delle persone che costituiscono la seconda fonte di reddito familiare, e fornire adeguati servizi di assistenza e custodia”, “fornire in tutto il Paese servizi idonei ai giovani non iscritti alle liste dei servizi pubblici per l’impiego ed esigere un impegno più forte da parte del settore privato a offrire apprendistati e tirocini di qualità entro la fine del 2014, in conformità agli obiettivi della Garanzia per i giovani”.

TROPPA SPESA SOCIALE PER GLI ANZIANI - Dagli esami della Commissione è emerso che tra pensioni, sanità e assistenza la spesa sociale in Italia è “tuttora destinata in gran parte agli anziani“. E non riesce a “contenere i rischi di esclusione sociale e di povertà”. Per rimediare è necessario estendere gradualmente “il regime pilota di assistenza sociale, assicurando un’assegnazione mirata, una condizionalità rigorosa e un’applicazione uniforme su tutto il territorio”. Oltre a rafforzarne la “correlazione con le misure di attivazione”. Infine vanno migliorate l’efficacia dei regimi di sostegno alla famiglia e la qualità dei servizi per i nuclei familiari a basso reddito con figli.

LA SCUOLA, PIU’ ATTENZIONE AL CAPITALE UMANO - La qualità dell’insegnamento e la dotazione di capitale umano vanno migliorate “a tutti i livelli di istruzione”. Per questo tra le raccomandazioni compare anche la richiesta di ”rendere operativo il sistema nazionale per la valutazione degli istituti scolastici per migliorare i risultati della scuola e, di conseguenza, ridurre i tassi di abbandono scolastico; accrescere l’apprendimento basato sul lavoro negli istituti per l’istruzione e la formazione professionale del ciclo secondario superiore e rafforzare l’orientamento professione nel ciclo terziario”. Dulcis in fundo, e i ricercatori festeggeranno, bisogna “assicurare che i finanziamenti pubblici premino in modo più congruo la qualità dell’istruzione superiore e della ricerca” e assegnare quelli destinati alle università “in funzione dei risultati conseguiti nella ricerca e nell’insegnamento”.

POSTE, ASSICURAZIONI, BENZINAI E SERVIZI PUBBLICI SENZA CONCORRENZA - Occorre poi schiacciare l’acceleratore sulle semplificazioni normative e “colmare le lacune attuative delle leggi in vigore”, promuovere “l’apertura del mercato” e rimuovere “gli ostacoli rimanenti e le restrizioni alla concorrenza nei settori dei servizi professionali e dei servizi pubblici locali, delle assicurazioni, della distribuzione dei carburanti, del commercio al dettaglio e dei servizi postali“. Le prescrizioni sul fronte degli appalti pubblici – tema quanto mai sensibile in tempi di nuove “cupole” e giri di tangenti – si appuntano sull’efficienza da “potenziare” e sulle procedure da “semplificare” sfruttando le procedure informatiche, razionalizzando le centrali d’acquisto e dando “garanzia della corretta applicazione delle regole relative alle fasi precedenti e successive all’aggiudicazione”. In materia di servizi pubblici locali, infine, va “applicata con rigore la normativa che impone di rettificare entro il 31 dicembre 2014 i contratti che non ottemperano alle disposizioni sugli affidamenti in house”. 

BOCCIATE LE INFRASTRUTTURE, LA RETE E IL RUOLO SCOMODO DELLE FERROVIE - Nel capitolo infrastrutture c’è un evidente richiamo al ministro delle Infrastrutture e dei trasporti, Maurizio Lupi: “Garantire la pronta e piena operatività dell’Autorità di regolazione dei trasporti entro settembre 2014″, prescrive il Consiglio. A dire il vero quella Authority, nata sulla carta nel lontano 2011 ma varata di fatto nel luglio 2013 (Lupi era allora ministro del governo Letta), è attiva da gennaio. Ma per ora ha solo lanciato “consultazioni” e avviato un giro di audizioni con aziende e associazioni dei consumatori. Per di più, si legge nel “documento di lavoro” della Commissione, “gran parte dello staff previsto deve ancora essere reclutato”. Da qui l’invito a renderla davvero “operativa”, anche perché “è importante che dia rapidamente la sua opinione sulla separazione tra gestione dell’infrastruttura e operazioni di trasporto nel settore ferroviario (il riferimento è al ruolo di Ferrovie che sono al contempo gestore e fruitore della rete del Paese, ndr) che avrebbe dovuto consegnare già a giugno 2013″. 

Sempre a proposito di treni e ferrovie, all’interno del documento si ricorda che “il settore presenta ancora importanti debolezze. La lunghezza della rete rapportata al numero di abitanti è tra le più basse dell’Unione mentre il tasso di utilizzo è tra i più alti. A dispetto di un tasso di investimento infrastrutturale sopra la media Ue, in alcune regioni – in particolare al Sud – rimangono colli di bottiglia. E la soddisfazione dei consumatori è tra le più basse dell’Unione”. Al punto 16 delle considerazioni preliminari c’è spazio anche per  i porti, che “meritano particolare attenzione e interventi per ovviare alla mancanza di infrastrutture intermodali e alla carenza di sinergie e collegamenti con l’entroterra”. Infine la banda larga: “In termini di copertura in Italia ci sono zone non urbane prive di sufficiente copertura”. Le “strozzature infrastrutturali”, poi, ostacolano anche “il corretto funzionamento del mercato dell’energia“.

La Ue sente infine il bisogno di chiedere a Palazzo Chigi la piena attuazione delle misure adottate: l’Italia è sempre stata lenta e inadempiente non tanto nell’annunciare e magari varare nuove norme, quanto nello scrivere i decreti attuativi necessari per trasformarle in interventi concreti. ”Resta cruciale per l’Italia l’attuazione rapida e completa delle misure adottate, sia al fine di colmare le carenze esistenti che al fine di evitare l’accumulo di ulteriori ritardi”.

 

ECCO IL 25 APRILE 2014:Il 25 aprile non unisce gli italiani. Pesa l’assenza di una memoria condivisa, ma anche il ridimensionamento dello spirito della Liberazione: è solo retorica? Sembrano propendere per questa ipotesi molti cittadini che abbiamo intervistato per strada. E voi come la pensate? Avvertite il valore morale della Resistenza quale fonte di ispirazione per il presente o ritenete che siano parole d’ordine da archiviare nei libri di storia? Ormai tutto è pronto per archiviare nella polverosa memoria itagliota  due anni di doppia occupazione, 25.000 morti solo di rappresaglia, 1.000.000 di deportati, il 70% delle infrastrutture  industriali del nord disintegrate dai bombardamenti,una parte del patrimonio artistico come Cassino annientata, più di mezzo milione di morti ed altrettanti di dispersi su tutti i fronti, ecco tutta questa massa spaventosa di distruzione caduta nel dimenticatoio, perche'?? Semplice, perchè sono passati  70 anni ovvio, il solito concetto itagliota di merda....

Storia

Convenzionalmente fu scelta questa data, perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della liberazione di Milano e Torino. In particolare il 25 aprile 1945 l'esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell'Alta Italia, presieduto da Luigi Longo,Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani (presenti tra gli altri anche Rodolfo Morandi – che venne designato presidente del CLNAI – Giustino Arpesani e Achille Marazza), alle 8 del mattino via radio proclamò ufficialmente l'insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti[2] (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo).

Entro il 1º maggio, poi, tutta l'Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 23 aprile) e Venezia (il 28 aprile). La Liberazione mette così fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra; simbolicamente rappresenta l'inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica,consultazione per la quale per la prima volta furono chiamate alle urne per un voto politico le donne, quindi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione. Il 2 maggio 1945 i plenipotenziari tedeschi guidati dal Generale delle SS Wolf, comandante in Capo dell'esercito tedesco di stanza in Italia, firmava a Caserta l'armistizio di cessazione definitiva delle ostilità sul territorio italiano. C'è da dire che l'azione del generale nazista arrivava senza alcun ordine da Berlino, assediata dai sovietici, e senza il placet di Hitler che il 28 aprile aveva fatto arrestare prima Goering e poi suo cognato ufiiciale plenipotenziario SS collegato ad Himler, precedentemente fuggito da Berlino il 20 aprile e riparato nell'estremo nord della Germania, ultimo lembo di terra non ancora invaso dagli alleati, entrambi dichiarati traditori e decaduti delle loro cariche. Il 28 aprile 1945 nei pressi di Dongo, sul Lago di Como, veniva fucilato Mussolini, in fuga forse verso la Svizzera ed il suo cadavere esposto a Piazzale Loreto a Milano il giorno seguente. Informato dettagliatamente di ciò, Hitler lucidamente decideva di suicidarsi il 30 aprile nel bunker della Cancelleria di Berlino,  dando disposizioni precise per disintegrare il suo corpo per non farlo cadere in mano ai sovietici. I russi occupavano definitivamente la capitale della Germania il 2 maggio 1945. In Germania la guerra infuriò fino al 9 maggio prima della firma della resa incondizionata su tutti i fronti da parte dell'ammiraglio Doenitz, nominato assurdamente suo successore da Hitler in persona nel suo "testamento politico".

L'istituzione della festa nazionale

Bologna festeggia la Liberazione

Manifestazione per la Festa della Liberazione a Milano, 25 aprile 2007

Su proposta del Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi, il Principe Umberto, allora Luogotenente del Regno d'Italia, istituì la festa per il 1946, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 ("Disposizioni in materia di ricorrenze festive"), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d'Italia nr. 96 di mercoledì 24 aprile 1946; l'articolo 1 infatti recitava:

« A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale. »

La ricorrenza venne poi celebrata anche negli anni successivi e dal 1949 è divenuta ufficialmente festa nazionale e in molte città italiane vengono organizzate manifestazioni in memoria dell'evento, in particolare nelle città decorate al valor militare per la guerra di liberazione o in quelle che hanno subito grandi perdite umane.

La legge che istituì la celebrazione è la n. 260 del 27 maggio 1949[3] ("Disposizioni in materia di ricorrenze festive") ad istituzionalizzare stabilmente la festa della liberazione:

« Sono considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale, i giorni seguenti: [...] il 25 aprile, anniversario della liberazione;[...] »

CHE COSA CAZZO HA FATTO RENZI FINO AD ORA?

Il governo lancia la riforma della P.A.

Il governo lancia la riforma della P.A.

Renzi: confronto, ma tra 40 giorni decidiamo noi 
Manager licenziabili, meno prefetture, pin unico
Madia: "Serve mobilità, anche obbligatoria" 
video

UNA DEMOCRAZIA DI NOMINATI
La volontà popolare sepolta dalle riforme

L'Italicum è senza preferenze, Senato e Province non vengono aboliti e non sono neanche elettivi
L'intesa Renzi-B toglie potere di indicare chi mandare nelle istituzioni. Eppure non la pensavano così

Benvenuti nella Terza Repubblica Targata Licio Gelli trent'anni dopo, era politica della "democrazia dei nominati". Sembra un secolo fa quando i politici inveivano contro se stessi, additando il "Parlamento dei nominati", che produce scollamento tra Palazzo e territorio. Ma le riforme di Renzi e Berlusconi non cambiano niente: l’Italicum avrà i listini bloccati, le Province non sono state abolite ma sono non elettive e il Senato 2.0 sarà composto da designati dai consigli regionali,peggio di così non si poteva....

Palazzo Madama, una camera di nominati
Senatori designati dai consigli regionali

Matteo Renzi trova il compromesso con Berlusconi e con la fronda interna al Pd. Le modifiche: meno
sindaci e più regione. Resta fermo il caposaldo di una camera che non voterà la fiducia al governo 

 

 

Il Sole 24 Ore di ieri attirava l’attenzione critica sul piano per le scuole: il premier aveva annunciato 3, 5 miliardi, ma il decreto Irpef permette agli enti locali di spendere fuori dal patto di stabilità soltanto 240 milioni di euro. L’intervento, più a beneficio delle imprese di ristrutturazione che degli studenti, avrà quindi una dimensione minima.

Nei ‘semafori’ che pubblichiamo oggi su il Fatto Quotidiano, facciamo il punto sulla distanza che separa gli annunci dai risultati. A una prima analisi si può vedere come Renzi sia risultato più efficace sui dossier che gli garantiscono il maggiore ritorno di consenso, e questo è comprensibile visto che manca un mese alle elezioni europee. La promessa di far trovare in busta paga ad alcuni milioni di italiani 80 euro in più a maggio è stata rispettata, anche se con tanti compromessi al ribasso che rendono l’intervento molto diverso da come lo sognava il premier. La pecca maggiore è che la copertura non è strutturale, quindi è ancora molto incerto che il bonus fiscale sia garantito dal 2015 in poi.

I tagli alla casta, simbolici (o demagogici) ma molto richiesti, ci sono: dalla vendita delle auto blu su eBay al tetto agli stipendi dei dirigenti pubblici a 240 mila euro fino a minuzie, ma significative, come la cancellazione delle tariffe postali agevolate per il materiale di propaganda dei partiti. Anche le nomine nelle società partecipate dal Tesoro sono state gestite in coerenza con le promesse: via tutti i dinosauri, incluso il potentissimo Paolo Scaroni. Anche se non tutti i nomi prescelti per la successione sono all’altezza dei proclami di rottamazione di Renzi, basti guardare Emma Marcegaglia alla presidenza Eni. I problemi arrivano dove il premier non può decidere da solo ma ha bisogno del consenso o dei voti di altri bizzosi soggetti, da Silvio Berlusconi con Forza Italia all’ala sinistra del Pd in Parlamento. Quando Renzi non può fare tutto da solo, il risultato è quasi zero: la legge elettorale si è impantanata al Senato, il suo destino è legato al superamento del bicameralismo, ma anche la trasformazione del Senato in camera delle autonomie locali è bloccata da un’opposizione sempre più larga.

A parte i vari interessi politici contrapposti, una delle spiegazioni di merito è che nessuno ha ben chiaro cosa dovrà fare il nuovo Senato, visto che prima (o poi) bisognerebbe redistribuire le competenze tra Stato ed enti locali riformando la Costituzione nel titolo quinto. Anche l’altra riforma ambiziosa del renzismo, quella del mercato del lavoro, per il momento ha prodotto pochino: un decreto legge che aiutava le imprese a ridurre il rischio di cause legali permettendo loro una maggiore flessibilità nel ricorrere al lavoro precario (i disoccupati sono felici alla prospettiva di diventare precari, ma i precari sono piuttosto seccati dalla prospettiva di rimanere in quella condizione più a lungo di prima). In Parlamento il Pd ha iniziato a svuotarla, reintroducendo parte dei vincoli eliminati dal ministro Giuliano Poletti. Risultato: impalpabile.

Quanto alla riforma più complessiva, la legge delega che dovrebbe essere il vero Jobs Act, è un tema da affrontare nei prossimi mesi. Anche della delega fiscale non si è più saputo niente, eppure dovrebbe essere la leva per una vera riforma delle tasse. Morale: se lo statista è quello che guarda alle prossime generazioni e il politico chi pensa alle prossime elezioni, Renzi è un politico efficace. Ma le grandi riforme sono molto più complesse.

Renzi avvia la riforma Pa su tre pilastri:
"Capitale umano, tagli e open data"

VIDEO. Il governo "punta a un cambiamento radicale nella Pa". Renzi preferisce "un disegno di legge", da portare nel Cdm del 13 giugno. "Spazio per l'assunzione di diecimila giovani", il premier precisa: "Non c'è un tema di esuberi". Via al ruolo unico dei dirigenti, possibile licenziamento per quelli senza incarico. Tetto a 40 Prefetture, permessi sindacali dimezzati. Salta l'obbligo di iscrizione in Camera di commercio

MILANO - Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, apre ufficialmente il fronte della riforma della Pubblica amministrazione nel Consiglio dei Ministri. L'esecutivo si è incontrato nel pomeriggio, in un Cdm di un paio d'ore, e il premier, con il ministro Marianna Madia, ha illustrato i tre pilastri sui quali poggiano le linee guida della riforma. "C'è un sacco di bella gente che lavora e va premiata, c'è qualche fannullone e quella lo stanghiamo", il motto.

 

Scuola, il ministro Giannini annuncia
"Concorso per 17mila docenti nel 2015"

Scuola, il ministro Giannini annuncia "Concorso per 17mila docenti nel 2015"

Per il ministro dell'Istruzione "il concorso, che si terrà nella tarda primavera 2015, consentirà di essere in tempo utile per l’immissione in ruolo nell’estate 2016"

Renzi avvia la riforma Pa su tre pilastri:
"Capitale umano, tagli e open data"

VIDEO. Il governo "punta a un cambiamento radicale nella Pa". Renzi preferisce "un disegno di legge", da portare nel Cdm del 13 giugno. "Spazio per l'assunzione di diecimila giovani", il premier precisa: "Non c'è un tema di esuberi". Via al ruolo unico dei dirigenti, possibile licenziamento per quelli senza incarico. Tetto a 40 Prefetture, permessi sindacali dimezzati. Salta l'obbligo di iscrizione in Camera di commercio

MILANO - Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, apre ufficialmente il fronte della riforma della Pubblica amministrazione nel Consiglio dei Ministri. L'esecutivo si è incontrato nel pomeriggio, in un Cdm di un paio d'ore, e il premier, con il ministro Marianna Madia, ha illustrato i tre pilastri sui quali poggiano le linee guida della riforma. "C'è un sacco di bella gente che lavora e va premiata, c'è qualche fannullone e quella lo stanghiamo", il motto.

"Stiamo rispettando tutte le scadenze che ci siamo autoimposti per cambiare il paese", esordisce il premier nella conferenza stampa dopo il Cdm, aggiungendo che nel campo degli statali "il governo punta a un cambiamento radicale nella Pa". Renzi spiega che il "desiderio di coinvolgere gli uomini e le donne che lavorano nella Pubblica amministrazione" insieme a quello di "togliere il tema della riforma dalla campagna elettorale" hanno spinto l'esecutivo a non presentare immediatamente un decreto e un disegno di legge delega (come fatto con il Jobs Act), quanto piuttosto un insieme di linee guida da sottoporre alla discussione prima di avviare il percorso di un disegno di legge. "Una riforma contro i lavoratori avrebbe le gambe corte", ricorda. Il governo, in sostanza, pone delle questioni di fondo sulle quali avviare il confronto con le parti in causa, "anche i sindacati se vorranno farci

sapere il loro parere", per quaranta giorni, e dispone anche un indirizzo internet per la consultazione: "Scrivetemi a rivoluzione@governo.it", dice ridendo. Il ministro Madia precisa poi che ai sindacati non sono offerti tavoli, ma un "confronto innovativo e l'invito a fare delle proposte" sui punti "concreti e puntuali" avanzati dall'esecutivo.

Dopo la consultazione, la riforma diverrà norma con un disegno di legge, che verrà presentato in Cdm il prossimo 13 giugno. "Preferirei fare un disegno di legge ed evitare il decreto", spiega sul punto Renzi. I tre punti della riforma - espressi in una lettera ai dipendenti statali - saranno "sul capitale umano, sui tagli agli sprechi della Pa e sugli open data come strumento di trasparenza e innovazione".

Renzi avvia la riforma Pa su tre pilastri:
"Capitale umano, tagli e open data"

VIDEO. Il governo "punta a un cambiamento radicale nella Pa". Renzi preferisce "un disegno di legge", da portare nel Cdm del 13 giugno. "Spazio per l'assunzione di diecimila giovani", il premier precisa: "Non c'è un tema di esuberi". Via al ruolo unico dei dirigenti, possibile licenziamento per quelli senza incarico. Tetto a 40 Prefetture, permessi sindacali dimezzati. Salta l'obbligo di iscrizione in Camera di commercio

MILANO - Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, apre ufficialmente il fronte della riforma della Pubblica amministrazione nel Consiglio dei Ministri. L'esecutivo si è incontrato nel pomeriggio, in un Cdm di un paio d'ore, e il premier, con il ministro Marianna Madia, ha illustrato i tre pilastri sui quali poggiano le linee guida della riforma. "C'è un sacco di bella gente che lavora e va premiata, c'è qualche fannullone e quella lo stanghiamo", il motto.

 

Ragazza calpestata
al corteo, agente
in Questura: "Sono io IL COGLIONAZZO...."

Ragazza calpestata al corteo, agente in Questura: "Sono io"

La svolta dopo che il capo della polizia Pansa ha definito "cretino da identificare" l'esponente delle forze dell'ordine ripreso da Servizio Pubblico negli scontri di Roma (leggi)

Roma, scontri a corteo per diritto alla casa
Trenta feriti nelle cariche, uno è grave
Roma, scontri a corteo per diritto alla casa Trenta feriti nelle cariche, uno è grave

Uova, arance, bottiglie e petardi contro le forze dell'ordine in via Veneto. Il Viminale: "Sei fermi"
Un manifestante perde alcune dita di una mano mentre cerca di lanciare una bomba carta

 

 

 

 

 

 

 

 

Grillo contro Repubblica: “Guadagni del blog? Mi sono rotto i coglioni”

Il leader del Movimento 5 stelle se la prende con un articolo del quotidiano di De Benedetti che oggi ha simulato i ricavi del blog attestandoli intorno a 570mila euro l'anno

“Io non dovrei neanche smentire nulla, ma questo è il dossier del nostro amico svizzero De Benedetti?”. Il leader del Movimento 5 stelle risponde sul suo blog ad un articolo di Repubblica in cui si “simulano” i guadagni del blog di Beppe Grillo stimandoli intorno a 600mila euro l’anno. E lui risponde con un articolo. “Io mi sono rotto i coglioni di queste robe qua, per cortesia. Tutti i miei documenti fiscali sono pubblici. Perché questo giornalista vergognoso non prende il mio 740? E’ pubblico. Il mio reddito imponibile nel 2012 è stato di 218.000 euro. Ho pagato 83.000 euro di tasse. Io sono un professionista, va bene? Mi sono sempre guadagnato i soldi”.

I due giornalisti del quotidiano hanno infatti simulato l’acquisto di un’inserzione pubblicitaria sul sito dei cofondatori 5 stelle. I due sono passati per un’asta gestita da Google Adsense e Google Adwords e hanno acquistato 125.351 visualizzazioni per 115 euro circa. Ovvero 0,92 centesimi ogni mille visualizzazioni che, considerando le commissioni del colosso di Mountain View, scendono a 0,62 centesimi di euro. E, sempre secondo i cronisti, stimando le inserzioni intorno al numero di 50\100 milioni e 500\600mila visite al giorno (stando alle dichiarazioni di Grillo), si arriverebbe a circa 570mila euro annui di ricavi per il sito internet beppegrillo.it.

“Fare queste cose finte, di nuovo, di questi giornali”, dice Grillo in un video pubblicato online, “io mi sono rotto veramente le palle. Repubblica fa queste finte: ‘Chi sono i finanziatori del blog?’ Repubblica! Repubblica mi ha dato 115 euro. Hanno fatto una pubblicità per vedere quanti click ci sono stati e ho guadagnato 115 euro grazie a loro. Ezio Mauro, mi rivolgo a te, prima di fare il servo di questo qui svizzero, prendi il mio 740 e pubblicalo. Devi avere questo coraggio. Poi pubblichiamo il tuo e quello di De Benedetti. Anche il bilancio della Casaleggio Associati è pubblico e scaricabile dal sito della Camera di Commercio di Milano per 5 euro. Lo prendi e lo pubblichi se sei una persona per bene. Ma dato che non sei una persona per bene dai queste cifre di milioni, di 500.000 euro. Il signor Casaleggio ha chiuso l’esercizio 2012 con un utile di 69.000 euro.Dovreste aiutarlo Casaleggio”.

Grillo torna poi a promuovere la raccolta fondi per la campagna elettorale del M5S in vista delle europee. “Appurato e precisato che non siamo miliardari – dice – voglio tornare a chiedervi di mandarci qualche soldo. Non possiamo sopportare tutto. Ognuno darà secondo le proprie forze. Io darò qualcosa, Casaleggio qualcosa e voi quello che potete”. “Dobbiamo raggiungere una certa cifra – incalza – per pagare le strutture dei palchi dei comizi di tutta Italia. Abbiamo un mese di tempo, sarà una campagna sanguigna, molto forte”. Poi annuncia: “Di nuovo col camper girerò tutta l’Italia, mi farò in 4, sprizzeremo gioia e entusiasmo in tutte le piazze d’Italia. Vinceremo noi. Per un’Europa diversa cambiamo l’Europa e cambiamo l’Italia”.

 

Una pioggia di euro dagli spot sui blog.
Ecco la miniera d'oro di Beppe e Casaleggio

Inchiesta. Ogni mille inserzioni cliccate costano 92 centesimi, in totale un giro d'affari da circa 570 mila euro l'anno. Abbiamo simulato una campagna pubblicitaria sul sito dell'ex comico: questi sono i risultati

Il blog di Beppe Grillo è un affare - per la Casaleggio associati - da 92 centesimi per mille spot, pari a 570mila euro di entrate l'anno. Più, a piè di lista, l'indotto dei ricavi garantiti dalla catena di Sant'Antonio digitale che il guru dei 5 Stelle sta costruendo a scopo di lucro attorno alla sede ufficiale (per statuto) del suo partito. Affari e politica, nel cuore della rete grillina, viaggiano paralleli. E basta una pragmatica prova sul campo per dare una risposta a quello che sembra essere diventato il segreto di Fatima pentastellato: "Quanto guadagna il sito dell'ex-comico?". Dati ufficiali non ci sono: i bilanci della società di Casaleggio - 1,3 milioni di ricavi e 69 euro di utile nel 2012 - non lo dicono. Lui si guarda bene dal far chiarezza: "Uso una sola parola: Vaffa...", risponde sobriamente ai giornalisti che chiedono lumi.

La società, interpellata, non dà spiegazioni. E sul web girano numeri come al lotto: dai 200mila euro di fatturato calcolati dai minimalisti (una sparuta minoranza) ai 10 milioni buttati lì da una fonte autorevole come Il Sole 24 Ore. Quale è la verità? Per provare a capire quanto rende ai due fondatori il blog, La Repubblica si è messa dall'altra parte della barricata. E il 10 aprile scorso è stata testimone diretta di una campagna pubblicitaria - reale e pagata - sul blog. Ecco come è andata e che conclusioni empiriche si possono trarre sugli affari della "Beppe Grillo Spa".

Un'asta

da 115,3 euro. Buona parte degli spot nelle pagine di www.beppegrillo.it è venduta con un'asta da Google Adsense e Google Adwords, i servizi del colosso di Mountain View nel settore. Qualche inserzione - come quella di Coca-Cola - è stata venduta da Publy Ltd, domiciliata in Irlanda e controllata da Gianluca Bruno, Francesco Di Cataldo e Emanuele Aversano. "Che rapporti abbiamo con Casaleggio? No comment", ha detto contattato per telefono Di Cataldo. Il nostro test è transitato sulla piattaforma di Google. È iniziato di prima mattina lanciando un ordine "mirato" ai banner sul blog. Si è chiuso poche ore dopo con questo bilancio: 125.351 impressions (vale a dire visualizzazioni singole dello spot) acquistate per 115,3 euro. Pari a 0,92 euro ogni mille.

Non tutti questi soldi entrano nelle tasche della Casaleggio Associati. Le commissioni applicate da Google viaggiano attorno al 30%. Gli 0,92 euro scendono così a 0,64. Quanti sono gli spot disponibili in un anno sul blog? Numeri ufficiali non ci sono. Alexa, il misura-web di Amazon, lo classifica come 77esimo sito in Italia. Appena dietro a La Stampa, davanti a Rai e Sky. Beppe Grillo ha parlato di "500-600mila visite al giorno". Cifra compatibile con i dati di Google: Mountain View, che probabilmente conosce all'unità la cifra reale, stima un'offerta di 50-100 milioni di spazi pubblicitari al mese. Pari a un fatturato per la Casaleggio & Associati tra i 384mila e i 768mila euro annui, probabilmente assestato a metà strada a quota 570mila.

La catena di Sant'Antonio. "Se io e Grillo avessimo voluto fare soldi, ci saremmo tenuti i 42 milioni di rimborso pubblico ai partiti", risponde Casaleggio a chi critica la scarsa trasparenza degli affari del blog. Vero. Di aria però non si vive. E visto che "con i suoi ricavi il sito supporta se stesso" (ipse dixit), lui ne ha fatto il vertice di una catena di Sant'Antonio che moltiplica come pani e pesci gli spot disponibili. Basta digitare www.beppegrillo.it e sullo schermo appare una serie di link che rimandano a due aggregatori di notizie (privati) della scuderia Casaleggio: Tzetze.it - dove ieri brillava la pubblicità di Ford e Easyjet - eLafucina.it. Tzetze, nata da poco, ha scalato la classifica di Alexa arrivando al 174esimo posto, La Fucina è al 318esimo. La controllata Amazon certifica pure il cordone ombelicale che unisce i tre siti della galassia: il 53% dei visitatori di LaFucina arriva dai due cugini (e un altro 24% da Facebok), mentre per TzeTze la quota è il 35% (con un altro 37% dal social network). Tutto fieno in cascina - leggi entrate pubblicitarie - per la Casaleggio & Associati.

