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2015-2016: Lazio- Sparta Praga
0-3, fuori anche l'ultima italiana. Il massacro
è terminato, non accadeva dal 2001.
E’ finita, stop, amen. Basta Calcio. La
situazione più paradossale e più emblematica
della liquefazione del calcio italiano, se
vogliamo, è proprio quella della Lazio: che ha
cominciato dalla Champions League, eliminata dal
Bayer Leverkusen in estate, e si è fermata tra
le sedici dell’Europa League, eliminata dallo
Sparta Praga, squadra non propriamente di
fenomeni e che finora non aveva mai vinto una
partita in Italia. In un “discendendo”
rossiniano culminato in questo cupo e
inquietante gesto di autolesionismo: stadio
semivuoto e in attesa di squalifica per razzismo
dei suoi tifosi, squadra allo sbando, pubblico
in aperta rottura con la società. Dicevano
tutti, a giustificazione del campionato assai
misero e quasi senza traguardi ormai
raggiungibili, che in fin dei conti la Lazio di
Lotito e Pioli, di Candreva e Biglia, di
Anderson e Klose, avesse comunque una vocazione
europea e che la sua stagione in Europa League
potesse almeno in parte compensare tanto
grigiore. Ma siccome non è evidentemente così e
non esistono due Lazio, rimontare tre gol è
apparso subito impossibile - non è mica il
Bayern Monaco - e il funerale del calcio
italiano si è dunque celebrato addirittura a
partita ancora in corso.
Se Roma e Juventus hanno la giustificazione di
essersi imbattute nel Real Madrid e nel Bayern
Monaco, la Lazio no. Aveva un avversario
considerato facile e salutato addirittura con
occhiolini, sorrisini e gomitatine al momento
del sorteggio. Ma i nomi degli sconosciuti
Dockal, Krejci e Julis, se li ricorderà per un
pezzo, assai più dei Manchester United,
Liverpool o Borussia Dortmund che ha evitato. E
anzi a questo punto sarebbe stato assai più
dignitoso farsi sbattere fuori da una superbig:
nessuno avrebbe potuto dire niente. Così è
diverso, l'umiliazione non è quasi sopportabile.
Siamo fuori da tutto, nemmeno un club italiano
superstite. A metà marzo abbiamo lasciato sul
campo Juve, Roma, Lazio, Napoli, e Fiorentina.
Le due di Milano, un tempo roccaforte del calcio
italiano, nemmeno ci sono arrivate alle Coppe e
arrancano pure quest’anno. Sembrava un anno in
cui potessimo fare qualche punto e sperare
addirittura di recuperare un posto in più nelle
Coppe. Niente di tutto questo, segnali di
progresso illusori e fasulli. Perdiamo parecchi
punti. Ad alto livello (Champions League)
sentiamo la mancanza di qualche campione, più in
basso (Europa League) facciamo anche colossali
errori di valutazione, preparazione,
programmazione. Non lottiamo per risalire, per
rifarci un’immagine, non facciamo squadra. Gli
italiani si gufano reciprocamente e godono
meschinamente delle eliminazioni altrui.
L’Italia non ha mai capito lo spirito
dell’Europa League, è talmente presuntuosa da
pensare di poter vincere le partite con un piede
solo e un braccio legato dietro. E infatti ne
viene sbattuta regolarmente fuori. Continuo a
pensare che la Lazio non abbia giocatori così
tanto inferiori a quelli dello Sparta Praga. Non
abbiamo grandi squadre, ma abbiamo anche
smarrito totalmente, purtroppo, l’arte di
arrangiarsi e anche la sola arte di difendersi.
E’ capitato a Pioli con la Lazio, ma pure a
Sarri col Napoli e a Sousa con la Fiorentina.
Prima di guadagnarvi la patente di guru in
Italia, pensate sempre cosa avete ottenuto in
Europa.
Vista raramente tanta desertificazione, non
accadeva da 15 anni: proprio vero che il clima
sta cambiando.
Rigori, stadio e soldi. Le tre spine del super Barcellona
Una squadra imbattibile che però ha un difetto: sbaglia troppi
penalty. Ma è fuori dal campo che si vivono le situazioni più
difficili. Hanno presentato il progetto per il nuovo impianto, ma non
ci sono i fondi per costruirlo. E il nodo sponsor blocca anche la Nike.
Più sono belli e più nascondono: "Stiamo cadendo nella trappola di
credere a Messi". A Barcellona c'è qualcosa che non torna. Quei tre
(ovviamente Messi, Suarez e Neymar) segnano e divertono,la
squadra gioca a memoriaun
calcio a tratti paradisiaco, la gente affluisce copiosa al Camp Nou
(erano in 87 mila per il Getafe) dimenticando che in tasca i quattrini
sono quello che sono. Riceve, la gente blaugrana, così tanta luce da
sentirsi trascinata, tutta insieme, senza distinzioni d'età, censo,
cultura, quasi all'estremo opposto, provando una specie di goduria
d'appagamento, un misto di noia e passione. E dimentica, sempre
collettivamente, che la situazione del mes que un club non è un roseto
fiammeggiante al confine della primavera e se anche lo fosse sarebbe
corretto dotarsi di guanti per evitare il contatto con le spine. Che
ci sono, sono sostanzialmente tre e hanno anche un nome: rigori,
stadio e soldi.