Gli spot a rischio. Gli spot sono sbarcati sul blog di Grillo nel 2012. "Senza pubblicità l'informazione online chiude", dice Casaleggio. E a tutela dell'immagine dei 5 Stelle assicura di aver creato una black-list di investitori indesiderati. Quali non è chiaro. Negli ultimi giorni - accanto a inserzionisti "nobili" come Poste, Mercedes e Dolce & Gabbana - spuntavano su tutti e tre i siti di famiglia annunci per promuovere il gioco d'azzardo - settore contro cui i grillini hanno condotto benemerite battaglie in Parlamento - la costituzione di società offshore (tale Sfm) e la vendita di case in Costarica. "Il nuovo bilancio della Casaleggio Associati sarà molto migliore del 2013", ha promesso il guru del movimento. Vista la moltiplicazione dei siti, la vendita sulla vetrina del blog dei prodotti della casa editrice Adagio (sempre di sua proprietà) e le royalty sulle vendite di biglietti per i tour dell'ex-comico, nessuno ne dubitava

LA FAVOLA DEGLI OTTANTA EURO,L'ABBASSAMENTO DELLA NO TAX AREA E LA CANCELLAZIONE DEGLI ASSEGNI AL CONIUGE A CARICO

Probabilmente saranno poco più della metà a riceverli, e solo a tempo determinato: solo chi si trova in una fascia di reddito compresa tra i 16 e i 24 mila euro lordi. Il bonus scatta infatti solo quando l’imposta lorda , cioè quella pre-applicazione delle detrazioni, è superiore agli sconti già previsti dalle leggi in vigore. Per esempio, un lavoratore dipendente con un reddito di 15-16 mila euro con moglie e figli a carico (una platea vastissima di contribuenti) non percepirà mai alcun bonus. I “chimerici 80 euro saranno solo un miraggio. Cosi come lo saranno per tutti quei lavoratori dipendenti che percepiscono un reddito fino a 8 mila euro, per i pensionati e per il popolo delle partite IVA, mentre i dipendenti pubblici si vedranno addirittura bloccare l’adeguamento dei contratti, già fermi da 5 anni. Questo non si chiama sostegno, si chiama illusione. E anche quei pochi fortunati che riusciranno a percepire qualcosa non si illudano: il comma 2 dell’art. 1 del decreto, infatti, dice: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano per il solo periodo d’imposta 2014. A decorrere dal 1°gennaio 2015, si applicano le disposizioni dell’art.13 del testo unico dell’imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, nel testo vigente anteriormente alle modifiche di cui al comma 1 del presente articolo.”. Insomma, una botta e via, un’elemosina una tantum che non cambia la vita a nessuno ma che vorrebbe costituire il viatico per consegnare nelle mani di Renzi i nostri destini europei, per i quali ha già dato ampie rassicurazioni pubbliche alla Merkel.
Ma non è finita. Incombe un’altra legge sulle vostre teste, denunciata solo dal M5S che ne chiede l’abrogazione già dal novembre dello scorso anno. Si tratta del comma 430 della legge 147/2013. Eccolo: “Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro il 15 gennaio 2015, […] sono disposte variazioni delle aliquote di imposta e riduzioni della misura delle agevolazioni e delle detrazioni vigenti tali da assicurare maggiori entrate pari a 3.000 milioni di euro per l'anno 2015, 7.000 milioni di euro per l'anno 2016 e 10.000 milioni di euro a decorrere dal 2017. Le misure di cui al periodo precedente non sono adottate o sono adottate per importi inferiori a quelli indicati nel medesimo periodo ove, entro la data del 1º gennaio 2015, siano approvati provvedimenti normativi che assicurino, in tutto o in parte, i predetti importi attraverso il conseguimento di maggiori entrate ovvero di risparmi di spesa mediante interventi di razionalizzazione e di revisione della spesa pubblica.
Una vera e propria mannaia, inserita nel DEF, che è fonte di preoccupazione perfino per la Corte dei Conti, la quale a pag. 12 della sua relazione dice: “Vi è, infine, un terzo fattore che stende un velo di incertezza sulla dinamica delle entrate previste dal DEF 2014 e anche in questo caso si tratta di un rapporto di “dipendenza”: quello che lega la crescita delle entrate attesa a partire dal 2015 all’attuazione della misura di revisione delle agevolazioni fiscali contenuta nella legge di stabilità 2014. Si tratta di una partita che vale 3 miliardi nel 2015, 7 miliardi nel 2016 e 10 dal 2017, e che rappresenta fra il 26 per cento e il 62 per cento delle maggiori entrate tributarie previste dal DEF fra il 2015 e il 2018
E vogliamo parlare del pericolo dell’abolizione della detrazione sul coniuge a carico? Se credevate che fosse stato superato, vi sbagliate: nel testo di legge delega al Governo si è solo sostituito il termine abolizione con armonizzazione. Visto quanto conta “la parola d’onore” per il nostro attuale Premier, non c’è motivo di essere ottimisti. Sarà inoltre punita l’agroenergia dalla limitazione dell’esenzione IMU nelle aree svantaggiate, dove il Governo rastrellerà 350 milioni di Euro. Stanno per riscrivere le mappe dei comuni montani e svantaggiati, quelli in cui si applica l’esenzione. Per non parlare poi di un chiaro, smaccato, regalo alle lobby dell’energia: gli agricoltori che hanno piccoli impianti di produzione da fonti rinnovabili passeranno dalla tassazione attuale (che considera il reddito agrario) alla tassazione ordinaria sul 25% dei ricavi prodotti. 
Insomma, oltre ai 91 milioni di Euro in bilancio a favore dei Partiti ed ai 5 milioni aggiuntivi chiesti da SEL per l’invio di propaganda elettorale a mezzo posta, pagheremo quindi anche lo spot elettorale di Renzi per le Europee, e sarà la stessa Commissione europea a chiedercene conto. Già, infatti Renzi non dice che la deroga approvata per i famigerati 80 euro (se qualcuno li dovesse poi realmente avvistare, per favore si metta in contatto con la redazione di Chilhavisto?), varrà solo per il 2014. Non dice che grazie al Fiscal Compact, che noi vogliamo eliminare e che lui vuole mantenere, nel 2014 il nostro disavanzo strutturale si attesterebbe allo 0,6% del PIL, riducendosi così di soli 0,2 punti percentuali rispetto al 2013 invece degli 0,5 richiesti dal Patto di Stabilità, e questo comporterebbe che la Commissione Europea ci imporrebbe la riduzione dell’aggregato della spesa pubblica di un ammontare che garantisca una diminuzione del saldo strutturale di bilancio di almeno 0,5 punti percentuali ogni anno. Saranno tagli lineari che smantelleranno ulteriormente lo stato sociale. Tra l’altro, il tasso di crescita della spesa in termini reali, nel 2014, nel 2015 e nel 2016, sarà ridotto rispettivamente dello 0,64, dello 0,74 nel 2015 e dello 0,41 nel 2016, valori non in linea con i parametri che la Commissione impone, ovvero l’1,07% ogni anno.

IL GRAVE ERRORE DI GRILLO SUL FISCAL COMPACT,QUESTA VOLTA RENZI HA LETTO MEGLIO

Possiamo mai tagliare 50 miliardi all’anno per un ventennio?”, si chiedeva Beppe Grillo nell’intervista al Fatto di sabato scorso. Risposta: no, perché non è sostenibile e no, perché non è questo che impongono i vincoli di bilancio europei, nonostante ormai si sia affermata l’idea che Fiscal Compact e Six Pack impongano manovre gigantesche ogni anno. Non è così, come spiega bene Franco Mostacci, ricercatore dell’Istat, sul suo sito francomostacci.it  

Il cosiddetto Six Pack (regolamenti europei) impone di ridurre di un ventesimo all’anno la parte di debito pubblico che eccede il 60 per cento del Pil. Noi abbiamo il 132 per cento circa e quindi, con un conto a spanne, dovremmo ridurre il debito in valore assoluto di 50 miliardi all’anno. Ma la regola – combinata con il vincolo al rispetto del 3 per cento del deficit/Pil – funziona in un altro modo. L’Italia viene considerata in pari se il debito si sarà ridotto al giusto ritmo tra 2012 e 2014, oppure se lo farà nei due anni successivi oppure ancora se si sarà ridotto del ventesimo tra 2012 e 2014 considerato sia il Pil che il debito corretti per gli effetti della recessione.

Stando così le cose, l’Italia sarà a posto senza bisogno di alcuna manovra se si rispettano i numeri che hanno stimato Istat e Bankitalia: una crescita reale del Pil dello 0,6 nel 2014 e dell’1,2 per cento nel 2015 sarebbe sufficiente, tenendo ferme le altre variabili (purché non salga troppo il debito pubblico, per esempio per pagare gli arretrati della Pubblica amministrazione). È più stringente l’Obiettivo di medio termine (MTO) che riguarda l’indebitamento strutturale, cioè i conti pubblici al netto degli effetti del ciclo economico e delle misure una tantum. Si considera la distanza tra il Pil potenziale (quanto crescerebbe l’economia se corresse senza i freni della crisi e senza stimolare l’inflazione) e il Pil che si registra davvero. Una volta calcolato l’output gap, cioè quanto il Pil è frenato da dinamiche esterne che non dipendono dalle politiche adottate, si calcola il saldo di bilancio corretto per il ciclo, considerando l’elasticità delle entrate alle variazioni di Pil (per ogni 100 euro di Pil in meno, quanti sono gli euro che mancano al Tesoro?). Poi si tolgono le misure una tantum. Et voilà il saldo di bilancio strutturale. La correzione deve essere di almeno 0,5 punti di Pil all’anno, per ottenerla servono tagli duraturi di circa 4-5 miliardi all’anno.

Morale: incrociando le dita, se le previsioni di crescita vengono rispettate, se il debito non sale troppo e se non arriva la deflazione, la gabbia del rigore europeo ci costa circa 5 miliardi all’anno. Che non sono pochi, ma sempre meglio di 50.

Sosteniamo l'appello "La svolta autoritaria" che riportiamo integralmente. 
Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio

"Stiamo assistendo impotenti al progetto di stravolgere la nostra Costituzione da parte di un Parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al presidente del Consiglio poteri padronali. Con la prospettiva di un monocameralismo e la semplificazione accentratrice dell’ordine amministrativo, l’Italia di Matteo Renzi e di Silvio Berlusconi cambia faccia mentre la stampa, i partiti e i cittadini stanno attoniti (o accondiscendenti) a guardare. La responsabilità del Pd è enorme poiché sta consentendo l’attuazione del piano che era di Berlusconi, un piano persistentemente osteggiato in passato a parole e ora in sordina accolto.
Il fatto che non sia Berlusconi ma il leader del Pd a prendere in mano il testimone della svolta autoritaria è ancora più grave perché neutralizza l’opinione di opposizione. Bisogna fermare subito questo progetto, e farlo con la stessa determinazione con la quale si riuscì a fermarlo quando Berlusconi lo ispirava. Non è l’appartenenza a un partito che vale a rendere giusto ciò che è sbagliato. Una democrazia plebiscitaria non è scritta nella nostra Costituzione e non è cosa che nessun cittadino che ha rispetto per la sua libertà politica e civile può desiderare. Quale che sia il leader che la propone".
Nadia Urbinati, Gustavo Zagrebelsky, Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà, Lorenza Carlassare, Alessandro Pace, Roberta De Monticelli, Gaetano Azzariti, Elisabetta Rubini, Alberto Vannucci, Simona Peverelli, Salvatore Settis,Costanza Firrao

 

IL REFERENDUM DI INDIRIZZO CON LEGGE COSTITUZIONALE DEL 3 APRILE 1989 N.2

"È con l'istituto tipico della democrazia diretta - il referendum - che i cittadini italiani, il 18 giugno 1989, sono stati chiamati a pronunciarsi sul potenziamento del ruolo dell'Europa, «affidando allo stesso Parlamento europeo il mandato di redigere un progetto di Costituzione europea da sottoporre direttamente alla ratifica degli organi competenti degli Stati membri della Comunità». 
In altri termini, con la Legge Costituzionale 3 aprile 1989, n. 2, è stato formalmente indetto un referendum popolare di indirizzo, non meramente consultivo, attraverso il quale è stata richiesta la legittimazione popolare per il trasferimento di sovranità dallo Stato italiano all'Unione europea (alloraComunità). 
Ecco dunque che, nel solco già tracciato, potrebbe tranquillamente essere indetto, con legge costituzionale, un nuovo referendum di indirizzo, per sottoporre ai cittadini italiani il seguente quesito: «Ritenete voi che si debba procedere all'uscita dell'Italia dall'utilizzo dell'EURO?». 
La legge costituzionale istitutiva di un referendum di indirizzo ad hoc avrebbe il pregio di neutralizzare i possibili rischi derivanti da un referendum abrogativo ed, in particolare, dalle esplicite esclusioni previste dal vigente articolo 75 Cost. 
In ogni caso, oltre all'aspetto formale, un referendum sulla permanenza del nostro Paese nell'area della moneta unica non farebbe altro che concretizzare il principio cardine del nostro regime democratico, solennemente sancito nel primo articolo della Carta Costituzionale repubblicana, secondo cui «La sovranità appartiene al popolo». Al popolo sovrano, dunque, la parola!"
M5S Senato

UN IMPERO ROMANO OPEN SOURCE FREE

Pompei è emozionante. E’ una città enorme, non ce la fai a girarla neanche in due giorni. Ho parlato coi custodi, e c’è da dire che il problema Pompei è il problemaItalia. Pompei è un pozzo di petrolio, e se non hai una manutenzione ordinaria si scrosta un muro e devi fare un appalto e tutto il resto. Qui ci vogliono muratori, mosaicisti, che tutti i giorni si prendano cura della città. E invece cosa fanno? Fanno le gare d’appalto, spendono milioni, mandano a dirigere i lavori a della gente messa lì da Forza Italia che coordina e prende milioni di euro. 
C’è un teatro, qui, bellissimo. E lo hanno ristrutturato con le lucine a led, il ferro. Lo hanno snaturato, rovinando la sua storia. Manca il senso del rispetto, ecco! Ma come si fa? Allora seppelliamo tutto e speriamo che tra mille anni ci sia una tecnologia straordinaria che auto-riparerà il mosaico da solo. Così non si sopravvive.
I romani avevano già inventato tutto: il geotermico, le saune, l’aria condizionata. Tutto pubblico. Questo è il luogo della sacralità del pubblico. Tutto aperto. Poveri e ricchi stavano all'aperto, svagavano. Non facevano appalti per le saune, appalti per bere e appalti per mangiare. Che civiltà.
Oggi guardi queste macerie e pensi alle macerie delle persone macerate dentro. Qui arrivano i generali coi loro venti esperti, coi loro stipendi da 100 milioni a botta. E’ questa la rovina di questo Paese. 

IL GORGO DELLA MONETA:DAL SIGNORAGGIO ALLA RISERVA FRAZIONATA

La Banca d'Italia definisce il proprio signoraggio in questo modo:[16]

« Per signoraggio viene comunemente inteso l'insieme dei redditi derivanti dall'emissione di moneta. Con riferimento all'euro il reddito da signoraggio generato dall'emissione della moneta è definito come reddito originato dagli attivi detenuti in contropartita delle banconote in circolazione e viene ricompreso nel calcolo del reddito monetario che, secondo l'articolo 32.1 dello Statuto del SEBC, è “Il reddito ottenuto dalle Banche Centrali Nazionali nell'esercizio delle funzioni di politica monetaria del Sistema Europeo delle Banche Centrali. »

Il signoraggio derivante dall'emissione diretta di moneta da parte del governo viene incassato da questo, mentre quello derivante dall'emissione di moneta da parte della banca centrale viene in parte prelevato dal governo, sotto forma d'imposta, e il rimanente resta alla banca centrale, dove viene utilizzato per coprire i costi di funzionamento e, per l'eventuale parte eccedente, costituisce utile netto. Le banche centrali possono essere enti pubblici (come la Banca di Francia) o società di capitali il cui capitale è interamente (come la Banca del Canada) o in maggioranza (come la Banca Nazionale Svizzera) di proprietà statale, in questi casi tale utile finisce per essere incassato, in tutto o in parte, dal governo. La Banca d'Italia è un istituto di diritto pubblico ma le sue quote di partecipazione al capitale sono in grande maggioranza private: per il 94,33% di proprietà di banche e assicurazioni e solo per il 5,67% di enti pubblici (INPS e INAIL)[17]. Lo statuto della Banca d'Italia, una volta pagate le imposte, concede di distribuire ai partecipanti solo una minima parte degli utili netti annuali, da spartirsi tra tutti in base alle quote possedute. Dal 20 al 40% degli utili netti viene aggiunto alle riserve valutarie ordinarie e/o straordinarie dell'istituto e la parte restante (dal 60% all'80%) viene trasferita al pubblico erario[18].

Ad esempio, come si evince[19] dal Bilancio della Banca d'Italia per il 2009, a pagina 345 della Relazione Annuale, in quell'anno l'utile netto è stato di euro 1 668 576 514, ripartiti come segue:

allo Stato sono stati versati euro 1 001 130 308, corrispondenti al 60,00% dell'utile netto;

alle riserve ordinaria e straordinaria sono stati destinati euro 608 015 606 (calcolati come 333 715 303 + 333 715 303 − 59 415 000), corrispondenti al 36,44% dell'utile netto;

ai partecipanti sono stati versati euro 59 430 600 (calcolati come 9 360 + 6 240 + 59 415 000), corrispondenti al 3,56% dell'utile netto.

Larga parte degli utili distribuiti ai partecipanti viene calcolata come percentuale - non superiore al 4% - delle riserve detenute nell'anno precedente[19], come previsto dal comma terzo dell'art. 40 dello Statuto[18] che recita «Dai frutti annualmente percepiti sugli investimenti delle riserve, può essere, su proposta del Consiglio superiore e con l’approvazione dell’assemblea ordinaria, prelevata e distribuita ai partecipanti, in aggiunta a quanto previsto dall’art. 39, una somma non superiore al 4% dell’importo delle riserve medesime, quali risultano dal bilancio dell’esercizio precedente». Nel 2009 si è trattato di un importo pari allo 0,5% dell’ammontare complessivo delle riserve al 31 dicembre 2008, cioè euro 59 415 000.

La parte rimanente, di importo generalmente trascurabile, non può, ex art. 39, commi 1 e 2[18], eccedere il 10% del capitale, corrispondente nel 2009 a euro 15 600[19].

I russi di Rosneft mettono mezzo miliardo per il 13% di Pirelli

Il 26% detenuto da Camfin passa in un veicolo che per la metà sarà controllato dalla società petrolifera. L'altro 50% si divide tra Nuove Partecipazioni, che avrà l'80% delle quote, Unicredit e Intesa Sanpaolo. L'operazione a 12 euro per azione

MILANO - Si rafforza la presa della russa Rosneft sull'Italia. Dopo aver rilevato il 20% di Saras dalla famiglia Moratti, la compagnia petrolifera russa è pronta a mettere le mani sul 13% di Pirelli dando forza ai rumors di fine gennaio quando pareva che insieme a Goldman Sachs fosse pronta a lanciare un'Opa sulla Bicocca. Indiscrezioni che il numero uno della società degli pneumatici, Marco Tronchetti Provera, aveva bollato come "illazioni. Non è arrivata nessuna proposta al sottoscritto, nè tantomeno ho fatto io proposte al board di Pirelli". 

Certo per il momento il passaggio di controllo non è all'ordine del giorno e anzi nei nuovi patti l'uscita di Tronchetti non è più prevista nel 2017, anzi i tempi per decidere il futuro della Bicocca si allungano di altri 5 anni. Nel frattempo, però, esce di scena il fondo Clessidra di Claudio Sposito cambiando così la catena di controllo degli pneumatici, secondo un accordo di massima del quale ha dato notizia con una nota mattutina Intesa Sanpaolo.

Proprio Ca' de Sass, insieme a Unicredit, Clessidra, Nuove Partecipazioni (Marco Tronchetti Provera e soci) e Rosneft è tra i firmatari di questo accordo, secondo il quale verranno "valorizzate" le quote indirette di Pirelli possedute attraverso Camfin "a un prezzo in trasparenza pari a 12 euro per azione" (grossomodo l'attuale
 
prezzo di Borsa). Clessidra dovrebbe incassare 260

milioni, dopo averne investiti poco più di 150 milioni nel giugno scorso.

Ai tempi dell'opa su Camfin della scorsa estate la valutazione di Pirelli era stata di 8 euro ad azione. Di fatto, il pacchetto del 26% circa di azioni Pirelli, detenuto oggi da Lauro 61/Camfin, entrerà in una nuova scatola. Questa "newco", cioè una nuova società creata ad hocper l'operazione, sarà a sua volta detenuta da due diverse realtà. Metà del capitale andrà appunto ai russi di Rosneft, che secondo le indiscrezioni dovrebbero pagare mezzo miliardo. L'altra metà del capitale andrà a un nuovo veicolo nel quale continueranno a sedere Nuove Partecipazioni (Tronchetti Provera) con l'80% delle quote, e le due banche (Intesa Sanpaolo e Unicredit) con il 10% a testa. Entrambi gli istituti di credito avevano investito meno di 120 milioni in Lauro-Camfin e vedranno le proprie quote valorizzate 200 milioni circa prima di reinvestire una cinquantina di milioni nella nuova operazione.

Le banche reinvestiranno quindi parte dei denari ottenuti liquidando le attuali posizioni nella nuova scatola di controllo di Pirelli, mentre il fondo Clessidra sarà del tutto fuori dai giochi. Quanto alla governance, la nota di Intesa specifica che Nuove Partecipazioni "indicherà il presidente e ceo di Pirelli, con pieni poteri sulla gestione ordinaria della società. 

La governance di Pirelli rimane invariata, resta centrale il ruolo di guida del board, in linea con" le migliori prassi internazionali. Con l'uscita di scena di Sposito e di Clessidra decade l'obbligo di valorizzazione delle quote dopo 4 anni, la preannunciata 'exit' da Pirelli nel 2017. I nuovi accordi con Rosneft avranno, durata di 5 anni, rinnovabili a scadenza. E' possibile ipotizzare che il gruppo russo, con questa mossa, si candidi a rilevare il controllo della società, anche se in base ai nuovi accordi il numero uno della Bicocca, Tronchetti Provera, non avrà più alcun obbligo di uscire dal gruppo italiano entro il 2017. Ci sarebbero così cinque anni per decidere del futuro del celebre marchio italiano.

Quanto infine agli aspetti industriali, "obiettivo dell'accordo - si legge nel comunicato - è sviluppare le attività e il business di Pirelli, anche rafforzando la rete commerciale in Russia grazie alla capillare presenza sul territorio di Rosneft". E ancora: "Già dalla fine del 2012 Rosneft, la più importante società quotata nel settore oil and gas al mondo, ha definito con Pirelli una serie di intese commerciali e nel settore della ricerca e sviluppo, in particolare nei materiali per la produzione di pneumatici e nella gomma sintetica". Rosneft, come detto, è la stessa società che ha siglato un accordo con i Moratti, storicamente legati a Tronchetti Provera, per rilevare il 20% della Saras, la società della raffinazione.

L'ultimo aggiornamento Consob sull'azionariato dell'azienda della Bicocca vede Lauro 61 al 26,2% di Pirelli, seguito dai Malacalza poco sotto il 7%, poi Edizione al 4,6%, Mediobanca al 3,95%, il fondo Harbor International al 3,94%. L'azione della Bicocca (segui in diretta) scivola in fondo al listino principale dopo la notizia. Secondo gli analisti l'accordo rafforza la posizione di Marco Tronchetti in confronto a quella delle istituzioni finanziarie. L'operazione è però vista in modo ambivalente: per gli esperti di Mediobanca riduce l'appeal speculativo. Nei mesi scorsi, infatti, il titolo aveva in parte beneficiato in Borsa della convinzione del mercato che fosse imminente un riassetto, magari anche attraverso anche un'opa. Per Intermonte, invece, "l'ingresso di Rosneft apre una nuova fase in Pirelli: una notizia positiva per il titolo".

Pirelli, arriva il colosso petrolifero russo Rosneft. Clessidra esce dal gruppo

Il 26,2% detenuto da Camfin passa in un veicolo che per la metà sarà controllato dal gruppo russo. L'altro 50% si divide tra Nuove Partecipazioni (Marco Tronchetti Provera e soci), che avrà l'80% delle quote, Unicredit e Intesa Sanpaolo

Il colosso russo del petrolio Rosneft entra nell’azionariato di Pirelli. Lo riferisce una nota diUnicredit e Intesa Sanpaolo, che hanno raggiunto un accordo con il gruppo petrolifero in base al quale Rosneft deterrà il 50% di una newco che rileverà la quota di Pirelli detenuta da Camfin, pari al 26,2 per cento. L’altro 50% della newco sarà invece detenuto da una compagnia partecipata all’80% da Nuove Partecipazioni (Marco Tronchetti Provera e soci), la holding che controlla Pirelli, e da Intesa e Unicredit per un 10% ciascuna. Clessidra, invece, uscirà dal capitale del gruppo.

L’investimento russo è di circa 500 milioni di euro, per una quota “in trasparenza” (cioè al netto dei veicoli societari che custodiscono le azioni della Bicocca) del 13% circa. Il disinvestimento di Unicredit, Intesa e Clessidra – si legge in una nota degli azionisti – avverrebbe valorizzando a 12 euro per azione la partecipazione Pirelli.

Le novità nell’azionariato di Pirelli sono state accolte con una pioggia di vendite a Piazza Affari. Il titolo perde oltre il 2% a 11,7 euro. Secondo gli analisti l’accordo rafforza la posizione di Marco Tronchetti in confronto a quella delle istituzioni finanziarie, ma si attenua l’appeal speculativo.

“Obiettivo dell’accordo è sviluppare le attività e il business di Pirelli, anche rafforzando la rete commerciale in Russia grazie alla capillare presenza sul territorio di Rosneft”, spiega la nota. In base agli accordi è previsto che la governance di Pirelli rimanga “invariata e incentrata sul ruolo fondamentale di guida del board, in linea con le best practice internazionali”.

Intesa e Unicredit, accordo per i crediti in ristrutturazione

Le due maggiori banche italiane hanno siglato un'intesa con il fondo di private equity Kkr e l'advisor A&M (quello che ha ristrutturato Lehman Brothers) per creare un veicolo che ospiti i crediti in ristrutturazione. I nodi da sciogliere per gli istituti italiani: quanti asset trasferire e con quante risorse proprie partecipare. Sullo sfondo la suggestione di una bad bank all'italiana

 

MILANO - I due principali player del credito tricolore uniscono le forse con advisor e fondi di private equity per cercare di dar corpo a un veicolo in grado di accogliere alcuni pacchetti di crediti in ristrutturazione e liberare capitale buono per parare i colpi dell'Asset quality review della Bce e tornare a erogare finanziamenti per le imprese in difficoltà. Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno annunciato di aver firmato un "memorandum of understanding" con Alvarez & Marsal (A&M) e Kkr "per sviluppare e realizzare insieme una soluzione innovativa finalizzata a ottimizzare le performance e massimizzare il valore di un selezionato portafoglio di crediti in ristrutturazione attraverso la gestione attiva degli asset e l'apporto di nuove risorse finanziare". 

Il progetto riguarderà in particolare i crediti erogati nei confronti di aziende del settore industriale e dei servizi, con l'esclusione sia del comparto finanziario che del real estate, che siano in fase di ristrutturazione e non ancora, quindi, da considerare del tutto "deteriorati". Con l'intervento degli operatori specializzati nel settore, le parti in causa puntano a ridare fiato alle società selezionate, riportandole alla possibilità di restituire i denari presi a prestito dagli istituti e, in un orizzonte temporale maggiore, generare utili dall'attività caratteristica.

A&M è infatti uno dei principali operatori delle ristrutturazioni aziendali e della consulenza a società in serie difficoltà;

fondato nel 1983, il suo nome è legato nientemeno che alla ristrutturazione del fallimento più famoso della storia, quello di Lehman Brothers che ha scatenato la crisi finanziaria. Kkr, invece, è un fondo che gestisce quasi 15 miliardi di dollari di asset; in tempi recenti ha diversificato proprio nell'attività di gestione e recupero dei crediti in sofferenza, dall'operatività tradizionale di buyout. Nella nota congiunta si spiega che "la formazione e l'operatività della partnership sono ancora oggetto di discussione e verifica tra le parti. Ulteriori dettagli verranno resi noti con il progredire dell'operazione".

La notizia era stata intercettata dal
 Financial Times, che nella serata di ieri ha anticipato l'uscita del comunicato. Il quotidiano della City nota che si tratta di un raro esempio di banche europee che fanno fronte comune con alcuni dei tanti private equity e hedge fund presenti nel sistema finanziario del Vecchio Continente in cerca di opportunità per accaparrarsi asset dagli istituti di credito "affamati di capitale". Sullo sfondo, il Ft e altri osservatori lasciano intravvedere la suggestione della creazione di una "bad bank" italiana, cioè un soggetto che accolga i crediti in sofferenza delle banche tricolori.

Le parti in causa specificano però che non è ancora questo il caso di parlare di una "bad bank", perché l'accordo di oggi accoglie crediti non ancora deteriorati, per di più senza l'intenzione di dismetterli, ma per riportare alla redditività le aziende che hanno richiesto i finanziamenti; inoltre la taglia dei pacchetti dovrebbe essere tutto sommato limitata. Oltre ai dettagli tecnici sulla costituzione del veicolo, a Intesa e Unicredit spetta la scelta su quale parte del proprio portafoglio di crediti in sofferenza conferire e in che misura contribuire con risorse fresche di tasca propria.
 

Entrambe, in occasione della presentazione dei loro conti 2013 e dei piani industriali per i prossimi anni, hanno messo nero su bianco la volontà di isolare nei propri libri contabili i crediti difficili, dando vita a delle forme di "bad bank interne".
 Unicredit ha isolato 87 miliardi di euro di prestiti in sofferenza, annunciando la volontà di dismetterne 55 miliardi entro la fine del 2018. Intesa, a stretto giro, ha creato la sua banca cattiva per accogliere 46 miliardi di asset (per la maggior parte crediti, anche se non manca qualche partecipazione non più strategica) con l'intenzione di dimezzarli nel giro dei prossimi quattro anni.

Nel complesso, le sole
 sofferenze lorde del sistema bancario italiano, secondo le ultime stime dell'Abi, hanno raggiunto la cifra record di 162 miliardi. Ultimamente le pulizie effettuate dagli istituti di credito e alcune cessioni di pacchetti di crediti hanno fatto scendere il dato delle sofferenze nette, cioè l'ammontare dei crediti difficili meno le coperture stanziate dalle banche: a febbraio erano 78 miliardi, con un rapporto del 4,27% sul totale degli impieghi.

Film e musica gratis su Internet, stretta dell'Agcom. L'autorità potrà chiedere la rimozione dei contenuti ai provider con provvedimento della durata di 35 giorni accertamenti compresi

Per alcuni sarà più facile far rispettare la legalità, per altri si rischia una deriva repressiva. Di certo, da lunedì, chi combatte la pirateria on line avrà un’arma in più. Dal 31 marzo entra infatti in vigore il nuovo regolamento dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni a tutela del diritto d’autore. Forse non a caso, proprio in concomitanza con il lancio dei nuovi servizi streaming di Sky e Mediaset, che in questo periodo stanno ampliando la propria offerta di contenuti su internet.

La novità è che d’ora in poi non solo l’autorità giudiziaria, ma la stessa Agcom, potrà ordinare ai provider (ossia ai fornitori di servizi come Telecom o Fastweb) la rimozione di contenuti illegali. Con un procedimento rapidissimo che durerà al massimo 35 giorni, accertamenti compresi.

Il nuovo regolamento riguarda ogni “opera digitale” coperta da diritto d’autore: canzoni, fotografie, articoli. E ovviamente anche film. Pellicole e serie tv illegali che oggi è così facile trovare in rete potrebbero subire un brusco ridimensionamento; e in qualche pagina Facebook dedicata ci si imbatte in questi giorni in avvertimenti di questo genere: “Avvisiamo tutti gli appassionati che dal 31 marzo la nostra liberà è finita, quindi godetevi i vostri ultimi momenti più belli con le vostre serie preferite”. 
“Vogliono fare tabula rasa e chiuderci tutti”: dice all’HuffPost l’amministratore di Italia-film, tra le decine di siti che ospitano link di film in streaming ma il solo che ha accettato di parlare con noi. “Perché non intervengono sui siti di hosting che ospitano fisicamente il materiale? Sono loro i veri ‘pirati’, quelli che lucrano sul cinema. La verità è che sono siti impossibili da rintracciare e da chiudere, e allora colpiranno noi che facciamo solo i link”.

Per l’avvocato Guido Scorza, esperto di digitale, è verosimile ipotizzare che assisteremo a una fase di transizione in cui trovare film e serie piratati sarà più difficile; ma nel lungo periodo basterà scaricare il software giusto per superare i blocchi. “Oggi basta digitare su Google il titolo di un film per trovarlo in pochi passaggi, domani sarà più complicato. Verrà scoraggiato l’utente pigro e poco abile con il computer. Sarà un forte disincentivo, ma chi vuole davvero continuerà a farlo”.

Per Scorza, comunque, ci sono questioni ben più serie di queste. Se è vero infatti che tutti sono d’accordo nel combattere la pirateria digitale, sulle modalità di perseguire lo scopo non c’è unanimità. E sul nuovo regolamento Agcom pendono due ricorsi al Tar.
Da una parte quello dell’avvocato Fulvio Sarzana, che rappresenta i provider di Assoprovider (associazione aderente a Confcommercio). “Sono loro i soggetti che dovranno materialmente intervenire per rimuovere i contenuti illegali – spiega Sarzana - e non vogliono certo diventare dei cyber sceriffi”. 
Poi c’è il ricorso dello stesso Scorza a sostegno di alcune associazioni, tra cui Federazione Media digitali indipendenti e l’Associazione nazionale stampa on line. 
“La mia paura – dice l’avvocato – è che si rischiano procedimenti sommari anche per quei soggetti che violano il diritto d’autore spesso inconsapevolmente e in buona fede, per fare informazione e critica. Penso al cosiddetto citizen journalism, il giornalismo fatto dai non professionisti. Penso a blogger o testate che usano magari parte di un Tg o spezzoni di un programma per informare e non certo a fini di lucro”.

Il punto centrale, per Scorza, è che un’autorità amministrativa come l’Agcom si sia di fatto sostituita all’autorità giudiziaria. “Prima chi pensava di aver subito la violazione di un diritto doveva rivolgersi a un avvocato, c’erano delle indagini, e iniziava un processo con tutte le garanzie del caso per entrambe le parti. Per il presunto colpevole c’era la possibilità di fare ricorso, la possibilità di un dibattimento in cui poteva dimostrare le sue ragioni. Era un procedimento lungo e complesso che poteva durare mesi, in alcuni casi anni. Ora invece al titolare del copyright basterà compilare online un modulo di segnalazione e inviarlo all’Agcom, con un sistema facile, rapido e poco dispendioso. L’Autorità ordinerà al provider di rimuovere i contenuti illegali e il tutto durerà al massimo 35 giorni. E’ vero che il presunto colpevole potrà sempre ricorrere al giudice, ma solo a procedimento concluso”.
“Dall’Agcom – prosegue l’avvocato – assicurano che il regolamento sarà applicato con buon senso. Non ho motivo di dubitarne. Ma il buon senso, purtroppo, è sempre cosa molto relativa”.

Analoghe perplessità arrivano dall’avvocato Fulvio Sarzana. “La procedura è completamente informatizzata e tecnologicamente molto avanzata, già usata per i siti di pedofilia dalla Polizia Postale. Il punto è che se si chiude un sito di pedofilia non è un problema per nessuno; ma la violazione del diritto d’autore è un terreno molto più delicato che spesso confina con la libertà d’informazione e critica”. 
“Prima che entri in vigore non è facile valutare l’impatto del nuovo regolamento; ma temo che con una procedura così semplificata e rapida, si scateni una ‘caccia al ladro’ dall’indubbio valore. Oltretutto non sarà facile rimuovere i singoli contenuti illegali e soprattutto per i siti ospitati all’estero, così come per quelli in cui si riscontreranno ‘violazioni massive’, si rischia l’oscuramento di interi siti”.

Problematiche e critiche, queste, che all’Agcom conoscono bene. “Ma bisogna ricordare – sottolinea dall’Autorità il commissario Francesco Posteraro – che lo scopo del nuovo regolamento non è quello di sanzionare e rimuovere, ma ampliare l’area di legalità”.
“A chi dice che ci sostituiamo ai giudici ricordo che ci muoviamo sulla base di un decreto legislativo del 2003, che recepisce una direttiva europea. Il testo dice che sia l’autorità giudiziaria che quella amministrativa con potere di vigilanza (ndr: l’Agcom) possono esigere dal provider un intervento in caso di violazione”.

Il commissario evidenzia che il titolare del diritto leso può rivolgersi tanto all’Agcom quanto a un giudice, e che tutti i provvedimenti sono impugnabili di fronte al Tar.“Non ci sostituiamo in alcun modo all’autorità giudiziaria - prosegue Posteraro – noi interveniamo solo nei confronti del provider il quale è libero di fare ricorso. Il nostro è un procedimento anzi molto garantista, che offre anche ai soggetti che non sono direttamente coinvolti nella procedura, ossia coloro che ospitano sul loro sito materiale illegale, di intervenire e difendere le proprie ragioni; oppure di adeguarsi spontaneamente”.

Posizioni e opinioni diverse, evidentemente, si manifestano nel vasto campo della pirateria on line. Anche tra gli stessi soggetti che la combattono. Gli interessi in gioco non sono di poco conto e agli utenti non resta che aspettare di vedere in che modo realmente verrà applicato il nuovo regolamento. Con una precisazione: in questa specifica partita, l’utente finale, ossia chi fruisce di opere digitali in streaming e downloading, non rischia nulla. Il regolamento Agcom non si riferisce infatti a loro in alcun modo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per quanto riguarda la banca d'Italia le cose sono cambiate dal decreto del 27 novembre 2013 divenuto legge nel febbraio 2014 con la "tagliola"prodotta dal presidente della Camera Boldrini:con quell'atto il capitale della Banca d'Italia veniva rivalutato da 156.000 a 7,5 miliardi di euro, capitale bloccato dal 1926 e mai rivalutato nemmeno dal venefico Amato durante la crisi-default del 1992!!

Il primo libro dello scrittore di fantascienza James Ballard fu "Il vento dal nulla". Un vento sempre più forte soffia ovunque e la sua intensità aumenta giorno dopo giorno. La sua origine è sconosciuta e il vento cessa soltanto quando l'ultimo edificio sulla Terra viene distrutto. Questo vento è oggi il denaro, il denaro dal nulla, che sta infettando le economie e gli Stati che ne vengono travolti. Il denaro è creato dalle banche con il meccanismo della riserva frazionaria. Quando la banca concede un prestito ha una riserva che lo garantisce, ma non del tutto. Supponiamo che la banca abbia nei suoi depositi 1.000 euro e che la riserva obbligatoria per un prestito corrisponda al 10% della somma prestata. La banca potrà quindi prestare fino a 10.000 euro nonostante disponga solo di 1.000 euro. Ha creato 9.000 euro dal nulla. Se tutti i clienti di un qualunque istituto bancario decidessero di prelevare le somme depositate scoprirebbero che non esistono e la banca fallirebbe. Il denaro in circolazione non ha più niente a che fare con la realtà. Si stima che il debito totale del mondo ammonti a 200 trilioni di dollari, mentre la produzione mondiale annua, il PIL, è di 70 trilioni, circa un terzo. Una bolla enorme che prima o poi è destinata ad esplodere. Per uscirne si potrebbe sostituire il denaro creato dalle banche con denaro stampato dagli Stati e con l'obbligo di prestiti interamente coperti da capitali. Per ora siamo seduti sopra a un uragano i cui effetti sono di una dimensione che sfugge alla mente umana. L'economista e premio Nobel Maurice Allais disse "L'attuale creazione di denaro dal nulla, operata dal sistema bancario, è identica alla creazione di moneta da parte dei falsari. La sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto". Il denaro dal nulla potrebbe terminare con la distruzione delle Nazioni. Come il vento, e poi cessare di colpo.

 

PER CANCELLARE IL SENATO CI VUOLE UNA MODIFICA DELLA PRIMA PARTE DELLA COSTITUZIONE, OVVERO CI VUOLE IL DOPPIO PASSAGGIO NORMATIVO A CAMERA E SENATO CON I 2/3 DI VOTI FAVOREVOLI, CON IN PIU' REFERENDUM CONFERMATIVO, STIAMO PARLANDO DI TEMPI BIBLICI, QUINDI I DUE RINCOGLIONITI AL GOVERNO (UNO UFFICIALE,RENZI,L'ALTRO UFFICIOSAMENTE,BERLUSCONI) DECIDONO DI RIDURRE IL PASTROLICUM ALLA SOLA CAMERA DEI DEPUTATI, DICENDO CHE IL SENATO TANTO VERRA' ABOLITO...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CONTINUANO LE EPURAZIONI STALINISTE ALL'INTERNO DEL M5S, ALTRI 5 ESPULSI !!!

I senatori eletti come portavoce del M5S Bencini, Bignami, Casaletto, Mussini e Romani hanno rassegnato le loro dimissioni dal Senato e le hanno presentate ufficialmente al Presidente del Senato Piero Grasso. Questo gesto non è stato motivato da particolari situazioni personali, familiari o di salute, come solitamente avviene in questi casi, ma come gesto politico in aperto conflitto e contrasto con quanto richiesto dal territorio, stabilito dall'assemblea dei parlamentari del M5S, confermato dai fondatori del M5S e ratificato dagli iscritti certificati in Rete, in merito ai quattro senatori espulsi. E' stato loro chiesto se confermassero o meno la propria posizione e l'hanno ribadita.
I senatori dimissionari si sono pertanto isolati dal MoVimento 5 Stelle e non possono continuare ad esserne rappresentanti ufficiali nelle istituzioni. Bencini, Bignami, Casaletto, Mussini e Romani sono fuori dal M5S.

 

Livorno, scontro nel M5s: "Chiarezza
sul voto per le Comunarie o scissione"

Livorno, scontro nel M5s: "Chiarezza  sul voto per le Comunarie o scissione"

Un consigliere Idv: "Candidato a sindaco? Macché voto online, io lo sapevo da prima". E scoppia la lite: "Non collaboriamo finché non ci saranno risposte complete"

 

Da "megafono" Beppe Grillo, ad un anno dall'exploit delle politiche del 2013, si è rapidamente trasformato in capo indiscusso che espelle con la pantomima della "decisione della rete" degli iscritti, che sono , come da regolamento per la candidatura alle Europee, gente "originaria" iscritta ai MeetUp poi cooptata nella "rete" che si guarda bene dall'allargarsi temendo "infiltrazioni" extra da quel mondo politico putrefatto che vorrebbero liquidare. E' la solita setta massonica italiota che si è formata in rete piuttosto che a Castiglion delle Stiviere, raggrumata grazie ai buoni uffici di questo parruccone destrorso, tal casaleggio, vecchissima conoscenza del mondo Telecom targato Colaninno-Provera. Casaleggio a cavallo del 2000 è amministratore delegato di Webegg spa, società Olivetti. Olivetti ne vende la proprietà nel 2002 al suo principale cliente,Telecom Spa già di Roberto Colaninno che era anche precedentemente in Olivetti (quello delle scalate dei Capitani Coraggiosi ma che aveva anche dato vita sempre nel 2000 a Netikos spa; nel CdA Casaleggio e Michele Colaninno; Roberto Colaninno lascia Telecom nel 2001 ). Niente male per Casaleggio che è un semplice perito informatico! Tutto bene fino a che diventa nuovo azionista di maggioranza Tronchetti Provera. Infatti subito dopo, nel 2003, Casaleggio viene mandato via. Guardando i bilanci, la sua gestione risulta disastrosa come riporta anche la stampa specializzata (Computerworld online del 15 giugno 2004). La Webegg si ritrova con un drastico calo del fatturato: - 26% nel 2003. Infatti ci sono buchi di 1milione 932mila euro nel 2001 e di 15 milioni 938mila euro nel 2002, su un fatturato di 26 milioni di euro. E meno 60% dei ricavi nel 2002 rispetto al 2001 sui clienti del gruppo Telecom. Gli azionisti definiscono “un piano pluriennale di risanamento” con una “drastica riduzione dei costi di gestione… e ridimensionamento del budget rivolto alla comunicazione”, la dismissione delle aziende che Casaleggio aveva acquisito per costruire un modello particolare di azienda in rete, oramai non considerato “più strategico e coerente col core-business della società”. Gli azionisti devono risanare l’azienda e alla fine venderla, chiudendo anche tutte le società connesse. La gestione Casaleggio succhia ingenti risorse economiche. Il Beppe Grillo implacabile scopritore di scandali direbbe: Con questi buchi di bilancio e con un diploma da perito informatico quale impresa privata ti riprende? E invece no. ll comico genovese che mette alla berlina i manager fallimentari ed esempi dell’italianità più ridicola anche nel 2012 in un comizio tra i fans di Pistoia ripete sicuro che Casaleggio è “un ottimo manager!”
Ma in cosa e perché spendeva l’Amministratore Delegato Casaleggio? Ce lo mostrano le testimonianze del Project Manager Mauro Cioni (che ha lavorato in tutta la compagine per 10 anni) e di altri dipendenti che non sono voluti apparire. Ma soprattutto i documenti dell’epoca.

La strategia di Casaleggio. Fidelizzare i giovani

La strategia aziendale di Casaleggio in Webegg è il modello Web company americana, con quelle classiche formule del marketing “made in Usa”. Casaleggio assume giovani, fa la parte del “capo amico di tutti”, ma c’è sempre lo psicologo, nei ritiri in monastero per affiatare il gruppo. Nell’impresa non esiste una differenza tra il tempo libero e quello lavorativo. Lui è oltre. Ha un modo diverso di concepire la vita: bisogna fare qualcosa che ti piace, in cui credi e dai il massimo…all’azienda però. Per vendere di più del prodotto devi essere quel prodotto e non semplicemente promuoverlo. Insomma se avete mai preso in mano un manuale americano di marketing o motivazionale ne trovate a iosa di questa roba. I giovani, come dichiara nell’articolo “Dolce Vita” su Logica Interview, sono guidati da qualcosa di più dei soldi; bisogna dar loro la possibilità di partecipare al cambiamento, di avere responsabilità e se una persona è motivata e felice questa rende di più. Quindi il successo per l’azienda è garantito. E allora Casaleggio cosa fa? Prende anche giovani inesperti e dà loro grandi responsabilità e ottimi stipendi. Vi ricorda qualcosa del Movimento 5 Stelle!? Ma andiamo avanti.

La Webegg è rappresentata da un uovo. Casaleggio fa costruire all’interno delle tre sedi della società,

Milano, Torino e Bologna proprio una stanza a forma di uovo, stile “Star Trek” come dice lui stesso nelle riviste di settore. Con pavimento d’acciaio, colonnina comandi tutta metallica con pulsanti colorati, la tecnologia è completamente occultata e attivata con i raggi infrarossi “per dare fin dal primo impatto la sensazione della proiezione nel futuro”: stile navicella spaziale del capitano Kirk; tutti dentro, lui, i dipendenti, i clienti e la stampa.

E Casaleggio? L’amministratore delegato di una società che lavora con banche, assicurazioni e la Telecom, per sentirsi nel futuro si chiude in una stanza a forma di uovo!?

I comandamenti del “guru” e il Movimento 5 Stelle

La società di Casaleggio ha addirittura 12 comandamenti, affissi ovunque nell’azienda in manifesti con le uova. E Casaleggio fa realizzare un video sui comandamenti e lo distribuisce a tutti i dipendenti.

Studiandoli in profondità si trovano non poche corrispondenze tra i comandamenti di Webegg e il Movimento 5 Stelle oggi. Vediamone solo alcuni, ad esempio il comandamento 9.“Assenza di competitività interna” molto simile al principio di eguaglianza del Movimento 5 stelle, dove ogni attivista vale uno (il motto “Uno vale uno” ). O il 5 Teamwork, dove si decide che il sistema di lavoro deve essere per gruppi funzionali, simile al modello di aggregazione dei Meetup dove le persone lavorano su singoli temi funzionali. O il comandamento 2.Responsabilità sul risultato che ricorda le “Semestrali” dei grillini quando i cittadini confermano o meno la fiducia ai consiglieri del Movimento 5 Stelle. Il comandamento 6 Protezione totale delle persone, che ricorda quando Grillo interveniva in aiuto dei singoli colpiti da un provvedimento giudiziario ingiusto (cosa che fa sempre più di rado). O il 4 Il divertimento come forza creativa. Tutto il Movimento si basa sulla divertente figura di un comico, Grillo, che usa l’umorismo come registro comunicativo con i cittadini. Le sue parole ti suscitano delle emozioni che creano il coinvolgimento e non un ascolto passivo. Al pubblico resta impresso un’emozione positiva e non semplicemente le parole di un comizio. Una tecnica di comunicazione ben nota agli addetti ai lavori (usata nella Programmazione Neurolinguistica)

Nel video i comandamenti vengono sempre rappresentati con un film (come vedrete nella video-inchiesta). E spicca su tutti il comandamento 8 L’Invenzione continua del business che il “guru” rappresenta in un modo del tutto particolare e che da quel tocco in più di personalità: Con Totò, che nel film “Totò truffa ’62” vende la Fontana di Trevi ad un credulone!

Chiusa malamente l’esperienza di Webegg Casaleggio continua a portare le società nel web e diventa un personaggio pubblico nel 2005 quando fonda il blog di Beppe Grillo, pianifica i V day, organizza i meet up del Movimento e il Movimento 5 Stelle con la nuova società la Casaleggio Associati.
Come sostengono molti attivisti il Movimento non nasce spontaneamente dal basso ma dalle strategie di Casaleggio. Ad esempio anche il Meet up N°1, la piattaforma di aggregazione del Movimento nella città di Milano, nasce il 10 giugno 2005 da un ex-dipendente Webegg, Maurizio Benzi, poi assunto da Casaleggio nella sua nuova azienda, la Casaleggio Associati, un mese prima che Grillo stesso proponga ai suoi fans, il 16 luglio 2005, di usare i Meet up come piattaforma di aggregazione. Lo stesso Benzi oggi è candidato alla Camera per il Movimento nella circoscrizione Lombardia 3.

Tutto quindi fa pensare che questo Movimento sia la riproduzione del modello di business dell’ex società di Casaleggio. E non sia nato dalla rete, da cittadini che spontaneamente si sono messi insieme. I cittadini si aggregano su un modello già pianificato e proposto dall’ alto. Infatti Casaleggio e Grillo fanno credere che la loro rete di attivisti sia il luogo dell’orizzontalità e della libertà assoluta, esente da censure. Ma nella realtà il Movimento comunica sul loro sito e non su un piattaforma aperta, i commenti possono essere omessi o anche manipolati dalla società al vertice, come sostengono tantissimi attivisti. Oggi la Casaleggio Associati, ultimo bilancio consultabile 2011, ha un passivo di circa 57mila euro ripianato dai soci. Con il supporto di analisti di bilancio abbiamo messo a confronto l’azienda passata, la Webegg spa e quella presente, la Casaleggio Associati srl, con imprese del settore, ma in attivo, come la Accenture spa (capofila del settore ICT). Le aziende del “guru” hanno sempre gli stessi problemi, spese sproporzionate per il personale e le materie prime, in percentuale così alta da determinare un buco di bilancio. A conferma che la gestione Casaleggio richiede sempre ingenti risorse economiche.

OLTRE UN MILIONE DI EURO DI DANARO PUBBLICO VIA ITALIA DEI VALORI

La comunicazione è potere e da la possibilità di essere visibili. Magari riciclando le strategie di Webegg-Telecom, come abbiamo visto. Ed è Grillo stesso che ci dice in un filmato (guarda la Video inchiesta) quale possa essere il fine manageriale di Casaleggio:visto il miracolo che gli è riuscito con il Movimento adesso nasce la possibilità di avere altri clienti.
Cosa già sperimentata in politica da Casaleggio, come ci ha raccontato il penalista ed ex esponente dell’Idv Domenico Morace che ha seguito la gestione della Casaleggio e le spese dell’Italia dei valori di Antonio Di Pietro dal 2006. Con l’avvento di Gianroberto Casaleggio il bilancio dell’Italia dei Valori del 2006 riporta la spesa Internet aggregata ad altre voci per un ammontare totale di 1milione 305mila euro. Nel 2007 la voce siti Internet è unica: 469.173 euro. Lievita ancora nel 2008 ed arriva a 539.138 euro

“La Rete è politica” sostiene ancora più esplicitamente Casaleggio in un”intervista del passato (Data Manager 2001) ma ”per apprezzare la rete bisogna darle una dimensione culturale, solo in un secondo momento si può cominciare a fare business” perché “da la possibilità di cambiare gli equilibri”.

DAL 1 GENNAIO 2011 BEPPE GRILLO SI ALLONTANA DA DI PIETRO, PERCHE' ?

Come dal regolamento di Grillo: in sostanza sarà una società di comunicazione decisa da Grillo stesso a parlare per i Deputati e i Senatori del Movimento. Gestirà circa 10 Milioni di euro l’anno (6,3 alla Camera; 3,7 al Senato; i dati sono calcolati sui numeri ufficiali delle due Camere), che diventano 50 milioni di euro per una legislatura completa, visti i circa 100 parlamentari attribuiti al Movimento, oltre ai loro singoli stipendi. Non sappiamo ancora quale sarà il nome ufficiale della società che gestirà tutte queste risorse. Ma di certo sappiamo che con 50 milioni euro la forza di convinzione e di trasformazione degli equilibri può alimentare molto altro denaro.

Sarà per questo che in Italia è sempre meglio fondare un partito che gestire un’azienda! E' assolutamente così: nel 2011 ai "movimentisti", alle api operaie originarie dei MeetUp riesce il colpaccio di prendersi Parma come comune ed altre amministrazioni minori sfruttando lo sfacelo spaventoso prodotto da tre anni di governo Berlusconi Tris e dalla profonda crisi economica internazionale che incomincia a colpire fortemente anche l'Italia che dal 2008 sostanzialmente non ha avviato nessun programma di difesa e riforma sia della politica che dell'economia. Grazie alle farraginosità di una classe dirigente disastrosa, la penisola ha continuato a vivacchiare sull'enorme debito pubblico che proprio nel 2011 ESPLODEVA, vi ricordate LO SPREAD ?? Fino ad allora nessuno sapeva cosa fosse fino a quando nel giugno-luglio del 2011 iniziò a correre come un forsennato di fronte al colpevole immobilismo del duo Berlusconi-Tremonti: il primo troppo impegnato a coprire scandali di ogni tipo che lo porteranno a svariate condanne penali, il secondo barcamenante in Leggi Finanziarie ridicole. Proprio a maggio di quell'anno il Partito delle Libertà cedeva di schianto a Milano, Napoli roccaforti amministrative comunali che aprivano uno squarcio spaventoso sia politico - prima - che economico -poi. proprio durante la campagna elettorale per le amministrative, Grillo, fiutando benissimo il vento che cambiava, scaricava il povero Di Pietro, che con la montagna di soldi pubblici proveniente dal suo partito, come visto sopra, aveva sostanzialmente finanziato la crescita del blog di Beppe Grillo mascherando le caratteristiche perdite della società di Casaleggio che gestisce il tutto. La visibilità portata dal clamoroso successo nel comune di Parma diede modo successivamente al "Movimento" di diventare "primo partito" in Sicilia, alle amministrative anticipate del 2012 arrivate per il crollo della Giunta Lombardo, spazzata via dal solito "concorso esterno in associazione mafiosa". Al disastro etico morale della classe dirigente italiota, si unì in maniera micidiale, il disastro economico-fianziario con lo spread a quota 575 a ridosso del default, il "licenziamento" di Berlusconi e l'ascesa dei "tecnici" che non arrestarono il decorso comatoso della penisola. E' vero che Grillo obbliga alla restituzione di diarie ed alla stipula di patti onerosi per massacrare che fuoriesce dal "Gruppo", ma il "codice etico" viene scritto da Lui ed è insindacabile, non viene posto ai voti neanche nella Sua rete ristretta: o si accetta o si è fuori e se per caso eri dentro e vuoi uscire devi pagare una penale che finisce nelle tasche di Casaleggio che così "pareggia un pochino i bilanci"...

 

 

Oscar, trionfo Italia: vince "La grande bellezza", non si capisce come abbia fatto in quanto il film è di una pesantezza inaudita..

Gentile lascia: si è dimesso da sottosegretario

Il caso Il giornale calabrese e quel guasto alle rotative / audio

Cronaca della serata condotta da Ellen Degeneres

Corruzione, Formigoni a processo
Un imputato nella maggioranza

 

Grillo scomunica anche Pizzarotti
"Incontro coi sindaci non concordato, quindi anche Pizzarotti può andare a fare in culo !!!"

La replica: "Se fare rete non va bene, fate voi"
Parma, primo cittadino aveva criticato le ultime 4  espulsioni
Rep Tv "Lo streaming? Avevo altro da fare,non rompetemi i coglioni"

 

Pompei: siamo al terzo crollo -   foto   va giù muro di bottega chiusa -    video

Pompei: siamo al terzo crollo - foto 
va giù muro di bottega chiusa -  
video

Domani in vertice convocato dal neo ministro della Cultura Dario Franceschini

La frana vista dal drone le immagini dall'alto

REPUBBLICA TV / SAN LEO
 

La frana vista dal drone
le immagini dall'alto

 

CON LA PISTOLA DELLE BANCHE ALLA TEMPIA

Asta Tesoro, i Btp a ruba: tassi ai livelli del luglio 2005

E i rendimenti del quinquennale toccano il minimo storico:vi spieghiamo il perchè

I titoli si sono spostati dal primo contenitore al secondo negli ultimi quattro anni, in cui l'Italia ha preso ordini dalla BCE che ha "consigliato" persino le nomine di Monti, di Letta e ora di Renzie, tre presidenti del Consiglio non eletti dagli italiani. I titoli si sono mossi. I detentori esteri sono scesi dal 47,1% al 30%, di conseguenza i detentori italiani sono passati da poco più della metà al 70%. Ci siamo ripresi la spazzatura in casa. Questo del resto era l'obiettivo della UE e della BCE, diminuire l'esposizione estera verso i nostri titoli pubblici. Operazione riuscita, ma non ancora conclusa. L'esposizione deve infatti scendere almeno al 10%, dopo questa soglia il rischio default dell'Italia non potrà produrre un contagio, in particolare per Germania e Francia.