Dei rigori dovrebbero rispondere i tre caballeros,
dieci sbagliati su diciotto: "E' come se fosse poco poetico segnare
così", si dice in giro, nell'unica occasione che si ha per contestare
l'operato di Messi, Neymar e Suarez. Che per loro i rigori siano una
difficoltà appare assurdo al punto che la loro fallibilità dal
dischetto nasconde un altro dato eclatante: che il Barcellona entra a
così alta velocità e così spesso nell'area avversaria da farsi
fischiare diciotto rigori a favore: un'enormità: "E meno male che non
ci servono...", proseguono i tifosi, che poi chiedono a Luis Enrique
se per caso non sia stimolante per le altre squadre sapere che "ai
rigori" il Barcellona diventa una squadra come le altre, se non
peggio: "Tranquilli. Se arrivassimo ai rigori in finale, i miei li
segnerebbero tutti!". Interrogarsi su quella specie di decadente "ennui"
che porta gli stessi tifosi a temere la "maledizione" della Champions
(nessuna squadra da quando non si chiama più Coppa dei Campioni ha
vinto per due volte consecutive) e il "contrappasso" di Guardiola:
"Arriveremo ancora una volta in finale ma perderemo". Contro chi? I
timori dei più scaramantici sanno contro chi. Ma i problemi più
"spinosi" sono altri. E anche più urgenti.
Hanno presentato il progetto del nuovo stadio.
L'appalto è stato vinto da uno studio giapponese, il Nikken Sekkei,
che lavorerà insieme con i catalani del Pascual i Ausió Arquitectes.
Sulla carta è meraviglioso. Si tratterebbe di una riqualificazione
urbanistica dell'intera area più una ristrutturazione dello scheletro
dell'attuale impianto. La spesa è incalcolabile, ma da 600 milioni si
può ragionevolmente spingersi a sospettare che, anche se si dovessero
concludere i lavori nei tempi prestabiliti (dal 2017 al 2021), il
costo dell'operazione non potrebbe fermarsi sotto il miliardo di euro.
E chi paga? Pur apparendo sempre tra le aziende calcistiche col più
alto fatturato, il Barcellona non ha praticamente una lira. Sta ancora
scontando errori e qualche alzata di gomito per festeggiare con
eccessivo anticipo traguardi commerciali mai raggiunti. Negli ultimi
25 anni si era già provato due volte a rinnovare lo stadio, che tra i
grandi stadi del pallone, diciamo tra quelli più popolati, capienti e
visibili a livello planetario, è sicuramente il più vecchio, insomma è
nou ma è viejo. Il pubblico di casa lo ama e se potesse lo
proteggerebbe con le proprie mani e con le proprie mani darebbe la
prima passata di vernice. Ma non è così semplice. Ci sono persino le
date delle presentazioni ufficiali del faraonico progetto, ma la
verità è che nessuno può garantire che il nuovo Camp Nou si farà sul
serio. Così come accadde quando La Porta affidò all'architetto inglese
Foster il compito di ridisegnarlo. Anche allora era tutto pronto. Ma
non si è mosso un mattone. Per trovare i fondi La Porta aveva venduto
ai privati 130mila metri quadrati di terreno edificabile intorno allo
stadio, tra quelli universitari e il quartiere di Les Corts. Quei
soldi sarebbe dovuti servire per ricostruire lo stadio, invece sono
spariti, inghiottiti dalla famelica bocca dei debiti. Era il 2010. Il
vicinato è sul piede di guerra. Non vogliono cantieri ma soprattutto
sognano un risarcimento sotto forma di scuole, ospedali, centro di
accoglienza per i disabili e gli anziani. Il sindaco di Barcellona Ada
Colau, la 43enne attivista di sinistra (una specie di emanazione
catalana di Podemos) che un tempo occupava case e adesso le difende
per i più poveri, non vede di buon occhio spese di tal portata e non è
detto che sia disposta a chiudere un occhio in nome del calcio che
unisce.
Per costruire lo stadio il Barcellona dovrebbe chiedere
almeno 400 milioni in prestito e non c'è nessuna possibilità di
ottenerli, non prima che il club effettui un aumento di capitale, ma
questo, in una specie di corto circuito finanziario, non sarà mai
possibile finché non viene sciolto il nodo Qatar Airways: rapporti
interrotti e impossibilità di mettere a bilancio gli incassi futuri da
"jersey sponsorship" (finora Qatar dava 60 mln all'anno, pochissimo
rispetto a quanto prende, per esempio, lo United da Chevrolet). Il
nodo Qatar blocca anche la Nike. Il colosso americano è in ritardo di
due mesi sulla produzione delle magliette per la nuova stagione perché
il Barcellona non sa cosa fargli stampare sopra, se Qatar o altro, o
addirittura niente. Fatto sta che due mesi di ritardo sui tempi di
produzione sono un'enormità che la Nike farà pesare sul suo rapporto
col Barcellona. In tutto questo c'è sempre da pensare ai rinnovi dei
contratti di Neymar e Busquets, i più delicati (parliamo di 30 milioni
l'anno netti e complessivi). Ma anche in questo caso, senza un aumento
di capitale, il Barcellona, pur non avendo un tetto salariale, non può
rischiare di contravvenire il fair play finanziario (non più del 69%
del capitale può essere utilizzato per i costi di mantenimento della
rosa) e
rischiare altre sanzioni di mercato dalla Fifa. Insomma
il nuovo Camp Nou, il cui nome fra l'altro verrebbe ceduto a un
marchio per un certo numero di anni, quindi non si chiamerebbe più
Camp Nou ma, supponiamo, Zabaione Catalano Arena, c'è ma soltanto
sulla carta. Sulle foto sembra l'aeroporto di Singapore. Ma quando lo
presenteranno, presenteranno il nulla. E il presidente Bartomeu lo sa.