M5S, il dissidente Orellana: "Accusati
di reato d'opinione. Silenzio da Grillo,rotto solo dall'ordine:"CACCIATELI A CALCI IN CULO !!!"
I 4 senatori effettivamente verranno espulsi dopo il voto on line di 40.000 iscritti al 30 giugno 2013.

 

Latina, era 'invalida' al 100% ma faceva shopping  con i tacchi a spillo   video

Latina, era 'invalida' al 100%
ma faceva shopping 
con i tacchi a spillo 
video

 

 

 

 

 

 

Mafia, Lombardo condannato a 6 anni e 8 mesi "Me l'aspettavo, ma sereno"
Mafia, Lombardo condannato a 6 anni e 8 mesi
"Me l'aspettavo, ma sereno"

L'ex governatore della Sicilia colpevole di concorso esterno

Appalti Palazzo Chigi,  arresti domiciliari  per Bisignani e Ragusa

Appalti Palazzo Chigi, 
arresti domiciliari 
per Bisignani e Ragusa

Il reato ipotizzato è frode fiscale

 

Beppe Grillo, comizio a Sanremo    video   "Rai responsabile della rovina del paese"
Beppe Grillo, comizio a Sanremo  video 
"Rai responsabile della rovina del paese"
TOPO GIGIO:"Non sei credibile, non ho tempo per te e non sono venuto qui per sentire il tuo programma di merda !!!". Videoblob Quando Beppe era ospite al Festival 
I veri conti di Sanremo: il Festival perde un milione

Dopo Berlusconi,12-11-11,Monti,24-12-12,e Letta,13-2-14,la sfiducia arriva via Quirinale. Totalmente esautorato il Parlamento. Per il resto della nazione è tutto normale...in Sardegna il 48% degli aventi diritto non è andato a votare!!!

Elezioni regionali Sardegna, vince il centrosinistra. Pigliaru nuovo presidente. Cade la prima campagna di Forza Italonia

L'economista candidato del centrosinistra batte il presidente uscente, che ha telefonato all'avversario per complimentarsi. La scrittrice Michela Murgia si ferma al 10%. Un voto contraddistinto dall'astensionismo: solo un sardo su due è andato alle urne (52,2%). I complimenti di Renzi al vincitore della Persepoli

Seveso, scoperta la banca della 'ndrangheta: riciclava il denaro degli imprenditori, 40 arresti

Dalle carte dell'indagine, coordinata dall'aggiunto Ilda Boccassini, emerge una 'nuova mafia' che spara poco e tratta molto con il mondo produttivo. L'intercettazione: "Il capo è come la banca d'Italia"(04-03-2014)

E' nella produttiva Brianza, non a
caso, che le cosche della 'ndrangheta hanno pensato bene di installare una sorta di banca clandestina" che movimentava "centinaia e centinaia di milioni di euro" attraverso un reticolo di società usate per riciclare capitali illeciti e spesso tolte dalle mani degli imprenditori ormai in crisi anche in quelle ricche terre. E' l'ennesimo capitolo dell'espansione della mafia calabrese al Nord, in Lombardia in particolare, portato alla luce da un'inchiesta della Dda di Milano che ha fatto emergere come altro "dato nuovo e preoccupante" la stretta collusione tra l'imprenditoria locale e i clan, oltre a una serie di estorsioni ai danni di dirigenti di società di calcio.

Con un blitz della squadra mobile, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dal pm Giuseppe D'Amico, è stata smantellata la potentissima 'locale', ossia una cosca in termini 'ndranghetisti, di Desio (Monza e Brianza), capeggiata da Giuseppe Pensabene, 47 anni originario di Reggio Calabria ma residente a Seveso, che si vantava di essere una lavanderia" di denaro e che per gli altri affiliati era il "papa" o il "sovrano" o come la "banca d'Italia". E se nelle carte dell'inchiesta viene fuori come il clan abbia cercato di riempire il vuoto prodotto dagli oltre 170 arresti in Lombardia del 2010 dell'
operazione 'Infinito-Tenacia', il gip che ha firmato l'ordinanza a carico di 40 persone (21 in carcere e 19 ai domiciliari) descrive anche una vera e propria 'nuova mafia'.

I "fenomeni di compenetrazione tra mafia e impresa", scrive il giudice, storicamente "confinati nelle ben note aree geografiche dell'Italia meridionale", non solo si sono estesi "in Lombardia e al Nord in genere (e questo è un dato risalente nel tempo), ma soprattutto" vivono grazie a "un intenso e disinvolto connubio tra forme evolute di associazioni mafiose e imprenditori calabresi e lombardi, pronti a fare affari illegali insieme come se niente fosse". E così fra gli arrestati figura l'imprenditore edile di origine calabrese Domenico Zema, in passato anche assessore in un Comune della Brianza, "uomo di storia, di fatti, di rispetto, di amicizia, di esperienza, di conoscenze", come lo definisce Pensabene.

E c'è anche Fausto Giordano, nato in Svizzera - dove la cosca portava i soldi (che finivano anche a San Marino) - altro imprenditore edile che ha il compito di "procacciare nuovi clienti e nuovi affari". Poi una serie di imprenditori e commercianti vittime di estorsioni ed usura, ma nessuno di questi, rimarca il gip, "ha mai presentato denunzia all'autorità giudiziaria". Non l'hanno fatto nemmeno il vicepresidente esecutivo del Genoa, Antonio Rosati, e un ex direttore generale della Spal, Giambortolo Pozzi, anche loro finiti nella morsa dell'organizzazione. Nell'ottobre 2011 il clan avrebbe elargito 100mila euro alla Spal Calcio e un altro prestito di 30mila euro sarebbe stato erogato personalmente a Pozzi nel gennaio 2012, con interessi, scrive il gip, "di natura chiaramente usuraia".In un incontro a Seveso, dove la cosca aveva la sua base in una sorta di "ufficio-tugurio", Pensabene e altri del clan "ottenevano il rilascio da parte di Pozzi di 36 cambiali (...) per un importo complessivo di 198mila euro". Rosati, già presidente del Varese Calcio, secondo il gip è risultato invece "in rapporti di affari con Pensabene", tanto che avrebbe concordato con uomini del clan "di operare alcune speculazioni edilizie". Mentre un ex presidente della Nocerina, Giuseppe De Marinis, sarebbe stato pestato fino al distacco della retina di un occhio per un debito usurario.

Nelle quasi 500 pagine di ordinanza il gip elenca tutte le 39 società, un vero e proprio impero, "costituite o acquisite dal gruppo criminale facente capo a Pensabene" e "utilizzate per fare circolare i flussi di denaro contante, per l'acquisizione del patrimonio immobiliare e per l'emissione di fatture fittizie". Un elemento preoccupante, ha spiegato Boccassini, "è il fatto che ancora una volta abbiamo trovato imprenditori usurati e malmenati che hanno preferito non denunciare". Fra gli arrestati non mancano i cosiddetti 'colletti bianchi', come Vincenzo Bosco e Walter Alessandro La Coce, direttore e vicedirettore dell'ufficio postale di Paderno Dugnano (Milano), che avrebbero autorizzato "sistematicamente presso i loro sportelli le operazioni di prelievo di ingenti somme di denaro contante" per la cosca.

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E' un importante decreto voluto il 27 novembre 2013 da Saccomanni nell'ignoranza assoluta degli italioti ipnotizzati dall'espulsione del delinquente di Arcore dal Senato. L'opposizione pentastellata non è riferita ovviamente all'abolizione della seconda rata IMU 2013, ma alla SELVAGGIA PRIVATIZZAZIONE IMPOSTA DAL GOVERNO alla Banca d'Italia. Come già ampiamente descritto nel nostro articolo

Banche, così il governo anticipa di un anno il regalo da 4 miliardi di euro, il Governicchio Burletta ha proceduto ad una spaventosa rivalutazione del capitale sociale della Banca d'Italia (7,5 miliardi di euro contro i precedenti 156.000 !!!) allo scopo di rivalutare a sua volta le partecipazioni azionarie delle varie banchette italiote (Unicredit ed Intesa su tutti...)per fare in modo che rastrellassero 4 miliardini di crediti in relazione alla vendita delle loro partecipazioni che deve essere ridotta al 3%, contemporaneamente aprendo l'intero capitale alle partecipazione privata anche estera in quanto i soggeti devono semplicemente essere membri UE. Da questa colossale vendita il Governo rastrellerà 1,5 miliardi di euro contro la perdita totale della funzione pubblica della Banca d'Italia nonchè di garante a tutela dl risparmiatore. Altresì i giganti bancari europei potranno attingere ad una quota rivalutatissima, spuntare ottime cedole e mettere il becco negli affari italioti. Di fronte a questa porcata allucinante cha fa il paio con la cessione del 40% di Poste Italiote e con la messa in vendita di quote di FinMeccanica e di Enav - la rete di gestione dei controllori di volo - al peggior Italonia del secondo dopoguerra sta svendendo gli ultimissimi rimasugli di patrimonio pubblico dopo aver disintegrato telefonia (Sip-Telecom), industria metal-meccanica (Alfa, ferriere,Italsider), autostrade (date in gestione a Bemetton), credito al risparmio italiano (il fu Credito Italiano), chimica. Uno strapuntino suggellato altresì dal comportamento diarroico dell'ex comunista Boldrini che ormai si è ampiamente scordata di cosa significhi stare all'opposizione

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Bersani.... e la ritirata di Sardegna del M5S (dopo i rovesci in Trentino ed in Molise ed il fiato corto a Parma...)

Forconi, solo tremila in piazza a Roma. Cori e slogan contro Letta e Napolitano. Dal Veneto il forfait a causa delle troppe infiltrazioni fasciste

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Dalla ridotta dell'EUR,l'uomo merda vuole fare il "mamma santissi

ma" dei forconi

 

Porcellum bocciato dalla Consulta, accolto il ricorso dei cittadini. ALTRO SILURO DEL POTERE GIUDIZIARIO ALLA POLITICA ITAGLIOTA. Solo una settimana prima era stato affondato il finanziamento pubblico ai partiti...

 

III V day, Grillo: "Napolitano se ne vada a fare in culo !!!
 

Il Senato vota sì alla decadenza. Berlusconi è fuori dal Parlamento

 

TAV VAL SUSA:ALTRI SCONTRI A ROMA

I manifestanti che protestano contro il meeting hanno cercato di partire in corteo, prima verso la sede del Pd nazionale, poi in direzione del Senato, ma sono sempre stati fermati dagli agenti. Ai tentativi di sfondamento le forze dell'ordine hanno risposto con le manganellate,20 NOVEMBRE 2013

 

Scattano le ultime Privatizzazioni, 12 mld per abbattere il debito.
 

 

Le ultime tornate amministrative certificano la crescita esponenziale dell'astensionismo ed anche il fiato corto del M5S

Regionali Basilicata
Eletto Pittella (Pd): 60%
Astensionismo record,battuto il record delle regionali siciliane del 2011:-54%!!! E' Una Persepoli:il Partito della Diossina governicchia sulle MACERIE !!!
Spoglio, risultati finali

Perdono voti dem e Pdl(-8%)
M5s al 13%, affluenza -15%

La Svp senza maggioranza assoluta 
Rossi (cs) vince a Trento, boom di Patt

Il Pdl scompare, M5S perde due terzi dei voti
Crescono i partiti secessionisti sudtirolesi

 

Blocchi e scontri intorno a Montecitorio    foto

Blocchi e scontri intorno a Montecitorio:TORNANO I COMBATTIMENTI A ROMA,dopo il 14 dicembre 2010 e l'ottobre 2011  foto

Corteo casa foto lacrimogeni e assalto al blindato video foto 
Le immagini dei tafferugli video Il lancio delle uova video 

 

Lodo Mondadori, la Cassazione: "Fininvest deve risarcire Cir"FINITA PER SEMPRE ANCHE PER QUESTO FURTO

La Cassazione ha respinto il ricorso della Fininvest della famiglia Berlusconi contro la Cir dei De Benedetti per il risarcimento del Lodo Mondadori. Che rimane confermato con un ritocco al ribasso: il taglio è di circa 23 milioni di euro rispetto ai 564,2 milioni di euro già liquidati, ma che erano stati messi a bilancio con valore neutro. La decisione è emersa dalle motivazioni sul Lodo appena depositate dalla Terza sezione civile della Cassazione. Si tratta di un verdetto monumentale di circa 200 pagine.

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Sentenza Mediaset del 2 agosto 2013: lo spread al tempo della condanna definitiva di un delinquente abituale

RUBY

, BERLUSCONI CONDANNATO
"SETTE ANNI DI RECLUSIONE"

RUBY, BERLUSCONI CONDANNATO A 70 ANNI 
"Interdizione perpetua dai pubblici uffici"-
 dir. tv

Video Assalto media / Pm e avvocati / I fan 
Video E fuori si litiga - Foto Un collegio femminile viI giudici, presieduti da Giulia Turri, hanno condannato Silvio Berlusconi a 7 anni nell’ambito delprocesso Ruby.  I giudici hanno rimodulato l’accusa in concussione per costrizione invece che per induzione come ipotizzato dall’accusa. Berlusconi è stato condannayo anche per prostituzione minorile. Il verdetto è arrivato dopo sette ore di camera di consiglio. Disposta l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. I giudici hanno stabilito anche l’interdizione legale per la durata della condanna. Il Tribunale ha deciso anche la trasmissione degli atti alla Procura perché valutinio le dichiarazioni di una lunga serie di testimoni; e la trasmissione all’ordine degli avvocati degli atti riguaranti dell’avvocato Luca Giuliante, primo legale di Ruby. 

 

B. condannato, il Pdl sceglie la piazza piena di vecchi di merda
"Giudici distruggono vita democratica"

Caso Mediaset, 4 anni di carcere e 5 di interdizione all'ex premier IN SECONDO GRADO, IL REATO ORA E' ACCERTATO. Sabato manifestazione a Brescia
il Cavaliere ci sarà. Possibile un nuovo sit in lunedì a Milano durante l'udienza del processo Ruby
COMPRAVENDITA SENATORI, PROCURA DI NAPOLI CHIEDE GIUDIZIO PER BERLUSCONI

Intercettazione Fassino-Consorte
Silvio Berlusconi condannato a un anno
,nel dicembre 2012 era stato condannato a 4 anni per Frode Fiscale. In arrivo la solita prescrizione??

L'ex premier era imputato per rivelazione di segreto d'ufficio. Due anni e tre mesi al fratello Paolo
La sentenza del Tribunale di Milano. Il Giornale aveva pubblicato la conversazione sul caso Unipol
VIDEO - INTERCETTAZIONI E RICATTI, IL WATERGATE ITALIANO (prima e seconda parte)Il tribunale di Milano ha condannato Silvio e Paolo Berlusconi nel processo per la vicenda della pubblicazione sulle pagine del Giornale della conversazione tra Piero Fassino, allora segretario Ds, e Giovanni Consorte, numero uno di Unipol: “Allora abbiamo una banca?” in riferimento alla scalata del colosso assicurativo all’istituto di credito nel 2005, sulla quale si sono aperti poi un’inchiesta e il relativo processo. Per Paolo Berlusconi cadono però le accuse di ricettazione e millantato credito. All'ex segretario Ds un risarcimento di 80mila euro

103 MILIARDI DALLA BCE DAL 5 AGOSTO 2011...

 Quasi la metà dell'intervento della Banca centrale europea a sostegno dei Paesi periferici dell'Eurozona ha riguardato l'Italia. Nell'ambito dell'Smp (Securities Markets Programme), cioè l'acquisto di titoli di debito pubblico da parte della Bce sul mercato secondario, pari in totale a 218 miliardi di euro, ben 103 miliardi sono serviti a contenere l'aumento dello spread dell'Italia. E' quanto emerge dai dati al 31 dicembre 2012 resi noti dall'Eurotower, in linea con la politica di trasparenza dopo la creazione del cosidetto meccanismo anti-spread (Omt, Outright Monetary Transactions).

La Bce ha acquistato 102,8 miliardi di euro in bond italiani, iscritti a libro per 99 miliardi, la quota maggiore tra i Paesi dell'eurozona colpiti dalla crisi del debito. Seguono Spagna (44,3 miliardi), Grecia (33,9), Portogallo (22,8) e Irlanda (14,2). La durata media residua del debito italiano in pancia all'Eurotower è di quattro anni e mezzo. La durata maggiore è quella irlandese, mentre la Grecia è quella a più breve termine (circa tre anni e mezzo). Il programma Smp era stato avviato dalla Bce alla metà del 2010, allo scoppio delle crisi del debito ellenico, ed terminato lo scorso settembre quando è stato sostituito dall'Omt. Quest'ultimo non è stato finora mai attivato in quanto, a differenza del precedente programma, richiede, a chi ne fa richiesta, di sottoporsi alle condizioni di aggiustamento strutturale fissate dal fondo europeo salva-Stati.

  ESTERI

 

Putin chiede l'intervento armato in Ucraina
Soldati russi intorno al Parlamento in Crimea

Kiev: "Illegale il premier filo-Mosca". Il 30 marzo referendum
Obama alla Russia: "Grave ingerenza"La risposta di Putin:"Non rompeteci i coglioni !!" video

 In Ucraina la situazione è questa: Yanucovych era stato eletto in elezioni con il 51,8 per cento dei voti. 
Ora, l’Occidente ha appoggiato questa rivolta, una rivolta molto violenta, armata. Sono stati sequestrati una sessantina di poliziotti e quindi pone il principio che anche un regime democraticamente eletto possa essere rovesciato legittimamente con la violenza. Quindi potrebbe essere uno di quei casi in cui l’Occidente si dà la zappa sui piedi, perché potrebbe accadere anche nelle democrazie ed essere considerata non più illegittima, oltretutto questa partitocrazia è ben più ladra di Yanucovych con le sue piscine. Quello che ha rubato in trent’anni altro che piscine, struzzi e bottiglie di champagne!! Siamo di fronte a una seconda guerra fredda. Dopo il crollo dell’URSS gli Stati Uniti in particolare, ma con i loro alleati occidentali, hanno inanellato credo sette o otto guerre di aggressione, tutte! E solo la prima, quella del Golfo, poteva essere giustificata se Saddam Hussein sveva aggredito il Kuwait, ma le altre, Afganistan, Iraq, Libia… Adesso che la Russia è diventata di nuovo protagonista della scena mondiale, si ripropone la contrapposizione tra questi due blocchi e l’Occidente è all’attacco, anche economicamente, da tutte le parti, nel senso che è un tentativo di occupazione geopolitica del mondo intero. Prendiamo il Venezuela, adesso, dopo la morte di Chavez, guarda caso ci sono queste rivolte. E’ chiaro che in ogni Paese c’è del malcontento, a parte il fatto che la politica di Chavez in Venezuela era stata una politica non alla Castro. Chavez non era un comunista, ma un socialista e eletto democraticamente. E’ altrettanto chiaro che gli Stati Uniti soffiano su questi malcontenti o li foraggiano. L’Argentina, che ha fatto una scelta intelligente, di non integrarsi nel mercato finanziario internazionale, che sta provocando disastri ovunque, è stata messa in ginocchio anche economicamente dal giro finanziario internazionale. 
Quindi è in atto una sorta di guerra tra mondi dove alle due potenze tradizionali si aggiunge la terza incognita, che è il mondo musulmano che non ci sta a farsi né occidentalizzare, né comunistizzare, vuole seguire una propria linea di sviluppo. Oggi la guerra non si combatte come ai vecchi tempi, dove sarebbero entrate truppe russe o arrivati gli americani, si combatte economicamente, quindi la Russia ricatta l’Ucraina con il gas e gli altri rispondono promettendo miliardi di dollari. Però tutto ciò in qualche modo avviene sulla testa degli stessi ucraini e anche di noi cittadini europei, Nessuno decide niente, noi siamo sudditi, questa è una situazione che si vede ovunque e in Italia lo vediamo bene, pur essendo governati da dei quaraquaquà. Chavez aveva un’altra consistenza e se restiamo in Europa la Merkel ha un’altra consistenza, l’Italia è ormai diventata una povera cosa. Suddita due volte, degli americani e in qualche misura di una Europa più forte." Massimo Fini

Crimea, i filorussi occupano Parlamento foto vd 
Kiev a Putin: "Se muovete truppe reagiremo"

Manovre dell'esercito russo con 150mila uomini e 90 aerei
Video Scontri in Crimea - Dossier Yanukovich nel lago foto
Campionato di calcio sospeso a tempo indeterminato

UkraineElectionRegions

 

Kiev-Mosca, i fronti aperti: gas, carri armati a Sebastopoli e questione separatista

Kiev-Mosca, i fronti aperti: gas, carri armati a Sebastopoli e questione separatista,febbraio 2014

Che cosa avete capito della crisi in Ucraina? In fondo una storia molto semplice: il glorioso popolo ucraino che si ribella, lotta contro il dittatore Yanukovich, il cattivo Yanukovich, le proteste vincono a prezzo di qualche scontro di strada, Putin si arrabbia e occupa la Crimea. Sullo fondo la richiesta degli ucraini, del popolo ucraino di entrare nell’Unione Europea. Fine delle trasmissioni.
In realtà la storia è un po’ diversa perché per capire che cosa sta accadendo davvero in Ucraina bisogna considerare le nuove tecniche di comunicazione e di manipolazione dell’opinione pubblica. Bisogna considerare due fattori: primo, dalla metà degli anni Novanta l’Ucraina è diventata uno scenario strategico importante, da quando Brzezinski lo indicò come un obiettivo prioritario per gli interessi dell’Occidente. Secondo punto, dalla fine degli anni Novanta si applicano tecniche di occupazione del potere molto diverse rispetto a quelle usate fino a quel momento. 
Funziona così: proteste di piazza in apparenza spontanee sono in realtà pianificate con cura e guidate per il tramite di Organizzazioni non governative, Associazioni umanitarie e partiti politici; in un crescendo di operazioni pubbliche amplificate dai media internazionali e con appoggi all’interno delle istituzioni, in particolare dell’esercito, che finiscono per provocare la caduta del “tiranno”.
Si fa salire la tensione, le proteste fino al momento in cui il Presidente, per quanto in apparenza potente, cede e va via. Queste tecniche furono ideate alla fine degli anni Novanta, e applicate per la prima volta in Serbia alla fine degli anni Novanta. Ricorderete Milošević, sembrava fortissimo benché sconfitto in Kosovo, improvvisamente fu costretto alle dimissioni grazie alle proteste di piazza di un movimento.
Quell’esperimento ebbe un successo clamoroso e fu ripetuto altre volte. Fu ripetuto sempre nello spazio dell’ex Unione Sovietica, in Georgia, in Kirghizistan e in Ucraina nel 2004 quando la rivoluzione arancione ebbe un clamoroso successo emozionando tutti noi. Era il periodo natalizio, seguimmo quella rivoluzione dagli schermi e facemmo tutti il tifo per quella bella rivoluzione, che portò al potere per la prima volta un leader, amico degli occidentali, degli americani e nemico dei russi.
Fu proprio in quell’occasione però che Putin,fino a quel momento in rapporti ottimi con gli americani, capì che cosa stava accadendo e decise di reagire. Reagì usando gli stessi metodi: cominciò a tagliare il petrolio, a fare pressioni sociali, a spaccare l’opinione pubblica interna fino a quando nel 2010 Yanukovich vinse le elezioni e per cui l’Ucraina della sfera americana tornò nella sfera russa. 
Se non si è consapevoli di questi movimenti con un’origine piuttosto lunga non si capisce quello che è accaduto in questi giorni, perché è andato in scena esattamente lo stesso scenario. Le manifestazioni di piazza sono state in buona parte ispirate, organizzate, incoraggiate da dei professionisti. La variabile nuova emersa è molto inquietante perché accanto a migliaia di pacifisti sinceri e disinteressati che nemmeno riuscivano a leggere questi disegni, sono apparsi degli estremisti neonazisti impresentabili che per la prima volta, rispetto ad altre rivoluzioni pacifiste. Hanno usato delle tecniche di guerriglia sofisticate: assalto ai ministeri, barricate, bombe molotov e con modalità ulteriori molto sorprendenti e inquietanti, perché in questi giorni abbiamo avuto la prova che dei cecchini hanno sparato sia sui manifestanti, sia sull’esercito,facendo però ricadere la colpa su Yanukovich. Tutto questo ovviamente per fomentare il caos che poi ha portato alla caduta di Yanukovich.
Perché è successo proprio alla fine di febbraio? Perché è accaduto proprio durante i giochi olimpici di Soci, ovvero sull’evento internazionale che Putin aveva pianificato per rinverdire l’immagine di Russia come potenza. In quei giorni la Russia non poteva permettersi di intervenire, né di reagire nell’Ucraina, e proprio in quei giorni la guerriglia armata, perché tale è stata, ha esercitato la massima pressione costringendo Yanukovich alle dimissioni.
Finite le Olimpiadi Putin ha risposto in maniera meno sofisticata, ma in modo altrettanto sorprendente invadendo o comunque occupando la Crimea che ormai è evidente, si avvia verso l’indipendenza dall' Ucraina.
Questo cosa significa? Oggi le guerre, gli scontri di potere molto spesso avvengono attraverso queste modalità, queste tecniche di comunicazione e di manipolazione delle masse e dell’opinione pubblica,estremamente sofisticate, usate anche in tempi recenti in Tunisia, in Egitto e in maniera drammatica e violenta in Siria e in Libia.
Tutto questo con un corollario dei media. Perché i media sono importanti? Per una ragione molto semplice: se una rivoluzione, un movimento di piazza non ha un audience televisiva importante non esiste e per il regime è facilissimo reprimerlo. In più, se ci sono i grandi media internazionali, e pensiamo al peso della Cnn ma in generale di tutti i media che parlano in maniera intensa di quell’argomento, i manifestanti si sentono sostenuti e ringalluzziti e il potere si sente sempre più fragile. Fino a quando non è costretto a cedere e, chiaramente, chi perde viene descritto come il dittatore, il cattivo, l’impresentabile anche quando in realtà non lo è. Nel caso di Yanukovich non c’è gara, era l’uomo dei russi benché i russi non lo amassero troppo, ma se noi pensiamo a Mubarak o piuttosto a Ben Ali in Egitto e in Tunisia che sono stati amici a lungo dell’Occidente, ci rendiamo conto di quanto spregiudicate possono essere queste tecniche moderne che vengono usate in maniera molto più diffusa di quanto l’opinione pubblica possa capire.
Dunque la guerra non dichiarata tra Stati Uniti e Russia per il controllo di questo territorio durerà ancora a lungo con colpi informali, asimmetrici, metodi non convenzionali che a mio giudizio l’opinione pubblica quasi sempre non riuscirà a capire.
Secondo punto, in genere chi vuole capire davvero che cosa accade nel mondo non può accontentarsi di una lettura superficiale, limitata solo alle grandi tematiche lanciate dai media, ma, per quanto possibile, deve cercare di leggere in trasparenza per capire e per cogliere quei segnali, e ce ne sono sempre tanti, che indicano quando un movimento è davvero spontaneo oppure quando il movimento è indotto per fini e con ispiratori, che non si mostrano quasi mai.
E se avete trovato interessante questo intervento non esitate a farlo circolare e passate parola! 

Le invasioni di Mosca del secondo dopoguerra, dall'Ungheria alla Georgia,passando per Transnistria/Basso Fiume(1992) e Cecenia(1995-2005)

 

invasioni mosca

Sei anni dopo l'invasione russa della Georgia scatenata dall'offensiva militare di Tbilisi contro la regione separatista dell'Ossezia del Sud nel 2008, Mosca prepara l'intervento armato in Ucraina.

L'approvazione oggi da parte del Senato russo della richiesta di Putin di inviare "forze armate in territorio ucraino" potrebbe preludere a un'operazione militare nell'ex Repubblica sovietica, di fatto un'invasione, che si aggiungerebbe a quelle degli ultimi 50 anni: l'Ungheria nel 1956, la Cecoslovacchia a fine anni Sessanta, l'Afghanistan fra i Settanta e gli Ottanta e - dopo la fine dell'Urss - la Georgia nel 2008.

Nel 1945, dopo la sconfitta dell'UNGHERIA nella Seconda Guerra Mondiale, inizia l'occupazione del Paese da parte dell'Urss, che durerà 45 anni, fino al 1991, ovvero poco prima del collasso dell'Unione Sovietica. Quasi mezzo secolo trascorso però non senza incidenti: nel novembre 1956, una vasta forza militare del Patto di Varsavia guidata da Mosca entra a Budapest per schiacciare la Rivoluzione Ungherese contro il governo comunista e le sue politiche imposte dai sovietici.

L'invasione della CECOSLOVACCHIA da parte delle truppe del Patto di Varsavia (Bulgaria, Ungheria, Germania dell'Est e Polonia - Romania esclusa) guidate dall'Urss è del 20 agosto 1968, in piena guerra fredda. Obiettivo: fermare la liberalizzazione politica della Primavera di Praga del riformista Alexander Dubcek. I successivi leader del Paese cercano di ripristinare i valori che avevano prevalso prima di Dubcek, grazie al controllo del Partito Comunista.

La guerra sovietica in AFGHANISTAN inizia nel dicembre 1979 sotto la leadership di Leonid Brezhnev e dura nove anni, fino al febbraio 1989. Milioni di afghani fuggono dal Paese mentre le forze afghane guidate dai sovietici combattono contro i Mujahideen dell'Unità Islamica degli sciiti afghani, sostenuti dagli Usa attraverso Pakistan e Arabia saudita. Solo l'arrivo di Mikhail Gorbaciov al Cremlino porrà fine agli scontri, con il completamento del ritiro delle forze dell'Urss nel 1989.

Il nove agosto 2008 il ministro degli Esteri della GEORGIA denuncia "l'invasione" della Russia e chiede l'aiuto della comunità internazionale. Lo stesso giorno, l'allora presidente, l'antirusso Mikhail Saakashvili, dichiara che la Georgia "è in stato di guerra" con la Russia. Un'invasione, quella della Russia, dettata dall'offensiva militare su larga scala che la Georgia aveva sferrato nella notte del 7-8 agosto contro l'Ossezia del Sud, nel tentativo di riprendersi il territorio.

Tbilisi sosteneva di rispondere ad attacchi contro i suoi peacekeeper e villaggi nell'Ossezia del Sud, e che la Russia stava spostando unità militari nel Paese. Grazie alla mediazione della presidenza francese della Ue, le parti raggiungono il cessate-il-fuoco nell'agosto 2008. Ma Ossezia del Sud e Abkhazia si confermano de facto separate dalla Georgia. Di lì a poco vengono riconosciute come indipendenti da Mosca.

 

Spionaggio Internet: Italia come al solito sotto il tallone degli Usa

 

"USAMI COME VUOI" 
("E PER IL TEMPO CHE TI SERVE")

La lettera-zerbino di Christine Lagarde a Nicolas Sarkozy che imbarazza il Fondo Monetario Internazionale 
BLOG Armeni: "Lagarde-Sarkozy, il bondage del potere" 

 

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JUVE: VAFFANCULO !!! GRAZIE ALLA MERAVIGLIOSA ELIMINAZIONE DALLA MERDOPA L'ITAGLIA SPROFONDA AL QUINTO POSTO NEL RANKING !!! UNA PERSEPOLI CHE NON ACCADEVA DAL 1984


Ha ragione Giovanni Malagò. Purtroppo. Il nostro calcio è in ribasso: in campionato fra le prime due, Juve e Roma, e tutte le altre c'è un abisso. In Europa, poi, prendiamo schiaffoni sia in Champions che in Europa League: la Spagna ha tre squadre in finale (e l'Atletico Madrid ha schiacciato il Milan...), il Portogallo una (il Benfica ha fatto fuori la Juve) e ci ha superati nella classifica del ranking Uefa. Dal prossimo luglio infatti l'Italia sarà addirittura quinta. Non perderemo, è vero, un posto in Champions League (sempre tre sono e tre rimarranno chissà per quanti anni) ma di sicuro è un'umiliazione. A luglio, con i preliminari, partirà il nuovo quinquennio: l'Uefa cancellerà la stagione 2009-'10, per noi la più positiva (coefficiente di 15,4). Al comando partirà la Spagna, seguita da Inghilterra e Germania: quarto il Portogallo che ha 52,133 punti (ma ancora una partita da giocare, la finale del Benfica), mentre la povera Italia è quinta 51,510). E' dal 1984 che non siamo così in basso. Dal 1986 al 1989 (escluso il 1990) siamo stati persino in testa: bei tempi. Come detto, a livello di Champions non cambia nulla, per quanto riguarda l'Europa League invece le cose si complicano un po'. Il quarto posto nel ranking infatti garantisce di qualificare due squadre (e non una) ai gruppi, evitando così un preliminare che obbliga ad un inizio anticipato della stagione. Le nostre quindi avranno un cammino più complesso, dovranno cercare di rimontare sul Portogallo: e speriamo che non snobbino più l'Europa League, ex Coppa Uefa. La Francia per ora è sesta e lontana, ma non si sa mai...

La soglia di una finale europea rappresenta ormai le colonne d'Ercole del calcio italiano: l'ultima a superarle fu l'Inter del Triplete nel 2010 e quel passato comincia ad essere remoto. Così, quando anche la Juventus dominatrice del campionato e zoccolo duro della Nazionale di Prandelli è stata respinta sull'uscio dell'ultimo atto dell'Europa League, è tornata alla memoria la recente sentenza di Capello: "La serie A non è competitiva". La lapide trova apparente conferma nella nuova classifica Uefa: da luglio, per effetto della cancellazione dei risultati della stagione 2009-10, l'Italia scivolerà al quinto posto del ranking, sorpassata proprio dal Portogallo del Benfica eversore della Juve.

Ma Paolo Maldini, recordman di presenze nelle coppe (174), offre una spiegazione più articolata, che è anche un atto di accusa ai club italiani. "La classifica è incontestabile, si basa su calcoli matematici. Ed è il frutto della mancanza di etica sportiva. Le nostre squadre spesso in Europa League schierano le riserve, perché i dirigenti danno un input preciso: per loro una competizione è importante solo quando dà tanti soldi. Perciò in Champions vogliono in campo i migliori e in Europa League invece no. Eppure è la seconda competizione europea. Snobbarla, per quanto la formula sia discutibile e il fatto di giocare il giovedì pesante, è autolesionistico. Gli effetti lo dimostrano".

Per ora gli esiti del declassamento sono attenuati. Irraggiungibili Spagna, Inghilterra e Germania (che fino al 2011 era dietro), non cambierà il numero potenziale delle squadre in Champions (2 ammesse direttamente, 1 via play-off) e 3 saranno anche le teoriche iscritte all'Europa League (1 sola però di diritto, mentre le altre 2 dovranno sottoporsi ai preliminari in piena estate). Resta tuttavia il contraccolpo d'immagine: l'ex campionato più bello del mondo è diventato così mediocre da essere posposto non soltanto alla Liga, alla Premier
e alla Bundesliga, ma anche alla Primeira Liga, non esattamente un torneo di squadroni, Benfica e Porto esclusi. Negli anni Novanta sarebbe stato preso per folle chiunque avesse azzardato il paragone con la serie A, che mieteva Coppe Campioni, monopolizzava l'albo d'oro della Coppa Uefa e lasciava consistenti tracce nell'agonizzante Coppa delle Coppe.

L'imbarazzante dislivello tra calcio italiota e resto d'Europa:mentre in Italonia il campionato è già finito al 9 marzo, in Premier e Liga Real Madrid,Barcellona,Atletico Madrid, Chelsea,Liverpool,Manchester City e Arsenal si stanno dando battaglia in stadi strapieni con partite che vedono tra i 4 ed i 6-7 gol segnati. In Italonia fioccano gli 1-0 in stadi deserti con pochissimi tiri in porta e quei pochi sui pali e traverse !!! Confronto impietoso a portata di telecomando tra la serie A e Real Madrid-Barcellona. Stadi, campioni e atmosfera: è tutto un altro calcio. A volte basta pigiare il tasto del telecomando, clìc, per percorrere distanze immense, per viaggiare come dalla Terra a Marte. Chi l'abbia fatto durante Real Madrid-Barcellona (e Catania-Juventus, e Lazio-Milan) ha visto cose che noi umani eccetera. Chi, per tifo o per necessità di lavoro, ha preferito o dovuto soffermarsi sul nostro campionato e poi, random - oppure infilandosi nel quarto d'ora di differenza tra gli orari d'inizio delle tre partite (anzi, della Partita e dei due tristi riempitivi)  -  si è spostato televisivamente a Madrid, ha vissuto quasi uno shock. Perché sembravano, anzi erano, due sport differenti, due mondi opposti, due universi paralleli che non si incontrano mai: se non, appunto, grazie a quel clìc.Non si tratta della solita critica al nostro calcio deludente, impoverito di talento e denari, isterico, insomma provinciale nel senso peggiore del termine. Si tratta, proprio, di distanze siderali. E c'erano almeno una decina di motivi, ieri sera, per lasciar perdere la nostra lillipuziana serie A e rimanere ricchi (di bellezza, di emozioni), felici, golosi e appagati. Bastava rimanere a Madrid, e dimenticare tutto il resto.Con una scusante: anche sulla carta (in termini di punti in classifica) Catania-Juventus non è comparabile a Real-Barcellona. Ma i risultati nelle Coppe europee raccontano bene la differenza.1) I GIOCATORI - Persino ovvio dire che la prima, abissale differenza tra noi è loro è nella qualità media dei calciatori. Tutti, non solo i fenomeni. Anzi, soprattutto in quelli che fenomeni non sono. Giocatori che sanno fare tutto e quasi sempre benissimo. Calciatori completi, bene addestrati, capaci di fare quello che devono e andare dove devono. Un'altra razza.
2)
 LA VELOCITA' - Bastava un clìc, e la palla cominciava a correre ai duecento all'ora. Non stava mai ferma, come i bambini sulla spiaggia. Il Clasico non si interrompeva mai, era un fluire continuo e rapidissimo. E ogni gesto atletico e tecnico, nonostante quella folle rapidità, restava preciso, esattissimo: la differenza tra una finale dei cento metri alle Olimpiadi e una mezza maratona nel giardino di clinica Villa Arzilla.
3) L'EQUILIBRIO - Nel nostro campionato c'è la Juve, e poi ci sono gli altri. Non è colpa della Juve se gli altri, quasi sempre, sono una banda di pellegrini. Quando lo sente dire, Antonio Conte urla al "complotto mediatico globale destabilizzante": si sbaglia. Perché i grandi tornei prevedono un altrettanto grande equilibrio, altrimenti sono monologhi. In Spagna, le tre squadre di testa sono divise da appena un punto a fine marzo, da noi il campionato è finito in autunno, cadendo come una foglia.
4) IL CORAGGIO - Mai domi, mai abbattuti neppure se quasi battuti, i protagonisti di Real-Barcellona hanno lottato dal primo all'ultimo secondo senza calcoli e senza risparmio. Sette gol, tantissimi, e dopo ognuno di questi gol i giocatori si rimettevano all'opera, per rimontare o per ribadire. Uno spettacolo anche di carattere, non solo di abilità.
5)
 L'ATMOSFERA - Invece dei nostri soliti stadi vuoti, un'astronave come il Bernabeu piena di gente ma anche di calore. Persino l'erba, vista dalla tivù, sembrava più verde. E non possiamo neppure cavarcela con la battuta classica, visto che non si tratta purtroppo dell'erba del vicino. Perché la Spagna del calcio, l'abbiamo detto, sta su un'altra galassia rispetto ai nostri spelacchiati orizzonti.

Non è certo un buon momento per il nostro calcio: una sola squadra (la Juventus) rimasta in Europa, una sola squadra (sempre la Juve) che domina il campionato. Merito dei bianconeri. Demerito di chi sta dietro, molto dietro. Logico che in questa situazione non ci sia grande entusiasmo negli stadi, ed è già un (mezzo) miracolo se il sistema-calcio tiene. I telespettatori di Sky si stanno orientando sempre più sul panorama europeo, alla ricerca di partite di maggiore appeal: e così ecco che il match di calcio estero più visto quest'anno è stato Real Madrid-Barcellona, 557.791 spettatori medi. Molto di più di tanti piccoli incontri insignificanti che si vedono in Italia, costano solo produrli e non fanno ascolti. Per quanto riguarda il top degli ascolti nostrani non si sfugge: Juve, sempre Juve. Le prime tre partite della stagione sono state infatti Juventus-Roma (2.507.863), Juventus-Inter (2.449.061) e Juventus-Milan (2.138.650). Il top per Diretta Gol, quest'anno, è stato toccato il 2 febbraio: 648.158). 

Partenza a tutto gas intanto per la MotoGP su Sky e Cielo, che da quest'anno hanno i diritti: nel complesso il primo Gran Premio della stagione, in diretta domenica 23 marzo dalle 20 in Qatar, è stato visto in media da 3.222.542 spettatori, con il 12,02% di share e 5.292.485 spettatori unici. In particolare, la gara su Sky Sport MotoGP HD è stata seguita in media da 899.274 spettatori, più di quelli raccolti su Sky dai posticipi di Serie A Catania-Juventus (837.838), Lazio-Milan (602.430),
 e il "Clasico" Real Madrid-Barcellona (557.791). Merito, ovviamente, della rinascita di Valentino Rossi. Su Cielo, che trasmette in chiaro, sono stati invece 2.323.268 gli spettatori medi che hanno seguito il GP del Qatar. Alle 20,42, in occasione della fase finale del duello tra Marquez e Rossi, si è registrato il picco di ascolto su Sky Sport MotoGP HD e Cielo, con 4.226.795 spettatori e il 15,1% di share. 

ORA E' UFFICIALE: Allarme-calcio, 1 milione
di spettatori in meno DAL 2012 AL 2013

Crollano gli spettatori, quasi un milione in meno (esattamente 900.000) negli stadi italiani. Il numero totale dei presenti ai match del calcio professionistico passa dai circa 13,2 milioni della stagione 2011-2012 a 12,3 milioni del 2012-2013. In termini di affluenza media il confronto con gli altri campionati stranieri vede i club italiani superare soltanto quelli francesi (22.591 tifosi contro i 19.211 della Ligue1). Il primato spetta alla Bundesliga tedesca con 42.624 spettatori, seguita dalla Premier inglese (35.921) e dalla Liga spagnola (28.237). Il calo va a pesare sulla voce ricavi da stadio e commerciali che scendono rispettivamente del 4,1% e del 3,9%. Insieme rappresentano solo il 23% del valore della produzione aggregato (8% i ricavi da stadio e il 15% i ricavi commerciali).

E continuano a crescere i debiti della Serie A. E' quanto emerge dal 'ReportCalcio' 2014, pubblicato dal Centro Studi, Sviluppo ed iniziative Speciali della Figc con la collaborazione dell'Agenzia di Ricerche e Legislazione (Arel) e PwC. Dallo studio si nota che i debiti del massimo campionato, nella stagione 2012-'13, erano pari a 2.947 milioni di euro (+1.9% rispetto alla stagione 2011-2012). Di questi i debiti finanziari pesano per il 32%. La perdita netta della Serie A si riduce significativamente se confrontata con il periodo precedente e si attesta a 202 milioni di euro (contro i 280 milioni della stagione 2011-2012).
 
"I numeri del calcio sono in calo però purtroppo sono in calo anche i numeri dello sport e del Paese. Io non voglio essere critico ma di stimolo per aiutare a invertire questa tendenza. Poi i numeri bisogna saperli leggere, perchè ci sono anche numeri positivi o che non meritano di essere criticati". Questo il pensiero di Giovanni Malagò, presidente del Coni. "Sono in calo anche gli spettatori e questo è dovuto a tante componenti, come stadi vecchi, contesto congiunturale del Paese, crisi economica, l'incomprensibile politica commerciale di alcune società e non ultimo un campionato non competitivo come quelli di Spagna e Inghilterra".

Malagò ha aggiunto: ''Il calcio ha numeri favolosi, a volte dispiace e fa rabbia non capitalizzare al meglio questa grande potenzialità. Con tutte le sue problematiche il calcio è tuttora il movimento che tra i 6 e i 16 anni vanta un quarto di tutti i tesserati dello sport italiano, il 25% di ragazzi e ragazze rientrano nel mondo del calcio. In Europa i praticanti sono 17,7 milioni, in Italia 1,1 cioè l'8% di quelli che giocano a calcio in Europa. Non bisogna solo accontentarsi di questi numeri, che al contrario devono consentire di migliorarsi. Se migliora il calcio, migliora tutto lo sport nel Paese, il Coni e il sistema Italia nel suo complesso, che è fondamentale. Il mondo del calcio è e sarà sempre la costola più importante del nostro mondo''. 

Malagò ha inoltre spiegato: "E' indecente l'8% dei ricavi da stadio per le società professionistiche, se continueremo così tra un po' arriveremo a zero. Forse è dovuto anche al fatto che i diritti tv sono talmente cresciuti... ma questa è la versa sfida: arrivare al 25-30% come fanno gli altri Paesi. E' colpa anche e soprattutto degli stadi. Il nostro campionato lo facciamo diventare il campionato più intrigante del mondo ma rispetto a Inghilterra e Spagna non è proprio una lotta all'arma bianca. Si è creato un gap molto importante e questo non aiuta a favorire chi vuole andare a vedere le partite''.

''Negli ultimi 6 anni - ha sottolineato Giancarlo Abete, n.1 Figc- abbiamo recuperato attraverso il Coni 480 milioni dei 6 miliardi che solo il calcio professionistico ha dato al Paese. Raffrontandoci alle altre Nazioni siamo al secondo posto come contribuzione, solo l'Inghilterra ha dato all'erario più di noi''. Abete non ha nascosto i problemi del mondo del calcio: ''Abbiamo valori assoluti importanti, senza dubbio la condizione dei nostri stadi è uno degli elementi che porta ad una diminuzione delle presenze. Ma non dimentichiamoci che restiamo il quinto Paese al mondo come numero di spettatori medi. Da questi dati emerge una sofferenza strutturale della Lega di B e della Lega Pro.

Daspo e tessera tifoso, gli ultras incontrano i parlamentari: “Questo sistema fa acqua”

Per la prima volta si è aperto un confronto tra i gruppi organizzati italiani e la politica: sul tavolo possibile modifiche ai due provvedimenti anti-violenza. All'incontro che si è tenuto a Roma erano presenti anche i delegati di Figc e delle Leghe professionistiche, oltre a Pd, M5s e Fratelli d’Italia

Faccia a faccia dopo anni di muro contro muro per provare a capire se si può uscire dal vicolo cieco dell’articolo 9 della Legge Amato che regola i Daspo e superare la tessera del tifoso. I rappresentanti di circa trenta tifoserie italiane e parlamentari di Pd, M5s e Fratelli d’Italia si sono incontrati oggi pomeriggio nelle sale di Palazzo Santa Chiara a Roma. Un primo approccio per discutere dei due provvedimenti anti-violenza che hanno visto la partecipazione anche di delegati di Figc e delle Leghe professionistiche. Gli spiragli per superare due provvedimenti da più parti definiti fallimentari ci sono, almeno a giudicare dalla trasversalità dei partiti presenti.

MODIFICARE L’ARTICOLO 9 - “Il sistema fa acqua da tutte le parti. E’ arrivato il momento che si ascolti la voce dal basso. I tifosi sono i fruitori, i clienti, ma nessuno ha mai provato a capire le loro ragioni”, spiega l’avvocato Lorenzo Contucci, uno dei massimi esperti di Daspo in Italia. Tutto ruota attorno alle conseguenze provocate dall’applicazione di quella sigla che racchiude un provvedimento di divieto d’accesso alle manifestazioni sportive. I tifosi battono sulla rimozione dell’articolo 9 della legge 41 del 2007 “che se interpretato alla lettera prevede l’impossibilità per chiunque ha preso un Daspo – argomenta Contucci – di avere titoli d’accesso alle manifestazioni sportive anche dopo la fine del divieto”. Una criticità evidenziata anche dall’Osservatorio nazionale sulle manifestazione sportive che ha infatti circoscritto il divieto a chi lo sta ancora scontando. “Ma potenzialmente è interpretabile appieno da domani – spiega Contucci – Per questo abbiamo scritto una norma d’interpretazione autentica che mettiamo a disposizione dellegislatore”. La proposta di Contucci si aggancia al disegno di legge di modifica dell’articolo 9 presentato negli scorsi giorni dai grillini Vacca e Del Grosso e che a giudicare dalla presenza all’incontro dell’ex capogruppo M5s Vito Crimi, di rappresentanti di Pd e Fratelli d’Italia – oltre al segretario dei Radicali Mario Staderini – potrebbe trovare sponde inedite in Parlamento.

COME FUNZIONA LA TESSERA - L’altro capitolo spinoso riguarda lacci e lacciuoli della tessera del tifoso, criticata anche dal presidente dell’Uefa Michel Platini e dal numero uno del ConiGiovanni Malagò. La tessera esiste solo in Italia e l’introduzione dalla stagione 2010/11 del sistema di “questura on line” la rende di fatto superflua. Nel momento in cui si compra un biglietto per lo stadio, infatti, chi lo emette ha bisogno di un documento d’identità in originale i cui dati vengono immessi nel sistema e controllati all’istante dal Cen di Napoli, il centro di elaborazione dati della Polizia che ne autorizza o meno la vendita. “E’ lo stesso sistema che regola la tessera del tifoso. Ma se il controllo avviene nello stesso modo per il singolo biglietto e per la tessera, a cosa serve quest’ultima? – si domanda Contucci – Così si allontana la gente dallo stadio. Basti pensare che la tessera è necessaria anche per gli under 14: se è stata pensata per motivi di sicurezza, che senso ha l’obbligatorietà per chi è ancora in un’età tale da renderlo non imputabile?”.

TULLO (PD): “DIALOGHIAMO” - E’ la domanda posta dai tifosi di Brescia, Sampdoria e Atalanta dai quali è partito l’appello accolto da altri gruppi tra i quali Milan, Udinese, Padova, Bologna,Napoli, Parma, Avellino, Fiorentina, Genoa, Ascoli e Venezia. Una lotta trasversale tra tifoserie spesso contrapposte sugli spalti nel nome di tessera e Daspo, mai digeriti e che negli ultimi mesi fanno acqua anche nei tribunali. Dall’inizio del 2014 i Tar di Liguria e Toscana ne hanno annullati 129. Tra questi i 93 inflitti ai tifosi della Sampdoria che il 20 ottobre scorso erano stati allontanati da Livorno perché muniti di biglietto ma senza tessera. Il deputato democratico Mario Tullo pochi giorni dopo presentò un’interrogazione parlamentare e oggi a ilfattoquotidiano.it dice: “La tessera del tifoso non ha funzionato. Nessuno cerca comprensione alla violenza, sotto nessun punto di vista. Gli ultras lo sanno. Ma bisogna stabilire cosa devono pagare se sbagliano. E’ il momento di aprire il dialogo e questo è un compito che spetta alla politica. Per trent’anni si è affrontata solo la parte repressiva, in alcuni casi necessaria.

Calcio, proposta di legge sulla proprietà dei club: via libera al modello spagnolo

E' stato presentato nella sala stampa della Camera dei Deputati il testo che punta a riformare il mondo del pallone italiano. In particolare la normativa mira a favorire il coinvolgimento diretto dei tifosi, evitando che un singolo soggetto possa detenere in via esclusiva un club

ROMA – Da tempo si sente parlare della necessità di una riforma del sistema calcio, ma da oggi c’è anche una proposta di legge, presentata ufficialmente nella sala stampa della Camera dei Deputati. “Credo che questo sia il momento migliore per intervenire, abbiamo il clima adatto per una vera e propria ‘rivoluzione’. Il calcio è diventato qualcosa di separato dal mondo dei tifosi e della società civile”. Con queste parole Salvatore Grillo, presidente dell’Associazione “Salviamo il calcio” ispiratrice della proposta di legge, ha illustrato l’iniziativa che mira a modificare gli statuti delle società che gestiscono il mondo del pallone in Italia. Una generica criminalizzazione del tifoso e orari delle partite imposti da esigenze televisive hanno allontanato sempre di più gli appassionati da questo sport. “La proposta di legge – continua Grillo – vuole anche garantire maggiore trasparenza nei bilanci delle società attraverso il coinvolgimento delle tifoserie così come avviene nel calcio spagnolo e in quello tedesco”.

Il testo è stato sottoscritto da 42 parlamentari ed è stato illustrato dai due primi firmatari, l’On. Angelo Attaguile – ex presidente del Catania Calcio – e l’On. Giancarlo Giorgetti – ex portiere del Varese -. I parlamentari hanno sostenuto che la normativa, imponendo un limite alle quote o alle azioni in mano ad unica persona, mira ad evitare che un singolo soggetto possa detenere la “proprietà” di una squadra di calcio il cui valore è rappresentato dai tifosi e dalle tradizioni delle quali questi sono figli. Il testo punta anche all’istituzione
 obbligatoria negli statuti societari di un organo consultivo che assicuri un’adeguata informazione su vicende che interessano l’opinione pubblica, passaggio fondamentale affinchè le tifoserie possano essere coinvolte nel controllo degli atti più importanti dei club.

FINALMENTE SI MUOVE LA QUESTURA: 35 DENUNCIATI PER LA CONTESTAZIONE DI MILAN-PARMA

Denunciati trentacinque ultrà si va verso la tolleranza zero

I tifosi protagonisti della contestazione dopo la sconfitta con il Parma si sono visti contestare quattro reati. E' una stretta che, in caso di seguito da altre questure, prefigurerebbe nuovi scenari. Appello della polizia contro l'omertà: "Denunciate e isolate i violenti"

 

Al Milan spunta un nuovo e clamoroso giallo: quello degli spettatori fantasma. Dati ufficiali alla mano sulle persone che sono realmente entrate a San Siro attraverso i tornelli nelle prime 13 partite casalinghe di campionato, sono infatti quasi 9mila a partita i tifosi che mancano all'appello, rispetto ai bollettini trasmessi alla Lega di serie A.

Alla statistica mancano solo i numeri dell'ultima gara interna di domenica col Parma: proprio quella che ha avvalorato definitivamente il sospetto di uno stadio Meazza ormai semivuoto per irreversibile consuetudine, al di là dei soccorrevoli bollettini. Gli ingressi omaggio distribuiti a 4 mila bambini delle scuole calcio non sono bastati a mascherare l'evidenza. Anzi, in piena contestazione degli ultrà, i cori delle voci bianche della Nord hanno appunto indotto a notare il desolante colpo d'occhio. Che trova conferma nella verifica del numero di spettatori passati dai tornelli nelle precedenti 13 partite, con un arrotondamento di 250 persone, per difetto o per eccesso. La media è di 29.543 (contro i 38.841 dichiarati): togliendo il quasi pienone con la Juve, si abbasserebbe a 26.088. Ma appare notevole soprattutto la differenza tra la teorica somma di paganti e abbonati e la cifra dei presenti effettivi, che sono molti in meno: 8.883 di media a partita, con i picchi di Milan-Sampdoria (13.575), Milan-Torino (13.200), Milan-Bologna (11.567) e Milan-Atalanta (10.187).

Nel primo e nel secondo caso  -  dando per scontato che gli 8.203 e gli 11.710 paganti siano ovviamente entrati - ben oltre la metà degli abbonati registrati dal club (23.372 con la Samp, 23.490 col Torino) avrebbe dunque rinunciato a presentarsi allo stadio. Il fenomeno è curioso, in tempi di crisi, ma è innegabile: le assenze di chi ha pagato in anticipo il diritto a vedere il Milan dal vivo sono costanti e uniformi nelle varie date delle gare, spalmate dal sabato al lunedì, in orari sia serali sia pomeridiani. Non ne risente l'incasso: la quota abbonati resta di circa 550 mila euro a partita, per una spesa di 23 euro in media pro capite (sono perciò 206.885 gli euro spesi a vuoto). In compenso fa effetto la proiezione finale: se il trend resterà questo fino alla fine del campionato, il Milan avrà 168.777 spettatori fantasma, capaci di regalargli quasi 4 milioni di euro (3.930.815).

Mette invece malinconia il paragone col passato (i 70 mila abbonati superati negli anni Novanta) e con i club europei, con i quali il Milan dovrebbe in teoria rivaleggiare. La media del Dortmund è di oltre 80 mila spettatori. Sono lontani Bayern (71 mila), Real (74 mila), Barça (72 mila), United (75 mila) e Arsenal (60 mila), ma anche Ajax (51 mila), Psg (45 mila), Celtic (43mila), Rangers (42 mila), Shakhtar (41 mila) e perfino il Guanghzou di Lippi (45 mila) e i giapponesi dell'Urawa (43 mila). In Bundesliga il Milan sarebbe tredicesimo, con meno pubblico del Magonza. E in Premier League pure, rivaleggiando col Southampton. E' difficile pensare che sia colpa dei tornelli.
Partita             Spettatori per il Milan         Spettatori effettivi        Differenza
Milan-Cagliari       30.471                             22.500                         7.971
Milan-Napoli         51.384                             47.000                         4.384
Milan-Sampdoria   31.575                             18.000                        13.575
Milan-Udinese       33.188                             25.000                         8.188
Milan-Lazio           30.212                             21.000                         9.212
Milan-Fiorentina     44.261                            37.500                          6.761
Milan-Genoa          34.848                            26.000                          8.848
Milan-Roma           37.987                            31.000                          6.987
Milan-Atalanta        34.187                           24.000                          10.187
Milan-Verona         30.953                            21.000                           9.953
Milan-Torino           35.200                            22.000                          13.200
Milan-Bologna        29.631                            18.064                          11.567
Milan-Juventus       75.589                             71.000                         4.589
Dato medio di spettatori in più secondo il Milan: 8.878

N. B.: spettatori effettivi approsimati di 250 per eccesso o difetto

Curve ridotte, no dell'Uefa
Euro 2020: Roma candidata

L'Uefa non vuole barriere, per "loro-spiega Malagò-dovrebbe essere consentito spostarsi dalle curve quasi sino in tribuna d'onore": per questo il progetto delle curve ridotte, o segmentate, presentato dalla task force, dovrà essere rivisto. Non si potrà fare in stadi di squadre impegnate nelle Coppe europee: quindi l'Olimpico di Roma, a Firenze, a Napoli, a Torino (Juventus Stadium), forse a San Siro (se Inter o Milan si qualificano). Si potrà fare eventualmente in altri stadi. Lo ha spiegato oggi Malagò al termine della Giunta Coni. Verrà privilegiato quindi il riconoscimento audiometrico (la Roma farà dei test) per individuare chi fa cori razzisti o lancia pertardi o espone striscioni vergognosi.