L'intreccio morboso di vecchi errori e grande calcio continua.
Addio a Corioni, il grande
calcio della provincia,08 marzo 2016
Se ne è andato anche Gino Corioni, fu presidente del Brescia e ancor
prima lo fu del Bologna e dell’Ospitaletto.
Ci
sono personaggi passati dalla provincia e usciti anche presto dal cono
di luce dei riflettori, che un giorno fecero un piccolo pezzo di
storia del calcio. A cavallo tra gli anni 80 e 90 Corioni era un
novello Rozzi o un Anconetani e anzi arrivò persino un po’ più in là.
Il Bologna di Maifredi era il suo Bologna, Maifredi una sua creatura
che aveva scoperto come allenatore all’Ospitaletto. In quegli anni il
Bologna di Corioni e Maifredi divenne un modello, entusiasmava per il
gioco e accendeva il Bologna che tornò così trionfalmente in serie A.
Quel modello di calcio lì - strettamente imparentato al sacchismo, ma
meno fanatico e assai più alla buona - fu addirittura scopiazzato e
trapiantato alla Juventus, pensa un po’… Finì come sappiamo tutti, con
una colossale bolla di sapone, ma insomma la moda era quella e tutto
sommato ci piaceva, ci entusiasmava, ci faceva scrivere. Begli anni.
Corioni fu uno di quei presidenti che scoprì come si poteva passare da
un club all’altro, né più né meno come lo facevano i calciatori. L’Ospitaletto,
il Bologna, il Brescia. A Brescia portò addirittura grandi allenatori
e grandi calciatori, da Lucescu a Baggio. Da Brescia e tra le grandi
braccia di Corioni e Carletto Mazzone sono passati Baggio, Pirlo, Hagi,
Detari e Guardiola. Cioè Brescia ha potuto godersi e coccolarsi Baggio,
uno dei più straordinari campioni mai generati dal football italiano.
Uno dei più grandi allenatori al mondo, Pep Guardiola, periodicamente
torna a Brescia per rivivere quell’atmosfera tutta particolare fatta
di complicità tra la città e il pallone.
Ci fu un tempo, nemmeno poi tanto lontano in fin dei conti, in cui i
campioni andavano in provincia e lì affrontavano serenamente e anzi
direi con grande felicità il proprio tramonto. Per caso Del Piero ha
scelto di chiudere la carriera al Padova, che lo allevò e lanciò per
primo? Per caso Totti potrebbe anche solo immaginare di andarsene in
provincia in qualsiasi club a sua scelta, dove lo farebbero non re ma
imperatore, e dove si allenerebbe e giocherebbe come e quanto volesse
lui? Non lo fa più nessuno.
No, non è più possibile oggi i grandi campioni, al limite,
preferiscono tramontare nel lusso del calcio fintamente
internazionale. Cina, Usa, Australia, Canada, India. In realtà quel
calcio lì al grande calcio della grande provincia italiana di vent’anni
fa nemmeno può allacciargli gli scarpini.
PARLA NURSANTO IL TRADE
D'UNION TRA THOHIR E MORATTI NEL 2013.
Conosce bene Thohir ed anche Moratti, che
nel 2010 gli regalò due biglietti per assistere alla finale di
Champions di Madrid. Nursanto non ha dubbi: «Erick
si è stufato dell’Inter. Vuole venderla».I
perché sono tanti: problemi di Borsa, il crollo del prezzo del carbone
(affare di una sua società), i 173 milioni di dollari che Rosan
Perkasa Roeslani deve rimborsare all’azienda di cui era direttore
generale (la Brau). Un crac che ha fatto mancare un sostegno vitale
alle casse nerazzurre.
Entong racconta:«Tre
anni fa Erick era all’apice della ricchezza: i valori di Borsa avevano
raggiunto picchi inimmaginabili. Lui ed i suoi amici, Rosan fra
questi, erano disposti a investire un miliardo in un club di prim’ordine.
Quando Moratti chiese solo 300 milioni per il 70% dell’Inter,
pensarono ad uno scherzo. Erano convinti di aver fatto l’affare della
vita: se ci costa così poco, dicevano, in qualche anno facciamo degli
utili e andremo alla grande. Cresceremo e vinceremo. E invece…».
Invece non è andata così: «O
meglio, sembrava potesse succedere. Il primo anno è stato perfetto:
Erick ha avuto una grandissima esposizione mediatica, lui è il più
vanitoso della sua famiglia e non a caso si occupa di media e
comunicazione.Sulla
carta aveva un piano perfetto, ma in realtà si è trovato a sborsare
ogni anno somme sempre più ingenti senza un ritorno. E non sa come
fare: la famiglia ha meno cash per via del crollo dei titoli, l’unica
azienda dei Thohir che funziona è la Adaro, ma è di proprietà di
Garibaldi, il fratello.Non
brilla nulla, in questo momento: pensate che ha dovuto fare un’opa
sulle sue reti radiofoniche incassando la miseria di cinque milioni di
dollari. E perde peso anche la sua rete televisiva, Jak Tv, che ha
puntato tutto sul basket: ma chi guarda il basket in Indonesia?.Erick
pensava che l’Inter lo facesse diventare più potente anche in patria e
invece qui gli rimproverano di aver investito finora più o meno 380
milioni perun
club straniero, invece di metterli nello sport indonesiano. E sapete
quanto valgono questi soldi da noi? In più si aggiunge la perdita di
appeal del calcio italiano: i tifosi vogliono vedere in tv e comprare
le maglie del Manchester City, Chelsea e Arsenal. Poi vengono le due
spagnole: dell’Inter importa a pochi. Lui ha cercato di far crescere
l’interesse per la squadra comprando un quotidiano, Topskor, ma i
risultati sono modesti».