Euro 2020 di calcio: Roma candidata, Milano non ha i requisiti (e rischia di perdere anche la finale di Champions 2016, come da noi anticipato). L'Uefa ha deciso che l'edizione 2020 degli Europei diventi itinerante: dovrebbe essere ospitata in 13 Paesi. La decisione verrà presa il 19 settembre di quest'anno. La Figc ha presentato il dossier. Abete ha fiducia: "L'Olimpico ha le carte in regola". Il Coni intanto il 7 maggio presenta il nuovo logo, che porterà più soldi da marketing e merchandising (previsti anche Coni Point), mentre entro luglio nasce anche il nuovo sito del Comitato olimpico, sicuramente più moderno. Continua l'indagine intanto sulla Federazione hockey su prato, a seguito dell'esposto di Sergio Mignardi. E continua il (lungo) commissariamento della Fise (Federequitazione). Il premier Matteo Renzi non ha ancora incontrato Malagò, che si è visto già con molti nuovi ministri: lo farà dopo aver nominato, nei prossimi giorni, il referente per lo sport. Nessuna decisione intanto della Giunta Coni in merito ai contributi alle federazioni (qualcuno vorrebbe togliere qualche decina di milioni alla Figc ma Abete è un osso duro...) e alla fusione fra alcune Federazioni e discipline sportive associate. Il 15 aprile ultima riunione della commissione-Buonfiglio: presenti anche Malagò e Roberto Fabbricini. Antidoping: integrata la lista Cca con la nomina del professor Sergio Amadori. Malagò è soddisfatto deli lavoro delle strutture antidoping del Coni, "e da parte mia nessunissima ingerenza". Infine, Roma 2024: la rivale più pericolosa, se Roma si candida, potrebbe essere una città Usa.

Champions League 2014, il Chelsea di Mourinho corre ancora. Anche sul Web

L'impresa dei Blues, oltre a mortificare gli sceicchi del Psg e i loro milioni, permette al tecnico portoghese di avvicinarsi alla storia e di diventare lo Special One anche dei social network

Alla fine arriva sempre lui, Josè Mourinho. Il trionfo del tecnico portoghese è totale: vince in campo dove il suo Chelsea completa la remuntada ai danni del Paris Saint Germain e lontano dall’erba di Stamford Bridge, prendendosi la scena in tv e su Twitter, dove per ore è stato stabilmente tra i trends topics dopo il triplice fischio che ha spedito i Blues in semifinale diChampions League. Lo Special One conquista così l’ottava qualificazione alle semifinali in undici anni. Non era mai successo a nessun allenatore. Per Mourinho è un titolo di cartone, quello che ha veramente in testa è un altro: vincere la terza Coppa Campioni con il Chelsea vorrebbe dire entrare nella storia del calcio come il primo allenatore capace d’alzare il trofeo con tre squadre diverse.

Eppure già nel 2-0 al Psg di Laurent Blanc, uscito tatticamente distrutto dal doppio confronto con gli inglesi, c’è tutto il meglio dell’ex tecnico dell’Inter. La carica ai suoi dopo il 3-1 dell’andata (“Siamo a solo a metà strada, possiamo farcela”), la parte tecnica (nel finale ha schierato quattro punte e i gol qualificazione portano la firma di Schürrle e Demba Ba, entrambi buttati nella mischia a partita in corso), la stilettata all’eterno rivale Benitez (“Con questo gruppo lo scorso anno era inEuropa League e a 20 punti dal primo posto in Premier”) e dopo il trionfo le battute furbe in perfetto italiano per far rimbombare l’eco dell’impresa (“I cambi? Ho avuto culo”). E infatti Mourinho rimbalza ovunque.

Su Twitter, soprattutto, dove da ieri sera non si arresta l’onda celebrativa in versione 140 caratteri. Fan dell’Inter che si chiedono se il loro cuore batta per i nerazzurri o per il portoghese, l’exMaterazzi che lo definisce “Simply the best”, utenti che sottolineano come la partita abbia dimostrato che tra “Mourinho e Blanc c’è ancora una categoria di differenza che gli assegni degli sceicchi non coprono”: sul popolare social network è scoppiata la Special One mania. Così la rimonta riuscita a Mourinho oscura e inghiotte la quasi-rimonta del Borussia Dortmund ai danni del Real Madrid. I tedeschi sono arrivati a un soffio da una vittoria che, calcisticamente parlando, sarebbe stata ancor più clamorosa del ribaltone del Chelsea. Dopo il 3-0 subito al Santiago Bernabeu, il Borussia ha fatto tremare i Blancos di Carlo Ancelotti fino al 90esimo.

La squadra spagnola, affondata due volte da Mario Reus nella prima mezz’ora di gioco, è stata salvata dalle parate di Casillas e dal palo che ha detto no all’affondo di Mkhitaryan. Per il Real si tratta della quarta semifinale consecutiva, una continuità tutt’altro che scontata nella massima competizione europea. Sarebbe il risultato del giorno, da celebrare in prima pagina, se a Londra non ci fosse stato un portoghese eternamente diviso tra genio e fortuna a cancellare il tutto. Stasera si completa il quadro con Bayern Monaco-Manchester United e il derby spagnoloAtletico-Madrid Barcellona. Ma a me di clamorose prestazioni c’è una squadra che emotivamente arriva in semifinale con un passo in più, racchiuso nella corsa del suo allenatore verso il mucchio di giocatori che esultavano dopo il gol-qualificazione arrivato all’86esimo. E Mourinho, che non ha mai fatto mistero di quanto conti la fortuna per vincere la Champions, avrà anche buttato un occhio a una tradizione degli ultimi anni che lega la vincente del trofeo alla nazione che ha ospitato la finale precedente. Nel 2009 si giocò a Roma e l’Inter vinse nel 2010. Il trionfo nerazzurro si celebrò inSpagna e nel 2011 ha vinto il Barcellona. Ancora: nel 2011 si giocò a Wembley e la stagione seguente toccò al Chelsea alzare la coppa dalle grandi orecchie. I Blues allora guidati da Di Matteoesultarono in Germania e lo scorso anno ha vinto il Bayern Monaco. Dove? In Inghilterra. Se stasera il Manchester United non compie l’impresa contro i campioni in carica, il Chelsea sarà l’indiziato numero uno. Per la cabala, certo. Ma anche per quell’uomo “special” che lo guida dalla panchina e vuole scrivere il suo nome nella storia del calcio mondiale. “Appena un gradino sotto Dio”, direbbe lui.

Stadi, ecco cosa cambia
Nasce la fidelity card

La Task Force del Viminale, voluta dal ministro Angelino Alfano e coordinata dal prefetto Vincenzo Panico, ha lavorato sodo sino al 17 marzo. Ora è pronto un pacchetto di misure. Oltre all'Osservatorio e alla forze di polizia, hanno fatto parte della Task Force anche il Coni, la Figc (con il dg Antonello Valentini) e le tre Leghe professionistiche. Erano stati gli stessi club di serie A a chiedere aiuto al ministro Alfano e al capo della polizia, Pansa. Sono stati accontentati. Il pacchetto sarà presentato domani pomeriggio al Viminale. Ora le società hanno gli strumenti per rendere gli stadi più civili e dovranno presentare progetti credibili. L'Osservatorio non obbligherà nessuno ma farà in modi di vigilare sui comportamenti dei club che dovranno dare sempre più importanza al supporter liaision officer (slo), il dirigente che si occupa della tifoseria. Molte cose cambieranno la prossima stagione, e speriamo in meglio perché questa è stata (è) veramente disastrosa. Anche la Figc farà la sua parte: Giancarlo Abete ha già promesso che saranno riviste a fine campionato le norme sul razzismo e sulla discriminazione territoriale, norme di difficile se non impossibile applicazione. 

Ma ecco cosa cambierà, dovrà cambiare, il prossimo anno: innanzi tutto la tessera del tifoso si trasformerà in una vera tessera per il tifoso, una fidelity card, non più uno strumento che ha reso la vita difficile a chi voleva andare allo stadio. Non verrà abolita (purtroppo) la tessera del tifoso, perché ci vorrebbe un provvedimento di legge, ma trasformata radicalmente. Bisognerà vigilare però sui club che se ne facciano davvero carico. Sarà più facile acquistare i biglietti, on line o attraverso gli smart phone. Inoltre i tagliandi saranno messi in vendita anche all'ultimo momento, e ci sarà più attenzione alle trasferte (ora disertate quasi in massa). Non ci saranno più gli episodi successi quest'anno con i padri che non potevano portare i figli (minorenni) allo stadio: la fidelity card non più sarà richiesta per gli under 14. Inoltre via libera a chi vuole portare allo stadio un amico. Molte lamentele (giustificate) dei tifosi per il caro-biglietti, ultimi nei confronti del Chievo. Da elogiare la Lega di A che ha stabilito prezzi bassi, i più bassi degli ultimi quattro anni, per la finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina: dai 20 euro delle curve ai 90 delle tribune. Si parlerà anche del Daspo: uno strumento cui il Viminale non vuole rinunciare. Ma, attenzione: non più a pioggia come successo sinora, quando tanti provvedimenti, per carenza di motivazione, venivano poi annullati dai Tar. Maggiore attenzione quindi da parte di alcune questure: il Daspo non serve per fare le statistiche. Verrà intensificato il lavoro degli stewards, soprattutto nelle curve: hanno gli strumenti di legge per intervenire. I club maggiori (vedi Juve, Milan, Inter, Roma, eccetera) potranno suddividere le curve in mini-settori in modo da individuare più facilmente chi fa cori razzisti o espone striscioni vergognosi. A proposito: la questura di Torino non è riuscita ad andare avanti nell'inchiesta sui tifosi (circa 200?) che avevano fatto cori antisemiti. Probabile quindi che il giudice sportivo non prenda alcuna decisione. Anche la polizia farà la sua parte, non solo i club: prevista maggiore attenzione nel filtraggio. Adesso entrano troppi petardi, proibiti oltre che pericolosi: i tifosi li nascondono nei panini, o nella biancheria intima. A volte vengono utilizzate donne o addirittura bambini (che vergogna) per cercare di eludere i controlli. In futuro, più attenzione ai tifosi per bene. Un primo passo avanti, che va poi verificato nella sua attuazione. Ma i tifosi chiedono altro, chiedono nuove norme e più attenzione: venerdì 11 una delegazione di ultrà di varie città parlerà con alcuni esponenti di partiti politici.

Serie B a 20 squadre dal 2015-'16? Abodi lo spera
Andrea Abodi è per il dialogo (costruttivo): il n.1 della Lega di serie B, attivissima su vari fronti, adesso ha intavolato un discorso con la Lega di A, dopo tanti anni di silenzi. Un passo avanti. Argomento, riforma dei campionati. Logica vuole che la A debba scendere da 20 a 18, la B da 22 a 20 (meglio ancora sarebbe 18). In A ci sono resistenze, e non sarà per niente facile. Il presidente Maurizio Beretta aveva parlato di una sola retrocessione diretta, con la seconda ai playoff. Alcuni presidenti sono perplessi, temono di perdere i soldi dei diritti tv. In B invece c'è la convinzione che si debba passare a 20. Quando? Il più presto possibile. Abodi spera quindi dal 2015-'16, ma va trovato l'accordo con la A in fretta. C'è ancora un braccio di ferro invece fra Lega di B e quella Pro: argomento, i soldi dei diritti tv. Deciderà il Tnas, questa estate. Non è stato possibile mettere d'accordo le due parti, troppo lontane. Nemmeno Abete c'è riuscito.

Stadi, ecco cosa cambia
Nasce la fidelity card

La Task Force del Viminale, voluta dal ministro Angelino Alfano e coordinata dal prefetto Vincenzo Panico, ha lavorato sodo sino al 17 marzo. Ora è pronto un pacchetto di misure. Oltre all'Osservatorio e alla forze di polizia, hanno fatto parte della Task Force anche il Coni, la Figc (con il dg Antonello Valentini) e le tre Leghe professionistiche. Erano stati gli stessi club di serie A a chiedere aiuto al ministro Alfano e al capo della polizia, Pansa. Sono stati accontentati. Il pacchetto sarà presentato domani pomeriggio al Viminale. Ora le società hanno gli strumenti per rendere gli stadi più civili e dovranno presentare progetti credibili. L'Osservatorio non obbligherà nessuno ma farà in modi di vigilare sui comportamenti dei club che dovranno dare sempre più importanza al supporter liaision officer (slo), il dirigente che si occupa della tifoseria. Molte cose cambieranno la prossima stagione, e speriamo in meglio perché questa è stata (è) veramente disastrosa. Anche la Figc farà la sua parte: Giancarlo Abete ha già promesso che saranno riviste a fine campionato le norme sul razzismo e sulla discriminazione territoriale, norme di difficile se non impossibile applicazione. 

Ma ecco cosa cambierà, dovrà cambiare, il prossimo anno: innanzi tutto la tessera del tifoso si trasformerà in una vera tessera per il tifoso, una fidelity card, non più uno strumento che ha reso la vita difficile a chi voleva andare allo stadio. Non verrà abolita (purtroppo) la tessera del tifoso, perché ci vorrebbe un provvedimento di legge, ma trasformata radicalmente. Bisognerà vigilare però sui club che se ne facciano davvero carico. Sarà più facile acquistare i biglietti, on line o attraverso gli smart phone. Inoltre i tagliandi saranno messi in vendita anche all'ultimo momento, e ci sarà più attenzione alle trasferte (ora disertate quasi in massa). Non ci saranno più gli episodi successi quest'anno con i padri che non potevano portare i figli (minorenni) allo stadio: la fidelity card non più sarà richiesta per gli under 14. Inoltre via libera a chi vuole portare allo stadio un amico. Molte lamentele (giustificate) dei tifosi per il caro-biglietti, ultimi nei confronti del Chievo. Da elogiare la Lega di A che ha stabilito prezzi bassi, i più bassi degli ultimi quattro anni, per la finale di Coppa Italia fra Napoli e Fiorentina: dai 20 euro delle curve ai 90 delle tribune. Si parlerà anche del Daspo: uno strumento cui il Viminale non vuole rinunciare. Ma, attenzione: non più a pioggia come successo sinora, quando tanti provvedimenti, per carenza di motivazione, venivano poi annullati dai Tar. Maggiore attenzione quindi da parte di alcune questure: il Daspo non serve per fare le statistiche. Verrà intensificato il lavoro degli stewards, soprattutto nelle curve: hanno gli strumenti di legge per intervenire. I club maggiori (vedi Juve, Milan, Inter, Roma, eccetera) potranno suddividere le curve in mini-settori in modo da individuare più facilmente chi fa cori razzisti o espone striscioni vergognosi. A proposito: la questura di Torino non è riuscita ad andare avanti nell'inchiesta sui tifosi (circa 200?) che avevano fatto cori antisemiti. Probabile quindi che il giudice sportivo non prenda alcuna decisione. Anche la polizia farà la sua parte, non solo i club: prevista maggiore attenzione nel filtraggio. Adesso entrano troppi petardi, proibiti oltre che pericolosi: i tifosi li nascondono nei panini, o nella biancheria intima. A volte vengono utilizzate donne o addirittura bambini (che vergogna) per cercare di eludere i controlli. In futuro, più attenzione ai tifosi per bene. Un primo passo avanti, che va poi verificato nella sua attuazione. Ma i tifosi chiedono altro, chiedono nuove norme e più attenzione: venerdì 11 una delegazione di ultrà di varie città parlerà con alcuni esponenti di partiti politici.

Serie B a 20 squadre dal 2015-'16? Abodi lo spera
Andrea Abodi è per il dialogo (costruttivo): il n.1 della Lega di serie B, attivissima su vari fronti, adesso ha intavolato un discorso con la Lega di A, dopo tanti anni di silenzi. Un passo avanti. Argomento, riforma dei campionati. Logica vuole che la A debba scendere da 20 a 18, la B da 22 a 20 (meglio ancora sarebbe 18). In A ci sono resistenze, e non sarà per niente facile. Il presidente Maurizio Beretta aveva parlato di una sola retrocessione diretta, con la seconda ai playoff. Alcuni presidenti sono perplessi, temono di perdere i soldi dei diritti tv. In B invece c'è la convinzione che si debba passare a 20. Quando? Il più presto possibile. Abodi spera quindi dal 2015-'16, ma va trovato l'accordo con la A in fretta. C'è ancora un braccio di ferro invece fra Lega di B e quella Pro: argomento, i soldi dei diritti tv. Deciderà il Tnas, questa estate. Non è stato possibile mettere d'accordo le due parti, troppo lontane. Nemmeno Abete c'è riuscito.

Socrates, colpi di tacco e impegno civile: il Dottore del popolo

Mimmo Calopresti ripercorre in un film la vicenda sportiva e umana del fuoriclasse. La vera democrazia nel Corinthians, in cui tutto veniva messo ai voti, l'impegno politico che, contemporaneamente, viene testimoniato anche nel libro "Calciatori di sinistra". E la profezia: il Mondiale in Brasile sarà una vergogna organizzativa

ROMA - "Vorrei morire di domenica, mentre il Corinthians diventa campione". Socrates Brasileiro Sampaio de Souza Vieira de Oliveira è stato l'uomo più fortunato del mondo: ha avuto la fine che sognava. Se ne è andato il 4 dicembre del 2011. Una domenica. Mentre il Corinthians diventava campione pareggiando 0-0 con il Palmeiras. Tutta la squadra, a centrocampo, spese il minuto di silenzio per la sua stella d'una volta con le lacrime agli occhi e con il pugno chiuso verso il cielo, il gesto che un tempo era stato del Dottore. 

Dottore era davvero, Socrates, lo aveva scritto sulla cassetta della posta anche durante il suo periodo da calciatore: pediatra. Colpi di tacco e impegno civile, 37 di piede e una delle menti più aperte del Brasile. Mentre il Paese faceva i conti con il governo autoritario del regime militare, Socrates sperimentava nella sua squadra il significato della parola Democrazia. Tutto veniva messo ai voti: ritiri, orari di allenamento, quali calciatori vendere o comprare. E sulle proprie maglie il Corinthians affermava con dei messaggi la necessità che quell'organizzazione micro sociale venisse estesa all'intero Paese. 

Il pugno destro sollevato verso il cielo. Chiuso. Rosso. La fascia tra i capelli con un scritta che predica giustizia. La maglia della nazionale brasiliana. Socrates è ritratto così sulla copertina di un bel libro uscito da qualche giorno in Italia, "Calciatori di sinistra" (Isbn edizioni, 251 pagine, 21 euro), scritto dallo spagnolo Quique Peinado e tradotto da Giovanni Dozzini. Un volume che racconta le incursioni dei calciatori nella politica, oggi sempre più rare, ma un tempo testimonianze forti, vere, a volte dalle conseguenze dolorose. Un libro che rinuncia alle suggestioni facili, dal tatuaggio di Che Guevara sul braccio di Maradona al ribellismo di Eric Cantona. Queste cose non ci sono. C'è invece, in molte pagine, il capovolgimento di vicende che parevano certezze, come il presunto marxismo del tedesco Breitner o la partecipazione del portiere svedese Hellstroem alle manifestazioni delle Madri di Plaza de Mayo durante i Mondiali d'Argentina. Forse le pagine più belle sono proprio quelle legate al 1978, alle testimonianze sul disimpegno e sull'indifferenza che circondarono la Coppa del Mondo organizzata da Videla. E poi gli italiani, certo: le vite di Sollier, Lucarelli, Zampagna. 
Socrates, colpi di tacco e impegno civile: il Dottore del popolo


Curiosa e sorprendente è la coincidenza dell'uscita di questo libro con il lavoro di Mimmo Calopresti, sceneggiatore, attore e regista, spintosi in Brasile sulle orme di Socrates, per raccogliere tracce della sua missione sociale e della sua eredità. Ne è nato un documentario, scritto da Marco Mathieu, dal titolo "Socrates, uno di noi". 

Calopresti racconta l'irripetibile parabola di un fuoriclasse, il fascino che ha esercitato sulle generazioni successive, l'amore che in Brasile circonda il suo nome. E' stato a girare nei suoi luoghi, tra la sua gente. E mette in evidenza il contrasto del Socrates brasiliano con quello che vedemmo in serie A nel campionato 1984/85, quando venne a giocare con la Fiorentina. Una personalità a cui l'Italia impedì di esprimersi fino in fondo. 

La versione televisiva del documentario è completata. Sarà venduta sul mercato internazionale ed è probabile che sia mandata in onda prima dei Mondiali. Intanto Calopresti lavora a una versione che possa avere una sua distribuzione nelle sale. A proposito dei prossimi Mondiali, resta da tenere a mente la seconda profezia fatta da Socrates, pure questa riferita nel libro "Calciatori di sinistra". Disse: "Il Mondiale 2014 sarà una vergogna in termini organizzativi, e in finale arriveranno Argentina-Brasile, vinceranno i primi 2 a 0, con due gol di Lionel Messi". 

Il piano della Task Force
Club, spalle al muro

 

La task force del Viminale ha quasi concluso i suoi lavori: mercoledì 19 marzo è prevista l'ultima riunione, poi i risultati di quattro mesi di lavori verranno consegnati al ministro dell'Intero, Angelino Alfano. A fine marzo o al massimo ai primi di aprile saranno resi pubblici e dalla prossima stagione verranno applicati negli stadi che, si spera, saranno un po' più civili. Per la prima volta i club di calcio saranno messi di fronte alle loro responsabilità: ci saranno delle regole e l'Osservatorio controllerà che vengano rispettate. Una svolta. Alfano ha voluto questa task force, l'ha promessa ai presidenti di serie A e ne ha affidato il coordinamento al prefetto Vincenzo Panico, capo della segreteria del Dipartimento della Pubblica Sicurezza. Della task force fanno parte, oltre naturalmente all'Osservatorio e agli altri Corpi (carabinieri e finanza), anche gli organismi sportivi. C'è stata piena collaborazione con il Coni, la Figc (rappresentata dal suo dg, Antonello Valentini) e le tre Leghe professionistiche. Ora siamo arrivati a tirare le fila. Un lavoro importante, quantomai necessario. Uno dei concetti base venuto fuori in queste riunioni è che i club di calcio dovranno assumersi una maggiore responsabilità. Il presidente Andrea Agnelli, uno dei pochi che ha il coraggio di dire quello che pensa, ha chiesto l'aiuto dello Stato, "perché le società da sole non ce la fanno". Vero, ci vorrà, almeno da parte di alcune questure sinora poco attente e attive sul fronte-stadio, una maggiore collaborazione: ma non dimentichiamo che il Viminale, anche il Viminale, deve fronteggiare una situazione non facile, la spending review ha toccato anche il sistema-sicurezza (anche se qualcuno la nega). I poliziotti di servizio la domenica negli stadi sono sottratti da altri servizi sul territorio, e molto spesso non vedono un euro di straordinario. I club sono chiamati quindi a mettere in campo professionalità e organizzazione, cose che in passato a volte sono mancate. A tagliare tutti i ponti (cosa non sempre successa) con la tifoseria più violenta, con chi insulta, con chi minaccia (vedi i Drughi). I club saranno chiamati dalla prossima stagione a stringere rapporti più saldi coi tifosi perbene, che sono la stragrande maggioranza, stufi di pagare l'abbonamento e di essere costretti magari a starsene a casa perché la curva è stata chiusa per colpa di chi (e purtroppo non sono pochi) fa cori razzisti, antisemiti e di discriminazione territoriale, o porta nello stadio striscioni vergognosi. La Figc ha promesso di rivedere le sue norme, a fine stagione: ma da rivedere soprattutto c'è il comportamento di certi idioti, che vanno isolati. A Torino, ad esempio, un tifoso viola ha mostrato un foglio, che teneva nascosto, sull'Heysel, così come in precedenza tre tifosi juventini avevano offeso la memoria di chi aveva perso la vita nella tragedia di Superga. Questi idioti sono stati tutti identificati dalla Digos torinese (e puniti col Daspo) : perché i club non si costituiscano parte civile? Perché non chiedono i danni? Se non hanno la forza, il coraggio, se temono ritorsioni, allora la faccia la Lega di serie A che organizza il campionato. La task force chiederà alle società un cambio di marcia, maggiore responsabilità. 

Ma sono molte le cose, anche importanti, che usciranno dal documento conclusivo: a) nuove procedure di semplificazione per la vendita dei biglietti (ora, in molti casi, oltremodo penalizzante); b) ottimizzazione nell'impiego degli stewards (che hanno il potere di intervenire); c) segmentazione dei settori e delle curve per isolare chi espone striscioni infami o fa cori razzisti, eccetera. Sono state studiate anche forme di contrasto al razzismo e alla contraffazione dei marchi (basterebbe un decreto legge di poche righe, senza spese per lo Stato). La tessera del tifoso, purtroppo, resta: ma si farà in modo, almeno si spera, di renderla sempre più una fidelity card, una tessera che venga incontro al tifoso e non, come successo sinora in troppe circostanze, renda la vita complicata a chi vuole andare allo stadio (non parliamo poi in trasferta, non ci va quasi più nessuno). I club dovrebbero anche farsi carico del costo dei biglietti: 50 euro, prezzo minimo per gli ospiti, per Fiorentina-Juve di giovedì prossimo è troppo caro.

Sinora, preso da altri problemi, il premier Matteo Renzi poco, o nulla, si è interessato di sport, pur essendo uno sportivo (ex calciatore ed ex arbitro). Così come ha trascurato il capitolo sicurezza: al Viminale sono stati fatti i tagli, pretendere che sia solo la polizia a risolvere il problema dei nostri stadi, sovente specchio di una società degradata, è pura utopia. Se ne facciano carico, in futuro, anche le società di calcio, alleandosi con i tifosi civili, ora scoraggiati e costretti, a volte loro malgrado, a seguire la squadra del cuore solo in tv. Altrimenti è tempo perso parlare di stadi (mezzi) vuoti.

Financial far play
E ora Platini che farà?

"Non voglio ammazzare nessuno", ha confidato Michel Platini, stimatissimo presidente Uefa in corsa anche per la poltrona della Fifa. Fra un mese, o poco più, si capirà davvero se le sanzioni per chi ha sgarrato col 'financial fair play' voluto dall'ex campione juventino saranno severe. Platini ha avuto l'appoggio dell'Eca, European Club Association, sempre più potente. Ma il suo presidente, Kalle Rummenigge, si aspetta adesso che il Paris Saint Germain venga punito. Come noto, l'Uefa ha preso in esame i bilanci dei club che partecipano alle Coppe nel biennio 2011-'13: il deficit massimo consentito è di 45 milioni (più un bonus di 5, quindi in pratica 50 milioni). Escluse le spese considerate utili dall'Uefa (stadio, settore giovanile, eccetera): le posizioni dello Zenit San Pietroburgo e del Manchester City si potrebbe alleggerire. Ma per altri club la situazione è molto delicata: il Paris Saint Germain, ad esempio, usufruisce di una ingentissima sponsorizzazione, non consentita, dell'Ente del turismo del Qatar. Avrà il coraggio Platini di escluderlo dalle prossime Coppe europee? Per quanto riguarda i club italiani sono sotto esame le situazioni di Inter e Roma, che negli ultimi anni hanno chiuso in passivo e che in questa stagione non hanno fatto parte delle competizioni europee. La gamma delle sanzioni è vasta: si va, come detto, dall'esclusione dalle Coppe 2014-'15, sino allo stop dei contributi Uefa e al blocco del mercato (internazionale). Agli sceicchi dei Psg non farebbe certo paura se Platini non versasse più i contributi previsti dalle Coppe (una cinquantina di milioni di euro se vinci la Champions), ma un'esclusione non l'accetterebbero tanto volentieri. E si moltiplicherebbero le cause a livello internazionale. Ad aprile comunque sapremo.Brutte notizie dall'Europa per l'Inter: i nerazzurri hanno infatti problemi con i parametri del Fair Play finanziario e rischiano sanzioni da parte della Uefa qualora dovessero qualificarsi per le coppe internazionali

A spiegare la critica situazione nerazzurra è stato Paolo Ciabattini, autore del libro "Vincere con il Fair Play Finanziario" e grande esperto di calcio business, in un intervista a Sportmediaset: nell'analisi dell'esperto, proprio il club nerazzurro sono emersi come quello nella fase più critica considerando i periodi di monitoraggio tra il2012 e il 2015

L'Inter avrebbe una perdita aggregata relativa al primo periodo di monitoraggio Uefa (fino a giugno 2013) di ben 157 milioni: grazie ad alcune clausole tale perdita può essere ridotta a circa 67, superiore ma in modo non eccessivo ai 45 consentiti. In questo caso ci sarebbero sanzioni lievi.

Il problema è nel secondo periodo di monitoraggio, quando verranno monitorate le perdite relative alla stagione 2013/2014, che potrebbero ammontare a 79 milioni, per una perdita aggregata di quasi 150 milioni, quasi il triplo dei 45 consentiti. In questi casi, se si qualificassse per una Coppa europea, l'Inter rischia una o un mix delle seguenti sanzioni: blocco o cancellazione dei premi provenienti da competizioni Uefa, blocco del mercato calciatori per le competizioni Uefa,limitazione del numero di giocatori che il club può registrare per la partecipazione a competizioni Uefa.

JUVENTUS: SITUAZIONE AL LIMITE - Situazione decisamente migliore in casa Juventus: nei periodi di monitoraggio della Uefa, il club bianconero ha sostanzialmente rispettato i parametri Uefa, ad esclusione dell'ultimo nel quale la perdita aggregata s'aggira sui 55 milioni rispetto ai 45 permessi. La società dovrebbe quindi limare qualcosa entro giugno 2015 per non subire sanzioni, comunque lievi

MILAN: BILANCIO IN ATTIVO - La lunga opera di tagli e cessioni (come quelle eccellenti di Zlatan Ibrahimovic e Thiago Silva) ha risanato il bilancio in casa Milan: se a queste si unisce la politica di mercato di puntare ai parametri zero, il risultato è un bilancio in utile senza problemi di Fair Play Finanziario.

NAPOLI: SESTO ANNO IN ATTIVO - All'ombra del Vesuvio tutto va bene: nel 2013 il Napoli ha infatti chiuso in utile il bilancio per il sesto anno consecutivo. Sopratutto le cessioni di Ezequiel Lavezzi e Edinson Cavani hanno permesso al Napoli di realizzare diversi acquisti sul mercato e aumentare quindi il monte ingaggi senza incorrere in sanzioni Uefa

ROMA: RISCHIO DI SANZIONE MINIMA - La Roma ha una perdita aggregata nel primo periodo di monitoraggio di 92 milioni ma sottraendo stipendi e costi (35 milioni), lo sforamento rispetto ai 45 milioni consenstiti torna gestibile. Quest'anno non partecipa alle Coppe e quindi non è nella lente d'ingrandimento Iefa mentre per il prossimo il bilancio dovebbe permetre una perdita aggregata complesiva di 60 milioni sui tre anni con trend in miglioramento, La sanzione che potrebbe arrivare da parte della Uefa sarebbe quindi in ogni caso leggera

LAZIO: TUTTO A POSTO - Non sarà simpatico ai tifosi ma Claudio Lotito ha gestito in modo eccellente il club sotto il profilo finanziario e addirittura il prossimo bilancio - grazie alla cessione di Hernanes - tornerà ad essere in utile. Ovviamente, gli stessi tifosi sperano che insieme all'aspetto economico torni a sorridergli anche quello sportivo: in sostanza, i parametri Uefa sono più che rispettati, ora c'è da qualificarsi per una competizione Uefa

BIG D'EUROPA: TUTTE IN REGOLA. O QUASI - Per quanto riguarda le Big d'Europa, dal Real Madrid al Barcellona, dal Manchester United all'Arsenal, nessun problema, con parametri Uefa rispettati e spesso bilancio addirittura in netto utile grazie agli enormi fatturati. "Particolare" la situazione di Manchester City e Paris Saint-Germain, che hanno "ammortizzato" le spese grazie ad enormi contratti di sponsorizzazione che gonfiano la voce "entrate" ma chei arrivano spesso da società legate alla proprietà dei due club, per una sorta di "ripianamento illecito". Dal canto suo, la Uefa indaga e non a caso rappresentanti del Psg sono stati convocati a fine novembre a Nyon per chiarire alcuni particolari del bilancio societario della società biancorossoblù. In ogni caso tali "entrate" saranno rivalutate verso il basso e dovrebbero così portare i club ad una situazione tale da subire sanzioni più - Paris Saint-Germain - e meno - Manchester City - pesanti (senza arrivare all'esclusione dalle Coppe) da parte della Uefa. Proprio il modo in cui punirà i francesi definirà in termini importanti la credibilità della Uefa per quanto riguarda il Fair Play Finanziario

 

"Berlusconi sta pensando  di vendere il Milan"

"Berlusconi sta pensando 
di vendere il Milan"

Bloomberg: mandato a Lazard
Fininvest smentisce
Il club varrebbe 688 milioni

Berlusconi vende il Milan? Cinesi, russi e sceicchi: ecco chi vuole il Diavolo

Dalla Evergrande Real Estate del Guangzhou di Lippi al sovrano di Abu Dhabi, fino ad arrivare agli oligarchi: è lunga la lista dei possibili compratori della società rossonera. Anche se il Cavaliere smentisce

Milan sul mercato, alla fiera dell’Est. La notizia, nell’aria da tempo, è stata rilanciata ieri dall’autorevole agenzia finanziaria Bloomberg, che ha citato tre fonti sicure. La multinazionale americana, di proprietà dell’ex sindaco di New York, ha inoltre spiegato che il prospetto informativo per la vendita a potenziali clienti sarebbe già nelle mani della banca d’affari francese Lazard, la stessa che ha gestito il passaggio di consegne dell’Inter da Moratti all’indonesiano Erick Thohir, in affari con Mediobanca e con partecipazioni azionarie in Mediolanum. A sostegno della tesi di una imminente cessione del Milan (che Berlusconi oggi smentisce) ci sarebbe poi il recente ingresso in società di Barbara Berlusconi, autrice di cruenti tagli del personale e di un drastico ridimensionamento dei conti della società rossonera: le tipiche mosse da fare prima di vendere una qualsiasi società.

Secondo Bloomberg il valore del Milan si aggira intorno ai 600 milioni di euro, la cifra indicata dalla rivista Forbes che fa del Milan uno dei sei club calcistici di maggior valore. In realtà, come nel caso della trattativa per l’Inter, c’è poi da tenere in considerazione la situazione debitoria, che è abbastanza pesante. L’ultimo bilancio chiuso nel 2013 quasi in pareggio (meno sette milioni circa) ha mostrato come il Milan sia la società con il fatturato più alto in Italia. Il Diavolo infatti incassa 276 milioni di ricavi, così suddivisi: 140 dalle tv, 80 dal commerciale, 34 dallo stadio (con il progetto di rinnovare San Siro o di trasferirsi a Rho per aumentare le entrate in questo settore) e 22 da altri ricavi. Bisogna però considerare anche che il Milan ha il monte stipendi più alto, 180 milioni circa, e un’esposizione con le banche di oltre 250 milioni per debiti finanziari. Quest’ultima voce influirà molto sul prezzo di vendita. Se Fininvest ha prontamente smentito la notizia di Bloomberg come “ipotesi senza fondamento”, la multinazionale statunitense è parsa abbastanza sicura che l’era Berlusconi dopo quasi trent’anni sia oramai giunta al termine. E ha altresì indicato la provenienza dei nuovi padroni: l’Asia

CINA
Il nome caldo è quello è quello della Evergrande Real Estate, di proprietà del magnate Xu Jiayin, il quinto uomo più ricco della Cina con un patrimonio stimato intorno ai 6 miliardi. La Evergrande è proprietaria del Guangzhou, squadra di calcio salita agli onori della cronaca prima con i dispendiosi acquisti, come il brasiliano Conca, secondo per ingaggio solo a Messi, Ronaldo edEto’o, e poi con l’ingaggio del tecnico Marcello Lippi, con cui ha appena vinto il titolo e laChampions asiatica. Già lo scorso anno tramite gli uffici di Davide Lippi, figlio del ct campione del mondo con l’Italia nel 2006, procuratore ed ex uomo della Gea, erano iniziati i primi contatti tra rappresentanti di Berlusconi e Liu Yongzhuo, presidente del Guangzhou. L’ipotesi che voleva allora anche lo sbarco di Lippi senior come direttore generale del nuovo Milan cinese prende ancor più corpo ora che il tecnico ha annunciato il suo addio alla panchina del club. A chiudere il cerchio il fatto che la merchant bank Lazard, cui secondo Bloomberg la Fininvest avrebbe dato mandato per la vendita del Milan, aveva trovato come primi potenziali acquirenti dell’Inter proprio i cinesi dellaChina Railway Construction Corporation. Poi l’affare non andò in porto e arrivò Thohir

GOLFO PERSICO
Qui il nome più importante è quello dello sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahyan, sovrano di Abu Dhabi e presidente degli Emirati Arabi. Rumors in tal senso si registrano da almeno tre anni, e la notizia è stata rilanciata a ottobre dal Quotidiano Sportivo che ha raccontato di una intermediazione del deputato del Pdl Valentino Valentini nella trattativa. Il nome dello sceicco Khalifa è poi in questi mesi sulle pagine di tutti i quotidiani per l’affare Alitalia, dato che sembra imminente l’accordo con Etihad, compagnia aerea creata nel 2003 per regio decreto proprio dal sovrano di Abu Dhabi. A questo punto l’ingresso di Khalifa nel mercato italiano sarebbe duplice: aeri e pallone. Gli interessi di Abu Dhabi nel calcio poi sono già avviati dal momento dell’acquisto nel 2008 del Manchester City da parte dello sceicco Mansour, membro della famiglia reale e imparentato col sovrano Khalifa.

Le altre ipotesi nel Golfo guardano al Qatar e a Dubai. Per quanto riguarda il Qatar, il referente sarebbe lo sceicco Tamim bin Hamad Al Thani, già entrato in maniera pesantissima nel calcio con l’organizzazione dei Mondiali del 2022 e con l’acquisto del Psg, cui il Milan ha venduto Ibra eThiago Silva all’inizio dell’operazione di ridimensionamento. Inoltre, Al Thani è anche padrone di Al Jazeera, potentissimo network televisivo che ha sua volta fatto l’ingresso nel calcio acquistando parte dei diritti tv della Champions e che secondo alcune fonti sarebbe anche in procinto di creare joint venture con Mediaset (magari proprio in ambito calcistico con Mediaset Premium) e con la galassia di telecomunicazioni spagnola in cui lo stesso Berlusconi ha interessi. L’ultimo nome è quello dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, sovrano di Dubai e padrone della compagnia aerea Emirates, che sponsorizza Arsenal, Real Madrid, Psg e diverse altre squadre, tra cui lo stesso Milan cui versa decine di milioni l’anno.

RUSSIA
Infine c’è sempre la possibilità del soccorso di Putin, dalla Russia con amore per salvare il suo antico sodale Berlusconi. Il nome più ricorrente è sempre stato quello della compagnia di estrazione del gas naturale Gazprom. Il colosso parastatale – capace di incidere sui destini geopolitici del globo – si diletta anche con il calcio, possedendo lo Zenit San Pietroburgo, sponsorizzando a cifre fuori mercato, quasi da proprietà mascherata, i tedeschi dello Schalke 04 e continuando ad essere uno dei main sponsor della Champions League. Altrimenti ci sarebbe l’oligarca Oleg Vladimirovich Deripaska, con patrimonio di circa 8 miliardi che è ceo di En+ Group (energia) e di Rusal (la più grande compagnia al mondo nella produzione di alluminio). Infine un nome abbastanza curioso, quello di Uralchem, multinazionale di fertilizzanti chimici con ragione sociale a Cipro e sede a Perm. Nel 1994, l’anno della grande discesa in campo berlusconiana, la Uralchem decide di fondare una squadra di calcio: l’Amkar Perm. Per questo chiede l’aiuto di Berlusconi, che tra le altre cose invia un kit di maglie rossonere preso dalla fornitura per il Milan. Da allora l’Akmar, che oggi gioca nella Russian Premier League, ha le maglie rossonere. Se fosse la Uralchem ad acquistare il Milan, almeno i tifosi avrebbero una certezza: non cambierebbero gli storici colori sociali del club.

Basket, Monte Paschi mette in crisi anche Mens Sana: a rischio iscrizione in A

La società che ha vinto gli ultimi 7 scudetti è stata posta in liquidazione e l'assemblea dei soci non ha approvato il bilancio per una perdita di oltre 5 milioni. Ora c'è un liquidatore ed è iniziata la corsa contro il tempo

La squadra vincitrice degli ultimi 7 scudetti del campionato italiano di basket rischia di non potersi iscrivere al prossimo campionato di Lega A. La Mens Sana Basket è stata infatti posta in liquidazione lo scorso 21 febbraio: l’assemblea dei soci non ha approvato il bilancio chiuso al 30 giugno 2013 poiché è stata rilevata una perdita pari a 5,4 milioni di euro. Il consiglio d’amministrazione della società (per l’87% in mano alla Polisportiva Mens Sana 1871 e per l’11% alla Fises) è decaduto ed è stato nominato un liquidatore: a traghettare la società per i prossimi mesi sarà Egidio Bianchi, ds della Virtus Siena (squadra di serie C regionale) e membro della deputazione amministratrice della Fondazione Mps. La corsa contro il tempo è iniziata: “La soluzione e le risorse – taglia corto l’assessore comunale allo sport Leonardo Tafani – devono essere messe in campo prima della fine della stagione: chi ha idee o progetti veri alzi la mano”. I conti della Mens Sana erano finiti nell’occhio del ciclone già nel 2013 a seguito dell’indagine delle Fiamme Giallesulla gestione del trattamento economico dei giocatori. Le difficoltà della Mens Sana sembrerebbero legate a aspetti economici e non finanziari: “Nessun debito nei confronti di banche o fornitori – precisano dalla società al fattoquotidiano.it – e nessun decreto ingiuntivo notificato”.

Nei giorni scorsi la Mens Sana ha anche ricevuto la visita della Comtec, la commissione che verifica l’equilibrio economico-finanziario delle squadre ha rilevato la regolarità di tutti gli adempimenti richiesti fino a oggi, “compresi contributi e stipendi”. La crisi della società sarebbe da imputare soprattutto al progressivo disimpegno del Monte dei Paschi, sponsor principale dal 2000 a oggi: un binomio che ha permesso di raggiungere importanti traguardi. Le difficoltà del gruppo Mps hanno avuto conseguenze importanti sulla palla a spicchi senese: “La banca ha avuto un atteggiamento tipico di chi ha paura: i suoi esponenti si sono chiusi e irrigiditi nel perimetro di piazza Salimbeni” ha dichiarato il presidente della Mens Sana Piero Ricci. “La crisi mondiale che ha coinvolto l’economia non era prevedibile – sottolinea la società in un comunicato – e di conseguenza non era prevedibile il verificarsi di un cambiamento così improvviso dei rapporti tra Banca e Mens Sana Basket”. Il contratto di sponsorizzazione scadrà il prossimo giugno e le strade molto probabilmente si divideranno.

Negli ultimi anni Siena è stata la capitale del basket italiano e assoluta protagonista in Europa: i tifosi senesi (4mila gli abbonati) adesso temono di piombare in un incubo. Cosa accadrà alla pallacanestro locale? “E’ ancora presto per fare valutazioni sul futuro della società – ha dichiarato il liquidatore – La questione è assai complicata”. L’obiettivo prioritario resta l’iscrizione al prossimo campionato. La strada appare però in salita: l’articolo 130 del regolamento della Federazione Italiana Pallacanestro prevede infatti che a seguito della messa in liquidazione si arrivi alla revoca dell’affiliazione. Nei giorni scorsi è stato lo stesso presidente della Fip Gianni Petrucci a ribadire che tale regola non può essere affatto derogata e che non saranno concesse scorciatoie. Tafani evidenzia la posizione “fin troppo rigida” della Fip ma chiede, nel rispetto delle regole, che non venga preclusa alcuna strada “per salvare la pallacanestro professionista a Siena”. La partita decisiva per il futuro della Mens Sana si giocherà fuori dal parquet.

Scommesse sul calcio by Rcs: fuorilegge i patron di Juve, Fiorentina e Toro?

Andrea Agnelli, Diego Della Valle, Urbano Cairo hanno partecipazioni nel gruppo editoriale che avvierà un portale per le puntate sul calcio. Partecipazioni che, in modo indiretto, arrivano anche a Berlusconi e Moratti. La legge sportiva: "I soci non possono agevolarle". Cesare Di Cintio (esperto di diritto dello sport): "C'è un vuoto normativo"

Può il presidente di una società di calcio fare affari con le scommesse sportive? La legge recita: “A dirigenti, soci e tesserati è fatto divieto di effettuare, accettare o agevolare scommesse con atti funzionali alla effettuazione delle stesse”. Gli esperti di diritto sportivo però sono “possibilisti” e parlano di vuoto normativo perché i regolamenti federali non lo vietano espressamente. In ogni caso, quando si tratta di business l’opportunità morale, specie in Italia, diventa semplice noia a cui dar peso relativo.

Prima del 27 gennaio scorso, tuttavia, il problema non si era mai posto. Poi è accaduto qualcosa:Rcs ha messo il tassello chiave che le mancava per rendere concreto e reale quello che fino a pochi giorni prima era solo uno dei tanti nuovi progetti allo studio dell’ad Pietro Scott Jovane, cioè l’avvio di un’attività di scommesse sportive a marchio Gazzabet da affiancare alla Gazzetta dello Sport. Alla fine del mese scorso, infatti, l’editrice del quotidiano sportivo e del Corriere della Serasi è comprata per 293mila euro la concessione statale per l’attività di commercio di giochi online.

E così oggi, il presidente della Juventus, Andrea Agnelli e il suo azionista di maggioranza, nonché cugino John Elkann, il patron della Fiorentina Diego Della Valle, e quello del Torino, Urbano Cairo, si trovano tutti assieme tra i soci di un’azienda, la Rcs, che sta per inserire tra le sue attività commerciali anche i giochi e le scommesse. E non sono i soli. A voler essere puntigliosi, al novero dei proprietari di squadre di calcio legati al gruppo editoriale, bisognerebbe anche aggiungere Silvio Berlusconi e Massimo Moratti anche se lo sono in modo molto blando. Il primo grazie alla partecipazione di famiglia in Mediobanca che di Rcs è ancora azionista di rilievo, il secondo tramite il filo sottile che passa per Pirelli fino ad arrivare alle holding che stanno in testa alla società degli pneumatici. Ma si tratta di quote davvero infinitesimali. Lo stesso non si può dire del peso di Elkann, Della Valle e Cairo sulla casa editrice (e ormai anche di scommesse). Nel mezzo Agnelli, che è socio del primo azionista di Rcs, Fiat, tramite la cassaforte della famiglia torinese di cui ha però una partecipazione decisamente inferiore rispetto a quella del cugino, pur condividendo con lui i consigli di amministrazione delle società che legano la Giovanni Agnelli & C alla casa editrice di Corriere e Gazzetta.

Senza contare che a vendere la licenza per le scommesse a Rcs, come riferiva nei giorni scorsi il quotidiano finanziario Mf, è stata Neomobile Gaming, una società di giochi che tra i suoi azionisti conta anche il figlio di Umberto Agnelli. Anche qui tramite una complessa catena di società che arrivano fino alla holding personale del presidente della Juventus. A districare l’eventuale conflitto d’interesse nella compravendita ci sta già pensando un’insolitamente solerte Consob, mentre la società editrice rispedisce le accuse al mittente mandando a dire che “i diversi accordi commerciali e di carattere partecipativo recentemente conclusi nei settori e-commerce viaggi e gaming sono relativi a iniziative in start-up del gruppo RCS e prevedono peraltro impegni economici non significativi”.

Resta il fatto che ora Rcs è titolare di una concessione per le scommesse datata 2011 e in scadenza nel 2020. Per partire, quindi, mancano solo gli accessori. Che piaccia o meno ai giornalisti della rosea già protagonisti di una levata di scudi alla sola idea di una perdita d’indipendenza e di credibilità del giornale che ha dato il là a scioperi delle firme e, soprattutto, alla mancata uscita in edicola il giorno dell’inaugurazione dei Giochi di Sochi, tra veleni e polemiche.

E il quadro che si prefigura per il futuro è piuttosto ambiguo, perché il presidente della Juventus insieme a Della Valle, Cairo e Moratti, sarà proprietario di quote azionarie di una società che fa soldi con le puntate degli scommettitori sugli eventi sportivi. Quali? Anche sulle partite della Serie A – sono gli stessi giornalisti della Gazza a lamentarsene -, quindi anche delle gare di Juventus, Fiorentina, Inter, Milan e Torino. Un circolo vizioso. Legale o no?

In tal senso, l’unico ostacolo all’operazione potrebbe derivare da un’interpretazione letterale dell’articolo 6 comma 1 delle Norme di comportamento della Figc. Vale la pena riportare integralmente il dettato di legge: “Ai soggetti dell’ordinamento federale, ai dirigenti, ai soci e ai tesserati delle società appartenenti al settore professionistico è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o per interposta persona, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, o di agevolare scommesse di altri con atti univocamente funzionali alla effettuazione delle stesse, che abbiano ad oggetto i risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell’ambito della FIFA, della UEFA e della FIGC”.

La norma, quindi, non vieta espressamente a un presidente di un club di calcio di essere proprietario di quote di società di scommesse sportive. Al tempo stesso, però, il comma 1 dell’articolo 6 vieta a tutti i tesserati di “effettuare o accettare” puntate “direttamente o per interposta persona”. Agnelli e i suoi compagni di ventura in Rcs sono quindi fuori legge o, nel migliore dei casi, stanno approfittando di un vuoto normativo? Non la pensa così l’avvocato Cesare Di Cintio. “Al momento non esiste una legge che vieta il possesso di quote nelle società di betting e contemporaneamente di quote all’interno di società sportive – dice a il fattoquotidiano.it l’esperto di diritto dello sport – Non c’è un’incompatibilità di fondo, perché i bookmakers hanno interesse al corretto svolgimento delle gare, altrimenti ci perderebbe quattrini. Diverso, invece, il caso in cui due soggetti si accordano per alterare una partita e dopo vanno a scommeterci su”. Nulla di scandaloso, quindi. “Anzi – continua Di Cintio – potrebbe essere una cosa positiva, perché in tal modo le società avrebbero maggiore interesse affinché i match siano corretti e non combinati”. L’operazione per il legale non confligge con l’articolo 6 delle Norme di comportamento Figc. Il motivo? “Quella legge prevede il divieto per un tesserato, ma in questo caso si tratta di quote societarie e la società è una cosa differente dal singolo”.

Insomma, per l’avvocato si può fare. Ma è opportuno farlo? La vicenda sembra ripercorrere in qualche maniera la legge del 1957 sulla incandidabilità di chi è titolare di concessioni pubbliche. La Giunta per le elezioni del Parlamento, infatti, ha paradossalmente e più volte stabilito che non poteva essere parlamentare Fedele Confalonieri in quanto ai vertici operativi di Mediaset, permettendo al contrario la candidatura di Silvio Berlusconi poiché “solo” azionista di maggioranza della stessa azienda. A prescindere dai paragoni con la politica, nel caso di Gazzabet non si può non “ammirare” il carattere uno e trino di Andrea Agnelli, al tempo stesso presidente della Juve, socio di Rcs (quindi anche del maggior quotidiano sportivo nazionale) tramite la cassaforte di famiglia e azionista della società che ha appena venduto la licenza per scommettere al gruppo di via Solferino. Uno che quando gioca non perde mai.

Viva gli ultrà, abbasso le sentenze

Un inizio di campionato con una curva chiusa per razzismo. Una seconda squalifica, poi revocata. Una terza, sospesa grazie alla condizionale; una quarta, con pena raddoppiata dalla recidiva. Un primo appello, respinto. Un secondo appello, d'urgenza, a 24 ore dalla partita: respinto. Un improbabile e temerario tentativo di ricollocare parte dei tifosi delle curve chiuse in altri settori dello stadio: respinto, verosimilmente anche con una pacca sulle spalle e un invito a non esagerare con la fantasia.

In tutta questa tormentata vicenda, i dirigenti della Roma hanno parlato poco, esprimendo però concetti semplici, il più semplice dei quali è che il club si impegna da sempre contro il razzismo e che i cori anti napoletani alla base delle ultime sanzioni fanno parte più del folklore da curva che dell'intolleranza discriminatoria. È una teoria in cui evidentemente si crede molto, a giudicare dall'impegno, ai limiti dell'accanimento terapeutico, con il quale il club ha provato a evitare una punizione ampiamente annunciata dalle azioni degli ultrà per tutta la stagione. Invece di combattere i comportamenti, insomma, la Roma ha deciso di combattere le sentenze, come già - e con maggior fortuna, chissà perché - avevano fatto Inter e Milan. Una strategia legittima, per carità, opposta a quella della Juventus che aveva rinunciato ai ricorsi e varato la discussa operazione bambini. Ma non proprio in linea con quei richiami alla sportività, ai valori, alla correttezza, alla modernità con cui Pallotta intendeva targare il nuovo corso giallorosso. Provare a far rientrare dalla finestra - peraltro di lusso, ai piani alti del condominio stadio - la gente sbattuta fuori dalla porta non pare il massimo della coerenza: io ti faccio i cori razzisti fino a farti chiudere mezzo stadio, tu in cambio mi premi mandandomi in tribuna. Davvero una bella, geniale pensata per tenere buona la piazza. La stessa piazza che appena ripreso posto nella sua curva, dopo averla lasciata vuota in un paio di partite chiave per la stagione, farà di tutto per farla chiudere di nuovo. Magari sperando in un biglietto gratis nelle prossime coppe europee, quando sarà bellissimo poter insultare di nuovo a squarciagola qualcuno che non capisce la lingua. Auguri.

Mondiali 2022, stampa inglese: strage di operai in Qatar, già 400 immigrati nepalesi morti

L''Observer' anticipa i risultati di un'inchiesta di un'organizzazione per la difesa dei diritti umani. E secondo le previsioni, fino all'inaugurazione potrebbero perdere la vita in tutto 4 mila persone impegnate nella costruzioni degli stadi. Polemiche in Gran Bretagna per la prossima visita del principe Carlo a Doha

LONDRA - Sono già oltre 400 gli immigrati nepalesi morti in Qatar nei cantieri per i mondiali dicalcio 2022. Lo scrive il quotidiano britannico 'Observer', che anticipa i risultati di un'inchiesta della "Pravasi Nepali Co-ordination Committee", un'organizzazione per i diritti umani. L'elenco degli operai che hanno perso la vita è stato compilato utilizzando fonti ufficiali a Doha.

Quella che ormai è già una strage degli operai potrebbe in futuro assumere valori ancora più drammatici: come annunciato la settimana scorsa dall'''International Trade Union Confederation', fino all'inaugurazione dei Mondiali, tra otto anni, si temono 4 mila vittime. E i lavoratori più a rischio sembrano proprio quelli nepalesi, che rappresentano il 20% della manodopera usata per la costruzione degli stadi. Molti altri arrivano da India, Bangladesh, Pakistan e Sri Lanka.
 

Le polemiche sono destinate ad acuirsi nei prossimi giorni, in occasione della visita del principe Carlo in Qatar. Il deputato laburista Jim Murphy ha scritto un intervento sul 'Guardian' in cui ha condannato la tragedia degli operai e ricordato che nessun lavoratore è morto nei cantieri per le Olimpiadi di Londra 2012.

Minala, 17enne della Lazio: “Ad agosto compirò 42 anni”. Ma è una bufala

Il calciatore, al centro delle polemiche per i dubbi sulla sua età, avrebbe confessato la verità a un sito del Senegal. Poi smentisce: "Falsità". La società di Lotito: "Vogliono gettare ombre sull'operato del club". E alla fine il portale che ha diramato l'intervista ammette l'errore

“In realtà non ho 17 anni, ho firmato subito il contratto per iniziare ad inviare soldi alla mia famiglia, rimasta in Camerun. Festeggerò i miei 42 anni nel mese di agosto, mi auguro che la Lazio continui a tenermi”. Questa sarebbe la confessione del centrocampista camerunese della Primavera della Lazio Joseph Minala riportata dal sito del quotidiano senegalese senego.com. Arrivato in Italia nell’agosto del 2012 alla Vigor Perconti, dopo un tesseramento lampo per un sol giorno alla Città di Fiumicino, Minala era finito presto nel mirino di Inter, Napoli e Udinese, ma nessuna delle società lo aveva tesserato proprio per i dubbi sulla sua reale età. Lo ha invece fatto in estate laLazio, aggregandolo alla squadra Primavera. Poi la sua convocazione in prima squadra per il derby di domenica – visto in tribuna – ha aperto il vaso di Pandora.

Sono bastate un paio di foto del ragazzo sui giornali perché si cominciasse a dubitare che fosse nato il 24 agosto 1996, come scritto sul suo passaporto camerunese e sulla sua carta d’identità italiana. Dopo le prime perplessità sollevate dal sito afrik-foot.com, si era scatenata anche la rete in scherzi e fotomontaggi che avevano infastidito il ragazzo, che su Twitter si era difeso, scrivendo:“Inviduosità è la debolezza dell’uomo e la gente d’anima povera quando essere in série A fa male agli altri vi voglio bn loool forza lazio”.