Così ecco il perché della ricerca di nuovi investitori, assicura
Nursanto:«Si
sta guardando intorno e se troverà un acquirente venderà. Ha capito
che mai e poi mai guadagnerà un dollaro con il calcio italiano e con
l’Inter. Ma lo ha capito troppo tardi».Xavier
Jacobelli, sul sito di Tuttosport, ha confidato di aver sentito una
confidenza di una persona vicina a Massimo Moratti, che avrebbe
confermato la volontà dell’ex presidente di tornare a capo del club: “Domenica
sera, a Milano, un importante interlocutore dell’ex presidente, che ne
conosce bene umori e passioni interiste, si è lasciato scappare una
confidenza: “Massimo non vede l’ora di tornare al comando in società,
ma dipende soltanto da Thohir”. Il presidente del Triplete,
galvanizzato anche dalla rimpatriata di Mourinho, ufficialmente ripete
che nell’Inter continua a stare benone, quale azionista di minoranza
nella misura del 29,50 per cento e supertifoso, ma viene dipinto come
fortemente preoccupato per la piega che gli eventi stanno prendendo.
Per Thohir si profila questo scenario: o la squadra vince almeno la
corsa al terzo posto per tornare in Champins, sia pure passando sotto
le forche caudine del preliminare o il signore indonesiano dovrà
cedere il club, se non sarà riuscito trovare in Asia i partner che
cerca”.
L'ITALIA SOTTO ATTACCO
ECONOMICO-FINANZIARIO COME NEL 2011. DAL BAIL IN DELLE BANCHE LOCALI
AL BAIL IN NAZIONALE.
di Benetazzo
Chi ha disponibilità in sotto forma di giacenze bancarie per importi
inferiori alla fatidica soglia dei 100 mila Euro, come sappiamo
dovrebbe sentirsi confortato perché in teoria quella disponibilità
di denaro non può essere toccato.
.In
realtà la banca in questione dovesse essere commissariata o messa
sotto stretta vigilanza per ragioni di governance o di ulteriore
deterioramento patrimoniale, potrebbe essere
previsto in misura straordinaria,
ovvero il congelamento di quelle poste,neanche
rimanere sotto la soglia dei 100 mila Euro consente di essere
indenne da rischi.Non
sono più rischi di patrimonio, ma diventano rischi di natura
finanziaria legati alla disponibilità o alla fruibilità delle
risorse, dei fondi nello specifico.
VIDEORischio
congelamento giacenze bancarie anche sotto i 100mila euro
Rispetto al 2008, quando sembrava che il mondo finanziario stesse
per finire, oggici
troviamo in una situazione ben peggiore, con rischi
notevolmente amplificati,misteriosamente
anche ora ci troviamo con un’Italia sotto assedio finanziario,
questa volta non è il debito pubblico ma è tutta l’industria
bancaria che senza motivazioni particolarmente significative viene
presa di mira dagli operatori istituzionali che stanno scaricando
brutalmente titoli azionari in queste ultime settimane.Non
è una novità la situazione di criticità del panorama bancario
italiano che oggi stimaoltre
300 miliardi di sofferenzee
per le quali si dovrà trovare una soluzione definitiva che,
soprattutto trasmetta conforto è questa l’angoscia principale sui
mercati al momento attuale.
Siamo innanzi auna
nuova crisi sistemicapiù
che una crisi sistemica sembra sia una crisi di transizione, questa
transizione è legata al cambiamento appunto di modello produttivo da
parte della Cina, volto a trasformare la più grande fabbrica del
mondo in un nuovo player planetario in grado di autosostenersi
attraverso i consumi interni, a cui poi si affianca la discesa senza
precedenti del prezzo del petrolio venuta nei 18 mesi precedenti per
il braccio di ferro che si sta vivendo tra Arabia Saudita e Stati
Uniti.
L’Unione Europea rimane un
malato cronico, per alcuni versi potrebbe essere
definito anche un malato terminale, criticità che ormai si portano
avanti da anni rimangono tutt’ora irrisolte senza la capacità di
poter pianificare un percorso di crescita da qui ai prossimi 12 mesia
frutto ovviamente della continua ambiguità politica che continua a
emergere a fronte di scenari politici contrastanti all’interno dei
vari players europei,pensiamo
solamente alla Grecia che da qui a qualche mese rivedremo "Grecia
2 la vendetta", sostanzialmente il Governo Tsipras non sarà in
grado di far fronte ai propri impegni, pertanto la Grecia, la
Nazione ellenica ritornerà in stallo e pensiamo a quello che sta
accadendo in Spagna, pensiamo alla Francia quando andrà a votare nei
successivi semestri, pensiamo alla stessa Italia che è ancora a oggi
un punto di domanda non indifferente per quanto riguarda la propria
lettura, il proprio panorama politico.Operatori
istituzionali, fondi comuni di investimento, fondi sovrani che
magari avevano negli anni precedenti fatto carico, messo in
portafoglio anche titoli azionari bancari, adesso per non rischiare
dicono: "non sto con il cerino in mano, scarico il titolo
italiano e vado a rifugiarmi su altri asset che ritengo più sicuri".
I valori e le letture che avevamo in gennaio, all’inizio di gennaio
sono grosso modo le stesse di quelle che avevamo a fine settembre,
quindi cosa è accaduto misteriosamente che ha messo l’Italia come
possibile obiettivo di una nuova aggressione finanziaria, non è che
anche questa volta, politicamente l’Italia non piace più a un certo
tipo di estabilishment finanziaria e sovranazionale in Europa?
Pensate un attimo alle recenti esternazioni che ha fatto Renzi in
queste ultime settimane che non sono state molto digerite e
accettate a Bruxelles e a Francoforte, misteriosamente qualche
settimana dopo l’Italia è di nuovo sotto assedio e da questo punto
di vista mi dispiace dirloil
nostro governo è completamente assentenel
senso che a oggi servirebbe una cabina di regia atta a tutelare,
preservare gli andamenti dei titoli azionari, dell’industria
bancaria visto che in base alla capitalizzazione di borsa poi ci
sono ripercussioni dirette, legate alla patrimonializzazione
dell’istituto stesso, pensiamo solamente a Monte dei Paschi che è
una banca partecipata istituzionalmente dal paese che ha visto
crollare nel giro di poche settimane la propria quotazione del 75%,
passando dai 2 Euro di qualche mese fa ai 0,50 dei giorni nostri,
stiamo parlando di 1,5 miliardo di perdita in conto capitale per
tutta la fiscalità italiana, di questo stampa italiana tradizionale
generalmente schierata con il governo non ne fa voce.
Con il 2016 dal primo gennaio sappiamo che è andato a regime quel
meccanismo tanto antipatico, nefasto delbail
in, potrà andare a impattare anche sulle giacenze e le
disponibilità a prima vista dei risparmiatori dei correntisti per
esempio italiani e pertanto a fronte di questi debiti che sappiamo
non potranno essere mai più rimborsati, le banche italiane devono
trovare una soluzione di ripiego, la soluzione di ripiego più ovvia
dovrebbe essere la bad bank, ma la bad bank abbiamo visto che
continua a vacillare come progetto meramente operativo da
implementare in poco tempo.
L’altra strada ce la propone l’Eba,
la quale ci dice: le banche europee si devono patrimonialmente
rafforzare ancora di più, per fare questo ci sono due strade:
1) trovare nuovi capitali e al momento attuale è abbastanza
difficile, convincere qualcuno a investire il nuovo capitale di
rischio soprattutto avendo visto quello che è accaduto negli ultimi
due mesi a gran parte delle province europee, in prima battuta
quelle italiane;
2) una svalutazione delle poste in bilancio dei crediti che vantano
le banche tanto italiane, quanto quelle europee, questo per ovvie
ragioni poi si traduce in una svalutazione delle quotazioni delle
banche stesse, non dimentichiamo comunque che al momento attuale
sono sotto l’occhio del ciclone le banche italiane per il bubbone
dei crediti deteriorati, ma in Germania cominciano a emergere
inquietanti interrogativi su grandi realtà bancari, grandi gruppi,
hanno esposizioni rilevanti, a supporto delle esportazioni tedesche
nei confronti dell’Asia, quindi potete immaginare che tipo di
scenario potremo vivere da qui a qualche mese, qualche trimestre se
in Cina dovesse sfuggire di mano il contenimento della crisi da
parte delle autorità nazionali cinesi, volte al momento allo
sgonfiamento tanto della bolla immobiliare, quanto di quella
finanziaria.
Debito
pubblico, i problemi di un
Paese che non ha una
sinistra che fa la
sinistra.
Una destra estrema ed
estremista controlla il
Partito Democratico.
Prendete l’on.Gianpaolo
Galli(ex
Bankitalia, ex
Confindustria).SulSole
24Ore contesta
“vari autorevoli
economisti” che
“propongono che in Italia
il disavanzo di bilancio
venga aumentato ben oltre
il limite del 3%”, in
particolare “Giorgio La
Malfa” e lanostra
comune proposta “di
andare al 5% almeno per un
paio d’anni”. Auspica
invece da par suo, per il
futuro, unapolitica
economica di “austerità” e
“riforme strutturali”(déjà
vu). La tesi di Galli è
che il deficit pubblico
sia completamente inutile,
salvo nel brevissimo
termine; dopo un paio
d’anni (o forse tre)
lascerebbe l’economia allo
stesso punto in cui era
prima, con l’aggravio di
un maggiore debito
pubblico. Non mi sembra
questa la sede giusta per
entrare nel merito: ilFatto
Quotidianonon
è un giornale economico.
(La sede naturale sarebbe
ilSole
24 Ore:
una risposta di merito è
stata scritta, ma non è
ancora chiaro se
l’accetteranno).