Interpellata sulla vicenda, la Lazio prima ha deciso di non rilasciare alcun commento, poi invece ha diramato un comunicato ufficiale: “La S.S. Lazio s.p.a., in riferimento alle notizie di stampa apparse in ordine sull’età anagrafica del calciatore Joseph Minala – si legge nella nota – conferma l’assoluta legittimità della documentazione depositata presso gli organi federali, denuncia l’ennesimo tentativo, da parte di ambienti ostili, di gettare luce sinistra sull’operato del club. Preannuncia sin d’ora ogni azione mirante a far cessare un tale comportamento nel rispetto dei tifosi e dei calciatori e – conclude il club di Lotito – si riserva di agire nei confronti dei responsabili per la tutela del buon nome della Società e del calciatore“. Anche quest’ultimo, poi, ha commentato la vicenda: “Ho preso conoscenza delle presunte dichiarazioni che sono state attribuite in un comunicato apparso sul portale senego.net nelle quali avrei confessato la mia reale età rispetto a quella risultante nei miei documenti – scrive Minala sul sito della Lazio - Si tratta di dichiarazioni false che mi sono state attribuite da soggetti che non conosco e nei cui confronti riservo ogni azione di danno”.

Prima della presa di posizione di calciatore e società, aveva parlato a Il Messaggero il direttore generale della Victor Perconti, la squadra che due anni fa ha tesserato il calciatore che allora risiedeva nella casa famiglia La Città dei Ragazzi. “Il ragazzo ha una struttura fisica imponente e può sembrare più grande, ma noi abbiamo appurato la sua situazione anagrafica – ha detto il dgVito Trobiani – La cosa più importante è il passaporto dal punto di vista del tesseramento, se non fosse stato così, la federazione ci avrebbe subito bloccato. Anche la Lazio ha a disposizione la nostra stessa documentazione, altrimenti non lo avrebbe potuto tesserare”. Sul caso è poi intervenuto il suo procuratore Diego Tavano, con un lapidario: “Sono solo illazioni, Joseph è sereno”.

Proprio nel febbraio scorso anno, quando alla Coppa d’Africa era scoppiato il caso di Mbemba, giocatore congolese con tre passaporti con tre date di nascita diverse, lo storico africano Peter Alegi aveva spiegato a ilfattoquotidiano.it: “La maggior parte delle volte, questa falsificazione dei documenti è intenzionale. Sia da parte delle federazioni, che puntano a vincere i tornei giovanili, sia da parte degli stessi giocatori, che puntano a fingersi più giovani per strappare contratti migliori con le squadre estere, soprattutto europee”. Poi ad aprile era esploso il curioso caso di Taribo West, con l’ex presidente del Partizan Belgrado Zarko Zecevic che lo aveva accusato di avere 12 anni più di quanto dichiarato sul passaporto, e di essere arrivato quindi all’Inter non a 23 anni bensì a 35 anni suonati.

Noto in Italia anche il caso di Luciano, giocatore brasiliano che quando arrivò al Chievo disse di chiamarsi Eriberto e di avere quattro anni in meno di quanti ne aveva realmente. Mentre tra ilazioni e sfottò, nel mondo del calcio è stata messa in dubbio l’età di diversi calciatori africani o sudamericani, il cui viso tradiva un’età che le prestazioni in campo mascheravano. O viceversa, il cui declino fisico lasciava stupefatti data la presunta giovane età. Persino Adriano Galliani un giorno si è lasciato sfuggire una mezza verità. “Ho conosciuto un grandissimo giocatore del Milan che aveva tre passaporti diversi. E non era certo l’unico – ha detto l’ad del Milan – Eppure, tutti quelli che usavano il passaporto più fresco, quello con l’età più giovane, hanno giocato fino a quarant’anni o quasi, come se fossero immortali”. Dove il riferimento è con tutta probabilità aGeorge Weah il liberiano vincitore del Pallone d’Oro all’età di 30 anni, dichiarati. Ora è il turno diJoseph Minala, con questi 25 anni che ballano tra i 17 riportati sul passaporto e i 42 che avrebbe confessato di avere a senego.com.

La svolta della vicenda, però, arriva dopo la pubblicazione del comunicato della Lazio, in cui la società minacciava azioni legali. Il sito del quotidiano Senego, infatti, riporta il link con la fonte da cui ha preso la presunta confessione di Joseph Minala. Si tratta di un pezzo apparso sul sito di satira calcistica Desinfos du Foot, un nome che è una garanzia. Già l’anno scorso infatti, Desinfos du Foot aveva lanciato la notizia della creazione di una super lega di campioni di calcio in Qatar, una bufala clamorosa nella quale era caduto il quotidiano britannico The Times rilanciandola come sua addirittura in prima pagina. Se erano già sufficienti le smentite del calciatore per ritenere l’intervista inventata, l’aggiunta della fonte originaria rende invece il caso una colossale boutade a cui hanno creduto tutti i principali media. Dati i precedenti citati nell’articolo, infatti, da Mbemba a Luciano, la falsificazione dei documenti dei calciatori non è una possibilità così remota.

Mediaset, il futuro passa dall’acquisto della Champions League in esclusiva

Il Biscione ha speso 700 milione di euro per strappare a Sky la massima competizione calcistica europea. Dietro la mossa, la possibilità di trovare un alleato

Mediaset Premium batte Sky Italia per un centinaio di milioni di euro: ne offre 700 per un triennio (2015-18) e s’aggiudica l’esclusiva per le partite di Champions League. A Sky resta l’Europa League. Poche righe, ecco, e la notizia è servita. Se non fosse più concitata, più intricata o, senza esagerare, quasi epocale. La famiglia Berlusconi trasmette un messaggio, per la concorrenza e per la finanza: il Biscione è pronto a sacrificare un pezzo (Mediaset Premium) per non rischiare di perdere il corpo intero. Questi 700 milioni di euro sono spropositati per l’attuale valore e le attuali capacità di Mediaset Premium: una televisione a pagamento che, con 2,2 milioni di abbonati e ricavi da mezzo miliardo di euro (410 mln a novembre 2013), viene sballottata dai capitali che i Murdochpossono investire su Sky Italia.

Questi 700 milioni di euro, un impegno pesante per un gruppo che ha tagliato 500 milioni di costi in due anni, servono a lanciare il vero modello spagnolo dei Berlusconi: l’alleanza con Telefónica, la multinazionale con sede a Madrid che già sta prendendo il controllo di Telecom Italia. Cosa c’entrano le telecomunicazioni con la televisione e le giocate di Lionel Messi? Telefónica e Mediaset sono azioniste di minoranza di Digital+ (o Canal+), il circuito spagnolo a pagamento: possiedono il 44 per cento di quote, 22 a testa, la maggioranza è di Prisa, la società editrice di El Paìs. Prisa vuole (e deve) vendere: il prezzo fissato è un miliardo di euro. Ma Mediaset e Telefónica possono trattare perché vantano il diritto di veto sui nuovi ingressi, il diritto di prelazione in caso di cessione e, soprattutto, Prisa ha bisogno di ristrutturare il debito e deve fare cassa. Cologno Monzese non attraversa un periodo entusiasmante, il mercato pubblicitario è stagnante e i canali generalisti vanno maluccio, e così Telefónica è il serbatoio che può introiettare liquidità per inglobare Digital+.

Un passo fondamentale per plasmare una società di comunicazione italo-spagnola, cioè Mediaset Premium e Digital+, che può spadroneggiare nell’Europa dei prodotti a pagamento: il Biscione prende fiato e Telefónica guadagna potere. Il debutto è in agenda prima di giugno e laquotazione in Borsa è ancora da valutare. Non è un segreto inviolabile che l’operazione Telefónica-Mediaset sia benedetta da Mediobanca, regista dei soci italiani che stanno consegnando Telecom agli spagnoli. Che c’entra Sky Italia? Un anno fa, stagione di larghe intesee patti di non belligeranza, Cologno Monzese invitava lo squalo Murdoch a studiare i conti di Mediaset Premium, a valutare uno scambio equo: Sky non ha ostacoli per la tv a pagamento, il Biscione conserva l’antico monopolio con Canale5 e sorelle. E faceva sorridere l’improvvisa amicizia fra Pier Silvio Berlusconi e Andrea Zappia, l’amministratore delegato di Sky Italia.

La sintonia ritrovata, e in particolare evocata dai Berlusconi e da Confalonieri, ha generato “l’inciucio” con il comodo baratto fra diritti per l’Europa League (Mediaset) e per la Champions League (Sky). Non è escluso che possa accadere per l’anno prossimo e, ancora, per il triennio che vede trionfante Mediaset. Il calcio non è soltanto un gioco, in questi scenari da miliardi sonanti, è un pretesto: un effetto, non una causa. A Sky Italia devono digerire la sconfitta e, ancora più delicato, scoprire la strategia dei rivali. A Mediaset vogliono accorciare i tempi per far esordire il sodalizio italo-spagnolo con Telefónica (e magari anche con i munifici arabi di Al Jazeera o i tedeschi di Rtl). C’è bisogno di un clima mite. Di una politica rilassata. E poi persino i Murdoch potrebbero affiancare l’impresa. Perché il calcio sarà fede, però il denaro non ha odore.

Calcio-spezzatino?
E non è ancora finita

Non c'è niente da fare, la battaglia contro il calcio-spezzatino è persa. Le pay tv, che tengono in piedi il Circo del pallone, vogliono partite tutti i giorni, a tutte le ore. E, fra anticipi e posticipi, adesso si gioca sempre. La giornata di campionato, a volte, inizia il venerdì per concludersi il lunedì. E aumentano le finestre: la Lega di Serie A ha previsto infatti che si giochi anche la domenica alle 18,30 (oltre alle 12,30, alle 15 e alle 20,45). Già programmate alcune partite: 23 febbraio 18,30 Juventus-Torino, poi 2 marzo Livorno-Napoli, 16 marzo Cagliari-Lazio. E nel nuovo contratto tv (dal 2015) ci sarà probabilmente anche una gara il sabato alle 15 (o 16) che fa comodo alle tv, anche per i diritti esteri, ma che penalizza chi al sabato pomeriggio lavora (vedi, ad esempio, i commercianti). Ma, come detto, è una battaglia persa. A presidenti fa comodo così, perché senza i soldi delle tv sarebbero in crisi. E i tifosi dovranno rassegnarsi. Un problema anche per la Rai, e per le sue trasmissioni della domenica, soprattutto quelle pomeridiane (Stadio Sprint e Novantesimo Minuto). Antonio Marano, leghista della prima ora, vicedirettore della Rai con molte deleghe (fra cui i diritti tv) ha rilasciato un'intervista a la Gazzetta che non è piaciuta solo a Malagò, che gli ha replicato in maniera piccata, ma nemmeno ai giornalisti di Rai Sport. Marano si è dimenticato, fra l'atro, di dire che Novantesimo e la Domenica Sportiva, superando quasi sempre il 10 per cento di ascolto, sono il fiore all'occhiello di una Rete, Rai 2, che è in piena crisi. Non solo: Novantesimo e la Ds hanno ringiovanito il target medio della Rai che è di 57-58 anni. Le due trasmissioni, affidate a Franco Lauro e Paola Ferrari, hanno un target intorno ai 50 anni, e sono molto ambite anche dal punto di vista pubblicitario. Ma questo, Marano non l'ha detto. La sua intervista ha suscitato le ire dell'Esecutivo Usigrai e del cdr di Rai Sport. Ecco il loro comunicato congiunto: "Come stanno realmente le cose? Come le racconta il vice direttore generale della Rai, Antonio Marano, o come le racconta il presidente del Coni, Giovanni Malagò? Crediamo sia urgente fare chiarezza, perché dal botta e risposta sulle pagine della Gazzetta dello Sport, emerge l'immagine di una Rai priva di una credibile politica di palinsesto ed editoriale sullo sport. E questo l'Usigrai lo denuncia da tempo. Ma del resto, il vice direttore generale Marano invece di fare autocritica per questa e altre gravi lacune e inciampi, preferisce scaricarne le responsabilità su presunti "privilegi" dei giornalisti. Ma di quali privilegi parla?
Ricordiamo a Marano che è un alto dirigente aziendale e quindi prima di criticare i suoi dipendenti sui giornali, delegittimandone la professionalità, farebbe bene a confrontarsi nei luoghi opportuni. Noi siamo pronti a farlo: così si chiarirà se il problema dello Sport in Rai sono i presunti privilegi dei giornalisti o le scelte editoriali e di palinsesto". L'intervista, credo, non ha giovato nemmeno al direttore di Rai Sport, Mauro Mazza, che ha iniziato un piano di rilancio per il canale tematico (Rai Sport 1 e 2), pur in un momento difficile. Ora vedremo se Marano sarà in grado di riportare in Rai i diritti della Champions... Per ora, intanto, si è scusato con Malagò il dg Gubitosi.

Moviola in campo? Attenti a Blatter...
Il 1 marzo l'Ifab, custode delle regole del calcio, parlerà di "moviola a bordocampo". E' la prima volta che succede, l'International Board non aveva mai voluto discutere di questo argomento. Nel 2006, Sepp Blatter disse:"Se ne può parlare fra 50 anni". Ma si sa che lui cambia idea in fretta, soprattutto quando deve difendere la sua poltrona. Il prossimo anno ci sono le elezioni Fifa: Blatter, classe '36, si ricandida per la quinta volta (è in carica dal 1998!) oppure mette un suo uomo di fiducia. Il pericolo per lui è Michel Platini: non è affatto escluso quindi che il dittatore svizzero studi qualche mossa a sorpresa. Ultimamente ha parlato di espulsione a tempo, in caso di simulazione. Ha introdotto la tecnologia per i gol-fantasma, chissà che non si convinca ad aprire anche alla moviola in campo (che Platini non vuole assolutamente) in cambio dei soldi delle tv. Attenti a Blatter...

LO SPROFONDO

2 PUNTI IN CASA CON LE ULTIME IN CLASSIFICA,SETTE PUNTI IN MENO RISPETTO AL DISASTROSO STRAMACCIONI,VOMITEVOLE SESTO POSTO CON LA 4A IN CLASSIFICA A 7 PUNTI E CON IL FIATO SUL COLLO DI BEN 4 SQUADRE. UNA PERSEPOLI SPORTIVA CHE CI RIMANDA AI RI-TARDELLI ED AGLI ORRICO DI MERDA.Nemmeno un illusorio 3-1 come quello ottenuto lo scorso anno con Stramaccioni, nella prima sconfitta casalinga dei bianconeri allo Juventus Stadium, avrebbe potuto oggi mutare i destini delle squadre. Mai nella storia dei campionati con 3 punti a vittoria le due squadre si erano incontrate con23 punti di distacco, oggi diventati 26, e in campo questa differenza si è vista tutta: nel gioco, nella corsa, nei duelli individuali, nella voglia di giocare a calcio. E quando nella ripresa sotto di tre gol Mazzarri fa entrare l’argentino Botta e Conte risponde concedendo qualche minuto a Vucinic, oscuro oggetto del desideri del mercato interista che per arrivare a lui sembrava disposta a sacrificare Guarin, il suo miglior giocatore, ecco che si capisce che il derby d’Italia oggi non è unasfida ad armi pari. A dare una mano alla Juventus, che prosegue nella sua media punti record che la porterebbe oltre i cento punti, anche le altre contendenti che a febbraio decidono di mostrare i loro limiti, e aprire le loro piccole crisi.

Più che in crollo è un tracollo quello degli uomini di Benitez a Bergamo. Complimenti all’Atalanta, capace di sfruttare gli errori degli avversari, a partire dalla papera di Reina sul primo dei due gol dell’ex Denis, ma la figuraccia azzurra è imbarazzante. Va bene che Higuain, Hamsik e Jorginho sono lasciati a riposo in vista della semifinale di Coppa Italia di mercoledì, ma una squadra che punta in alto non può giocare così male. Se dopo due punti in tre partite è crisi – o fallimento di un progetto, come alcuni già lo definiscono – lo si scoprirà presto: sabato sera al San Paolo arriva ilMilan per un match che può rilanciare entrambe le squadre. Dello stop del Napoli non ne approfitta la Fiorentina, che nell’anticipo del sabato regala al Cagliari la prima vittoria da due mesi. Anche per il flop di Montella le responsabilità sono da dividersi tra il turnover e una certa supponenza nell’affrontare gli avversari.

Probabilmente la zona Champions è troppo lontana, ma il campionato di Verona e Torino (e del Parma, ovviamente) meriterebbe davvero il premio della vetrina europea. Gli scaligeri vincono con il suggello dell’anziano Toni (decimo gol), e annichiliscono le speranze del rivoluzionato Sassuolo, con il nuovo tecnico Malesani in panchina e sette nuovi giocatori in campo. I granata con il colpo del giovane Immobile rischiano invece di vincere a San Siro con il Milan, che trova il pari solo con la fortunosa sortita offensiva del difensore Rami e non certo grazie a un gioco che resta lento, macchinoso e prevedibile. L’infornata di mezzepunte sembra il canto del cigno di un allenatore stanco e incapace di adattarsi ai mutamenti del presente, piuttosto che la fresca idea di un giovane tecnico cui è data la possibilità di esprimere il proprio desiderio. A Seedorf è concesso osare, inutile fingere di.

Chi invece senza troppi fronzoli per la testa sta tenendo una media straordinaria è Reja: per il tecnico friulano, ancora imbattuto, sono undici punti in cinque partite. La “minestra riscaldata” rientrata alla Lazio per sostituire Petkovic, assiste in fase di mercato alla partenza del suo miglior giocatore e non si perde d’animo: dà fiducia al giovane talento Keita e ne viene ripagato con tre punti che valgono il contro-sorpasso sul Milan. Rossoneri che stasera potrebbero essere superati anche dal Genoa, che ospita la Sampdoria in un derby che tutta la città voleva giocare di sera, o anche nel tardo pomeriggio per non sovrapporsi alla fiera cittadina. Ma oramai in Italia – vedi la farsa di Roma-Parma – si dà per scontato che i calendari li debba fare Sky.

Juventus 59
Roma 50
Napoli 44
Fiorentina 41
Verona 35
Inter 33
Torino 33
Parma 32
Lazio 31
Milan 29

 CLASSIFICA 2012-2013 DOPO 22 GIORNATE

1. 600px Nero e Bianco (Strisce).png Juventus 49
Coppacampioni.png 2. 600px Azzurro con N cerchiata.png Napoli 46
Coppacampioni.png 3. Bianco e Celeste con aquila.svg Lazio 43
UEFA Cup (adjusted).png 4. 600px Nero e Azzurro (Strisce)2.png Inter 40
UEFA Cup (adjusted).png 5. 600px Bianco e Rosso (Croce) e Rosso e Nero (Strisce).png Milan 37
  6. 600px Viola con giglio Rosso su sfondo Bianco.png Fiorentina 36
  7. Azzurro e Rosso (Strisce).svg Catania 35
  8. Giallo oro e Rosso cremisi.svg Roma 34
  9. 600px Colori di Udine.png Udinese 33
  10. 600px Bianco e Nero (Croce) e Blu e Giallo (Strisce).png Parma 31

 

Derby-farsa per paura degli ultrà la Nocerina esclusa dal campionato

Derby-farsa per paura degli ultrà
la Nocerina esclusa dal campionato

Video Le immagini della partita della vergogna 
Foto Falsi infortuni - Esultanza sugli spaltiLE CONSEGUENZE SUL CAMPIONATO - L'articolo 53 delle Norme Organizzative Interne Federali (Noif), al comma 4 parla chiaro: "Qualora una società si ritiri dal Campionato o da altra manifestazione ufficiale o ne venga esclusa per qualsiasi ragione durante il girone di ritorno tutte le gare ancora da disputare saranno considerate perdute con il punteggio di 0-3 [...] in favore dell'altra società con la quale avrebbe dovuto disputare la gara fissata in calendario". Di conseguenza, i risultati ottenuti finora dalla Nocerina sono considerati validi: da domenica prossima (in calendario c'è Frosinone-Nocerina) invece scatterà quindi lo 0-3 a tavolino nei confronti dei campani. Ma c'è il rischio, se il ricorso fosse accettato, che le partite potrebbero essere in futuro recuperate in caso di ribaltone della condanna. Insomma, il derby "farsa" rischia di stravolgere ulteriormente la classifica.

Berlusconi e il Milan via da San Siro? Lo prescrive il nuovo Codice etico del Comune

La bozza prevede che chi ha subìto condanne a più di due anni o presenta motivi di ineleggibilità alle cariche pubbliche non possa gestire strutture sportive comunali. Pisapia in cerca di soluzioni. Dopo la diffusione della notizia, l'assessore allo Sport rassicura i tifosi: "I rossoneri potranno continuare a giocare al Meazza"

Se non fosse bastata l’esclusione dal Senato, ora Silvio Berlusconi ne rischia un’altra: l’esclusione da San Siro, insieme a tutta la squadra rossonera. Già, il Milan rischia di non poter più calpestare l’erba dello storico stadio milanese. Per colpa del nuovo ‘Codice etico dello sport’ chePalazzo Marino sta mettendo a punto. La bozza prevede infatti che chi ha subìto condanne a più di due anni o presenta motivi di ineleggibilità alle cariche pubbliche non possa gestire strutture sportive comunali. Berlusconi? Colpito e affondato: è presidente onorario del Milan e al processoMediaset è stato condannato a quattro anni per frode fiscale. Il caso sta suscitando un certo imbarazzo in comune.

Secondo il Corriere della sera, che riporta la notizia nelle pagine locali, la bozza è stata per il momento fermata per sottoporla a ulteriori valutazioni. Perché qui il rischio di incidente è grosso. E mezza città, quella di fede rossonera, potrebbe giurare vendetta al sindaco Giuliano Pisapia. Se il documento verrà approvato così com’è, i rossoneri saranno costretti ad abbandonare Milano, e non per farsi un nuovo stadio, come vorrebbe Barbara Berlusconi, nell’area Expo o a Sesto San Giovanni nelle ex aree Falck. Al codice stanno lavorando il presidente della commissione AntimafiaDavid Gentili, la presidente della commissione Sport Anna De Censi, entrambi del Pd, e l’avvocato Guido Pisapia, fratello di Giuliano. Il testo è nato con la collaborazione delle associazioniTransparency International e Avviso Pubblico per evitare le infiltrazioni criminali nelle società che gestiscono strutture pubbliche e per valorizzare gli aspetti sociali dello sport.

Le ipotesi al vaglio di Palazzo Marino sono due. La prima, richiamando la legge 267 del 2000 del Testo unico degli enti locali, escluderebbe dalla gestione di impianti comunali chi ha condanne superiori a due anni. La seconda, ancora più severa, andrebbe a colpire chi ha condanne anche di primo grado o è stato interdetto dai pubblici uffici. Il Cavaliere, dunque, non avrebbe nessuno scampo. Certo, potrebbe dimettersi dalla squadra che ha elevato sul tetto d’Italia e d’Europa. Un bello smacco, però. Una soluzione potrebbe pertanto arrivare dall’amministrazione comunale che, di certo, non gli è politicamente amica. La scappatoia va trovata in fretta. Magari – ipotizza il quotidiano di via Solferino – l’applicazione del codice etico verrà resa facoltativa anziché obbligatoria, qualora la società sportiva ne motivi la mancata applicazione in un atto formale. Il Milan continuerebbe così a giocare a San Siro, col presidente a tifare dagli spalti. Ma qualcuno potrebbe prendersela con Pisapia. E accusarlo di una cosa: aver fatto inserire un bel comma ad personam.

Dopo la diffusione della notizia è intervenuto l’assessore allo Sport Chiara Bisconti, che in una nota rassicura tifosi e dirigenza rossonera: “Il lavoro del consiglio comunale su questa carta dei diritti e dei doveri dello sport è prezioso e andrà avanti nelle prossime settimane. Ma questo non ha nulla a che vedere con il diritto di una squadra gloriosa come il Milan nell’avere San Siro come sua casa naturale, perlomeno fino a quando lo stesso Milan non prenderà decisioni diverse”.

 

IL CROLLO ECONOMICO

Sembra vicina la rottura tra l'Inter e RCS Sport, la concessionaria di pubblicità che fa capo al gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Lo rivela il sito calcioefinanza.it: tutto nascerebbe dai ricavi di Inter Brand s.r.l, la controllata di Internazionale Holding attiva nel settore merchandising e sponsorizzazioni, che nel 2013 ha registrato un utile di circa 4,2 milioni che è stato inferiore alle aspettative di budget perché penalizzato da due fattori, ovvero "lo slittamento rispetto all’esercizio precedente dei ricavi per la tournee post campionato di 2,7 milioni di euro nell’esercizio successivo a quello di riferimento (quindi 2013-14, ndr) in quanto le amichevoli sono state svolte a luglio e non nel mese di maggio come nel 2012".

L'attività di RCS Sport di vendita spazi promo-pubblicitari, poi, ha fatto registrare un decremento del fatturato del 13% circa rispetto alla stagione 2011-12. Si legge sul bilancio di Internazionale Holding: "Nel secondo semestre della stagione 2012-13 Inter Brand ha lavorato su una revisione della strategia commerciale con particolare riferimento ai ricavi da sponsorship e relativa analisi e benchmarking internazionale valutando la possibilità di intraprendere un percorso di internazionalizzazione di questa particolare zona di ricavo. I due nuovi sponsor acquisiti per la stagione 2012-13, Trenitalia/Frecciarossa e Lete, infatti sono frutto di contatti diretti del club e non di attività commerciale riconducibile all’agenzia RCS Sport. L’attuale rapporto contrattuale durerà fino al termine della stagione 2013-14 e un eventuale cambiamento strategico di questa area di business non potrà quindi avvenire prima della stagione 2014-15". Insomma, esistono tutti i presupposti per la fine dell'accordo. 

Cresce il volume degli affari dei maggiori club calcistici, con le solite note Real Madrid e Barcellona a recitare la parte del leone. Ma nella Football Money League del 2014, stilata come di consueto da Deloitte, ci sono novità di rilievo che testimoniano la cavalcata di club emergenti come il Paris Saint Germain. Quanto all'Italia, il Milan bastonato in Coppa Italia scopre di essere dietro la Juventus in una classifica che di recente l'aveva vista dominare tra i club italiani.

Gli analisti di Deloitte mettono in fila le squadre misurando la loro capacità di generare ricavi da "matchday", cioè legati allo stadio durante i giorni delle partite, dal settore commerciale (merchandising, sponsor e affini) e dalla vendita di diritti tv. Sono dunque escluse le plusvalenze da mercato. Al primo posto, nella stagione 2012/2013, si conferma il Real Madrid. Le merengues sono rimaste a bocca asciutta con José Mourinho, ma guardano tutti dall'alto di 518,9 milioni di euro di ricavi generati, in crescita dell'1,2%. Alle loro spalle il Barcellona si conferma a 482,6 milioni, ma il divario aumenta da 29,6 a 36,3 milioni.

Tolti i due club spagnoli, si registrano le vere novità, a cominciare dal Bayern Monaco. Il club bavarese ha sfruttato la campagna vittoriosa in Champions League, bissata con il successo domestico in Bundesliga e addolcita dalla coppa di Lega. Così ha spinto ancor più sui ricavi commerciali - settore nel quale è già forte - mettendo insieme una crescita

del fatturato di 35,5 milioni. A ciò si aggiungono 25,6 milioni aggiuntivi dai diritti televisivi, inclusi quelli Uefa legati alla Champions, e così la squadra ora affidata a Pep Guardiola butta giù dal podio il Manchester United: i bavaresi vincono contro i Red Devils per 431,2 a 423,8 milioni. Secondo gli esperti, però, lo United già quest'anno potrebbe rifarsi. Poco importa se il cammino in campionato, dopo il passo indietro di sir Alex Ferguson, è tutt'altro che esaltante: la nuova suddivisione dei diritti tv della Premier e l'allargamento dei partner commerciali potrebbe consentire già nel 2013/2014 di recuperare la posizione perduta, se non addirittura di insidiare il Barcellona.

Al quinto posto sale impetuoso il Paris Saint Germain. La corazzata di Ibra & co. è la prima squadra francese a entrare nella top five di Deloitte. Il Psg può contare su ricavi commerciali da 254,7 milioni, un record assoluto per la storia della Football Money League. Ma si tratta di una voce controversa, visto che il rapporto con il Qatar (proprietario del club attraverso la Sports Investments) è molto denso e ha già fatto storcere il naso ai puristi del fair play finanziario. In sostanza, molti accordi commerciali (con assegni generosi) sono riconducibili a società nell'orbita del Qatar, come la compagnia Emirates, con tanto di dubbi sulla loro natura di trasferimenti da parte della proprietà. Ciò detto, il Psg ha quadruplicato i ricavi dal giugno del 2011 - quando è passato in mani emiratine - e ora ne vanta ben 398,8 milioni.

Venendo all'Italia, la Juventus scala due posizioni e scalza il Milan a guidare la truppa tricolore. Per la Vecchia Signora la stagione 2012/2013 si chiude con ricavi a 272,4 milioni, che valgono il nono posto complessivo. La Juve ha potuto beneficiare dell'ultima campagna Champions: la Uefa ha girato oltre 65 milioni a Torino, la maggior fetta distribuita, perché le italiane a spartirsi il bottino sono state solo due, appunto Juventus e Milan. I rossoneri restano agganciati alla top ten della classifica, con 263,5 milioni al decimo posto. Ma fa pensare il calo dei ricavi da stadio, legato al crollo delle presenze a San Siro. Per di più, secondo Deloitte, nelle prossime due edizioni della Football Money League il Milan potrebbe uscire dalla top ten: finora è stato l'unico club italiano, insieme ad altre tre squadre europee, ad entrarvi sempre. Scendendo in graduatoria si trova l'Inter al 15esimo posto, con prospettive nere qualora non si centrasse l'ingresso in Europa, mentre si rivede la Roma al 19esimo posto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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