Vorrei solo mettere in
contesto la posizione di Galli
che, com’egli ricorda, è anche
quella del Pd. Due anni fa
hanno chiesto a 38 economisti
fra i più noti, in tutte le
Università americane –
comprese quelle
tendenzialmente di destra
(come Chicago) -, se
ritenevano che il grande
deficit pubblico di Obama (nel
2009 e 2010) avesse aiutato in
maniera rilevante o meno gli
Usa ad uscire dalla crisi: 37
economisti su 38 risposero
“sì”; l’unico “no” venne da
Alesina, che nel frattempo ha
cambiato idea! L’on. Galli
perciò, nel panorama
internazionale degli
economisti, sta a destra della
destra. Just saying.
Galli offre però anche un
argomento politico: di questo
voglio parlare. Scrive: “La
terza ragione [per cui il
deficit spending è dannoso] è
che i mercati sanno cheun
piano di rientro dal disavanzoposto
tutto a carico della prossima
legislatura avrebbe
credibilità zero. Non esiste
nessun modo, né un vincolo
costituzionale, né altro, per
imporre la disciplina di
bilancio a chi governerà dopo
il 2018″. Si tratta dello
stesso argomento usato nel
2009 dai repubblicani per
cercare di impedire ad Obama
di salvare l’America dalla
crisi. Che si è dimostrato
falso:difatti
Obama è rientrato dal deficit.
Tra l’altro lo ha fatto in
modo lineare, senza il ‘go and
stop’ o le pesanti manovre di
austerità immaginate dall’on.
Galli (la crescita ha fatto
quasi tutto, alzando gli
introiti fiscali). Ma non è
solo l’America: in tutto il
mondo si fa politica
anticiclica in tempi di crisi,
poi si rientra dal deficit,
senza imposizioni esterne o
vincoli. In tutto il mondo
salvo che in Europa: perché i
tedeschi non ci stimano, ci
considerano sotto uomini,
infidi, e ce lo vietano. Va
bene i tedeschi,ma
che sia un italiano ad
alimentare questa sfiducia è
triste!
La politica economica si
sviluppa nel tempo, sempre. Se
ogni politica buona per
vincere la crisi viene
preclusa perché si ipotizza
che poi non saremo coerenti,
perché siamo sotto uomini,
allora restano solo le
politiche sicuramente amare e
però anche dannose (in tempi
di disoccupazione le due
tipologie coincidono). E così,
saremo coerenti … nell’errore!
Ma, oltre a prolungare una
depressione inutile, in tal
modo perdiamo anche la
libertà: perché, se non siamo
capaci di governarci da soli,
dobbiamo affidarci a qualcuno
di esterno (Ue: = i tedeschi)
che però fa i suoi e non i
nostri interessi.
È questo un modo di pensare
coerente con il progetto
istituzionale autoritario
dell’attuale Pd, e dell’uomo
solo al comando che impone il
suo volere al popolo stupido e
cattivo, ma plaudente (o
bastonato). Un modo di pensare
che da Putin a Trump, da Orban
a Kaczynski, a Erdogan, va
diffondendosi anche in Europa.
Noi rigettiamo con sdegno
questo modo di pensare. Un
paese che non ha una sinistra
che fa la sinistra, e una
destra che fa la destra, è un
paese sbilanciato destinato a
finire male. Non sarà dunque
la Turchia entrare in Europa,
sarà l’Italia a entrare… in
Turchia.
Con il crollo della Cina,
termina il "sogno" degli
economisti "eterni"
Mario Draghi ripete
l’esorcismo estremo: «Whatever
it takes».
Ma il pericolo attuale non
è più quello di un
collasso finanziario come
nel 2008. Il pericolo è
quello di una crisi di
sovrapproduzione globale,
e di una stagnazione di
lungo periodo. Il crollo
delle borse non è che un
segnale. Da sei anni le
banche centrali prestano
denaro a costo zero, e da
un paio di anni il
petrolio scende
ininterrottamente.
Cionostante la domanda
cala, e la stagnazione
persiste, si aggrava,
tende a divenire
recessione.
Il 10
gennaio il New York Times
ha pubblicato un articolo
di Clifford Kraus dedicato
agli effetti che il calo
della domanda cinese
produce sull’economia
globale: «Per anni la Cina
s’è ingozzata di ogni tipo
di metalli e di energia
perché la sua economia si
espandeva rapidamente; le
grandi aziende hanno
ampliato aggressivamente
le loro operazioni di
estrazione e produzione,
scommettendo sulla
prospettiva che l’appetito
cinese sarebbe continuato
per sempre. Adesso tutto è
cambiato.L’economia
cinese si contrae.
Le compagnie statunitensi,
che tentano disperatamente
di pagare i loro debiti
mentre aumentano i tassi
di interesse, debbono
continuare a produrre.Questo
eccesso spinge i prezzi
verso il basso, e colpisce
le economie dipendenti
dalla produzione di merci
di consumo come il Brasile
e il Venezuela, ma anche i
paesi sviluppati come
l’Australia e il Canada» (Clifford
Kraus, New York Times:China
’s Hunger for Commodities
Wanes, and Pain Spreads
Among Producers).
Negli anni passati le
grandicorporationhanno
investito somme enormi
nell’estrazione di
petrolio,
nella raffinazione dello
shale gas, nelle
tecnologie necessarie per
il fracking, e così via.
Il sistema bancario
globale ha finanziato
queste operazioni.Tutti
pensavano che la domanda
sarebbe cresciuta
indefinitamente.
Ma ora il rallentamento
dell’economia cinese non
significa solo che
l’incremento annuo del
prodotto cinese, pur
continuando ad essere
elevato (6,9 per cento,
secondo le opinabili stime
cinesi), tende a
diminuire. Significa
soprattutto chela
domanda di energia si è
ridotta considerevolmentee
tende a ridursi di più.
Siamo di fronte alla più
classica delle crisi di
sovrapproduzione.
Scrive
ancora Kraus: «I bassi
tassi di interesse hanno
alimentato il boom
produttivo. La compagnia
brasiliana Petrobras ha
accumulato 128 miliardi di
dollari di debito,
raddoppiando i costi
annuali di indebitamento
durante gli ultimi tre
anni per produrre sempre
più petroli. Poi la storia
è cambiata quando la
crescita cinese ha
iniziato a recedere. Nel
2015 i prezzi hanno avuto
un rallentamento continuo.Il
nickel, il ferro il
palladio, il platino e il
rame sono scesi del 25 per
cento o più. I prezzi del
petrolio sono scesi di più
del 60 per cento negli
ultimi diciotto mesi.
Anche i prezzi del grano e
del frumento sono
precipitati».
D’altra
parte le aziende si sono
indebitate con le banche
per poter avviare i loro
investimenti, e non si
possono fermare. Le banche
hanno prestato somme
colossali, e non possono
riaverle indietro.
«Decisioni di Investimento
multimiliardarie prese
anni fa, come lo
sfruttamento dellesabbie
oleose in Canadao
leminiere
di ferro in Africaoccidentale,
debbono necessariamente
continuare. Non si possono
semplicemente chiudere
progetti di quell’entità.
L’eccesso potrebbe
continuare per anni»
(ancora Kraus).
Può durare
per anni, dice sempre
Kraus, sull’autorevole
quotidiano. Ma forse
dovremmo fare un’ipotesi
più radicale, e insieme
più realistica: durerà per
sempre, perché la crescita
è divenuta impossibile, e
non tornerà mai più.L’ossessione
capitalistica impedisce di
vedere la realtà: siamo di
fronte a una crisi di
sovrapproduzione di
dimensioni inimmaginabili.
Nessuna delle tendenze
oggi leggibili nel
sistema-mondo permette di
prevedere che se ne possa
venire fuori nel corso del
prossimo decennio.
Il 17
gennaio «Le Monde» ha
pubblicato un articolo dal
titolo eloquente: Le grand
vertige des marchés: «Nel
2015 il barile di petrolio
potrà costare 380 dollari,
avevano preconizzato gli
economisti Patrick Artus e
Mocef Kaabi nel 2005,
tenendo conto dell’aumento
del consumo mondiale e
della scarsità di riserve…
Invece il barile di
petrolio è costato
mediamente 40 dollari nel
2015. Il 15 gennaio 2016 è
sceso a 29 dollari» (Charrel,
Cosnard, Gueland, Lauer).
Il fatto
che gli economisti Artus e
Kaabiu prevedessero dieci
anni fa che il petrolio
sarebbe cresciuto fino a
380 dollari dimostra in
primo luogo che gli
economisti sono scienziati
allo stesso titolo della
Sibilla Cumana e del Mago
Otelma, e che la scienza
economica è soltanto una
forma di legittimazione
ideologica di una tecnica
rivolta al massimo
sfruttamento della vita
umana.
In secondo luogo, che la
sovrapproduzione non
poteva essere prevista
entro le categorie del
sapere capitalistico, ma
solo a partire da un altro
punto di vista: quello delvalore
d’uso sottratto alla
logica dell’accumulazione,
dei bisogni sociali
effettivi sottratti alla
codificazione finanziaria.Non
c’é più bisogno di
crescita né di lavoro,
questa è la verità
inammissibile nel contesto
della codificazione
capitalistica.
L’occupazione è destinata
a calare ovunque,
nonostante i patetici
sforzi rivolti a dare
lavoro; aumentare
l’occupazione significa
poi soltanto costringere
la gente a lavorare sempre
di più per guadagnare
sempre di meno.La
forma del lavoro salariato
non ha più nessun
fondamento di necessità e
solo un reddito scollegato
dall’erogazione di inutile
lavoro permetterebbe di
garantire la sopravvivenza,
e anche di rilanciare la
domanda.
«Il flusso
di materie prime mette i
prezzi sotto pressione, e
provoca dolorose
conseguenze.Le
compagnie petrolifere
hanno lasciato senza
lavoro 250.000 operai nel
mondo.
Alcune aziende cominciano
a dichiarare bancarotta» (Kraus,
citato).
D’altra
parte le nuove prospettive
di produzione sono
generalmente
caratterizzate da
un’altissima intensità di
tecnologia e da una bassa
necessità di lavoro.Per
rilanciare la crescita e
sostenere l’occupazione le
banche centrali hanno
investito somme immense,
negli ultimi cinque anni.
Invano.
«Le banche
centrali sorreggono
l’economia con una
quantità incredibile di
liquidità che la FED, la
Banca d’Inghilterra, la
Banca del Giappone e
infine la Banca centrale
europea hanno iniettato
sui mercati per evitare lo
sprofondamento dei mercati
[…]. Oggi queste liquidità
costituiscono il 30 per
cento del prodotto lordo
mondiale, mentre erano il
6 per cento alla fine
degli anni Novanta. Un
aumento fenomenale che ha
la conseguenza che i
mercati sono diventati
dipendenti da questo
denaro facile, angosciati
dal timore che il
rubinetto si chiuda» («Le
Monde», citato).
Fiumi di
denaro pubblico vengono
sottratti alla società per
destinarli a impreseche
producono quantità
crescenti di beni per i
quali la domanda è calante,
nonostante la riduzione
del costo del petrolio che
favorisce una diminuzione
dei prezzi. «Gli
statunitensi comprano meno
apparecchi elettronici (–
0,2 per cento), meno
alimentari e bevande (–
0,3 per cento) meno
vestiti (– 0.9 per cento).
L’annuncio cheWal
Mart chiude 154 magazzini
in tutto il paesee
licenzia 10.000 dipendenti
non ha certo rassicurato.
D’altra parte le vendite
di Macy’s sono diminuite
del 4.7 per cento e quelle
di Gap del 5 per cento,
durante i due ultimi mesi
del 2015» («Le Monde»).
Perché la
domanda crolla? Prima di
tutto perché non abbiamo
più bisogno di comprare, e
questa dovrebbe essere una
buona notizia. Abbiamo un
numero sufficiente di
pantaloni e abbiamo
mangiato troppi hamburger.
Buone notizie per
l’ambiente e per la nostra
salute, e sarebbe una
buona notizia anche per i
lavoratori che potrebbero
lavorare meno. Ma no.Il
capitalismo non può
concepire una riduzione
della domanda, né una
riduzione del tempo di
lavoro,
senza considerare questi
eventi come segno di una
crisi che va affrontata
nella solita maniera:
riducendo il salario,
aumentando lo
sfruttamento.
La crescita
si ferma, rincula, crolla.
Il tempo di lavoro
necessario è precipitato
dovunque, e non riprenderà
mai a salire, grazie alletecnologie
che riducono lavoro.
Ma il capitalismo è
incapace di organizzare
queste due tendenze (che
il marxismo ha previsto da
centocinquant’anni). Il
capitalismo è incapace di
semiotizzare
l’innovazione, perché le
categorie di cui dispone
sono quelle di lavoro
salariato e di
accumulazione.
Il tempo di
lavoro necessario si
riduce. E questo potrebbe
aprire le porte a una
liberazione di tempo
sociale. Ma siccomeil
capitalismo si fonda sulla
superstiziosa
identificazione della
sopravvivenza con il
salario,
la benedizione delle
tecnologielabor-saving,anziché
tradursi in liberazione di
tempo sociale, si traduce
in disoccupazione di
massa, miseria. E guerra.
Sezioni
crescenti della
popolazione non hanno più
un salario perchéil
lavoro è diventato inutile,
perciò si organizzano in
forma criminale. Cos’è in
ultima analisi loStato
Islamicose
non una possibilità di
occupazione e reddito per
milioni di lavoratori
giovani delle periferie
del mondo arabo e
d’Europa? Cosa sono le
organizzazioninarcos,
che straziano distruggono
terrorizzano aree del
territorio messicano, se
non una possibilità di
occupazione e reddito per
centinaia di migliaia di
disoccupati delle aree più
povere del Messico?
È sempre
stato vero che il
capitalismo porta la
guerra come la nube porta
la tempesta, ma oggi il
processo presenta
caratteri originali,
rispetto a un passato in
cui la guerra aveva un
carattere riconoscibile,
dichiarato, e cominciava
in un certo giorno per
finire quando si firmava
la tregua.Non
c’è più inizio, non c’è
più tregua, non c’è più
territorio né confine. La
guerra è ovunque.
Non
soltanto gli stati
organizzano la guerra come
investimento di capitali
che non trovano sbocco. È
la società medesima a
produrre la guerra:masse
di giovani privi di futuro
si organizzano in forma
criminale per garantirsi
un redditodato
che il capitalismo non è
più in grado di fornirgli
un salario, mentre il
ricatto del lavoro
persiste, anche se il
lavoro è divenuto inutile.
Cosa accadrà nel sistema
finanziario quando loshockraggiungerà
le grandi banche che hanno
investito sulle aziende
che producono petrolio che
nessuno vuole più
comprare?Il
2016 è cominciato con una
generale caduta delle
Borse. Siamo solo
all’inizio. Le conseguenze
posso rivelarsi
estremamente dolorose per
la società.
Solo
l’autonomia della sfera
sociale dall’economia di
accumulazione potrebbe
permetterci di trovare una
via d’uscita da questo
labirinto. Solo la
ricomposizione sociale può
imporreunquantitative
easing for the people,
come lo chiama Christian
Marazzi. Mario Draghi è
l’eroe delle Banche e
delle Borse, ma i soldi
che lui regala alla
finanza sono sottratti
alla società. La
liquidità, con cui
l’autorità monetaria ha
alimentato finora
l’ingordigia del sistema
finanziario, dovrebbe
semplicemente essere
diretta in un’altra
direzione:reddito
di cittadinanza,
soldi per rilassare
l’aggressività e
permettere all’attività
collettiva di rimediare
alla devastazione psichica
culturale ambientale
prodotta dal ricatto del
salario.
Diario di un anno(2 giugno
1943-10 giugno 1944).
Milano, Garzanti,1947.
in-8, pp. XL,208,bross.
Prima edizione, rara ed
autorevole testimonianza
di ciò che avrebbe dovuto
rappresentare
l'insurrezione partigiana
nei confronti degli
Alleati.
COSTO 15 EURO -- PER
LE REGOLE DI RESTITUZIONE
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